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lacausadellecose

Usa gennaio 2021: il dito indica la luna

di Michele Castaldo

02 capitol insurgencyChi pensava ad un passaggio tranquillo da Trump a Biden, nella cosiddetta più vecchia democrazia del mondo moderno, è servito. Si tratta di una ulteriore dimostrazione della illusione di chi osserva i fatti del mondo partendo dai propri desideri. Poveri sciocchi che in Occidente, in modo particolare, abbondano; un modo per esorcizzare la paura per il terreno che si muove sotto i piedi, per il bradisismo del modo di produzione capitalistico ormai in crisi irreversibile.

Ora, che Trump fosse un fenomeno da baraccone, lo si sapeva, ma non si facevano i conti con gli strati sociali di decine di milioni di americani che lo avevano eletto e che lui ben rappresentava sul piano storico, un popolo che credeva che una certa storia potesse durare all’infinito, che si potesse bivaccare comunque e sempre sfruttando e opprimendo milioni di propri simili.

Arriva il giorno che dovrà finalmente sancire sul piano democratico, nel tempio della democrazia rappresentativa, la vittoria del nuovo presidente, e dunque il passaggio dei poteri da Trump a Biden, e che succede? Che il popolo sconfitto alle elezioni, dunque per via democratica, scende in piazza e istigato dal proprio leader dà l’assalto al Campidoglio, non riconoscendo né il voto nè a maggior ragione la sconfitta del proprio presidente. Lo stupore e lo sgomento in tutto l’Occidente, di personaggi che allevati nell’attuale modo di produzione rappresentano la pochezza di quanto si diceva in apertura. Ora di fronte a una rivoluzione i cosiddetti intellettuali e analisti d’alto bordo, rimangono sgomenti proprio perché immaginano il mondo secondo i propri desideri e non riescono perciò a capire e a spiegare i fatti, che invece vanno spiegati partendo dalle cause che li stanno generando.

Siamo in presenza di una rivoluzione, si, avete letto bene, di una rivoluzione, nonostante che questo sostantivo possa sconvolgere le menti di certi ideologi ingabbiati nella voliera di sinistra a cantare allo specchio il proprio canto libero. Una rivoluzione che non può avere delle caratteristiche predeterminate come un certo marxismo ha preteso di raccontare. Una rivoluzione - quella in corso e che non si esaurisce in pochi mesi, sia ben chiaro – ben più profonda di quelle che si sono susseguite negli ultimi duecento anni, perché affonda le radici non nella trasformazione dei mezzi di produzione e nella riproduzione di nuove classi sociali che a fisarmonica si dilatano, si restringono, si riciclano e così via. No, l’attuale rivoluzione pone all’ordine del giorno la messa in discussione del modo di produzione stesso che sin qui si è perpetuato per oltre 500 anni. Come, si chiedono certuni, un popolo reazionario e conservatore fa una rivoluzione? Si, perché la rivoluzione non la fanno i rivoluzionari, ma masse mosse all’azione dal bradisismo economico e sociale dovuto alla crisi dell’attuale modo di produzione. Pertanto non solo non può essere un « pranzo di gala », ma potrà avere solo coordinate di disfacimento, di rottura, di sconquasso, di rivoluzione, appunto.

Proprio nei fatti di questi giorni, in modo particolare quello che è successo il 6 gennaio a Washington, è la dimostrazione di quello che si cerca di dimostrare in queste note. Il gesto di Trump rappresenta la forza concentrata di necessità oggettive di sterminate masse di ceto medio colpite dalla crisi, che si produce l’incitamento ad assalire il Campidoglio per mettere in discussione l’altra forza, quella di chi comodamente stava a casa ed ha votato per posta incurante delle necessità che Trump ritiene di rappresentare.

 

Un nuovo fascismo?

Certi paragoni oltre che essere antistorici sono anche volutamente stupidi, proprio perché tendono a esorcizzare attraverso la denuncia del personaggio la gravità dinamica della storia che abbiamo sotto gli occhi. No, il fascismo o il nuovo fascismo non c’entrano proprio niente con quanto sta accadendo negli Usa – e presto accadrà in Europa, ne possiamo essere certi – in questa fase, semplicemente perché mentre il fascismo era successivo a una guerra mondiale, e inserito in una fase di espansione del modo di produzione capitalistico, il trumpismo è il frutto di un’accresciuta concorrenza delle merci che ha messo all’angolo la più grande potenza della storia moderna. Dunque il fascismo raccoglieva il consenso del ceto medio, in modo particolare di un certo mondo contadino che aveva pagato un alto tributo in guerra, e sostenuto dalla grande borghesia industriale si rilanciava sul piano interno e internazionale verso una nuova e imponente accumulazione. Mentre gli Usa devono raccogliere gli stracci nel tentativo di frenare l’ondata delle merci asiatiche che la mettono, come potenza, con le spalle al muro. Sicché il fascismo viene evocato come spaventapasseri nei confronti di un umore popolare privo di nerbo e che si rifugia in un personaggio come Biden. No, la storia non si ripete mai uguale a sé stessa.

Al lettore vogliamo invece citare un esempio, a cento anni di distanza, il soldatino che a San Pietroburgo nel luglio del 1917 era di guardia al Palazzo di Tauride dove si riuniva il Comitato Centrale dei Soviet, che interrogato da un “internazionalista” circa il marxismo di Lenin, rispose: « io non ho studiato molto, non so neppure chi è Marx, so soltanto che quando parla Lenin dice quello che voglio ascoltare ».

Ecco, i rivoltosi di Washington si sentono in piena sintonia con chi si propone di rappresentarli e li esorta a entrare nel Campidoglio dove in quel giorno si sancisce la condanna della propria causa. Dunque anche Mussolini e Hitler erano in sintonia con l’umore popolare? Si, che siano poi stati sconfitti e fatti passare per pazzi, beh, è il giudizio dei vincitori. Negli Usa Trump passa per essere uno fuori di testa e Biden un assennato, poi la storia si occuperà di incasellare correttamente i giudizi secondo l’andamento reale dei fatti.

La democrazia rappresentativa tradisce la causa di milioni di persone e questi la mettono in discussione. Si dirà: ma la democrazia è il più alto livello di espressione politica mai raggiunto dall’umanità. Sarà pure vero, ma se non mi garantisce più quello che fino ad oggi mi ha garantito, la metto in discussione. Ecco il popolo sovrano! Ma sono proprio le ragioni di questo popolo sovrano che gli strenui difensori del modo di produzione capitalistico non vogliono, perché non possono, prendere in considerazione. E Trump lo ha dimostrato cercando per due mesi di invalidare le elezioni. Negando l’evidenza? Ma si trattava di una evidenza che lo condannava e lui perciò non la riconosceva ed ha cercato di portare fino alle estreme conseguenze il suo tentativo di far saltare il banco. Non ci è riuscito ed è stato costretto a una giravolta su un solo piede. Nessuna meraviglia perciò se il suo vice e tanti altri repubblicani quando si sono resi conto che ormai i giochi erano fatti hanno mollato gli ormeggi e con essi il povero Trump secondo il vecchio adagio: se vinci vinciamo, se perdi affondi da solo, che in napoletano suona: quando Pulcinella aveva i denari aveva amici, parenti e compari ora che Pulcinella non ha più niente, ha perso amici compari e parenti. È la legge della storia dell’uomo. Un colpo di Stato? Il 18 brumaio? Certi intellettuali tanto dell’establishment quanto della sinistra storica parlano a vanvera. Cerchiamo di essere seri!

Siamo in presenza di un fatto straordinario che ci rimanda ancora a un parallelo con la Rivoluzione russa, l’episodio che scandalizzò tutte le democrazie occidentali e perfino una illustre rivoluzionaria come Rosa Luxemburg, parlando cioè dello scioglimento dell’Assemblea Costituente del gennaio 1918 da parte dei bolscevichi impersonati da Lenin. Come fu possibile, quale fu la causa scatenante, quale era il suo senso storico in quelle circostanze?

Nella notte della presa del Palazzo d’Inverno, il 7 novembre 1917, il nuovo governo rivoluzionario, diretto dai bolscevichi e da una parte del Partito socialista rivoluzionario, come primo provvedimento requisì le terre all’aristocrazia e al clero con la promessa che le avrebbe poi distribuite per « bocche » ai contadini poveri. A distanza di soli 18 giorni – il 25 novembre – si svolsero le elezioni che diedero una netta vittoria ai liberali, ai menscevichi e ai socialisti rivoluzionari di destra per tutta la Russia tranne che nelle due capitali, San Pietroburgo e Mosca, dove era concentrata una forte presenza operaia, e perciò prevalsero i bolscevichi. In gennaio quando si riunì l’Assemblea Costituente per sancire i risultati elettorali e formare il governo sulla base di quei risultati, Lenin, capo del governo rivoluzionario, sciolse l’Assemblea Costituente con la motivazione che « le liste erano state composte prima della rivoluzione e della presa del Palazzo d’Inverno ». L’operazione riuscì per gli stessi motivi per cui aveva perso le elezioni: una presenza operaia nelle due capitali che permetteva una mobilitazione a sostegno del governo dei Soviet, mentre i vincitori delle elezioni, non avendo la possibilità di mobilitare il proprio elettorato, perché disperso per le campagne, dovettero arrendersi. È la dialettica materialistica della storia.

I contadini di fronte a un “atto d’imperio antidemocratico”, non avendo la forza per una mobilitazione necessaria per far cadere il governo rivoluzionario dei Soviet, accettarono di buon grado uno scambio, cioè un patto non scritto, ma sancito dai fatti che consisteva in questo: a voi contadini la terra, a noi – bolscevichi e socialisti rivoluzionari di sinistra – il potere politico.

Nello stesso periodo, in Italia e in Germania, il fascismo prima e il nazismo poi si imposero perché non era per niente all’ordine del giorno la rivoluzione del proletariato ventilata in modo del tutto ideologico da alcune correnti marxiste, mentre si mobilitarono i ceti medi e anche operai intravedendo una ripresa dell’accumulazione nel rafforzamento della propria nazione o patria. Lo diciamo con forza: le cose non poterono essere prodotte in nessun altro modo e in nessun altro modo si produssero. Lasciamo perciò ai fantasiosi dei se il gioco di sbizzarrire la propria fantasia, noi cerchiamo di spiegare la causa dei fatti.

E allora: Trump è stato sconfitto per la stessa dinamica, a parti inverse, tanto del fascismo quanto del bolscevismo: non è riuscito a invalidare le elezioni attraverso la mobilitazione del proprio elettorato perché esso è più disperso sul territorio e la democrazia rappresentativa, nonostante le titubanze sia della polizia locale di Washington che della guardia nazionale, che se pur colti di “sorpresa”, di fronte non a una marea umana, no, ma a poche migliaia di dimostranti, hanno avuto il sopravvento. A quel punto gli stessi repubblicani hanno dovuto prendere atto dei fatti, alzare bandiera bianca e isolare il personaggio Trump. Aveva calcolato male Trump? È una domanda che non dà luogo a procedere perché stiamo spiegando i fatti non le intenzioni del personaggio.

Cosa sarebbe successo se in piazza ci fossero stati due o tre milioni di persone, capaci di costituirsi in comitati, con la stessa voglia di invalidare il risultato elettorale? Non lo sapremo mai perché la storia non si fa con i se, dunque stiamo ai fatti e cerchiamo di indicare le cause della sconfitta “definitiva” in queste elezioni non solo del personaggio Trump, ma anche dei settori che lui in modo coerente ha voluto rappresentare (oltre, ovviamente che per interessi personali). Ad evitare di essere fraintesi: si tratta di una sconfitta contestualizzata, ma da questo a una sconfitta storica definitiva ce ne corre e tanto; e staremmo sul punto di dire che per i democratici di Biden e parte dei repubblicani – che hanno preso le distanze da Trump - si tratta di una vittoria di Pirro.

Come abbiamo cercato di delineare nel precedente articolo, la sconfitta di Trump non solo non significa la sconfitta definitiva del trumpismo, ma lo pone nella necessità di strutturarsi in modo diverso, certamente non con personaggi della portata di Pence e Pelosi e degli interessi che rappresentano, per far fronte al buio che gli viene riservato non dal povero Biden e la sua vice Kamala Harris dal Campidoglio, ma da Wall Street, ovvero dal potere reale e dalle necessità che un paese avviatosi ormai verso il crack è costretto a riservargli.

 

Trump e il trumpismo

Ci siamo già intrattenuti in altri contributi sulla forza del trumpismo, ovvero di un ceto medio fatto di piccoli imprenditori di vari settori messi alla frusta dall’incedere della crisi, ma anche – e qui un certo marxismo è incapace di cogliere le cause dei fenomeni – da ampi settori della vecchia classe operaia, dei settori minerari e delle industrie collegate e dismesse, di piccole e medie aziende legate alla ristorazione, alla crescita intensiva di animali destinati alla macellazione per l’alimentazione umana, degli affittuari alla mercé delle grandi società immobiliari o di proprietari nominali di abitazioni che non possono più pagare il mutuo. Non a caso i vari sondaggisti hanno rilevato che oltre il 50% degli elettori repubblicani si è dichiarato d’accordo con l’azione di assalire il Campidoglio. Altrimenti detto: non si raccolgono 74 e passa milioni di voti se non c’è un popolo che rischia di finire collassato dalle banche e dal grande potere economico, della grande industria di trasformazione e distribuzione.

Definito, a grandi linee, il popolo che è in marcia contro l’establishment, ma che è stato sconfitto sul piano elettorale che ha sancito la vittoria dei democratici, cerchiamo di chiarire la differenza storica tra la Rivoluzione russa di ieri e la rivoluzione di questa fase anche attraverso i fatti di questi giorni come di quelli dei mesi scorsi negli Usa dopo l’uccisione di G. Floyd.

La rivoluzione russa era progressiva, ma non perché era diretta dai bolscevichi e da Lenin, come “illustri” teorici e filosofi di sinistra si sono sperticati a ribadire – giusto per continuare a scandalizzarli – ma perché si inscriveva in un percorso ascendente del e nel modo di produzione capitalistico. Una rivoluzione che comincia nel 1861 con l’abolizione della servitù della gleba, poi ha un periodo di assestamento e di incubazione fino al 1905, con la rivolta operaia contro lo sfruttamento dei capitali stranieri in Russia. Segue un altro periodo, ancora di assestamento e di incubazione, per esplodere in modo definitivo nel 1917, contro la guerra e la rivolta di operai e contadini. Il cuore pulsante, oltre che della rivolta operaia, di quell’evento era la questione contadina che in Europa e negli Usa era stata in qualche modo risolta mentre in Russia, seppure si trascinava stancamente, si poneva in modo progressivo rispetto al modo di produzione capitalistico che si espandeva. La guerra funse da corollario. Insomma maturavano anche in Russia le condizioni dell’accumulazione di tipo capitalistico, dove in assenza di una classe capitalistico-borghese i bolscevichi dovettero fare di necessità virtù e cercare di centralizzare le risorse per accelerare lo sviluppo dell’accumulazione. I contadini per alcuni anni furono chiamati ad assolvere a un ruolo di accumulazione primitiva per poi contrapporsi allo Stato che li neutralizzò sul piano politico. Cosa, per altro, che Lenin ammise tranquillamente. Sicché chi ha parlato per il passato o ancora per il presente di colpo di Stato dei bolscevichi o peggio ancora di Lenin – come ad esempio P. Mattick, non camminava sulla nuda terra.

Anche la rivoluzione di questa fase ha suoi tempi, le sue ondate, ha a che fare con immensi settori di ceto medio che solo provvisoriamente cominciano ad emergere come variabile impazzita nel cuore dell’attuale modo di produzione e cioè in Occidente, e precipuamente negli Usa, ma anche in Europa, come recentemente il movimento dei Gilet gialli. Ma la cosa è destinata a divenire esplosiva in Occidente, e lo sarà ancora di più se volgiamo lo sguardo all’Asia e in modo particolare alla Cina in cui lo sviluppo impetuoso e gli alti tassi di crescita per oltre 50 anni hanno prodotto un ceto medio urbano che con la crisi sarà messo con le spalle al muro, e parliamo di alcune centinaia di milioni di uomini e donne in carne e ossa.

A leggere autori meno infatuati dei difensori per mestiere dell’attuale modo di produzione si percepisce la preoccupazione reale degli ambienti che contano e che non lasciano loro dormire sonni tranquilli. Perché nel solo 2020 abbiamo assistito a due straordinarie mobilitazioni di segno “opposto”, direbbero i benpensanti, ma si tratta del solito modo ideologico di guardare la realtà, ovvero di non capire che le cause scatenanti tanto delle proteste per l’uccisione di G. Floyd quanto dell’assalto al Campidoglio rappresentano due sintomi dello stesso male, ovvero di un Crack America, come ha titolato in modo brillante il suo libro Massimo Gaggi, non un estremista comunista, ma un corrispondente dagli Usa per il Corriere della sera. Un lavoro dove in modo sintetico ma a chiare lettere vengono esposte tutte le ragioni della crisi negli Usa.

 

Il ceto medio tra conservazione e rivoluzione

Ora, il pittoresco personaggio che compare in primo piano sui video di tutto il mondo e sulle prime pagine dei maggiori quotidiani, che con un bel paio di corna di bisonte e urla U-S-A! U-S-A! è il marchio identificativo di una certa America che fu e che è stata. Un’America che Trump, in questa sua presidenza, ha egregiamente interpretato, al di là delle chiacchiere dei cosiddetti benpensanti. L’azzardo operato nei confronti dei neri, un movimento tutt’altro che solo nero, composto dal giovane proletariato impoverito e privo di prospettiva, gli si è rivolto contro, e l’arma del razzismo bianco e dei gruppi di criminali armati non gli sono serviti per battere un’America che ancora sogna la pace sociale e una vita tranquilla. Una certa America, quella trumpiana, di un mare magnum di ceto medio, è messa al cospetto di una nuova America nelle due versioni: quella “pacifica” dell’ancora forte potere economico e quella turbolenta dei movimenti delle nuove generazioni che la crisi produce. È questa la questione che abbiamo di fronte con mille complicazioni tutte esplosive. E non è ancora entrato a pieno ritmo, ma si appresta a farlo con la nuova riforma in agricoltura, un paese come l’India che è uscito ormai definitivamente da un letargo storico nel quale il colonialismo l’aveva tenuta. Per non parlare del Medio Oriente in ebollizione e dei paesi latinoamericani non più domi con la loro voglia di uno sviluppo autoctono dell’accumulazione e di partecipazione a pieno titolo alla concorrenza internazionale delle merci.

Certo il 2020 è stato ancora caratterizzato da iniziative brigantesche degli USA come quella contro la Corea del nord; e quella contro la Cina, fino all’invenzione della produzione in laboratorio del virus in quel paese, per poi elemosinare mascherine e altre attrezzature oltre che medici da parte di un’Europa ruffiana degli Usa e atterrita sul da farsi, con un piede in due staffe; e inoltre gli attacchi missilistici contro l’Iran, la continua iniziativa in Medio Oriente ed in Siria per il rafforzamento del cane da guardia dello Stato di Israele, i suoi sodali dell’area, la balcanizzazione della Siria e il soffocamento della Palestina; i continui tentativi di sovvertire il Venezuela e piegare l’intera America Latina al dominio yankee. Ma si tratta di iniziative per mostrare i muscoli e fare la voce grossa proprio per esorcizzare la propria debolezza e mascherare la propria decadenza come in un film sul gangster italoamericano Al Capone che mentre l’uccidevano in carcere urlava « io sono Al Capone ».

Il quadro così delineato non solo non è mutato ma viene consegnato alla nuova amministrazione capitanata dal vecchio ma consumato volpone Biden dietro il quale scalpita una giovane rampante nera moglie di un noto avvocato sionista, il che è tutto dire. Insomma il ceto è la vittima sacrificale designata sull’altare per tentare di mantenersi a galla nella concorrenza sempre più agguerrita delle merci e dei mercati finanziari asiatici emergenti. Un’America che per risanarsi dal crack verso cui è avviata avrebbe bisogno come minimo di un nuovo conflitto mondiale vittorioso. Della qual cosa non si parla nemmeno, anche se il vecchio Kissinger ancora lo evoca. Definito a grandi linee il ruolo del ceto medio come variabile impazzita in questa crisi che si mostra avviata verso la catastrofe, come inquadriamo il ruolo del proletariato? Tentiamo un abbozzo di questo tipo: è destinato a scomporsi tra settori garantiti, quelli meno garantiti e precari. I primi si legheranno mani e piedi al proprio capitalismo sperando che prevalga nella competizione delle merci e come “potenza” nel mondo, le cui posizioni sono rappresentate dal sindacato AFL-Cio, con mille contraddizioni tra il sovranismo nazionalista e la democrazia liberale; dunque come i girasoli guardano il sole così essi guarderanno e si legheranno al proprio capitalista, al proprio capitale e al capitalismo come sistema tendendo a giocare un ruolo perciò di supporto al nazionalismo. Mentre il secondo settore, quello meno garantito sarà attratto nella spirale del primo in modo passivo, privo di nerbo e continuamente oscillante. Il terzo settore, quello precario e in modo particolare di colore sarà costretto causa forza maggiore a improvvise ribellioni e riflussi, proprio come è successo nel 2020. Fino a quando? Non è dato sapere, noi cerchiamo di delineare scenari possibili per approcciare una tattica non idilliaca nei confronti di ognuno di essi, con l’avvertenza che non puntiamo su una classe o su una quota di essa per abbattere il movimento storico del capitalismo in crisi e che saranno altri i fattori che lo porteranno all’implosione.

Concludiamo queste note accennando a un argomento che si ripresenterà nel dibattito dei prossimi anni in modo particolare negli ambienti della sinistra e con maggiore accentuazione di quella estrema o cosiddetta tale, cioè il modo di definire il ceto medio e le sue mobilitazioni. Negli Usa o anche in Europa si cominciano ad avvertire i primi tangibili segni di queste mobilitazioni, e siamo costretti a non poter utilizzare lo schema marxiano del Manifesto che assegnava unicamente al proletariato un ruolo autenticamente rivoluzionario nella società moderna. Si tratta di una tesi ideologica, che molte formazioni marxiste hanno tentato di utilizzare per poi elaborare varie strategie per abbattere il capitalismo. Uno schema il cui fulcro consiste nella progressione storica delle classi e dunque: la borghesia è progressiva rispetto all’aristocrazia, il proletariato è più progressivo e autenticamente rivoluzionario rispetto alla borghesia e fra queste due classi ci sarebbe la piccola borghesia che oscillerebbe da una parte all’altra secondo i rapporti di forza che intercorrono fra loro.

Noi mutiamo questo schema affermando che le classi che compaiono nel capitalismo sono il portato storico del rapporto degli uomini con i mezzi di produzione; che il modo di produzione è successivo e perciò progressivo rispetto al feudalesimo; che esso si presenta come movimento storico monista all’interno del quale tutte le classi ricoprono ruoli complementari; che perciò nessuna classe contende il potere a un’altra classe per disarcionarla e instaurare il proprio potere; che in quanto movimento monista è destinato dalle sue stesse leggi a reggersi come un tutt’uno finché si regge e crollare solo perché le sue stesse leggi creano e perciò determinano le condizioni perché non si tenga.

Dunque non definiamo nessuna classe portatrice, in quanto tale, di valori rivoluzionari o reazionari, ma le collochiamo tutte nella loro relazione con il modo di produzione. Sicché, come ci siamo rifiutati di definire il movimento contadino e le sue lotte come reazionarie rispetto alla borghesia, come per esempio il movimento della Vandea solo perché si opponeva ad essere utilizzato in una guerra coloniale e fu massacrato in nome della democrazia colonialista perché rivolgeva lo sguardo all’indietro, alla monarchia spagnola, perché essa l’appoggiava opportunisticamente, così non possiamo definire controrivoluzionario un movimento capeggiato da Trump. Come il mondo contadino ha pagato un tributo altissimo al modo di produzione capitalistico, il ceto medio di questa fase deve essere da esso stritolato. Per questa ragione non possiamo definire il movimento del ceto medio occidentale come reazionario o rivoluzionario per i valori o non valori di cui è portatore, ma ci sforziamo di analizzarlo nella sua collocazione oggettiva, cioè sul ruolo che è costretto a giocare nell’attuale crisi del modo di produzione capitalistico. Questo, indipendentemente da cosa pensano i suoi eventuali dirigenti e rappresentanti. Si tratta di capire in che modo sarà costretto ad agire.

Dunque innanzitutto non ci scriviamo al partito della democrazia per un verso e non apparteniamo a quei visionari che immaginano un movimento rivoluzionario incorporato in una classe portatrice di chissà quali valori universali. Probabilmente sconfortiamo i pochi o i tanti affezionati a questo schema, ma il materialismo ci obbliga a ragionare sui fatti e non sulle idee separate da applicare ai fatti. I movimenti del ceto medio di questa fase storica, in modo particolare in Occidente, si collocano oggettivamente in una decadenza dell’attuale moto-modo di produzione capitalistico; in quanto tali contribuiscono a rivoluzionare tutti i rapporti sociali degli uomini con i mezzi di produzione. Niente di teleologico perché la storia segue il suo corso per leggi proprie, non scritte, impersonali, supera quel che è, e negandolo dispone quel che può essere.

Comments

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Fabio
Monday, 18 January 2021 11:35
Grazie per l'articolo, che stimola diverse riflessioni. Un paio di domande: che senso ha parlare di rivoluzione? Credo che la “presa del Campidoglio” sia l’altra faccia della medaglia “democratica”, ovvero, oggi, del Potere pressoche' assoluto di quell’oligarchia finanziaria che ha scelto Biden (e che Biden ringrazia mettendo rappresentanti di Blackrock nella sua amministrazione). Faccio sempre più fatica a leggere una logica dialettica in questi pseudo-eventi. Mi pare che la dialettica sia stata rimpiazzata dalla logica binaria della false alternative, per cui ci viene presentata una scelta simulata tra due schieramenti (i Buoni e i Cattivi) che pero’ sono funzionali l’uno all’altro. Come in molti hanno fatto notare, quanto successo a Washington ha finito per favorire Biden e i poteri forti che lo sostengono. Ora hanno la strada libera per fare quello che vogliono, incluso nuove leggi contro il “terrorismo interno” (cioe’ contro chiunque non la pensa come loro). Poi i sostenitori di Trump non sono solo il ceto medio in crisi, ma in larga parte anche quelli che una volta si sarebbero chiamati ‘proletari’ di lunga data, abbandonati a se' stessi. Sono stato nelle periferie americane proprio a ridosso delle elezioni del 2016 e posso confermare.
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Emilio
Saturday, 16 January 2021 14:11
Mi sembra un articolo inutile e banale anche se vuole essere speciale...lasciamo stare la rivoluzione per piacere
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