Print Friendly, PDF & Email

alternative

L'orologio di Cassandra

di Alfonso Gianni

Editoriale del numero doppio 66-67 del Trimestrale Alternative per il Socialismo

The Garden of Earthly Delights 200 01 1030x481Le parole che forniscono il titolo a questo fascicolo della nostra rivista – “Siamo tutti in pericolo” - sono di Pier Paolo Pasolini. Sono tratte dalla sua ultima intervista, che rilasciò a Furio Colombo nel pomeriggio del 1° novembre 1975. Compaiono alla fine della loro conversazione. Ma Pasolini non la riteneva conclusa. Si riprometteva di tornarci sopra il giorno successivo “Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare”.1 Ma non ci fu più tempo. Nella notte venne brutalmente ucciso sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. Non si tratta solo di un omaggio alla figura del grande intellettuale in occasione del centenario, appena trascorso, della sua nascita. È piuttosto un’attualizzazione. Quelle sue parole, per quanto riferite a ben altro contesto, dopo quasi cinquant’anni descrivono meglio di molte altre lo stato d’animo diffuso e la condizione reale in cui siamo immersi. Come se la capacità che fu propria di Pasolini, la sua cifra in vita, di sentire il deteriorarsi delle cose e dei rapporti umani intorno a sé, di percepire con la ragione, di più, di avere il senso della inesorabile costruzione di un “ordine basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere”, fosse stato proiettato in un tempo a lui futuro che coincide con il nostro presente. Siamo stretti in una morsa di eventi precipitati in rapida successione, senza soluzione di continuità, o addirittura contemporaneamente, che rende incerti, foschi, pericolosi i tempi, anche quelli prossimi, che abbiamo di fronte. Alla grande crisi economico-finanziaria si è aggiunta la pandemia del Covid, alla guerra, o meglio alle tante guerre dimenticate, si sovrappone il pericolo sempre più assillante di un conflitto nucleare megadistruttivo. E nessuno di questi novelli cavalieri dell’Apocalisse è stato ancora vinto e neppure disarcionato.

 

Il Doomsday Clock

Il Doomsday Clock (“l’orologio del giorno del giudizio”) ha indicato che mancano solo 90 secondi alla sovrapposizione fatale delle lancette, cioè alla mezzanotte della fine del mondo. Vi è chi ha ironizzato su questa notizia, o comunque l’ha giudicata come frutto di emotività, quindi un allarme eccessivo. È evidente che quell’orologio virtuale non propone un sistema scientifico di misurazione. È un messaggio più che uno strumento di calcolo. Ma non per questo va sottovalutato. La sua storia conta ormai 75 anni, essendo stato creato nel 1947 e i 90 secondi segnano la maggiore vicinanza di sempre alla mezzanotte. Fu il fisico ungherese Leo Szilard a promuoverne la nascita. Aveva partecipato con Enrico Fermi al Progetto Manhattan, ma era del tutto contrario all’uso in guerra della bomba nucleare. Assieme al premio Nobel James Franck avanzò la proposta che gli Usa dovessero usare l’arma solo in via dimostrativa, facendola esplodere in un’area disabitata e isolata ai fini di creare la massima deterrenza e costringere il Giappone alla resa. Non fu così. Allora Szilard e altri diversi scienziati che avevano partecipato al Progetto si riunirono per dare vita al Bulletin of the Atomic Scientists per rendere pubbliche le minacce che si addensavano sull’esistenza dell’umanità e del pianeta2. Da allora ad oggi, con strumenti di comunicazione al passo coi tempi, pubblicando una rivista bimestrale e attraverso un sito web, usando l’efficace immagine metaforica dell’orologio, ci hanno aggiornato non solo sui pericoli di guerra nucleare, ma anche, negli ultimi tempi, sulle catastrofi provocate dai cambiamenti climatici e sulle conseguenze che possono derivare da un uso sconsiderato di tecnologie sempre più invasive e dirompenti.

Non sempre le lancette sono andate avanti. Sono arretrate fino a 17 minuti prima dell’ora fatale nel 1991 dopo la firma del Trattato di riduzione delle armi strategiche (Start I). A dimostrazione che l’orologio non percepisce solo segnali negativi. Ma negli ultimi tempi questi ultimi hanno nettamente prevalso fino a spostare la lancetta dei secondi a 100 nel 2020 e all’attuale 90. Ma il messaggio che ci proviene da un comitato di esperti in diversi campi, dalla politica alla diplomazia, dalla storia militare alla scienza nucleare, una vera comunità scientifica, non riesce ad essere monito sufficiente per impedire ai governanti e alle elites che dominano il mondo di fermarsi prima di danzare sugli argini scivolosi di un baratro.

 

L’incontro di Ramstein

Tanto Dimitri Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, quanto il ministro della difesa italiano Guido Crosetto, tra un insulto e un dileggio, da sponde opposte diffondono con incosciente tranquillità la percezione della vicinanza, se non addirittura dell’imminenza, di una terza guerra mondiale. O la quarta, se assumiamo che la terza sia già in atto, seppure a pezzetti, come ha detto il Papa. “Le guerre non stanno ferme. Si allargano”3 ha scritto l’ambasciatore Stefano Stefanini, la cui lunga carriera è culminata nell’essere il Rappresentante permanente d’Italia presso la Nato a Bruxelles, prima di diventare senior advisor dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). Si può ben dire: persona informata sui fatti. Non si tratta solo della moltiplicazione dei teatri potenziali o già in atto di guerra, ma anche dell’ampliamento delle forme di consultazione e collaborazione nel sostegno armato all’Ucraina.

Il vertice di Ramstein, tenutosi a fine aprile 2022, è stato definito dal segretario della Difesa statunitense Lloyd Austin un “incontro storico”. Una definizione appropriata se si tiene conto che erano presenti non solo i 26 paesi facenti parte della Nato, ma diversi altri, quali Israele, Giordania, Liberia, Marocco, Kenya, Tunisia, Svezia, Finlandia, Australia, Nuova Zelanda. Molti di questi potevano fin a quel momento essere considerati nel novero dei paesi neutrali. Alcuni devono la loro presenza al tentativo americano di sottrarli alla influenza crescente della Cina, particolarmente nel continente africano. Una ulteriore dimostrazione di quale sia l’obiettivo più importante che gli Usa vogliono colpire, cioè la grande potenza asiatica.

Il leitmotiv di quella riunione era uno, ben esplicitato da Austin: “L’Ucraina crede di potere vincere la guerra e a questo crediamo anche tutti noi”. Neppure una tiepida richiesta di un “cessate il fuoco” per tentare di intavolare una trattativa. Si punta decisamente sulla guerra e alla conquista della vittoria. Per il Segretario della difesa Usa la minaccia nucleare è “retorica pericolosa ed inutile”. Non sono da meno le parole pronunciate dal ministro della difesa italiano di allora, Lorenzo Guerini (Pd): “Ho trasmesso un messaggio ai partner occidentali nel corso del vertice alla base aerea di Ramstein: ogni tranche di assistenza militare ci avvicina alla pace in Europa, rafforza la sicurezza nel mondo e la giustizia e la nostra vittoria comune sulla Russia”4.

L’esatto contrario del monito del Doomsday Clock. L’incontro partorisce una nuova organizzazione internazionale, il “Gruppo di consultazione per la difesa dell’Ucraina”, una sorta di Nato globale che vuole ridisegnare la geopolitica e la geoeconomia a livello planetario, tornando a dividere il mondo in blocchi contrapposti, secondo una logica neo imperiale che però deve fare i conti con un mondo in cui le dipendenze e gli intrecci economici sopravvivono alla crisi della stessa globalizzazione che li ha creati.

 

Entriamo in una nuova epoca

I segnali erano già ben presenti da trent’anni a questa parte, in particolare dai tempi della guerra nei Balcani, ma l’invasione russa dell’Ucraina e il modo con cui la Nato, l’Ue, gli Usa hanno risposto, con una continua escalation nell’invio di armi e sistemi tecnologici ad uso militare, dà il segno tragico che siamo entrati nel pieno di una nuova epoca, quella del post-Guerra fredda. Siamo di fronte a mutamenti profondi, veri scossoni, anche in controtendenza e non solo in accelerazione, entro quel gigantesco processo di transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est, sul cui sfondo si proietta il sempre meno latente e più insistente conflitto fra Usa e Cina.

Allo stesso tempo il vertice di Ramstein, pur con presenze dilatate ben oltre lo schieramento Nato, anzi in un certo senso proprio per questo, mostra come il tentativo di traslare il senso dello scontro bellico in atto lungo l’asse del confronto fra democrazia e autocrazia sia risultato fallimentare e comunque ben poco convincente, se solo si esce dall’ambito tradizionalmente filoatlantico. In concreto le retoriche dichiarazioni di principio lasciano il passo in Occidente ad una coalizione basata sul piano militare, benedetta dall’Alleanza atlantica che apre le sue potenti braccia ai nuovi arrivati anche se non membri di diritto. Non possiamo dimenticare, seguendo anche la successione cronologica degli eventi e degli appuntamenti, che la votazione dell’Assemblea generale dell’Onu del 2 marzo 2022, quindi poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sulla risoluzione di condanna della Russia per violazione dell’articolo 2 della Carta dell’Onu fornisce un esito che ha sorpreso più di un commentatore, anche tra quelli meno superficiali. Infatti 141 paesi votano a favore, 35 si astengono e 5 votano contro (oltre alla Russia, la Bielorussia, la Siria, l’Eritrea e la Corea del Nord). È evidente che la notizia sta non tanto nei voti contro quanto nelle astensioni che annoverano oltre alla Cina e all’India diversi paesi asiatici e africani.

 

La centralità della questione africana

Ma la seconda votazione evidenzia ancora di più la frattura fra le democrazie occidentali e il Sud del mondo, considerando questa definizione in senso più geopolitico e geoeconomico che non strettamente geografico. Il 7 aprile 2022 in sede Onu nella votazione sulla sospensione della Russia dal Consiglio dei diritti dell’uomo – a seguito delle notizie e delle immagini sugli orrori della guerra – diversi paesi mutano il loro voto da astensione a contrario. Oltre alla Cina e all’Iran, fanno parte dei contrari numerosi paesi africani: su un totale di 54, si hanno solo 10 voti a favore, mentre 35 si astengono o non sono presenti e 9 sono i contrari5.

La questione africana viene messa in evidenza e diventa quindi sempre più centrale. L’influenza di Russia e Cina – e la presenza anche militare nel caso russo - in quel continente si è fatta sentire anche in questa occasione. La caccia alle “terre rare”, cui è legato il presente e il futuro della moderna tecnologia in ogni sua applicazione, dai sistemi di comunicazione all’intelligenza artificiale, è cominciata non da oggi e l’Africa in questo campo viene considerata la “nuova frontiera”. Il capitalismo estrattivo d’oltreoceano e dell’Europa stessa non intende perdere la partita di un maggiore impadronimento di queste risorse.

E’ un capitolo importante dello scontro con la Cina, la cui industria chimica raffina le quantità maggiori dei cosiddetti minerali della transizione (rame, nickel, cobalto e litio). Secondo l’agenzia internazionale per l’Energia (Aie) la loro produzione dovrà essere assai più che decuplicata per fare fronte alle necessità della stessa transizione energetica, per quanto riguarda la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture green. Non credo sia esagerato o fuori luogo leggere anche da questa visuale il significato del recente viaggio di papa Francesco in Congo e nel Sud Sudan, soprattutto il suo monito contro il neocolonialismo economico che si sostituisce al vecchio colonialismo politico.

 

L’intensificazione della guerra

Intanto i venti di guerra fischiano da ogni parte del globo, rinfocolando gli scontri già in atto da anni come pure creandone dei nuovi. L’impianto industriale di Isfahan, in Iran, è stato recentemente attaccato probabilmente da Israele, approfittando del fatto che produce i droni Shahed-136 utilizzati dalla Russia. “L’attacco a Isfahan è un messaggio alla suocera iraniana perché la nuora russa intenda” commenta Stefanini. Intanto crescono le richieste di armamenti da parte di Kiev, in quantità e potenza devastatrice, trovando nella Ue solo un oscillante ostacolo nella Germania di Scholz - il sottomarino no, ma i carri armati sì - che però guida un governo ove i Verdi sono i più militaristi tra i loro omologhi in Europa.

La prima vittima delle pressioni sul governo tedesco è stata la ministra della Difesa Christine Lambrecht che, rassegnate le dimissioni, viene subito sostituita a metà gennaio da Boris Pistorius, detto lo “sceriffo” viste le sue forti inclinazioni nel mantenimento dell’ordine.

Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato, nonché inviato speciale in Ucraina durante la Presidenza di Donald Trump, ha salutato con entusiasmo la fornitura dei nuovi carri armati perché possono mettere “Kiev in condizione di vincere la guerra”. Non solo, ma ha aggiunto che “l’invio degli Abrams farà molto. Darà copertura a Scholz e creerà una nuova base per i paesi Nato, secondo cui inviare armi pesanti va bene”.6 Il che conferma quanto osservato da alcuni commentatori e cioè che i carri armati non hanno tanto un valore e un significato nell’immediato sul piano militare, quanto, e molto, sul terreno politico, per allineare qualche recalcitrante europeo sulla linea bellicista, casomai venisse in mente a qualcuno anche solo di pronunciare la parola trattativa.

La richiesta di armamenti da parte dell’Ucraina non si ferma. Ottenuti i tank vuole i missili a lungo raggio, ma soprattutto gli F-16, gli aerei da combattimento di quarta generazione. Pensare che si tratti di armi da usare solo dal punto di vista difensivo è ingannare se stessi. Biden per il momento ha detto no e la Germania ha potuto opporre analoga risposta. Ma fino a quando? La Casa Bianca ha sempre cominciato con un rifiuto di fronte alle crescenti richieste di Kiev, per poi finire ad accettarle. La vicenda dei carri armati fa scuola. Del resto la Lockheed Martin, il principale appaltatore della difesa statunitense ha già pubblicamente fatto sapere che intende immediatamente accelerare la produzione degli F-16 a Greenville per potere essere pronti a soddisfare le richieste di qualunque paese deciso ad effettuare trasferimenti a terze parti che volessero aiutare l’Ucraina nel conflitto.

In Europa, la Polonia, ormai punta di diamante del bellicismo continentale - tanto è vero che il suo governo vuole portare al 4% del Pil le spese militari, il doppio di quanto chiede la Nato - si è subito detta pronta a fornire i caccia F-16, purché in coordinamento con la Nato e Macron ha ribadito che nulla è vietato in via di principio purché ciò non porti ad un’ulteriore escalation, ad attacchi in territorio russo e non comporti pericoli per la Francia. Una dichiarazione il cui senso di realtà si commenta da solo, cui è immediatamente seguita una risposta inevitabilmente ironica da parte di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo.

Intanto una newsletter del Washington Post7 ci informa che il generale statunitense Michael A. Minihan prevede che si continuerà a combattere in Ucraina per tutto il 2025, mentre altri militari ipotizzano già un conflitto con la Cina nel 2027 e alcuni tra questi addirittura nell’anno presente. Insomma la guerra per procura in corso in Europa non tarda a mostrare quali siano le sue vere finalità, il suo tragico approdo e circola voce che il nuovo speaker della Camera Kevin McCarthy intenda ripercorrere la strada di Nancy Pelosi preparando una visita a Taiwan, che certo Pechino non considererà un atto distensivo. Il Doomsday Clock continua a lanciare i suoi messaggi di sventura, la cui fondatezza è puntualmente confermata da dichiarazioni e atti da parte di governanti e generali che non se ne preoccupano e vanno in senso esattamente contrario. Come fosse l’orologio di una moderna Cassandra.

 

La strada delle sanzioni non pare avere effetti incisivi

Il che fare diventa un imperativo drammatico e imperioso. Per tutti. Per i governi, le assemblee elettive, gli organismi internazionali, i movimenti, i popoli, tornando ad usare quest’ultima parola nel suo significato più semplice e proprio. L’escalation va fermata su tutti fronti e da tutte le parti. Ci porta alla soglia di una guerra mondiale nucleare. Un’inimmaginabile guerra a perdere, che nessuno può vincere, come in quel bel film americano di quaranta anni fa, Wargames.

Le sanzioni economiche nei confronti della Russia non hanno inferto colpi decisivi a quel paese poiché sono aggirabili nel quadro di un sistema internazionale di economie interconnesse. È stato dimostrato anche da alcune inchieste del New York Times e del Wall Street Journal dalle quali risulta che dall’India e dalla Cina, passando per la Turchia e l’Armenia, giungono in Russia i prodotti su cui dovrebbe vigere l’embargo, oppure offrono mezzi di trasporto e destinazioni finali per le esportazioni russe. Il Fondo monetario internazionale valuta la crescita dell’economia russa nell’anno in corso nell’ordine dello 0,3%. Si dirà che è poco, ma è certamente superiore al -2,3% previsto in precedenza. Gran parte di questa capacità di resistenza sottostimata è dovuta all’esportazione di gas e petrolio, che i russi sono riusciti ad indirizzare verso altri clienti e zone del mondo. Del resto agli Usa non conviene il blocco integrale della vendita del petrolio russo, perché sono consapevoli che la sua totale scomparsa dal mercato internazionale avrebbe un immediato effetto negativo sull’inflazione. Se cambiamo merce il risultato non cambia. Elina Ribakova, vice capo economista dell’Institute of International Finance, ha rivelato che le importazioni di chip in Russia sono aumentate da 1,8 miliardi di dollari tra gennaio e settembre del 2021, a 2,45 miliardi nello stesso periodo del 2022, grazie agli invii da Cina e da Hong Kong. Anche se la von der Leyen ha annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni, è dubitabile che esse riescano ad ottenere un maggiore effetto delle precedenti.

Lo scenario di una guerra a media intensità che si prolunga nel tempo può certamente trovare chi ne trarrebbe vantaggio dal punto di vista economico, ma avrebbe un prezzo altissimo per l’umanità. L’Ucraina, per ragioni geopolitiche e geoeconomiche non è l’Afghanistan. Le mutazioni che ha già determinato in negativo nel mondo sono sotto i nostri occhi.

 

Alla ricerca della pace non c’è alternativa

Insomma alla pace non c’è alternativa. Ed essa può essere raggiunta solo tramite una trattativa internazionale, non certo moltiplicando gli armamenti, per giunta sottraendone il controllo ai parlamenti, come nel caso italiano. Rimane valido, quanto inascoltato, l’appello che un nutrito numero, quasi cinquanta, di ambasciatori italiani non più in servizio hanno rivolto in ottobre, come pure lo spirito delle manifestazioni per la pace che si sono svolte in questi mesi, come quella del 5 novembre a Roma e che andrebbero intensificate.8 Naturalmente la stampa interprete del mainstream ha infierito nei confronti del pacifismo, accusato di filoputinismo quando di non svendere l’identità e il futuro del popolo ucraino, fingendo di accettare di parlare di pace solo secondo il celebre e dannato principio del si vis pacem para bellum. Tutto ciò nonostante che i sondaggi e i monitoraggi in ambito europeo e italiano mostrino una maggioranza contraria all’invio di armi all’Ucraina. Rimanendo al nostro paese e scegliendo una fonte che certo non potrebbe essere accusata di pacifismo ideologico preconcetto, cioè il sondaggio reso noto a Porta a Porta a fine gennaio, risulta che Il 52% degli italiani sarebbe contrario a nuovi pacchetti militari in sostegno di Kiev. Una percentuale così ampia ha interessato anche le stanze dei vertici di Berlino, malgrado che le forti tensioni nel governo di Scholz sull’invio dei tank Leopard siano state smussate dal via libera americano ai carri armati Abrams. E anzi, il sondaggio evidenzia come sia solo il 33,9% degli intervistati a ritenere doveroso il sostegno all’Ucraina con l’invio dei Panzer – Leopard tedeschi. Al contrario, ben il 58% non legge positivamente questa scelta, principalmente perché teme l’inasprirsi della guerra e un più diretto coinvolgimento europeo nella stessa.9

 

I Fridays for future lottano in Germania e vanno a Davos

In questo clima inquietante si è tenuto il tradizionale incontro dei potenti della terra a Davos. Il nuovo governo italiano lo ha voluto un po’ snobbare, forse per cercare di recuperare una immagine che fosse diversa, almeno agli occhi dei suoi sostenitori in patria, da quella finora data e confermata. Cioè di un governo iperatlantico, prono alla Nato, allineato sulle posizioni del mainstream europeo. Nella cittadina svizzera si sono incrociati i temi dell’economia e della sua crisi, con quelli dei cambiamenti climatici e dei fallimenti per correggerli, in gran parte prevedibili anche perché voluti.

Greta Thunberg ha dato prova di continuità nella sua azione contro i cambiamenti climatici, smentendo chi cercava di dipingerla come un fuoco di paglia esaltato dall’esposizione mediatica. Prima si è presentata a Lutzerath, il villaggio tedesco in procinto di essere demolito per fare spazio ad una miniera di lignite, che da tempo era occupato da attivisti che si opponevano allo sgombero. È stata trascinata via di peso dalla polizia, come hanno mostrato le numerose immagini che hanno subito fatto il giro del mondo. Non ha trascurato di accusare i Verdi tedeschi di continuare a puntare sul fossile, ribadendo quindi che solo una lotta dal basso e transnazionale può fermare i cambiamenti climatici.

Ma non ha perso poi l’occasione di presentarsi a Davos, assieme ad altre attiviste protagoniste nel movimento Fridays for future in Germania, ove ha ripetuto gli stessi concetti in un incontro con Fatih Birol, direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), ma soprattutto ha ribadito che: “La gente che dovremmo ascoltare non si trova qui. A Davos c’è la gente che alimenta la distruzione del pianeta”10. Si può discutere sulle varie forme di lotta che i giovani stano attuando nei vari paesi per tenere desta l’attenzione sui cambiamenti climatici, ma certamente si deve riconoscere che siamo di fronte a un movimento vivace, combattivo e radicale che trova nello scenario internazionale la sua dimensione più congrua e naturale, senza bisogno, almeno per ora, di complicate strutture organizzative.

 

Davos: il volto feroce del capitalismo

A Davos, sede del meeting annuale del World economic forum, è andato in scena il capitalismo nella sua versione più brutale e aggressiva, ovvero quella di un capitalismo il cui sviluppo è direttamente legato alla guerra e alla morte, da cui si possono succhiare profitti, rispetto ai quali la prevenzione e la cura stessa della pandemia devono inchinarsi. Attendersi da questo, seppure con qualche correttivo nei suoi meccanismi di funzionamento, un’autentica attenzione al clima e alla vita umana e non umana è pura illusione, peraltro disvelata da qualche secolo di storia. Nell’introduzione al loro recente libro, La guerra capitalista - che Luigi Pandolfi recensisce in questo stesso numero della nostra rivista11- Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli scrivono che “l’evidenza scientifica supporta una ‘legge’ di tendenza verso la centralizzazione del capitale, che distrugge la democrazia e fomenta la guerra”.

Lo si è appunto sentito a Davos quando, nel corso di un dibattito con la direttrice del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, la presidente della Bce si è lasciata scappare - ‘voce dal sen fuggita’ avrebbe detto il Metastasio - che “la Cina si sta risvegliando di nuovo. Ora si prevede che registri un 5,5% di crescita nel 2023 e dovremmo dare il benvenuto al suo impegno di rimuovere le restrizioni sul Covid. È possibile che il cambiamento delle politiche sul Covid uccida un sacco di persone, ma rilancerà anche l’economia. L’impatto su tutti noi sarà positivo, per la Cina e per il resto del mondo, ma creerà anche pressioni inflazionistiche”. Molto truce, ma almeno chiaro. La Lagarde vuole mostrarsi coerente con la mission della Banca che presiede, che come sappiamo è la stabilità dei prezzi, non certo il benessere delle persone e nemmeno la loro sopravvivenza. La definizione che usa Roberto Ciccarelli nel suo articolo su Davos è quindi quanto mai appropriata: siamo di fronte all’espressione del più puro “tanato-capitalismo”.12

 

Il cosiddetto Piano Mattei

La guerra e la rottura delle linee degli approvvigionamenti energetici vengono ovviamente utilizzati come scusa per ritardare l’esecuzione degli impegni previsti dalla necessaria transizione ecologica. La difficoltà di seguire le vie tradizionali degli approvvigionamenti energetici potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per accelerare la transizione ecologica. Invece avviene esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe attendere se si potesse prescindere dagli interessi materiali che un simile processo scuote.

Quanto valgano gli impegni assunti sul contenimento delle alterazioni climatiche è ben descritto dal comportamento del governo italiano. Si è parlato con enfasi di un nuovo “Piano Mattei”, il quale, stando alle fonti governative, vorrebbe fare dell’Italia la porta di accesso per la distribuzione dell’energia per tutta l’Europa. Il famoso hub energetico, del quale si è vagheggiato non da oggi in più e diverse occasioni.

Sulla base di questi propositi, Giorgia Meloni, ripercorrendo la strada di Mario Draghi, si è recata in Algeria per firmare un memorandum. Attraverso quella porta dovrebbe passare non solo sempre più gas metano, ma anche idrogeno, rinforzando l’attuale gasdotto. Sia il nuovo gasdotto che l’elettrodotto dovrebbero collegare l’Algeria alla Sardegna, la quale ha di suo un grande potenziale di energia solare ed eolica da renderla autosufficiente.

Ma l’intero progetto si presta a più di un interrogativo, tanto da diventare un caso di specie dell’imbroglio energetico in atto.13 Gli investimenti previsti sono così rilevanti che evidentemente danno per scontato che la domanda di gas aumenterà sensibilmente nei prossimi anni, suppergiù una ventina, tenendo anche conto che diminuirà la fornitura di gas russo. Il che significa che il nostro governo, la Confindustria, l’Eni (tanto Carlo Bonomi, quanto Claudio Descalzi erano presenti alla firma del memorandum) non credono affatto alla road map prevista per il processo di decarbonizzazione. E’ impossibile pensare che nel 2050 si possa giungere al livello zero nelle emissioni nette se fino al 2045 si continua a consumare gas a profusione.

Ma il contrasto con gli impegni assunti in Europa è troppo stridente per non nascondere forse anche un’altra intenzione. Non si tratterebbe di una maligna supposizione se guardiamo dentro agli accordi siglati – osserva Butera – da Descalzi e il suo omologo algerino, capo di Sonatrach, in base ai quali si prevede una riduzione di CO2 nelle strutture produttive di idrocarburi. Tutto diventa più chiaro se lo mettiamo in relazione con la propaganda sui miracolosi benefici della cattura e sotterramento di CO2, la Ccs (Carbon Capture and Storage). Rispetto a questa pratica sono ben note le ragioni che portano la comunità scientifica a rigettarla. Eppure – sospetta Butera- “vuoi vedere che all’Eni danno per scontato che si metteranno a pompare CO2 nei giacimenti esausti dell’Adriatico e della pianura padana per spremere altro combustibile … che poi, ovviamente, verrebbe bruciato … producendo proprio quella CO2 che si era fatto finta di sotterrare…Vuoi vedere che il memorandum con gli algerini sottintende la prospettiva di costruire, parallelamente ai gasdotti che portano il gas dall’Algeria alla Sicilia, dei “CO2dotti” che trasportano CO2 dalla Sicilia all’Algeria per sotterrarla nei giacimenti esausti algerini e spremere dell’altro gas che poi magari viene avviato in Sicilia?” Se fosse così saremmo di fronte ad una interpretazione del tutto capovolta dell’economia circolare, simile piuttosto al cane che si mangia la coda. Supposizioni esagerate? Allarmismi infondati? Forse, ma finora l’esperienza ci ha insegnato a diffidare sul mantenimento dei solenni impegni assunti nelle sedi internazionali sul clima. L’unica via per fare fede a quegli impegni è che i governi investano massicciamente nelle rinnovabili, fermando il drenaggio di denaro pubblico in direzione dei gasdotti e di nuove estrazioni. Invece appena la Ue parla di misure per l’efficienza energetica, ecco che si alzano da parte delle forze dell’attuale maggioranza, ben sostenuta dai costruttori edili, alti lai contro la direttiva che punta alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio.

 

Il debito, l’inflazione, la permacrisi.

Naturalmente, poiché tutto si lega, la giustificazione per i ritardi e le opposizioni alle misure contrarie a scelte climalteranti, è immediatamente fornita dalle condizioni generali dell’economia e dall’elevato debito che affligge particolarmente il nostro paese. Anche in questo caso proprio le cattive condizioni dell’economia mondiale dovrebbero suggerire misure pubbliche anticicliche. Ma è quello che non si fa.

Definire con sufficiente precisione quali siano le prospettive per l’economia mondiale non è comunque certamente facile. Troppi sono gli elementi di novità e di incertezza. Alla crisi economico finanziaria del 2008 e 2009, i cui effetti non sono ancora stati neutralizzati, si è sovrapposta la pandemia del Covid-19 ed ora la guerra russo ucraina. Cosicché le valutazioni più ottimistiche rincorrono quelle che vedono il futuro più grigio e viceversa, in un continuo alternarsi che finisce per rendere dubitabile qualunque tipo di previsione.

Se cerchiamo di fare una media tra le valutazioni dei più autorevoli economisti, dei grandi operatori finanziari e manager di multinazionali, i famosi funzionari del capitale, l’ipotesi più probabile per il 2023 è quella di una recessione “strisciante”. Solo i più ottimisti si pronunciano per una timida inversione di tendenza nella seconda parte del 2023. Ma non si capisce come, tanto che appare più un wishful thinking che non una ponderata previsione. Circa due terzi dei capoeconomisti che hanno partecipato al sondaggio del World Economic Forum di Davos si sono detti convinti che la recessione globale è probabile per quest’anno, mentre il terzo rimanente la ritiene improbabile.

Nessuno in realtà è in grado di rispondere con certezza. Quindi molti si rifugiano negli aggettivi, recessione sì ma breve, sì ma dolce, sì ma limitata e via dicendo. Gita Gopinath, numero due del Fondo monetario internazionale, prevede un miglioramento solo verso la seconda metà di quest’anno con proseguimento nel 2024, poggiando le proprie previsioni sulla ripresa della crescita del Pil in Cina.14 A quale prezzo di vite umane lo abbiamo già appreso dalle parole della Lagarde. Quello che è certo è che i periodi tra una crisi e l’altra che contraddistinguono la storia del capitalismo si sono fatti negli ultimi anni sempre più brevi. Fino quasi a sparire del tutto. Ne parla Fausto Bertinotti in questo stesso numero della nostra rivista, quando ricorda che la parola dell’anno secondo l’autorevole Collins Dictionary è permacrisis, che indica uno stato di crisi permanente. Un termine che si può accostare a quello di più lontana nascita: policrisi, alludendo in questo caso alla causazione molteplice e contemporanea dei fattori che determinano la crisi.

Se ci riferiamo al nostro paese riscontriamo che, anche se nell’ultimo trimestre del 2022 la crescita è stata per un decimale negativa, l’anno si è chiuso con un aumento del Pil del 3,9%. Quindi nel 2023 si comincerebbe con una base di partenza (la “crescita acquisita”) dello 0,4%. Poiché le stime, in questo caso concordi tra Bankitalia e Fmi, sono di un aumento del nostro Pil dello 0,6%, vuole dire che alla fine dell’anno in corso la crescita sarebbe solo dello 0,2% (per inciso: pari a quella della Russia oggetto di sanzioni economiche).

Mentre il mercato del lavoro, anche quando dà qualche segnale di ripresa, continua ad escludere donne e giovani. Il fallimento del Jobs Act è oramai conclamato. Tanto è vero che viene pure disconosciuto da chi l’aveva votato e sostenuto. Secondo le ultime previsioni, Bankitalia vede la disoccupazione in Italia stabile all’8,2% per l’anno in corso, poi forse potrà diminuire leggermente nel biennio 2024-25, ma tutto è legato all’evolversi della situazione internazionale. Intanto la nuova ministra del lavoro, Marina Calderone, intende rilanciare la flessibilità, proponendo un nuovo disegno di legge che vuole togliere ogni tipo di causale ai contratti a termine, quindi giungere alla loro totale liberalizzazione. Piove sul bagnato, ove le retribuzioni sono sostanzialmente ferme e quasi la metà dei lavoratori dipendenti è in attesa di rinnovo contrattuale, per cui Bankitalia prevede che la dinamica salariale nel 2023 dovrebbe accelerare assai moderatamente, mentre l’inflazione danza attorno al 7%. La forbice tra questa e gli aumenti salariali diventa veramente insopportabile.15

 

Il tema dell’incertezza che domina “l’economia del disastro”

Bankitalia insiste sul fatto che la situazione è caratterizzata da un’elevata incertezza, che sarebbe determinata soprattutto dall’andamento non prevedibile della guerra russo-ucraina. Vero, ma non è certamente una novità assoluta. Cambiano le cause contingenti che la possono incrementare, ma non tanto quelle di fondo, che sono connaturate alla natura del sistema capitalistico ed accentuate particolarmente negli ultimi decenni.

Più di cinquant’anni fa Hyman Minsky scriveva che “la differenza essenziale tra l’economia keynesiana e l’economia sia classica che neoclassica è l’importanza attribuita all’incertezza”,16 includendo nell’economia neoclassica anche il tentativo di normalizzazione del pensiero keynesiano cominciato da subito con il famoso articolo di John Hicks del 1937. Ma è indubbio che “l’economia del disastro”, per tornare a citare Minsky, abbia accorciato negli ultimi tempi l’intervallo fra una crisi e l’altra. Fino ad arrivare allo stato di permacrisis, poco sopra ricordato. Secondo alcuni economisti (ad esempio Janet Yellen) gli ultimi tre anni contrassegnati dalla pandemia e dalla guerra in Europa, dove non sono ancora stati smaltiti gli effetti della crisi economico-finanziaria del 2008, “saranno visti come un periodo di instabilità unico nella nostra storia moderna”. Previsione azzardata, quanto al carattere “unico” dell’instabilità, proprio perché questo periodo appare tutt’altro che concluso.

Se guardiamo alla guerra, appena si intravede una esile fiammella di apertura di un processo di pace sul versante russo-ucraino, non solo viene immediatamente spenta dai comportamenti dai vari attori in campo, ma è subito accompagnata dal surriscaldamento delle tensioni in altre parti del continente, quali quelle al confine fra la Serbia e il Kossovo. Come a sottolineare che ormai la guerra entro il continente europeo è considerata un’opzione sempre possibile, quasi normale.

 

Le politiche restrittive delle banche centrali

In questo quadro l’attenzione verso i comportamenti delle banche centrali è diventata quasi spasmodica. Tra le maggiori 26 banche centrali del mondo, ben 22 hanno alzato i tassi di interesse. Lo hanno fatto 137 volte aumentando così il costo del denaro di 82,6 punti percentuali. Diverse tra loro, tra cui la Bce, hanno iniziato o annunciato la riduzione del bilancio (quantitative tightening). Nei primi giorni di febbraio la Bce ha annunciato l’aumento di altri 0,50 punti dei tassi di interesse, portandoli quindi al 3%. Si tratta del terzo aumento consecutivo che ha riportato le percentuali ai valori del 2008, durante la crisi dei sub-prime.

In conferenza stampa la Lagarde ha annunciato che a marzo ci sarà sicuramente un altro aumento, presumibilmente di pari entità. Allo stesso tempo ha fatto intravedere uno spiraglio verso decisioni meno restrittive in futuro. Questo ha fatto sì che i mercati abbiano accolto favorevolmente le parole della Presidente del Bce, con un incremento nelle maggiori borse europee. Ma si tratta di interpretazioni, ovvero di scommesse.

Le attese delle decisioni sui tempi e sull’entità dell’innalzamento dei tassi tengono col fiato sospeso non solo le famiglie alle prese con l’aumento dei prezzi e dei mutui, ma i governi. L’indipendenza delle banche centrali – mantra del neoliberismo - si è risolta nella dipendenza degli esecutivi da queste. Perciò si alza il richiamo alla trasparenza e alla necessità che le banche centrali traccino un percorso definito, anziché vivere alla giornata o quasi. Cosa che la Lagarde finora non aveva fatto, andando avanti riunione per riunione, metodo che peraltro non ha ancora esplicitamente sconfessato.

Sono in molti tra gli operatori in campo economico – finanziario a chiedere che il comportamento della Presidente della Bce smetta di assomigliare a quello della sacerdotessa di Delfi o della Sibilla cumana, i cui responsi contenevano una tale ambiguità da potere essere interpretati in maniera esattamente opposta.17 Altri chiedono che l’autonomia dalle interferenze dei governi venga almeno bilanciata dal rendere conto nei parlamenti. In primo luogo ciò dovrebbe avvenire a livello europeo, non in modo occasionale e non solo sulla valutazione del già fatto, ma sulla programmazione del fare. In sostanza un altro mantra del neoliberismo, quello della indipendenza delle banche centrali comincia a vacillare.

Ma quanto riferisce la Commissione sulle linee guida della riforma del patto di stabilità si muove in tutt’altra direzione: quella di accentrare potere nelle mani della Commissione stessa, riducendo ulteriormente il ruolo del Parlamento. Non solo di quello europeo, ma anche dei parlamenti nazionali le cui decisioni sui bilanci dovrebbero sottostare ai percorsi decisi dalla Commissione. Sparirebbe l’incredibile norma del rientro al 60% del rapporto fra debito e Pil in venti anni, ma si irrigidisce il controllo della Commissione sul percorso economico dei singoli stati. La Ue in particolare rimane così stretta fra aumento dell’inflazione - essendosi preclusa la possibilità di agire sulle sue cause esogene, in particolare la guerra – e precipitazione nella recessione.

 

Esiste una via d’uscita che non comporti il massacro sociale?

Ma la stretta in una simile tenaglia non è affatto inevitabile. Sfuggire ad essa è precisamente il terreno di prova per la ricostruzione di una sinistra. Non è vero che l’unica cura contro l’inflazione sia una politica restrittiva nella speranza che il calo dei consumi trascini con sé quello dei prezzi. Ce lo ha insegnato la stagflazione, cioè la compresenza di inflazione e recessione. Ce lo insegna anche un paese lontano da noi, il cui governo non ha certo le stimmate di una sinistra, seppure innovata. Mi riferisco all’Indonesia. Il suo Ministro delle Finanze, durante l’apertura del vertice del G20 dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali lo scorso 12 ottobre 2022, ha avvertito che “l’economia globale si sta dirigendo verso una vera e propria tempesta”. Per cui bisognerebbe ricorrere a misure keynesiane di politica fiscale anticiclica. L’Indonesia, in modo del tutto analogo alla Ue, aveva regolamentato la sua politica fiscale ponendo un limite al deficit di bilancio del 3% del Pil e sul debito pubblico complessivo pari al 60%. Ma, dopo poco tempo dall’11marzo 2020, quando l’Organizzazione mondiale della sanità avvertì il mondo dello scoppio della pandemia, il governo indonesiano ha rivisto la legge di bilancio autorizzando un aumento del deficit. Come si vede il contrario dell’Italia che ha addirittura posto in Costituzione il pareggio di bilancio. In questo modo, ha sostenuto il ministro, l’Indonesia è stata uno dei pochi paesi a livello mondiale a “sostenere la sua perfomance economica anche di fronte allo shock della domanda aggregata su scala globale”18.

Che il debito sia cresciuto su scala globale è certamente vero. Che non tutti i paesi siano nella stessa condizione, per quantità e composizione del debito, altrettanto. Che esistano proposte di ingegneria finanziaria per cercare di attutirne gli effetti negativi è verificato, anche se non nella loro efficacia, visto che non sono state messe in pratica. Tuttavia la vera soluzione del problema è, guarda caso, politica, e potrebbe esprimersi in una conferenza mondiale che si proponga di evitare default – per diversi paesi africani già avvenuti e per molti altri imminenti – ristrutturando e cancellando in tutto o in parte la montagna di debito inesigibile.

Non basta però richiamarsi al keynesismo solo come metodo. Se negli Usa l’inflazione è in gran parte dovuta all’innalzamento dei prezzi dei beni di consumo, in Europa questa dipende per due terzi dal caro-energia. Qui più che altrove il tema è: quali consumi e quali investimenti. Affrontarlo a livello europeo è necessario. Come è indispensabile avere un bilancio della Ue dotato di una sufficiente ampiezza per sostenere la conversione ecologica dell’economia – da articolare in una miriade di realistici progetti sul territorio – che è la leva indispensabile di un diverso sviluppo sociale ed economico. E questa richiede la pace.


Note
1 L’intervista venne pubblicata l’8 novembre 1975 su La Stampa-Tuttolibri. Venne ripubblicata trent’anni dopo, il 9 maggio 2005 su l’Unità, con una premessa di Furio Colombo. Il testo si trova anche in Walter Siti e Silvia De Laude (a cura di) Saggi sulla politica e sulla società, “Meridiani” Mondadori, Milano 1999, euro 80, pp. 1723-1730. I bevi brani qui riportati e virgolettati appartengono alle risposte che Pasolini fornì al suo intervistatore.
2 Il Bollettino venne fondato dal biofisico Eugene Rabinowitch e dal fisico Hyman Goldsmith. La rivista ha annoverato membri di grande rilievo, come, per citarne solo alcuni tra i molti: Max Born, Albert Einstein, Robert Oppenheimer, Bertrand Russell.
3 Stefano Stefanini “Ucraina, fronte Iran” La Stampa del 30 gennaio 2023
4 Vedi Angela Mauro “I 40 di Ramstein vanno oltre la Nato: nasce l’alleanza per dare armi pesanti a Kiev” in Huffingtonpost 26 aprile 2022
5 Il voto contrario viene da Algeria, Burundi, Repubblica centrale africana, Congo, Eritrea, Etiopia, Gabon, Mali, Zimbabwe
6 Kurt Volker (intervista a), “Una mossa decisiva. Ora Zelensky può vincere la guerra”, la Repubblica, 25 gennaio 2023
7 Vedi Salvatore Cannavò “Da Kiev a Taiwan: la folle idea del conflitto globale” in Il Fatto Quotidiano del 31 gennaio 2023
8 L’appello, datato 11 ottobre 2022 si conclude con le seguenti proposte “vitale delineare una proposta di mediazione credibile che, partendo dagli accordi di Minsk, tracci un percorso per giungere a un negoziato globale guidato dai principi della sicurezza in Europa. Devono essere ribadite le linee ispiratrici della coesistenza e della legalità internazionale: ossia l’inaccettabilità dell’uso della forza per l’acquisizione di territori, l’autodeterminazione dei popoli, la protezione delle minoranze linguistiche europee. Primo obiettivo è il cessate il fuoco e l’avvio immediato di negoziati tra le parti al fine di pervenire: 1) al simmetrico ritiro delle truppe e delle sanzioni; 2) alla definizione della neutralità dell’Ucraina sotto tutela dell’Onu; 3) allo svolgimento di referendum gestiti da Autorità internazionali nei territori contesi. La convocazione di una Conferenza sulla sicurezza in Europa sarà infine lo strumento del ritorno allo spirito di Helsinki e alla convivenza pacifica dei popoli europei”
9I dati sono riportati, il 28 gennaio 2023, nel sito ufficiale di Nicola Porro, vicedirettore de Il Giornale
10 Vedi Luigi Mastrodonato “Prima Lützerath, poi Davos. Così Greta Thunberg ha dato nuova linfa alla lotta climatica”, 20 gennaio 2023. https://www.lifegate.it
11 Vedi pag.
12 Roberto Ciccarelli, “Per Lagarde aprire la Cina uccide, ma rilancia la crescita” in il manifesto del 21 gennaio 2022
13 Vedi Federico M. Butera “Memorandum Italia-Algeria, il piano oscuro del gas a sei zampe” in il manifesto del 28 gennaio 2023
14 Vedi Gianluca Di Donfrancesco “Gopinath (Fmi): ‘Il picco dell’inflazione è alle spalle’ “ in Il Sole 24 Ore del 19 gennaio 2023
15Vedi Banca D’Italia Bollettino economico n.1 del 2023
16 Sul tema della instabilità si veda Hyman Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, introduzione di Riccardo Bellofiore, Bollati Boringhieri, Torino 2021, pp.288, euro 22,00
17 Celebre la risposta attribuita alla Sibilla cumana ad un soldato partente per la guerra: Ibis redibis non morieris in bello, dove la posizione della virgola determinava il confine fra la vita e la morte. Infatti se: ibis, redibis, non morieris in bello al soldato veniva vaticinata la salvezza, se invece: ibis, redibis non, morieris in bello il suo destino sarebbe stato quello di non tornare perché morto in guerra.
18 Sri Mulyani Indrawati “La recessione globale non spaventa tutti allo stesso modo. Il caso Indonesia” in Il Sole 24 Ore del 20 gennaio 2023

Add comment

Submit