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lafionda

Macro(n)economia, ovvero il “Presidente dei Ricchi”

di Matteo Bortolon

cb5ee2e 18473 pdiak0.zxljp Nelle ultime settimane le proteste in Francia hanno riempito pagine e schermate dei media internazionali: la contestatissima controriforma delle pensioni del governo Borne ha suscitato svariati scioperi e le più partecipate proteste di piazza della recente storia francese, con le otto maggiori sigle sindacali unite come una falange macedone, mentre da parti opposte tanto l’alleanza di sinistra radicale NUPES di J-L. Mélenchon e il partito di Marine Le Pen danno una serrata battaglia parlamentare. I sondaggi indicano che il 74% della popolazione sarebbe favorevole ad una mozione di sfiducia che facesse crollare il governo. La repressione della polizia nelle piazze è violentissima e ricorda la scriteriata gestione dell’ordine pubblico contro i Gilet Gialli del pre-Covid, allarmando il Consiglio d’Europa; se un qualsiasi governo nemico del blocco euroatlantico avesse fatto solo la metà di simili le potenze occidentali avrebbero già chiesto le dimissioni del vertice politico.

A questo si aggiunge la prova di forza voluta da Macron: l’approvazione della riforma in base ad un articolo della Costituzione (art. 49, c. 3) che consente di oltrepassare totalmente il Parlamento nel rifiuto di una minima interlocuzione con i rappresentati sindacali. Una cosi altezzosa indifferenza verso l’opinione pubblica ha suscitato ire selvagge ed è difficile pensare che possa essere riassorbita a breve. Ma non si tratta di una storia nuva.

Questa è solo l’ennesima puntata di un copione che inizia ad andare in scena quasi immediatamente dopo la prima elezione di Macron, che ha messo in cantiere una serie di riforme favorevoli ai ceti abbienti e totalmente funzionali al disegno neoliberale da venir bollato col meritatissimo epiteto di “Presidente dei Ricchi”.

Vediamo alcuni episodi che disegnano tale contesto.

 

Né destra né sinistra

Domenica 7 maggio 2017 i francesi sono stati chiamati alle urne per un ballottaggio fra due candidati che entrambi a loro modo, rifiutano di essere incasellati nello schema destra-sinistra, non appartenendo ai partiti tradizionali (sinistra socialista e destra gaullista di Sarkozy): due esempi di “né destra né sinistra”, quello neoliberista-finanziario (Macron) e quello demagogico-identitario (Marine Le Pen).

La Republique vive una profonda crisi di legittimazione del sistema politico, le cui cause vanno viste nel panorama socioeconomico.

Nel corso della crisi del 2008 a favore delle banche francesi sono stati mossi 360 miliardi di euro – e secondo i calcoli di Eric Toussaint alla fine 60 miliardi di euro, fra salvataggi e sconti fiscali, sono ricaduti sui cittadini, con la ben disposta sponda dei governi che si sono succeduti: destra gaullista di Sarkozy (2007-2012) e socialisti di Hollande (2012-2017) entrambi hanno “riformato” le pensioni nel 2010 e nel 2014. Una analisi del pensatorio progressista CEPR di Washington mostra come la Francia non sia stata affatto immune dal vento di austerità europea promossa da Commissione e governo tedesco sul continente (in modo particolarmente acceso verso il sud Europa); oltre alle “riforme” pensionistiche, durante la presidenza Hollande vi è stata una particolare accelerazione sul mondo del lavoro, con l’approvazione di tre leggi distinte: legge Macron (agosto 2015), legge Rebsamen (agosto 2015) e legge El Khomri (agosto 2016) la cui convergenza aumenta il precariato, liberalizza alcuni settori e decentra la contrattazione salariale alla singola azienda dal piano nazionale. Si tratta di una esecuzione piuttosto zelante dell’agenda della governance europea e uno degli assi delle raccomandazioni della Commissione alla Francia. Nel report del 2017 (Commissione Ue, Country report France febbraio 2017) si registra infatti un sostanziale progresso (per loro è una cosa positiva) sulla “riduzione del costo del lavoro” (cioè meno salario) – mentre in altri punti il successo è assai meno soddisfacente.

Da una parte si salva la finanza e le banche muovendo cifre mostruose, mentre dall’altra si toglie a lavoratori e pensionati. È così sconcertante un rifiuto diffuso delle oligarchie politiche nel loro complesso?

 

Macron prima di Macron

Il Macron della legge del 2015 non è un omonimo: è proprio Emmanuel Macron che invece di concorrere alle primarie socialiste si è fatto un suo partito personale e dimessosi dal governo nel 2016 si è candidato per la presidenza. La stessa persona, ministro dell’economia del precedente governo, si accreditava come l’alternativa innovatrice nel 2017. Con qualche riscontro: Stefan Kreuzkamp di Deutsche Bank si era felicitato che “la Francia avrà per la prima volta un Presidente favorevole alle riforme”.

Già dai presupposti prima della effettiva elezione non era difficile capire che aria tirasse: il gruppo di Economistes Atterrés (gruppo di economisti ostili al neoliberismo) aveva liquidato in un agile report l’agenda economica Macron come “economia a marcia indietro” e come “continuità coi predecessori nella linea della austerità con scarse rotture” (in un altro articolo dello stesso gruppo si parla ancora più sbrigativamente di “vecchie ricette liberiste sotto qualche orpello modernista”).

L’astro di Macron si elevava nell’affanno di contrastare l’ascesa del populismo nazionalista del Front National, visto il precipitare dei consensi del debole Hollande. Per evitare l’estremismo di destra – in realtà già un po’ in fase di riallineamento, per non parlare di come Le Pen successivamente avrebbe abbandonato l’uscita dall’euro come prospettiva politica dando un altro nome al suo partito – il mainstream puntava tutte le sue carte su questa figura a suo modo rappresentativa che nel voler andare oltre la distinzione destra-sinistra, ma sul versante liberale e oligarchico produceva dichiarazioni abbastanza confuse: nel 2014 si proclama “socialista”, nel 2015 “liberale”, nel 2016 “non socialista”, a fine 2016 “uomo di sinistra” e “liberale” allo stesso tempo. Buona parte dei progressisti, terrorizzati dal baubau nazionalista, ovviamente, si allineava.

Ma non tutti.

 

Macro(n)économie

Eletto con uno smilzo 24% dei voti al primo turno Macron ha avuto una luna di miele elettorale piuttosto breve. I migliori cervelli della République sono indaffarati a capire come ha fatto a scendere nei sondaggi di gradimento di ben 24 punti in soli 3 mesi.

Dopo aver incassato una contestazione di piazza appena eletto, ancor prima di entrare in carica, l’8 maggio 2017, Macron ha visto già diverse mobilitazioni da parte dei sindacati; forse non hanno troppo rasserenato gli animi una legge anti-terrorismo piuttosto liberticida (3 ottobre 2017) e un amoroso trasporto verso il presidente USA, gioiosamente coronato dal bombardamento congiunto della Siria, ma sono parsi piuttosto incupiti dai provvedimenti in materia economica.

Secondo l’OFCE (Osservatorio Francese per le Congiunture economiche) le riforme fiscali votate a dicembre 2017 avrebbero favorito nell’immediatezza il 2% dei redditi (quelli più alti) comportando a breve termine “la riduzione della fiscalità sul capitale, sui profitti d’impresa e l’innalzamento della fiscalità indiretta [quella più iniqua, l’IVA]”; e senza migliorare più di tanto i conti pubblici (OFCE, nota del 15 gennaio 2018).

Nel Programma Nazionale di Riforme prontamente recapitato alla Ue il governo poneva in luce i tre assi programmatici per liberare il potenziale dell’economia francese: “riformare il mercato del lavoro”, “stimolare gli investimenti alleggerendo la fiscalità”, “creare un ambiente attrattivo per le imprese e stimolare la competitività”. Suona familiare?

 

La Francia ribelle

E’ così che il 19 aprile 2018 in decine di città francesi sono scesi in strada migliaia di lavoratori delle poste, del pubblico impiego, delle ferrovie, studenti, insegnati, personale ospedaliero; una tappa intermedia del percorso deciso in una affollata assemblea che si è tenuta luogo il 4 aprile a Lione, il cui culmine consisteva nel progetto di ricondurre tutti “i piccoli ruscelli di collera ad un impetuoso fiume di speranza” il successivo 5 maggio.

Presenti all’incontro l’economista Fredric Lordon, e Francois Ruffin, deputato de La France Insoumise che col suo film Merci Patron! aveva dato un discreto afflato alla protesta del movimento francese la Nuit Debout (marzo 2016) contro la riforma del lavoro di Hollande (Ovviamente Macron era fra gli ispiratori della legge); era anche presente Gaël Quirante, il sindacalista licenziato presso La Poste, la spa di servizi postali e telefonia controllata dallo Stato francese; il licenziamento era stato rifiutato per quattro volte dall’Ispettorato del Lavoro, finché il dicastero del Lavoro sotto Macron l’aveva infine autorizzato. Muriel Pénicaud, lo zelante ministro, con un passato alle risorse umane della Danone, aveva attuato una riforma del lavoro con 5 leggi-delega che ha suscitato un deciso scontento nei sindacati, che avevano indetto uno sciopero il successivo settembre.

 

Dai Gilet gialli alle pensioni

A fine 2018 si attivavano le famose proteste dei Gilet Gialli, con il loro lugubre corteo di infame repressione poliziesca; ne abbiamo pubblicato una testimonianza delle più interessanti.

Poco prima del Covid vi era stato il tentativo di introdurre la riforma delle pensioni, ma la vibrante reazione prima e la pandemia poi avevano prudentemente suggerito di soprassedere per tornare alla carica in tempi migliori.

Questo tipo di misure di “riforma delle pensioni” sembrano fatte un po’ tutte con lo stampino, indipendentemente dal paese: tutte hanno gli stessi argomenti bugiardi ed economicamente incongruenti. Vediamo l’essenza di esse, per poi cercare di capire la specificità francese.

“Riforma delle pensioni” è diventata una cauta espressione per non dire “taglio delle pensioni”. La foga di diminuire l’assegno previdenziale pare particolarmente entusiasta dopo che col Trattato di Maastricht gli Stati europei hanno assunto degli obblighi più stringenti riguardo i bilanci pubblici; per cui si succedono una serie di provvedimenti normalmente destinati a rendere il calcolo dei contributi lavorativi più svantaggioso ai fini dell’importo pensionistico e ad innalzare la età pensionabile. La Francia in specie ha avuto nella sua storia recente le seguenti “riforme”: Balladur 1993, seguito dal tentativo di Juppé di estendere il sistema nel 1995, fallito grazie all’opposizione di alcuni settori chiave; Fillon 2003, Woerth 2010, Touraine 2013. Le prime tre da parte di maggioranze di destra, l’ultima da parte del PS di Hollande. In Italia abbiamo avuto una serie tristemente analoga: Amato 1992, Dini 1995, Prodi 1997, Maroni 2004, Damiano-Padoa Schioppa 2007, Fornero 2011.

Le ragioni di tali “riforme” (simili un po’ in tutto il panorama politico europeo e non) sono di natura duplice: da un lato diminuire le spese dello Stato, dall’altro ampliare la previdenza privata, aprendo occasioni di mercato. Invece nel dibattito pubblico si esibisce una favoletta morale: la difesa della sostenibilità del sistema pensionistico (memorabili i miti del “buco” dell’INPS) sarebbe a favore della tutela delle generazioni future. Si considerano i contributi un po’ come monete fisiche che vengono messe da parte per essere dissotterrate una generazione successiva, per cui se il lavoratore ne prende troppe senza averne aggiunte altrettante, i lavoratori di domani non ne avranno più. Una immagine che da un lato occhieggia alla saggezza popolare che impone di essere previdenti per il futuro e fare sacrifici per esso, o richiama la pratica contadina di coltivare con cura la pianta per goderne fra molti anni i frutti, ed evitare odiose dissipazioni che lascerebbero i pensionati con un pugno di mosche.

Se non che tale immagine non ha alcun fondamento serio. La ricchezza versata non viene messa in freezer e “scongelata” al momento della pensione, ma è un trasferimento da coloro che attualmente lavorano a coloro che attualmente hanno superato l’età pensionistica. Il rapporto fra quanto il lavoratore ha versato e quanto otterrà effettivamente è una decisione esclusivamente politica. La pensione non è il mucchio di spicci che si trovano nel salvadanaio, ma è una parte della torta di ricchezza attualmente prodotta; chiaramente molti converranno che debba esservi un rapporto con la lunghezza del periodo lavorativo e contributivo (che ha favorito lavoratori più vecchi), ma presumere che si tratti di una corrispondenza aritmetica è completamente infondato. Se non una vera truffa, in quando disegna un sistema che penalizza tanto i pensionati di oggi quanto quelli futuri.

Risulta chiaro il continuo, reiterato tentativo di trasformare il conflitto fra classi o ceti in una ipotetica divergenza fra generazioni diverse, proiettando la equità in un arco temporale che si radica in una penalizzazione nel tempo presente per proiettare i benefici in un lontano futuro, che può essere solo dedotto concettualmente. Solo che non vi sono basi logiche per affermarlo.

Ma la dimostrazione più eloquente di quanto infingarda sia la favoletta morale sulla sostenibilità della previdenza è che il problema delle giovani generazioni saranno invece assegni troppo bassi per aver lavorato a stipendi da fame e con contratti precari e discontinui, versando pochi contributi, e coloro che sostengono le famose riforme sono gli stessi che si adoperano per la precarizzazione dei rapporti lavorativi. Insomma, promettendo di fare qualcosa a favore per le “generazioni future” si comincia subito a tagliare loro le gambe.

Anche qui la corrispondenza tanto con la realtà italiana che francese è evidente.

E adesso vediamo la riforma sul tavolo.

 

The Borne Identity

Giovedì 19 gennaio la Francia è stata attraversata dalle mobilitazioni contro la riforma delle pensioni proposta dal primo ministro Élisabeth Borne. Ma qual è il contesto di questa riforma?

Prima di tutto un fatto che rischia di andare in sordina. Il sistema previdenziale francese si appoggia in massima parte sui contributi dei lavoratori che vanno a finanziare gli assegni dei pensionati; parte di essi era a carico dei datori di lavoro, ma sono state in gran parte eliminate. Il ragionamento era che in presenza di una massiccia disoccupazione uno strumento per ridurla sarebbe stato diminuire il cosiddetto “costo del lavoro”, cioè l’insieme delle spese dell’imprenditore, e così facendo rendere le imprese francesi più competitive. Così che dal 1993 per gli impieghi di bassa qualificazione si è avuta una decurtazione di tali contributi. Gli effetti non paiono essere stati quelli sperati: secondo una nota del Consiglio di Analisi Economia (CAE), un organismo consultivo di alto livello del Primo Ministro, l’effetto è stato altalenante ed incerto; in taluni casi (la stima è stata fatta per ciascuna ondata di decontribuzioni in momenti diversi) pare che anziché creare più lavoro il sistema si sia tradotto in maggiori margini di profitto!

Quel che è certo è che ciò ha posto maggiori oneri sulle spalle dello Stato, riportando il discorso sulla insostenibilità – la “favoletta morale” di cui sopra; quindi si intende ridurre le prestazioni pensionistiche a fronte dei costi di sgravi fiscali alle aziende, una vera e propria frode.

Ma è una cosa reale? “Dopo più di venti anni di riforme che si sono susseguite, il problema delle pensioni non è più di natura finanziaria. […] La questione oggi non è più di alzare l’età pensionabile o aumentare gli anni di contribuzione”. Così si esprimeva nientemeno che il programma elettorale di Macron del 2017. Ed ha ragione (il Macron di allora, non quello del 2023): secondo il Conseil d’Orientation des Retraites, un ente statale del massimo livello che ogni anno valuta l’entità degli oneri futuri per la previdenza pubblica fra il 2021-27 la spesa resterà stabile; fra il 2028-32 aumenterà di 0,7-1,6% del pil; fra il 2032-70 sarà stabile e tendenzialmente in calo nonostante l’invecchiamento della popolazione per via delle già austere riforme fatte negli anni scorsi (Rapporto COR settembre 2022).

Ovviamente sono previsioni con grandissimi margini di incertezza – chi sa come sarà il quadro solo fra 10 anni? Ma è indicativo che l’ente pubblico della République deputato al controllo di tale settore di spesa mostri un quadro tutto sommato rassicurante; evidentemente stime che indichino uno sbilancio catastrofico non esistono.

Se anche vi fosse una necessità oggettiva di spostare l’equilibro entrate-uscite, vi sarebbe una gamma di possibilità: per esempio delle politiche fiscali di segno differente da quelle macroniane. O fare politiche di sviluppo: è ovvio che una parità di bilancio con le uscite destinate ai pensionati va commisurato col numero dei lavoratori attivi e coi loro salari; e che volendo ricorrere alla fiscalità generale – pare che nessuno si sia lamentato quando lo Stato compensava gli sgravi de contributi a carico delle le aziende – una disponibilità di risorse del Tesoro è maggiore in presenza di una crescita imponibile (non, quindi, una crescita di profitti finanziari che i soliti riescono a sottrarre al fisco coi consueti magheggi di elusione fiscale, ma con creazione di occupazione ben retribuita).

Ma tale necessità non c’è: non solo non c’è alcun consenso sulla esistenza di fantomatiche soglie del debito pubblico oltre le quali arriva l’apocalisse; ma un alto debito pubblico non è necessariamente un problema: può diventarlo in determinate circostanze. E anche in tal caso vi è una pluralità di metodi per tenerlo sotto controllo. Un rapporto del Servizio Studi del Congresso Usa elenca cinque modalità di abbattimento del debito storicamente rilevate, che potrebbero benissimo essere impiegate: austerità, inflazione, crescita, ristrutturazione (default), repressione finanziaria. Chissà perché l’ultimo non è mai stato nominato.

Comunque la si giri non esiste alcun argomento logico per ridurre i diritti dei lavoratori e futuri pensionati francesi (o quelli di altri); si intende semplicemente ridurre la spesa senza intaccare i profitti del padronato e i patrimoni disponibili alla tassazione ma facendo pagare tutto al lavoro dipendente – forse ritenendo che presto torneranno i famigerati parametri europei.

Dovremmo cercare di diffondere il più possibile il modo in cui la classe lavoratrice sta coraggiosamente difendendo la propria dignità dall’ennesimo attacco dell’oligarchia con a capo il Presidente dei Ricchi; la presenza di moltissimi giovani alle manifestazioni è indice che la lotta contro le pensioni sta assumendo la valenza di contenitore di un insieme motivi di opposizione diverse; come sostiene Frederic Lordon, la “riforma” diventa un significante vuoto di tutte le politiche funzionali al capitale. Mentre parallelamente, dalla parte opposta la riforma, anzi la Riforma, diventa autoreferenziale e fine in sé: si riforma per piantare la bandierina del dominio oligarchico delle elites.

A quanto pare la Francia, terra che ne sa qualcosa di moti rivoluzionari, si batterà.

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