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noirestiamo

Manifesto politico

Collettivo Noi Restiamo

schiavi o ribelli1. Da dove partiamo

Nel mondo in cui viviamo gli eventi e le informazioni viaggiano a una velocità sorprendente e non è sempre facile orientarsi. Guerre, caduta delle quotazioni di borsa, rialzo dello spread, cambi di governo, crisi diplomatiche, riforme del mondo del lavoro, disastri naturali, immigrazione, rallentamento della produzione industriale, aumento della disoccupazione: notizie che ci giungono e spesso ci appaiono come sconnesse fra di loro, in quel caotico vortice che sembra essere il presente. Eppure crediamo che sia possibile “venirne a capo”, innanzitutto individuando alcune domande che vadano nella direzione di trovare l’interconnessione fra tutti questi fenomeni: quale è l’origine la situazione attuale? Come si è generata la crisi? Quali sono i soggetti in campo nella gestione della crisi, e per conto di chi? Che effetti provocano le loro scelte nello scenario globale e nel nostro paese? Si tratta certamente di domande che richiedono risposte articolate che non si possono risolvere in poche pagine, ma dalle quali possiamo estrapolare qualche punto fermo per orientarci se vogliamo agire in direzione di un cambiamento e di alternativa da generazione cresciuta dentro questo nuovo contesto.

1.1 Crisi

Dopo la dissoluzione dell’URSS nell’89-’91, sembrava aprirsi uno scenario privo di conflitti e di rilancio dell’economia capitalista. Eppure con gli anni 2000, e in particolare dopo il 2007, si apre un periodo di instabilità e di crisi, che è ormai patrimonio comune essere una grande crisi economica, una crisi che non riguarda soltanto qualche paese o filiera della produzione o della finanza, ma che riguarda l’intera umanità, non solo in ambito economico ma anche culturale, politica, ideologico e morale: quindi una crisi generale e sistemica. Questa crisi ha investito tutte le macro-aree, da quelli che un tempo venivano definiti “paesi avanzati”, USA e Stati europei in testa, fino alle aree emergenti, in particolare i “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che con tassi di crescita enormi sembravano lanciarsi sulla strada di un rapido sviluppo. Alla crisi corrispondono il rallentamento (se non lo stop) della crescita economica, l’aumento della speculazione finanziaria, la chiusura delle attività d’impresa e il conseguente aumento della disoccupazione, per citare solo i fenomeni più evidenti.

1.2 L’Unione Europea

Questi problemi legati alla crisi hanno posto gli Stati e le loro economie in condizioni di difficoltà e di crescente competizione sul piano globale per mantenere e accrescere le proprie posizioni, evidentemente a scapito di altri. Assistiamo così a un rinnovato protagonismo degli attori della politica internazionale, a partire dagli USA per arrivare all’Unione Europea, la Cina, la Russia. Sono proprio questa accelerata competizione internazionale e la difficoltà di competere con economie di scala sempre più grandi, la necessità di accaparrarsi risorse e mercati, che hanno dato l’impulso decisivo al consolidamento di quel soggetto politico sovranazionale chiamato Unione Europea, che tenta di integrare in un soggetto unico, prima di tutto attraverso la moneta unica, la maggior parte dei paesi europei fra cui il nostro.

Le risposte messe in atto dall’UE per affrontare la crisi le osserviamo da anni, attuate da governi di qualunque partito: la distruzione del welfare state pubblico come l’abbiamo conosciuto, privatizzando ed esternalizzando i servizi (con conseguente aumento dei prezzi) dei trasporti, della sanità, della scuola e dell’università; le “riforme” del mercato del lavoro, dai tirocini non pagati fino al Jobs Act; il taglio delle pensioni e l’aumento dell’età pensionabile.  Tutti questi cambiamenti, anche per la loro forte impopolarità che riduce di conseguenza la possibilità dei governanti di appoggiarsi sul consenso della popolazione, necessitano dunque di un adattamento degli assetti generali dello Stato che rispecchi i nuovi rapporti di forza e la direzione che le classi dominanti voglio dare alla società. Assistiamo così a una progressiva chiusura degli spazi democratici, delle forme di partecipazione alla vita istituzionale e politica del paese, di cui i fenomeni più evidenti sono la modifica in senso autoritario delle leggi elettorali, la modifica delle costituzioni (specie quelle nate dalla Resistenza come compromesso fra le parti sociali) e degli spazi di rappresentanza. E sul piano internazionale? Osserviamo un sempre maggior protagonismo europeo negli interventi militari o di destabilizzazione, chiamati ironicamente “interventi umanitari” o di “peace keeping” di concerto ma non sempre con gli storici alleati dentro la NATO, cioè gli USA: dall’ex Jugoslavia, passando per l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, la Tunisia e l’Egitto delle “primavere arabe” rivelatesi poi colpi di stato militari, fino alla guerra sul proprio suolo europeo come sta avvenendo in Ucraina dove il confronto-scontro con la Russia è sfociato in guerra civile.

1.3 L’austerità in casa, la guerra alle porte

Dopo anni di questo tipo di politiche, emergono sempre più prepotentemente delle contraddizioni che ci indicano che cosa l’Unione Europea abbia prodotto e nell’interesse di chi. È chiaro infatti come le ricette di austerità “per rilanciare la crescita” dei paesi europei abbiano favorito in primis grandi gruppi multinazionali e in generale le imprese, che attraverso le acquisizioni e le fusioni si sono rinforzate e sul mercato del lavoro vanno conquistando quella “flessibilità” continuamente invocata. Hanno favorito inoltre il capitale finanziario che attraverso la moneta unica e l’integrazione dei sistemi giuridici e fiscali sposta velocemente i capitali sulle piazze finanziarie. Ma per quanto riguarda i lavoratori, a partire da quelli più giovani, le politiche di austerity si sono manifestate come disoccupazione di massa, precarietà e instabilità economico-contrattuale diffusa, aumento del costo dei servizi pubblici, dai trasporti, alla sanità; aumento della competizione per raggiungere un livello di specializzazione più spendibile, che si è tradotto in un abbassamento generale della qualità dell’istruzione, e l’introduzione di tirocini e vero e proprio lavoro non pagato, relegando la possibilità di una formazione di qualità ad alcuni poli di eccellenza che selezionano gli ingressi tramite numeri chiusi e prezzi proibitivi. Se questi sono gli effetti nelle società europee, le politiche di intervento sullo scenario geopolitico, siano esse indirette come l’appoggio dato a qualche gruppo locale fino all’aperto intervento militare, hanno prodotto una “cortina di fuoco” attorno all’UE che si estende dall’est europeo e dal confine sempre più militarizzato con la Russia fino al Medioriente e all’Africa, portando in quei paesi condizioni di devastazione tale da costringere un flusso di milioni di persone ad abbandonare le proprie case per cercare condizioni di vita migliori.

1.4 Destra populista e neofascisti: “eurofascismo”

Il progetto europeo ha determinato nei contesti nazionali un ricompattamento nell’arco politico istituzionale, con la costituzione di un fronte europeista nel quale troviamo le tradizionali forze di centro-sinistra e di centro-destra che si alternavano al governo. Oggi la differenza fra queste forze si è assottigliata a tal punto che si trovano alleate nell’eseguire le indicazioni di Bruxelles, tanto da far definire questa alleanza dal Presidente del Consiglio come l’embrione del “Partito della nazione”. In questo contesto osserviamo, in Italia come in tutta l’Europa, un’allarmante riemergere delle destre populiste ma anche reazionarie e dichiaratamente fasciste, grazie si alla crisi, ma anche all’acutizzarsi dei suoi effetti dovuto alle politiche di austerità e di guerra portate avanti dal soggetto politico Unione Europea.

Le destre populiste come la Lega Nord nel nostro paese infatti sfoderano un nuovo slancio nella gestione del malumore diffuso in ampi strati di società, aspirando a un ruolo di governo che utilizza sì la propaganda antieuropeista, soprattutto per quanto riguarda la tematica dell’immigrazione, ma approva le riforme del mercato del lavoro e le trasformazioni strutturali che il nuovo assetto europeo porta. Forze come la Lega catalizzando intorno a sé le proteste forcaiole e l’attenzione della destra populista attualmente indebolita e schiacciata nelle alleanze del “fronte unico”, ma anche quella dei soggetti dichiaratamente fascisti. Le destre populiste e reazionarie si presentano così come unica alternativa alla macelleria sociale europea. Eppure nonostante le polemiche, è chiaro come siano proprio gli europeisti al governo a creare le condizioni sociali e politiche per la loro riproduzione: una dipendenza reciproca, che ci permette di dire che (in Italia) Renzi e Salvini sono due facce della stessa medaglia. La verifica più evidente di questo fenomeno l’abbiamo nell’enorme spazio mediatico e politico che viene riservato alle destre, alle quali vengono permesse provocazioni di ogni tipo nei quartieri popolari, contro le tradizioni antifasciste, gli immigrati e le realtà politiche e sociali della sinistra, che invece nel quotidiano vengono colpite dalla repressione e dalla chiusura degli spazi democratici. Sul piano continentale lo scenario non appare migliore: oggi tutti i paesi deboli dell’UE si trovano a subire le stesse politiche di sacrifici indipendentemente dal colore politico dei propri governi, e in tutta Europa vediamo la crescita di partiti come la Lega, Front National, ma anche dichiaratamente fascisti come Alba Dorata, l’FPO austriaco ed altri, in una versione del fascismo 3.0 che potremmo definire “eurofascismo”.

 

2. Le fasce giovanili

2.1 Precarietà di vita

Dopo otto anni di crisi gli effetti sulla nostra società si fanno sentire sempre più pesantemente. Disoccupazione, precarietà e ogni tipo di disagio sociale avanzano mentre la crisi si fa sistema. Per le fasce giovanili ciò è particolarmente vero: basti considerare i dati sulla disoccupazione giovanile, sul numero di giovani che hanno smesso di cercare lavoro e di studiare (i cosiddetti “neet”), sulla durata dei contratti e sulla retribuzione che percepita dai (sempre meno) impiegati nel mercato del lavoro, e non ultimo sul numero dei giovani che abbandonano i propri paesi per cercare migliori condizioni e opportunità sia formative che lavorative all’estero.

Quest’ultimo dato ci permette di fare alcune considerazioni sul diverso modo con cui la crisi si ripercuote e viene politicamente gestita nei diversi paesi dell’Unione Europea. Soprattutto a seguito del “caso greco”, si è manifestato apertamente come gli effetti della crisi non siano uniformi all’interno dell’Eurozona. La costruzione dell’Unione Europea dentro il contesto della crisi vede la definizione di due regioni distinte. Emergono infatti un Centro, capitanato dal grande capitale tedesco, fondato su politiche Neo-Mercantiliste e caratterizzato da una produzione ad alto valore aggiunto, e, dall’altro lato, una Periferia, composta dai paesi dell’area mediterranea (i cosiddetti PIIGS) ma anche dai paesi dell’est-Europa, a cui viene sostanzialmente attribuito il ruolo di “colonie interne”: sbocco per le merci e bacino di risorse, sia naturali sia (ed è questo il caso) di forza lavoro manuale e intellettuale, per i paesi del Centro.

2.2 Il discorso del padrone

Se questi sono dei dati di fatto con cui ci si scontra se si legge la realtà con occhio critico, assistiamo però a una narrazione dominante, un “discorso del padrone” secondo il quale la competizione, l’emigrazione, il lavoro non pagato sono le grandi opportunità che vengono messe a disposizione delle nuove generazioni. D’altronde nel mercato finalmente unificato che sognano le classi dirigenti europee la mobilità geografica della forza lavoro è un pre-requisito essenziale. La sussunzione e l’introiezione passiva di questa narrazione, causata dalla sconfitta dei movimenti di classe e dalla rinuncia della sinistra ad una progettualità indipendente, autonoma, ricompositiva e conflittuale, provocano una discrepanza fra le prospettive promesse o immaginate, e la realtà che poi ci si trova a vivere. Il risultato spesso è la depressione come risposta alla difficoltà di accettare se stessi in una vita sociale che, promettendo possibilità illimitate di esperienza e di consumo, fa sembrare vuota e deludente ogni singola esistenza che abbia fallito nel tentativo di ascesa proposto dal modello dominante.

2.3 Emigrazione e furto di cervelli

Quello dell’emigrazione è per noi il problema principale che attraversa le fasce giovanili oggi, in quanto è spesso una scelta obbligata che viene incentivata dalle politiche governative come da quelle comunitarie. La caratteristica più evidente di questa “nuova migrazione europea” sta nel dato che ad emigrare non sono più solo giovani lavoratori non specializzati, ma anche e soprattutto studenti e neolaureati in cerca di un lavoro che possa essere congruo al percorso di studi da loro intrapreso. La si è chiamata “fuga di cervelli”; ma più che di una fuga si dovrebbe parlare di un “furto di cervelli”. Furto in quanto le possibilità e le promesse con l’emigrazione, in particolare accademica, di associarsi all’élite tecnica e intellettuale che sorregge l’impalcatura europea, in una competizione individualista che raramente vede protagonista la tanto decantata meritocrazia, prepara per i meno fortunati il terreno all’estero come a casa di condizioni di lavoro precario, subalterno, mal retribuito, con diritti messi sistematicamente sotto attacco dalla crisi. Una selezione per cooptazione di manodopera intellettuale e manuale che sottrae enormi risorse alla designata periferia, per favorire le diseguaglianze sulle quali si basa il rilancio del continente in chiave capitalistica tramite l’Unione Europea sul piano della competizione internazionale.

Noi restiamo! La necessità che abbiamo di agire nel presente, tenendo conto degli strumenti di lettura e inquadramento della realtà che ci siamo dati, ci porta a confrontarci con il manifestarsi concreto della crisi e della formazione dell’UE di cui abbiamo parlato. È un manifestarsi “a pezzi”, in diversi aspetti della vita quotidiana delle masse, dall’impossibilità di accedere a un corso di formazione superiore, o la difficoltà nel seguirne i ritmi per la necessità di lavorare barcamenandosi nella precarietà, o l’impossibilità di trovare un lavoro, e di conseguenza l’impossibilità di rendersi autonomi a livello abitativo.

Non venire travolti dalle mille sfaccettature dei problemi quotidiani, individuarne la radice comune per costruire un’alternativa all’esistente. Mettere in campo una parola d’ordine che va in controtendenza rispetto alla moda di cercare altrove soluzioni individuali ad una crisi che, in quanto generale, necessita di risposte generali. Perciò ci siamo assunti la responsabilità di dire “Noi restiamo!”. Siamo consapevoli della valenza di questa parola d’ordine nel contesto economico e politico attuale, e della smorfia che può creare di primo acchito a chiunque si veda, con queste parole, incoraggiato a restare nella condizione avvilente del presente. Ma restare è condizione necessaria se lo vogliamo ribaltare questo presente.

 

3. Agire il NOI RESTIAMO

Se ci rendiamo conto che le cause dei nostri problemi, il motivo per cui affermiamo Noi Restiamo, sono la costruzione dell’Unione Europea e la crisi capitalistica, allora abbiamo già capito dove agire: in tutti quei contesti, percorsi, mobilitazioni e nella costruzione di organizzazione in grado di combattere la costruzione dell’UE e di proporre un’alternativa concreta e di immaginario all’irrazionalità del capitalismo. Utilizzare al meglio gli strumenti organizzativi, comunicativi, informativi e di mobilitazione che abbiamo per esprimere la necessità di “rompere la gabbia dell’UE” è il nostro primo compito. In questa direzione, consci del fatto di non essere autosufficienti, dobbiamo guardarci attorno e cercare le alleanze possibili per rendere davvero incisivo il nostro agire. Vediamo che nella società esistono piccoli o grandi baluardi in questo senso. Abbiamo aderito e appoggiato convintamente la piattaforma sociale Eurostop, che rappresenta nel panorama nazionale oggi al meglio quest’esigenza di mobilitazione larga, che tenga insieme organizzazioni e movimenti sociali e politici anche diversi fra loro che hanno individuato nell’opposizione all’Unione Europea un elemento primario.

Sempre in questa direzione, cogliendo il legame insito fra la guerra e la costruzione dell’UE, vanno l’antimperialismo fatto di solidarietà ai popoli che lo subiscono e di mobilitazione contro la guerra. Fondamentale in questo senso l’attività di solidarietà e informazione riguardo i conflitti della “guerra dei trent’anni” che si sta svolgendo, in special modo nel cerchio di fuoco che si crea attorno all’UE: Ucraina, Turchia e Kurdistan, Siria, Palestina, Iraq, Afghanistan, Libia, Africa… Consapevoli delle differenze storiche, ideologiche e politiche delle diverse situazioni, l’antimperialismo ci porta ad essere solidali coi combattenti del Donbass e Kurdi, ai compagni siriani e libanesi, alla storica resistenza della Palestina. Più in generale, sentiamo la necessità della ricostruzione di un solido movimento contro la guerra, e a questo obiettivo abbiamo lavorato in questi anni, come recentemente, nelle mobilitazioni contro la guerra.

Allo stesso modo, questa guerra contro i popoli che all’esterno si manifesta con bombe e soldati va di pari passo con la guerra interna ai popoli europei. È l’altra faccia della medaglia della costruzione dell’UE, ovvero le politiche di austerità, alle quali opponiamo la costruzione e l’appoggio di tutte le lotte sociali che mettano al centro gli interessi delle classi popolari: “servire il popolo” è per noi un dovere e un contributo fondamentale per ricostruire un blocco sociale cosciente, un’opposizione popolare al ricatto e all’arretramento che le classi dirigenti nazionali ed europee incarnate dal PD e dalla Troika ci vogliono imporre; il sindacalismo di base è quindi il nostro ambito privilegiato, in particolare in quelle strutture dove si organizza il soggetto nuovo, frutto della ristrutturazione capitalista e della crisi: soggetto delle aree metropolitane, precario e che ha come concreto ambito di organizzazione la lotta per l’abitare, per il lavoro e il reddito, la loro messa in connessione con le lotte del mondo del lavoro. Non a caso la campagna Noi Restiamo nasce all’interno di un’occupazione abitativa, e fin dai suoi primi giorni si è sempre trovata a fianco dei percorsi di lotta sociale. In questo senso abbiamo prodotto e messo a disposizione una ricerca e un ragionamento sul reddito minimo garantito, che fornisca un ulteriore elemento di battaglia politica e sociale. Per concludere in questo senso, essendo il contesto continentale, è importante costruire la solidarietà attiva con i casi “storici” di oppressione e resistenza che esistono anche in Europa, come i Paesi Baschi e Catalani.

Di pari passo, poiché il fascio-leghismo (il legame di interdipendenza e collaborazione fra gruppi populisti e i gruppi più dichiaratamente fascisti) potrebbe diventare sempre più l’ideologia di un ceto imprenditoriale nazionale escluso dalla spartizione di una torta a cui hanno accesso solo le multinazionali e una borghesia dal profilo europeo, poniamo l’antifascismo e la sua pratica come necessità imperiosa della nostra attività, come rafforzamento dei percorsi di lotta dei lavoratori e degli sfruttati, per respingere razzismo e xenofobia e per opporsi al discorso dominante delle classi dirigenti che ci dipingono l’Unione Europea come unica civile alternativa a un’involuzione nazionalista e reazionaria. Se le forze fasciste prendono forza dal massacro sociale perpetrato dall’UE, allora opporsi al fascismo significa smascherare il suo discorso tossico che propone la guerra fra poveri (lavoratori garantiti contro lavoratori precari, italiani contro immigrati), e indicare nella rottura dell’UE neoliberista l’unica possibilità di un futuro che tenga al centro gli interessi delle classi popolari.

Ultimo campo del nostro agire, ma non per importanza, è il mondo della formazione, da quella accademica a quella professionalizzante. E’ questo infatti un ambito che come giovani ci troviamo specificatamente ad attraversare prima, durante e dopo il “benvenuto” che ci riserva il cosiddetto mercato del lavoro. L’università in particolare è quel centro del sapere e della formazione che da sempre rappresenta la possibilità di migliorare la propria condizione lavorativa con l’acquisizione di conoscenze specifiche e approfondite. Oggi questa possibilità conquistata con decenni di lotte in tutto il mondo dopo la seconda guerra mondiale, l’università (seppur contraddittoriamente) “di massa”, volge rapidamente verso la fine, non sotto un suo movimento spontaneo, ma sotto l’incalzante attacco da parte delle classi dirigenti, che piegano l’istruzione della popolazione in funzione delle esigenze del mercato. Si configura uno scenario di università di serie A, con formazione di altissimo livello, il cui accesso è limitato dalla disponibilità economica, e dalla cooptazione per “i migliori” che da sempre la classe dirigente sa effettuare; e università di serie B, poco più che parcheggi temporanei o in qualche modo professionalizzanti, per il resto della popolazione. Su questo abbiamo avuto modo di ragionare e studiare, nonché di mobilitarci nei poli universitari delle nostre città, con le tante iniziative di approfondimento e dibattito tenute nelle aule universitarie, e recentemente presentando una nostra relazione al convegno nazionale su “Formazione, ricerca e controriforme” organizzato dalla Rdc.

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