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nuovadirezione

Su di noi e sugli interventi di Formenti e Visalli

di Riccardo Bernini

team spirit 2447163 640La prima questione posta a dibattito pare essere se reputare chiusa o ancora aperta la “fase politica” sulla quale ND è stata poggiata. Con quel che ne consegue.

In cosa consisteva questa “fase politica”?

A connotarla non credo fosse solo il manifestarsi in Italia di populismo e sovranismo, attraverso M5S e Lega, quali “contenitori dell’ira” dei variegati “ceti medi”.

In ballo era la crisi della rappresentazione politico-istituzionale della seconda Repubblica, una gabbia che chiudeva e chiude nel dominio totalitario neo-liberale l’alternarsi al governo di destra e sinistra. O, ancora più radicalmente, una crisi che segnava lo scollamento tra questa rappresentazione e la società, nel più complessivo divergere dalla democrazia del liberalismo.

Prima di officiare pubbliche esequie al M5S, visti i sommovimenti interni, attenderei un attimo. Almeno il tempo dell’autopsia a corpo freddo.

Trovo altresì che le manovre che hanno portato al governo Draghi abbiano confermato la tendenza allo scollamento dalla società delle “alternanze prive di alternativa”, proprio nel momento in cui da destra a sinistra gli viene garantita una maggioranza parlamentare ben superiore al credito concesso dall’opinione pubblica.

La procurata impotenza della democrazia istituzionale italiana della seconda Repubblica, subalterna e de-sovranizzata dalla globalizzazione nell’ordine euro-occidentale, vero motivo del distacco dalla società, ritorna a motivo della sua esautorazione, coprendone l’origine e le responsabilità.

Ciò avviene non attraverso un golpe nero, bensì bianco: il ricorso (reiterato) ad esecutivi “tecnici” di podestà europea ed atlantica. In una spirale auto-incentivante che lascia a partiti e deputazioni parlamentari (detti insieme “la politica”), conniventi e proni, la gestione delle conseguenze derivanti dalle grandi scelte d’indirizzo sopra l’Italia, in nome della sua supposta salvezza.

Si tratta delle “evoluzioni” conseguenti alla crisi sistemica palesatasi nel biennio 2007-2008 con il crack finanziario, irrisolta e confluita in quella pandemica, la quale ne ha accentuato i termini ed accelerato i tempi. Ne avevamo però visti i prodromi, con soluzioni di governo analoghe, quando si trattò di convergere a tappe forzate sulla moneta unica.

Nell’insieme, e con le dovute differenze, la situazione assomiglia più a quella determinatasi dopo il primo conflitto mondiale, piuttosto che, come vorrebbe il racconto prevalente, a quella successiva al secondo conflitto. Due atti di un’unica lunga guerra per il predominio imperiale, svoltasi nella prima metà del Novecento, conclusasi con la formazione di un blocco a tre (la triade Usa, Europa occidentale, Giappone) per opprimere e sfruttare il resto del mondo, avendo a nemici giurati il comunismo, il socialismo e le indipendenze nazionali. Proletariato, popoli e nazioni.

Nella somiglianza la novità essenziale proviene dalla sconfitta della seconda grande ondata rivoluzionaria e di liberazione nazionale, dal sopravvento del neo-liberismo che non ha comunque potuto riavvolgere all’indietro la storia sino a fare tabula rasa di tutti suoi portati. Con la sua crisi vacilla anche l’ordine del mondo su cui ha poggiato la restaurazione.

Così intesa, nel contesto del tornante storico, la “fase politica” italiana non invalida le tesi di ND, semmai le conferma pienamente. Esse, pertanto, sono da aggiornare, non da accantonare, e la ridefinizione dell’Associazione – dei suoi compiti – non comporta il ripiegamento nella sola funzione culturale, essendo svanita, nel breve lasso di tempo della sua esistenza, quella politica.

Dal suo ragionamento tranciante, Carlo trae pure due altre secche conseguenze.

La prima consiste nel dichiarare, rispetto al blocco delle alleanze popolari, quale compito prioritario e direi “assoluto”, la ri-costituzione dell’unità delle classi lavoratrici (il contemporaneo “proletariato”?), da porsi in capo a formazioni comuniste o neo-comuniste.

La seconda, che la nostra esigenza di intervenire sui problemi inerenti allo smart working ed alla gig economy, da cui il 1° seminario, essendo temi dirimenti in vista della rifondazione di un sindacato di classe, in questo alveo progettuale e pratico debbano per forza confluire, magari operando insieme alle organizzazioni sindacali di base oggi esistenti e mettendo da parte ogni velleità di interpretarli ed agirvi in chiave direttamente politica. Una chiave implicita in diverse pubblicazioni di Carlo, profondamente e giustamente critiche verso il filone dell’operaismo sfociato nella teoria della moltitudine (Negri).

In sintesi. Sul lato intellettuale: ricerca e confronto teorico-scientifico; su quello pratico: bipartizione “classica” tra organizzazione politica comunista e lavoro sindacale.

Sul classico schema nutro dei dubbi che vorrei condividere, oltre la immediata constatazione che, più volte riproposto, non ha conseguito le risultanze sperate o di successo almeno pari alle forze investite nel perseguirlo.

Della fase apertasi con la fine dei “quaranta ingloriosi” del liberal-liberalismo e della sua rappresentazione liberal-democratica, abbiamo vissuto solo il prologo ed il primo atto. Né gli svolgimenti nazionali, né quelli internazionali, depongono a favore della chiusura della fase così intesa, ossia non come una congiuntura di breve durata. La pandemia, semmai, ne ha accelerato i tempi di maturazione, evidenziando ed accentuando ogni contraddizione di tragitto.

Dei 4 fattori fondamentali posti in capo alla nascita di ND e delle Tesi riassunte da Carlo in 5 punti, opportunamente precisate da Alessandro, nulla è smentito sul piano oggettivo, se non la nostra incapacità-impossibilità soggettiva di darvi seguito nei pochi mesi trascorsi in cattività pandemica dall’assemblea tenutasi nel gennaio 2020 ad oggi.

Come molti di noi hanno osservato, le “evoluzioni” nel frattempo intervenute confermano il quadro – e le sue tendenze -, invece di smentirlo.

Consideriamo gli ultimi avvenimenti italiani.

La strategia del Presidente della Repubblica, resa evidente sin dal travagliato formarsi del primo governo Conte, dopo aver ricondotto il M5S nell’alveo europeista e nella “maggioranza Ursula” (von der Leyen), è riuscita con un’operazione pianificata, al servizio della quale ha agito il corsaro di sua maestà, il senatore Matteo Renzi, a rendere “indispensabile” la chiamata in campo di Mario Draghi, costringendo il senatore Matteo Salvini a fare quello che la componente interna alla Lega, capeggiata dal deputato Giancarlo Giorgetti, aveva in animo sin dal formarsi della “maggioranza Ursula”. I populismi di M5S e Lega sono dunque rientrati nell’ordine bipolare della seconda Repubblica. La “gabbia” dell’establishment, un “alto” che dicevano di voler combattere dal “basso”, si è chiusa alle loro spalle. Così è, ma il trasformismo non è indolore e non sarà privo di seguito.

Il governo di un banchiere centrale, sommo sacerdote della divina creazione dal nulla della moneta fiduciaria, competente per definizione ed indipendente dalla politica per acclamazione, come lo è il potere proprietario e finanziario dalla sua stessa forma di democrazia, tanto più dalla sovranità popolare e nazionale nel cui ambito la democrazia reale è concretamente esercitabile, dovrà fare i conti con una crisi che, assai correttamente, è ritenuta in diretta ed accentuata continuazione con quella sistemica apertasi nel biennio 2007-2008.

Dopo il plauso unanime dei media prevalenti (nell’in-formazione sta un grande “problema culturale”) e di quasi la totalità delle forze politiche parlamentari, già all’annuncio della composizione ministeriale della compagine e dalle prime mosse governative, mostra evidenti crepe. Uniti nel volere appropriarsi del “malloppo” promesso dall’Europa, in parte a nostro debito, si apprestano a litigare ferocemente sulla sua spartizione. La torta non è poi così grande da soddisfare l’appetito di tutti gli “europeisti”, dei vecchi quanto dei parvenu, tutti decisi a non perdersi nemmeno una briciola.

Il credito di cui gode presso l’opinione pubblica, indotto dalla sarabanda mediatica e dalla solita teoria del “male minore” di cui è lastricata la via verso il peggio, è lo stesso di quello vantato dal podestà straniero, Mario Monti da Varese. Intanto, secondo il preoccupato osservatorio Ue, “l’euro-scetticismo” degli italiani non mostra di calare. La scontata “luna di miele” durerà giusto il tempo durante il quale non dovrà assumersi il carico di decisioni “impopolari”.

Fino al semestre bianco presidenziale?

Il nuovo premier “vola alto” e disegna una prospettiva che esula il mandato ufficiale del Presidente Mattarella, al cui scranno pare destinato in sua sostituzione e continuità quale ieratico garante dell’appartenenza dell’Italia all’Europa ed al blocco euro-atlantico. Ma il governo dei suoi tecnocrati, in ammucchiata con i ministri politici posti con una mano tesa a reggere il moccolo e con l’altra a contendersi il “malloppo”, non sarà in grado di risolvere alcun grave problema del Paese. Una volta blindata e resa “sostenibile”, nel senso di assicurare il “capitale naturale ed umano” nelle oligarchiche mani, convogliando allo scopo la destinazione dei fondi europei, non credo neanche gli interessi veramente farlo. Conta invece su un “effetto trascinamento”.

E qui veniamo ai quesiti di fondo: la destinazione dei fondi europei sarà in grado di avviare una riforma controriformista (Draghi è seguace di Ignazio di Loyola) capace di guatare la crisi e trascinare l’insieme capitalistico italiano verso un nuovo sviluppo di successo? L’accelerazione verso le frontiere dell’innovazione tecnologica in salsa ecologico-ambientale, una “modernità” spacciata comunque ed a prescindere per “progresso” umano e sociale, sarà in grado di pervenire anche solo alla brutale stabilità dei “quaranta ingloriosi”?

Poiché si tratta per loro e pur sempre di guadagnare tempo, rispetto all’incalzare delle instabilità generate dai decenni precedenti, quanto tempo guadagnerà?

Scelte divisorie non di poco conto già incombono. Di contro non va sottovalutata la forza dei blocchi di potere che esprimono questo governo, alla radice del dominio della “classe internazionale”. Direi che le loro possibilità di successo sono solo parziali e di breve durata, per quanto ottenebrante possa essere la pittata di verde, il green washing tecnologico-innovativo, mediante la quale presumono di riassumere la perduta credibilità egemonica.

Venendo a mancare i “contenitori dell’ira”, non sono affatto convinto che l’ira di tutti quei settori sociali coinvolti e sconvolti dalla crisi smetterà di esistere ed esprimersi, magari trovando per strada altri contenitori. Poiché le classi lavoratrici sono frammentate e nel magma dei “ceti medi” si agita di tutto, la possibilità che questi contenitori siano più pericolosi di quelli sino ad ora apparsi ci carica di ulteriore responsabilità.

Confesso di essere frastornato dall’idea che finita una congiuntura politica – sulla fase ho già detto -, non resti che recedere per manifesta inferiorità di forze.

Ho visto con simpatia l’ascesa del M5S e l’ho pure votato, con atteggiamento però totalmente “laico” verso la “cabina elettorale”. Non mi sono mai fatto soverchie illusioni sulla sua capacità di portare il Paese oltre il liberal-liberalismo, ciò nonostante supponevo potesse aprire una breccia nella predetta gabbia della seconda Repubbica.

Alle critiche al “comunicazionismo” ed all’ammiccamento verso le classi subalterne, privo di consistenza programmatica, avevo da aggiungere tanto altro, non potendo però rimproverare al M5S di essere altro da quello che la sua derivazione sociale e culturale premetteva.

Nel Pantheon dei 5 Stelle figurano personaggi come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei, ma non si trae alcun insegnamento sostanziale dal motivo per cui sono stati duramente avversati e verosimilmente assassinati. Prevale tra le loro fila una sorta di “neo-positivismo tecnologico” – una definizione approssimativa -, accompagnato dall’idea che nelle invenzioni ed innovazioni, nella implementazione allargata dei relativi mezzi digitali ed algoritmici, risieda la soluzione dei problemi ambientali e sociali, la riforma “efficiente” dell’amministrazione pubblica e della stessa democrazia politica. Il tutto condito da abbondante meritocrazia che, peraltro, cozza in modo stridente con “l’uno vale uno”.

In questi giorni abbiamo assistito alla deriva di questa democrazia interna telematica e binaria, approdata allo scandaloso quesito “manipolatorio” posto agli iscritti sulla piattaforma Rousseau, a giochi oramai fatti da parte del gruppo dirigente.

A molti è sfuggito lo “strano” fenomeno per il quale quella democrazia aveva disincarnato la partecipazione politica, prima ancora che le quarantene da Covid-19 disincarnassero la vita sociale e lavorativa, annunciando un futuro digitale di solitudine esistenziale e politica dai tratti a dir poco inquietanti.

Tutto sembra rientrare nel vecchio alveo, eppure proprio per il sottostante diffuso malessere e malcontento, in particolare nelle regioni meridionali dalle quali è venuto il maggior consenso al M5S, la vicenda non mi pare affatto conclusa. Prestarle attenzione, tuttavia, è cosa assai diversa dal voler raccogliere qualche brandello di disillusione per proselitismo.

La mia adesione a ND scaturisce dall’aver individuato nell’Associazione un portato di idee e di progettualità politica che andavano ben oltre ogni passeggero “contenitore dell’ira”, e, nel collegare (da me definita la “corda che tira la rete”) la lotta di classe dei lavoratori alla questione nazionale ed al socialismo possibile in un mondo multipolare, per aprire un nuovo percorso su cui incamminarsi, senza presunzioni o vantare primogeniture di “nucleo d’acciaio” fondativo.

Nel Socialismo del XXI secolo ho visto una prima sintesi dell’esperienza storica che riconosce essenziale coniugare democrazia reale e sua nuova rappresentazione politica, accantonando l’illusione che statalizzazione e socializzazione dei mezzi di produzione siano sinonimi e, soprattutto quest’ultima, raggiungibile in solo passaggio rivoluzionario.

Dovendo ammettere che le rivoluzioni socialiste sin qui realizzate, anche le più radicali, si sono trascinate comunque appresso la contraddizione tra capitalismo dello Stato proprietario e possesso esercitato in quella proprietà, nella permanenza di un mercato (come insegna la scuola di Braudel, il mercato non è una forma socio-economica nata col capitalismo) pur complessivamente regolato dalla pianificazione, tanto vale ammettere che una economia mista pubblico-privata possa costituire il punto di primo arrivo e ripartenza.

Spingersi oltre risiede nella capacità-possibilità di sviluppo della partecipazione politica democratica, che, come ha sostenuto Carlo, non va totalmente “istituzionalizzata” ma lasciata fiorire e riconosciuta dalla legalità socialista all’esterno delle stesse istituzioni di governo.

Si tratta di una lunga durata, nel corso della quale vanno risolte contraddizioni sia “in seno al popolo”, sia nella distinzione tra avversari e nemici. Su questa pratica dialettica si fonda il successo o l’insuccesso dello sviluppo socialista in profondità.

La funzione teorico-culturale dell’Associazione mi pare quanto mai necessaria. Sono invece contrario a porre tutto nei limiti di questa funzione.

Con la news letter del Gruppo Comunicazione è stato fatto un passo importante verso un sistema comunicativo interno-esterno che preveda l’utilizzo delle nuove tecnologie a supporto dell’attività fatta in presenza (la politica non può essere disincarnata, né la passione affettiva disgiunta dalla razionalità) e connetta lo scambio dialogico tra le diverse funzioni.

Sottolineo che proprio lo sviluppo della funzione teorico-culturale, inevitabilmente portata a penetrare dall’interno i processi analizzati, com’è ovvio succeda in particolare a chi aderisce alla filosofia della prassi, non può che riproporre continuamente il superamento di quei limiti. È una “tensione” da cui non ci possiamo liberare, se non mortificando una parte viva di noi stessi. L’Associazione deve trovare il modo per gestire questa “tensione”, che ha iniziato a fare capolino al nostro interno.

Ciò significa contenere sia la ricerca teorico-scientifica che l’esperienza pratica, o meglio, allo stato attuale, dei lembi di conoscenza derivanti da inchieste conoscitive degli ambiti di una pratica possibile nei gangli conflittuali della società. Senza di essi non ci verrà concesso, e giustamente, nemmeno il diritto di parola per dialogare con coloro che in quegli ambiti vivono ed in crescenti pessime condizioni. D’altronde, una parte di noi in quelle condizioni è materialmente costretto, fino al punto da doversi ritirare a vita privata.

Una imposizione, quella di sottrarre tempo liberato per “fare politica”, che, a ben vedere, è la vittoria più radicale del liberal-liberalismo rispetto al trentennio precedente.

Ridefiniamo ed articoliamo lo strumento associativo inizialmente progettato, ma non amputiamolo.

Nella cattività imposta dalla pandemia, come sezione territoriale lombarda abbiamo fatto il possibile per resistere e mantenere i collegamenti. Per nutrirli abbiamo pensato, per cominciare, a 2 Seminari: l’uno che muovesse da una inchiesta conoscitiva sul lavoro a distanza e da casa, ossia di un fenomeno sotto gli occhi di tutti (accelerato dalla stessa pandemia); l’altro, dal capo opposto, che cercasse di chiarire in quali ambiti di conflittualità sociale e politica venisse a cadere la teoria della dipendenza, nella nuova “speranza” che essa prospetta. L’ispirazione proveniva e proviene dal libro di Alessandro. Che i due itinerari conoscitivi possano avere una radura di congiungimento, anche solo parzialmente soleggiata, è solo una supposizione, tutta da verificare. Ma quando si cerca, bisogna pur avere una minima immagine di quello che si vuol trovare. In questo caso è l’immagine di una nuova socialità da costruire, avendo perduta fors’anche la memoria di quella operaia delle grandi fabbriche smantellate.

D’altro canto, siamo tutti consapevoli che ricette applicative non sono derivabili facilmente e frettolosamente anche dalla migliore teoria, bensì da un lavoro più denso ed allargato.

Confesso di essere frastornato dall’idea che l’assolvimento del “compito principale”, di «ri-costruzione dell’unità delle classi lavoratrici frammentate dall’offensiva liberal-liberista», come ha scritto Carlo, possa realizzarsi a parte e disgiuntamente, pure cronologicamente, dalla posa dei primi mattoni del blocco delle alleanze popolari. Quand’anche avessimo lucidamente in testa i confini che separano le diverse componenti popolari, sulla base della individuazione di ciò che distingue la classe lavoratrice da chi è proprietario, come dice Alessandro, di una frazione di capitale seppur «piccola, periferica, subalterna (ad altre)», evitando di assumere a riferimento esplicativo la sociologia imperniata su reddito-consumo-status, nel magma dei “ceti medi”, sul piano pratico l’impresa mi pare di dubbia fattibilità.

In altri termini le dipendenze sociali, lavorative, territoriali s’intrecciano in una matassa che solo la pratica politica, le lotte ed il livelli di unità in esse raggiungibili nel vivo possono sbrogliare.

I rapporti di lavoro, sociali, nazionali ed internazionali sono stati architettati proprio allo scopo di rendere la matassa aggrovigliata, facendo tesoro ed in odio al marxismo ed alla lotta di classe (Friedrich A. von Hayek), allo stesso modo con cui furono varati i serbatoi o carri armati del pensiero (think tanks) del liberal-liberalismo, ispirandosi a Gramsci, per attuare la loro “guerra di posizione”.

Nella definizione analitica di Alessandro, derivante dalla teoria della dipendenza – direi sin dalle sue radici -, ravviso un’apertura di visione oltre il classico “operaio salariato” che condivido.

Al tempo stesso mi faccio delle domande “banali”.

Il caso della famiglia del fattorino che acquista un furgone, protagonista del film di Ken Loach “Sorry we missed you”, è reale ed emblematico. Come lo è spaesamento di cui sono vittime i suoi membri, a cominciare dalla coppia adulta. I protagonisti si chiedono continuamente, senza darsi risposta, come mai, pur avendo aderito alla soluzione loro proposta (mettersi “in proprio”), questa non li tragga in salvo.

Se la bicicletta del rider è facilmente paragonabile alla carriola con badile degli scarriolanti della bonifica tra fine Ottocento e primo Novecento, persino nella discriminatoria “chiamata al lavoro” oggi algoritmica, “il furgone” non credo possa rientrare in una frazione seppur piccola di capitale.

In preparazione del 1° seminario un compagno di Bologna mi ha inviato una news letter – scusate gli aborriti inglesismi – di Domino’s Pizza, una multinazionale del settore, in cui si ventilavano le meravigliose opportunità di guadagno offerte dalla rapida diffusione del lavoro da domicilio (lo smart working) per invitare i destinatari ad aprire una pizzeria in franchising, con consegne a domicilio, per la modica cifra di 175.000 euro (!) che, qualora non fosse disponibile, poteva essere ottenuta in prestito da una collegata “finanza agevolata”.

Il cerchio viene così chiuso. Un cerchio analogo a quello descritto da Samir Amin quando analizzò la condizione del contadino continentale reduce dal successo agricolo europeo, oggi assediato da chi compra i suoi prodotti, da chi gli vende sementi ed agenti chimici e da chi gli presta il denaro per far fronte agli anticipi. Magari lo stesso gruppo multinazionale.

Se farsi carico delle condizioni del fattorino che consegna la pizza è il primo imperativo (ovvero mettersi fattivamente dalla sua parte), non disgiuntamente va considerata la condizione comune di partenza di disoccupati, di entrambi i soggetti in questione, alla ricerca di una soluzione lavorativa e reddituale. Mi domando: poiché è evidente che il congegnato meccanismo porterà gli uni al massimo sfruttamento, in contrapposizione agli altri che ne verranno comunque schiacciati (o in larga parte esclusi con il peso del debito contratto) credendosi “imprenditori”, padroni del proprio destino e pure del lavoro di chi consegna il loro prodotto, pensiamo davvero di difendere l’operaio evitando di porci il problema politico di come attaccare e distruggere quello stesso meccanismo?

Quando poi rivolgiamo lo sguardo al variegato ed emergente mondo del lavoro da casa e a distanza, ci accorgiamo di quanto sia complesso distinguere ed operare per unire.

A spirale tanti rapporti, per grandezze e livelli superiori, sono così congegnati. Scoperchiare i processi di concentrazione capitalistica ed il ruolo soverchiante della finanza, il dominio di quello che Samir Amin chiamava gli oligopoli finanziarizzati, nonché l’utilizzo coercitivo delle nuove tecnologie di riorganizzazione dello sfruttamento, è solo il primo passo della nostra conoscenza. Per saperne di più ed ottenere un riscontro di verità sul nostro sapere, dobbiamo “mangiare la mela”, non limitarci ad osservarla dall’esterno.

Penetrando la situazione concreta, ad esempio del settore logistico, scopriremmo che il conflitto sindacale oggi esistente è lì più vivo di quanto non lo sia in altri settori tradizionali industriali, ad eccezione di quelli nelle aziende che chiudono o riducono drasticamente il numero dei dipendenti. Situazione di per sé di resistenza estrema. Il settore della logistica in espansione vede comparire la figura dei nuovi operai-facchini del magazzino fabbrica ad alta automazione, tipo Amazon. Ecco una condizione di classe da ascrivere sicuramente al compito primario. Ma come porsi verso tutto il lavoro a monte, a lato ed a valle del magazzino-fabbrica?

Allargando lo sguardo, come porsi di fronte ai cambiamenti che sconvolgono la macchina della città, gli assetti urbani e territoriali, che lasciano sul terreno più vinti che vincitori?

A questo punto ci si può chiarire cosa significhi oggi aderire ad una “guerra di posizione” piuttosto che ad una “guerra di movimento”, evitando di cadere in una disputa esegetica sul pensiero gramsciano.

Mi pare che le due “guerre” siano praticamente non disgiungibili. Sia se per “guerra di movimento” intendessimo l’adesione della nostra Associazione ad un piano di costruzione di unità popolare avulso dal compito primario dell’unità di classe, sia se intendessimo l’occupazione delle “casematte” dell’egemonia conseguibile senza muoversi di concerto con la forza dei movimenti di lotta.

A tale ultimo proposito vorrei ricordare che non solo il Pci ma anche le principali formazioni politiche d’avanguardia comuniste, allora etichettate come “extraparlamentari”, ebbero un rapporto coi movimenti di lotta “spuri” e pure operai, che definire “autoreferenziale” è un eufemismo. Ecco un passato da dissodare in funzione del presente, se non vogliamo ripetere il “già visto”, sicuro viatico alla sconfitta.

Mi sia consentita un’ultima annotazione.

Vedo l’estendersi di un singolare fenomeno, non saprei se unicamente italiano, grazie al quale abbiamo uno straordinario proliferare della critica intellettuale anti-capitalistica, espressa in mille modi e raggruppamenti (basta andare sul Web e su Sinistra in rete per capacitarsene), che non corrisponde, se non in minima misura, alla capacità pratica di tradurre il pensato in lotta sociale e politica, in conseguente capacità di creare nella lotta ambiti di unità di classe e popolari.

Sembra quasi che la dispersione ed individualizzazione a cui siamo stati condannati dal liberal-liberismo si sia impossessata delle nostre stesse menti.

Scoraggiati dall’aritmetica delle forze di cui disponiamo, possiamo decidere di recedere, così altrettanto possono tutti i raggruppamenti a noi similari, ma non faremmo che disperderle ulteriormente, invece di agire per accumularle, raggirandoci in un perenne circuito vizioso che stacca la testa dalle gambe su cui camminare.

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