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operaviva

Lotte di classe nel capitalismo avanzato

Avventure della dialettica nel lavoro di Hans-Jürgen Krahl

di Andrea Cavazzini 

l portavoce dellUnione degli Studenti Socialisti SDS Hans Jurgen Krahl r al leggio. Il 28 maggio 1968 nella Grand Broadcasting Hall dellHessisc 940x704Un teorico critico e la sua congiuntura

Questa rapida esposizione dedicata a Hans-Jürgen Krahl (1943-1970) è strettamente connessa ad altre riflessioni sviluppate in altri testi dedicati alla Germania e al movimento studentesco in generale1. In effetti, Krahl riflette sull’aporia connessa alla relazione esistente tra il proletariato e la sua coscienza (che possiamo formulare come relazione tra classe e coscienza di classe, o perfino tra strutture sociali e determinazioni politiche). Una riflessione che si incontra anche pensando alla congiuntura dell’Europa centrale e del marxismo tedesco nel periodo immediatamente precedente e immediatamente successivo alla Rivoluzione d’ottobre, alla I guerra mondiale, e al fallimento della Rivoluzione tedesca. Prima della I guerra mondiale, queste aporie riguardavano in prima battuta la contraddizione tra, da una parte il peso sociale e politico del movimento operaio tedesco, la forza e il prestigio delle sue organizzazioni, dall’altra la sua drammatica impotenza politica, la sua posizione subalterna nei confronti dello Stato imperialista, la sua acquiescenza alle ideologie conformiste, la sua impreparazione tattica e strategica al tempo della caduta del Reich. Dopo la guerra, questa contraddizione prese la forma di una distanza tra la radicalizzazione politica degli strati intellettuali verso destra e verso sinistra (che sublimò la crisi della civiltà borghese, l’espansione di una accesa, perfino apocalittica atmosfera ideologica, la formazione di uno strato di militanti preparati per l’azione rivoluzionaria professionale – diffusione di discorsi e pratiche bolsceviche, la fondazione della Terza Internazionale); e una offensiva delle masse che sembrava definitivamente bloccata a Ovest, e destinata a una stabilizzazione di lungo termine nella Russia sovietica.

Sia prima sia dopo la guerra del 1914-1918, il problema è sempre quello di una mancata corrispondenza tra le differenti condizioni non solo di una irruzione rivoluzionaria, ma piuttosto di una rivoluzione vittoriosa (con la Rivoluzione d’Ottobre a fungere da esempio paradigmatico) a Ovest, e specialmente nei paesi che rappresentavano l’avanguardia dello sviluppo capitalistico così come la traduzione delle relazioni capitalistiche in una forma-Stato adeguata.

La stessa situazione, o comunque uno schema molto simile, ricomparve negli anni Sessanta, e fornì a Krahl il materiale su cui riflettere. Le condizioni della congiuntura possono essere riassunte brevemente in questo modo: divisione della Germania; diffusione dell’insorgenza guerrigliera in Asia e America Latina; eredità critica del marxismo degli anni Venti – Lenin e Luxemburg riletti in modo speculativo da Lukács e Korsch – ora però filtrata, per le giovani generazioni, dalle aporie della Teoria Critica della Scuola di Francoforte, indirizzata con Habermas sulla via di una ricostruzione accademica della teoria sociale sommata a una legittimazione filosofica della democrazia parlamentare. In questo contesto, la SDS, organizzazione in cui Krahl spiccò come leader teorico incontestato (universalmente riconosciuto da una prospettiva filosofica come superiore a Rudi Dutschke), si trovò a fronteggiare compiti politici enormi.

Agli inizi degli anni Sessanta la SDS (Sozialistischen Deutschen Studentenbund), organizzazione giovanile della SPD, divenne il referente politico e organizzativo per intellettuali e militanti alla sinistra della SPD, quando i socialisti-democratici si preparavano a entrare nel governo2. Tuttavia, l’organizzazione studentesca si focalizzò sull’affinamento e la radicalizzazione di coscienze politiche di opposizione, sulla base di analisi sul capitalismo avanzato influenzate dal marxismo “occidentale” e dalla Teoria Critica Francofortese. Krahl e Dutschke appartenevano alla minoranza della SDS che, a metà degli anni Sessanta, propugnarono una rottura con l’attività puramente intellettuale, al fine di protestare contro gli interventi militari, in particolare la guerra del Vietnam e l’autoritarismo dello Stato e dell’università. La morte di Benno Ohnesorg (1967) e l’attacco contro Dutschke (1968) diedero il via a un vasto movimento che avrebbe finito per attrarre un vasto numero di giovani lavoratori (soprattutto durante la campagna contro Springer e le leggi dello stato di emergenza appoggiate dalla SPD).

Detlev Claussen ha sottolineato che il compito imposto alla SDS dalla congiuntura era costituito sia da un “momento di elaborazione strategica”, sia dall’organizzazione politica di un movimento sociale sempre più diviso e complesso – un compito che, chiaramente, andava oltre le sue capacità. Tra il 1968 e il 1969 la SDS fallì nel tentativo di preservare la sua unità organizzativa in merito a forme differenti e localizzate di attivismo, e di sostenere la mobilitazione studentesca. La SDS si dissolse definitivamente nel 1969. Gli scritti di Krahl puntano a elaborare teoricamente una linea politica in grado di orientare una strategia complessiva per il movimento contro la struttura totale delle relazioni sociali; un compito immenso, la cui impraticabilità è stata evidenziata dalla morte brutale del giovane filosofo.

Il progetto di Krahl, che andrebbe compreso come opposizione esplicita all’impresa habermasiana, è consistito in una “ricostruzione” critica della teoria marxiana e marxista, che sarebbe stata allora in grado di articolare una strategia politica per il capitalismo avanzato occidentale, uno sbocco politico per il movimento studentesco. Il pensiero di Krahl si articola quindi intorno a tre problematiche: a) il problema delle forme della coscienza generate dal capitalismo avanzato, che è anche il problema delle forme delle coscienze rivoluzionarie in grado di fare breccia nelle condizioni della subordinazione soggettiva; b) il problema della struttura sociale del capitalismo avanzato e le attuali condizioni del lavoro e della produzione; c) il problema delle forme organizzative adeguate alle società a capitalismo avanzato e un bilancio delle impasse in cui si trovano le rivoluzioni comuniste.

 

Soggetto e rivoluzione

Presenterò le posizioni di Krahl a partire da uno dei suoi ultimi testi, Produzione e lotta di classe (pagine 415-438 dell’edizione italiana), in cui egli discute direttamente Marx e le mancanze del suo lavoro teorico – approcciato tramite le lenti di un confronto con la critica habermasiana di Marx. Più di una volta, nel suo lavoro Krahl definisce la teoria che sta indagando, le cui figure rappresentative sono Marx, Lukács, Korsch, Marcuse e i primi Adorno e Horkheimer, come la “conoscenza delle relazioni sociali dal punto di vista della loro trasformabilità”. La teoria critica è immediatamente presentata come portatrice di una esigenza pratica, formulata tramite la sua stessa mediazione con la conoscenza di una realtà sociale. Dunque, compito della teoria è articolare la negazione determinata di ciò che è conosciuto, e nell’atto stesso di questa conoscenza perfino di organizzare le condizioni del passaggio in direzione della negazione pratica del presente stato di cose. Di conseguenza, la determinazione – tramite la teoria – della necessità strutturale del movimento soggettivo come surplus necessario del faccia a faccia con la struttura sociale è un momento cruciale della costruzione teorica.

Secondo Krahl, una lacuna decisiva in Marx è costituita dall’assenza di una teoria della rivoluzione proletaria – egli sottolinea il silenzio di Marx riguardo le forme possibili della rivoluzione dopo la caduta della Comune di Parigi (e quindi nel corso della lunga notte delle rivoluzioni alla fine del XIX secolo – una lunga eclissi che dovrebbe essere esaminata più da vicino…)3. Ma questa mancanza è sintomo di una lacuna ancora più fondamentale: stando a Krahl, Marx non ha mai articolato la critica dell’economia politica – come analisi demistificatoria delle forme delle false coscienze indotte necessariamente dalle relazioni capitalistiche (feticismo delle merci, l’apparente neutralità della tecnologia e della divisione del lavoro, la libertà del soggetto come soggetto di diritto e scambio…) – con il materialismo storico – come analisi dei tempi, condizioni e modi della lotta di classe (crisi, rivolte, rivoluzioni…)4.

Questa mediazione mancante tra il soggettivo e l’oggettivo determina l’impossibilità di pensare la rivoluzione come un atto di auto-determinazione e auto-emancipazione del proletariato – una mossa verso il superamento dell’eteronomia soggettiva inerente alla vita sociale delle classi sfruttate. Secondo Krahl, Marx compie un passo falso nel rappresentare come trascendentale una situazione storica contingente e determinata, trasformandola involontariamente in una legge storica. In breve, Marx feticizza i singoli eventi di una congiuntura, e li trasforma in una struttura a priori. Marx rimane incapace di indicare e analizzare le condizioni soggettive delle rotture rivoluzionarie – condizioni che, per Krahl, hanno sempre una doppia determinazione: coscienza di classe e (auto)-determinazione organizzativa. Il proletariato mostra la sua capacità di agire tramite le sue stesse forme di organizzazione nel momento in cui fronteggia l’eteronomia.

Per Marx, tuttavia, le rivoluzioni non consistono nelle azioni autodeterminate del proletariato: sono sempre già presenti, si incontrano come date perché scatenate dalla borghesia nella lotta che ella continua a intraprendere per la libertà economica e il potere politico. Il proletariato trasformerebbe semplicemente le rivoluzioni borghesi in rivoluzioni proletarie: la coscienza di classe proletaria, con un contenuto propriamente rivoluzionario e proletario, emerge solo dall’inganno, in relazione ai tradimenti e compromessi che la borghesia porta avanti contro la sua rivoluzione per preservare i suoi privilegi. La coscienza di classe si riduce al risultato passivo di una pedagogia storico-politico piuttosto meccanicistica, scandita dall’alternanza “naturale” del ciclo rivoluzione-tradimento proprio delle lotte borghesi: la genesi della coscienza proletaria non è altro che il frutto dello sviluppo dello spirito del mondo sociologizzato5 – un prodotto di pura eteronomia storica, in aperta contraddizione con un principio cruciale del pensiero marxista: l’emancipazione degli uomini implica il controllo sulle loro stesse esistenze. La rivoluzione consiste giustamente nel “fare la storia” attraverso atti coscienti di autodeterminazione6– nessun processo oggettivo ed eteronomo può fornire una coscienza teoricamente e praticamente critica di qualsivoglia eteronomia.

Marx non è riuscito a pensare la rivoluzione come un movimento soggettivo e quindi una dialettica della riappropriazione delle condizioni dell’esistenza storica: per lui, il proletario rimane soggetto alla falsa coscienza perfino nell’atto che per eccellenza dovrebbe segnare una rottura con questa soggezione. La critica dell’economia politica può analizzare le condizioni sociali che prevengono la formazione di una coscienza di classe7 – mostra la determinazione del pensiero a partire dalla struttura sociale. Ma non è in grado di mostrare l’inversione possibile di questa relazione determinante: come può la coscienza riuscire a fuggire da questa determinazione e generare una contro-determinazione, che vedrebbe la struttura sociale trasformata da una coscienza liberata?8. Per produrre una nozione valida di coscienza di classe, Marx avrebbe dovuto indicare la possibilità di una determinazione consapevole dell’essere sociale9 – l’analisi del feticismo si ferma a uno studio dell’assoggettamento, e in assenza di qualsiasi mediazione, la problematica della soggettivazione elude la teoria marxiana della rivoluzione. Ma dove cercare questa mediazione? Essa deve rappresentare l’annodamento di soggetto e struttura, dell’istanza critica e dell’oggettività delle forme sociali, e deve permettere un superamento della relazione esteriore tra coscienza critica e sviluppo oggettivo dell’essere sociale che ne determina e sviluppa le forme soggettive.

 

L’eccesso del soggetto

La mediazione tra la teoria delle forme storiche e la teoria dell’azione rivoluzionaria avrebbe dovuto mostrare non solo la possibilità, ma l’efficacia reale dell’eccesso del soggetto nei confronti delle determinazioni strutturali. Questo eccesso è già presente implicitamente nella concezione marxiana del lavoro – lavoro come mediazione della sfera esterna del soggetto (la critica che analizza astrattamente il sistema sociale dato, come un a priori teorico) con la sfera interna, che considera il soggetto come una totalità determinata dalla sua seconda natura, le relazioni di produzione. Come una mediazione nella quale il soggetto non sarebbe più apparso come diviso tra una esternalità astratta e una internità feticizzata, il concetto di lavoro è esso stesso attraversato da aporie. Secondo Krahl, il concetto di lavoro come creatore di valore rimane interno al punto di vista del capitale10; si tratta di una determinazione analitica della totalità capitalista e figura solo in quella totalità nella misura in cui esso la pone.

Ma Marx mostra, in maniera variabile, una nozione differente in relazione a questo concetto di lavoro come una forza e un momento interni al capitale, in cui il lavoro è determinato come un “posizionamento autonomo di una finalità” (Arbeit als selbstgesetzten Zweck), “auto-posizionamento” (Selbstsetzung), una “oggettivazione” (Vergegenständlichchung), e “auto-determinazione” (Selbstsetzung) del soggetto, cioè come un atto di liberazione del soggetto nel e tramite il suo divenire-altro da sé11. Questo altro concetto di lavoro come una “categoria dell’emancipazione” permetterebbe una comprensione del lavoro libero, una liberazione delle forze collettive dell’umanità, che apparirebbero oggettivamente in forme reali e quindi potrebbero essere godute nella loro stessa auto-mediazione, tramite l’esteriorità.; il limite, il momento della necessità che questo tipo di attività rappresenta nei confronti del soggetto, che si trova immediatamente soggiogato, sarebbe ora un limite assunto liberamente, assunto come un passaggio nell’esteriorità dell’azione libera, e che non farebbe più alcun riferimento alla necessità imposta dalla dominazione, ma piuttosto al processo di auto-formazione dell’essere umano tramite il suo agire oggettivo.

Ci troviamo qui ancora dentro l’orizzonte speculativo dei Manoscritti del 1844. Tuttavia, Krahl non sta cercando una difesa umanista per la pratica politica, ma una articolazione tra l’analisi delle forme della produzione capitalista e la determinazione di una soggettività politica antagonista. Per questa ragione si focalizza sulle aporie del concetto di lavoro: il suo obiettivo è l’orizzonte del capitale, identificato come la critica marxista dell’economia politica come una teoria della sussunzione della società da parte del capitale. Krahl punta a sviluppare immanentemente nel concetto di lavoro “una mediazione fra momenti che producono capitale e momenti che distruggono capitale (negazione soggettiva)”12. Ciò che va determinato è l’ancoraggio di questo rifiuto soggettivo nella struttura della società: questo rifiuto, questo antagonismo soggettivo, può trovare una articolazione solo nella materialità delle relazioni sociali tramite un eccesso interno alla struttura, che rappresenta l’irriducibilità del lavoro a mero fattore della produzione capitalistica.

Questa tematica altamente speculativa assume in Krahl uno status pienamente politico (peraltro questo è il caso di ogni teorico immerso nella tradizione dell’idealismo tedesco, sola tradizione politico-speculativa della modernità), come chiaramente mostrato nei commenti che seguono. La critica dell’economia politica, mentre fallisce nell’incorporare questo valore emancipatorio nel concetto di lavoro, finisce per rendere impossibile qualsiasi mediazione tra le “categorie fondamentali del capitalismo, vale a dire, operaio salariato, capitalista e proprietario fondiario” con le classi nel significato politico del termine13. La determinazione esclusivamente oggettiva delle classi, che considera solamente la loro posizione nella struttura delle relazioni di produzione, ha finito da una parte, per attribuire una primazia politica al proletariato industriale, e dall’altra parte ad escludere qualsiasi elemento che si riferisse a una contraddizione interna nelle forme della soggettività dai criteri di identificazione del soggetto antagonista14.

L’esistenza di “momenti di auto-realizzazione” all’interno delle forme strutturali della “produttività reificata” risale a una contraddizione nella struttura che emerge in un punto preciso dove la struttura dei rapporti di produzione è estesa nella costituzione soggettiva. In altre parole, i rapporti di produzione incontrano un momento di crisi in una contraddizione della coscienza, una spaccatura soggettiva che non è in nessun modo assimilabile a un processo socio-economico puramente oggettivo, pur essendo interno alla forma determinata della dinamica capitalista. L’intima divisione del concetto di “lavoro” esprime questa mediazione tra oggettività sociale e soggettività politica, per designare la contraddizione tra il dispiegarsi delle condizioni di emancipazione e le forme della soggezione che sono ancora consustanziali a questo dispiegarsi. Questo punto sarà più chiaro in riferimento alla questione del lavoratore collettivo e l’intellighenzia tecnico-scientifica. Per il momento, dobbiamo approfondire il nostro studio del modo in cui Krahl utilizza il concetto di lavoro.

 

Il lavoro e il suo doppio volto

Ciò che consente di superare l’opposizione, caratteristica del pensiero borghese, tra il lavoro come costrizione ed il tempo di svago come libertà, è la doppia natura del lavoro – vettore di emancipazione e momento interno al capitale. Il pensiero borghese, conoscendo solo il lavoro capitalista, cioè il lavoro immediatamente determinato da rapporti informati dal dominio di classe, non può concepire il “regno della libertà” altrimenti che come uno spazio al di là di ogni costrizione, come regno di auto-realizzazione “pura” ed in qualche modo de-materializzato o come l’auto-darsi di un’attività libera svincolata da qualsiasi mediazione con l’oggettività.

Marx consente di andare oltre questa separazione tra lavoro ed emancipazione – ancora una volta, la traduzione politica di questi passaggi decisamente speculativi è immediata: l’“organizzazione di classe” è il solo parametro che consente di giudicare il valore di auto-realizzazione della produttività reificata15; detto altrimenti: se la contraddizione interna al lavoro fonda il legame tra rifiuto soggettivo e rapporto sociale, è vero anche che nella società capitalistica il lavoro non può realizzare la propria natura contraddittoriamente emancipatrice che per tramite dell’organizzazione politica di quello stesso rifiuto di cui il lavoro stesso è il luogo di esistenza.

L’attività rivoluzionaria consiste precisamente nell’atto di auto-realizzazione che prende luogo nelle virtualità aperte dalla contraddizione interna al lavoro ed attualizza la possibilità custodita da quest’ultimo di non essere un mero spazio di eteronomia. Tale contraddizione è quella che consente in linea di principio alla soggettività rivoluzionaria di non essere velleitaria del tutto; ma, d’altro canto, solo l’attività rivoluzionaria reale è in grado di attualizzare la teleologia liberatrice dell’attività lavorativa al di là della forma dominata che essa ha all’interno del capitalismo.

 

Contra Habermas

Questo serrato gioco di determinazioni dialettiche viene eluso completamente da Habermas nel momento in cui egli “istituzionalizza” filosoficamente la separazione tra lavoro ed emancipazione attraverso la dicotomia tra lavoro ed interazione. Habermas rimprovera a Marx di avere impoverito l’agire umano riducendolo al lavoro, che il filosofo francofortese intende come semplice attività tecno-strumentale16. Habermas propone, al contrario, di pensare l’agire attraverso la distinzione tra, da un lato lavoro “il lavoro, come rapporto soggetto-oggetto proprio allo scambio organico tra uomo e natura”, e, d’altro lato, “ l’interazione, il rapporto intersoggettivo degli individui socializzati, dei soggetti individuali che intrattengono relazioni di reciprocità”17; secondo Habermas, la logica dell’interazione consente appunto di non ridurre la praxis sociale alla mera azione strumentale. Krahl ribalta contro Habermas precisamente il rimprovero di impoverire l’agire umano: Habermas distinguerebbe due logiche “pure” dell’agire – feticizzando così due modalità della praxis che divengono così due miti esattamente come le “facoltà” della filosofia trascendentale18.

Questo regresso ad un punto di vista kantiano, tutto rivolto a sostituire l’unità astratta del genere umano alle “profondità dell’anima” come operatore della sintesi delle differenti potenzialità del soggetto, tralascia proprio il fatto che la costituzione delle potenzialità e delle forme dell’azione ha luogo dentro ed attraverso la struttura dei rapporti sociali19. Habermas sfigura il pensiero di Marx: ciò che le Tesi su Feuerbach intendono per gegenständliche Thätigkeit non è in alcun modo riducibile all’agire strumentale, alla logica dell’operazione tecnica. La praxis sociale oggettiva, che Marx specificherà in seguito come “produzione” consiste in due elementi: lo scambio organico e la divisione del lavoro in quanto momento strutturale delle relazioni sociali che sono la condizione dello scambio organico. Dunque, il concetto marxiano di produzione, lungi dal poter essere contrapposto all’interazione sociale, articola il rapporto alle “cose” e agli “strumenti” sui rapporti tra gli attori della pratica sociale – i rapporti tra “soggetti” divengono pensabili come rapporti oggettivi per il fatto di venire mediati dalle relazioni di produzione, il cui lato secondo è appunto quello dello scambio organico.

Habermas, al contrario, non riesce a pensare la materialità intrinseca ai rapporti tra gli uomini, in quanto non può articolarla allo scambio organico grazie al concetto globale di “produzione”. L’interazione habermasiana “riduce i rapporti sociale alla semplice azione linguistica”20; la pratica politica tende, di conseguenza, a ridursi al modello del parlamentarismo21. Nel suo primo libro, Strukturwandel der Oeffentlichkeit, Habermas indica nella sfera pubblica parlamentare le garanzie giuridiche e nell’opinione pubblica illuminata tutte le promesse di emancipazione; nelle sue opere successive, egli metterà in atto un prolungamento “utopico”22 di questo modello ed identificherà la società futura, regolata razionalmente, con lo spazio di un dialogo libero da ogni rapporto di dominio (herrschaftsfreien Dialog). Finirà così per ridurre la “prassi rivoluzionaria”, dapprima a “critica dell’ideologia”, poi ad “attitudine riflessiva”, e infine ad “azione linguistica” (der revolutionäre Praxis auf Ideologiekritik, Reflexion und schließlich sprachliches Handeln reduziert).

Secondo Krahl, Habermas rimane prigioniero delle rappresentazione ideologiche “a-croniche” dell’Illuminismo borghese (Habermasens Entmaterialisierung revolutionärer Praxis der Tendenz nach zum sprachlichen Handeln revoziert anachronistische Vorstellungen der bürgerlichen Aufklärung) – come tutti i marxisti “occidentali” (e come lo stesso Marx), attento ai rapporti conflittuali che intercorrono tra il comunismo con l’eredità dell’umanesimo borghese, Krahl pensa che le forme della civiltà borghese contengono delle anticipazioni dell’emancipazione; ma non ci si potrà riappropriarsi del loro universalismo contraddittorio senza tenere conto che proprio tale universalismo è stato soppresso dallo sviluppo capitalista, e dunque della necessità di lavorare ad una negazione determinata dell’universalità borghese. Questa dialettica giocherà un ruolo nelle analisi portate avanti da Krahl riguardo alla formazione del lavoratore collettivo ed alla sussunzione reale al capitale da parte della totalità del lavoro sociale.

Concludendo a proposito della critica di Krahl ad Habermas, basterà ricordare le sue osservazioni a proposito dell’incapacità del filosofo dell’interazione a far entrare nella sua teoria – puramente formale, come la sua nozione di emancipazione – le condizioni storiche del capitalismo avanzato (rimprovero già implicito nella critica della feticizzazione trascendentalizzante dei modelli dell’agire): Habermas non capisce che la logica dell’ottimizzazione tecnica e dell’azione strumentale non sono generiche facoltà dello spirito umano, ma un fenomeni che hanno luogo nella forma sociale capitalistica , non appena ogni attività particolare viene organizzata e contabilizzata come “caso particolare” del lavoro in generale.

Non è dunque Marx, ma il capitalismo, che tende a trasformare ogni forma di agire in azione ottimizzabile, valutabile esclusivamente secondo la logica della valorizzazione del capitale. Questo stato di cose, che è la situazione storica del capitalismo avanzato, si ripercuote naturalmente sulle possibilità di esistenza di una sfera pubblica liberata attraverso l’auto-trasparenza normativa del linguaggio. La riduzione del comportamento linguistico a dei criteri strumentali, burocratici o puramente tecnici, rende impossibile conferire al linguaggio un ruolo primario al fine dell’emancipazione23 – come ogni attività umana, il linguaggio deve in primo luogo venire liberato dalla sua specifica sussunzione alla logica del capitale. Sublimando le dicotomie del pensiero borghese, Habermas rende impossibile pensare un’emancipazione interna alla produzione materiale, impedendo di riconoscere il segreto della dominazione che marchia i rapporti “liberi”, puramente simbolici.

 

Costituzione

La critica della dicotomia tra lavoro ed interazione consente di definire il concetto di Konstitution. Secondo Krahl, la costituzione consiste nella genesi delle modalità del pensiero – conoscenze., ideologie, ragion pratica, arti, etc. – attraverso ed all’interno la sintesi originaria che si opera nella totalità sociale. Le forme della soggettività si modellano a partire dal modo in cui la società organizza le sue relazioni interne che sono sempre e necessariamente allo stesso tempo relazioni tra portatori di ruoli sociali e relazioni tecno-economiche.

Costituzione è dunque l’unità tra la genesi delle forme del soggetto e la riproduzione di forme specifiche della socializzazione della società – unità di soggettivazione e socializzazione, quindi: divenire soggetto della “sostanza” della struttura sociale; senza dimenticare che questo processo di divenire-soggetto non è affatto identico alla liberazione dall’eteronomia sociale. Il divenire-soggetto della “sostanza” (la “seconda natura” che è la società) è dapprima assoggettamento alle leggi della sostanza, della totalità sociale naturalizzata: il soggetto emerge come determinato dai rapporti sociali, e niente affatto come libero dai rapporti di eteronomia – questo è il punto di vista della critica dell’economia politica, che la Teoria Critica francofortese ha sviluppato in primo luogo per l’analisi del fascismo, e poi del capitalismo avanzato. La teoria critica ha però, per Krahl, ridotto la costituzione (il “divenire-soggetto”) al semplice assoggettamento: ha analizzato correttamente la determinazione delle forme di soggettività da parte della totalità ri-naturalizzata dei rapporti capitalistici, ma non è riuscita a mostrare la divisione in classi di questa totalità24.

Tale divisione è il motivo ultimo dell’incompiutezza della totalità sociale, della sua incapacità di chiudersi su sé stessa attraverso un (auto-) sintesi totale e senza resti – la genesi delle forme soggettive non può essere univocamente coerente con la legge dei rapporti sociali poiché tali rapporti sono conflittuali, si fondano su una divisione necessaria che riproducono inevitabilmente dentro ed attraverso il processo di socializzazione. La soggettività non è dunque mai identica all’assoggettamento – in quanto emerge da una sintesi sociale aperta, essa contiene virtualmente la possibilità di una costituzione antagonista, di una sintesi sociale e produttiva diversa; in breve, si tratterebbe di far entrare nella Teoria Critica le mutazioni strutturali del proletariato e le possibilità determinate dalla sua organizzazione.

La questione dell’organizzazione è, per Krahl, decisiva per la teoria della costituzione: dispiegamento (e dunque anche esteriorizzazione/oggettivazione) di questo in sé che è la divisione strutturale della totalità sociale, l’organizzazione politica del proletariato è il luogo principe di una costituzione alternativa del legame tra l’oggettività e la/e soggettività socializzata/e. L’organizzazione è il luogo possibile di una sintesi diversa nella quale nuove forme di socializzazione, di produzione e di pensiero – tutta una nuova costituzione sia dell’oggettività sociale, dei rapporti sociali oggettivi, e delle forme soggettive che vi si articolano – sono concretamente sperimentate25. Sebbene la sottomissione del proletariato alla sintesi capitalistica (socializzazione dei lavori isolati attraverso l’astrazione della forma-valore) continui a ripercuotersi sulla costituzione organizzativa, il superamento del lavoro astratto e dell’isolamento degli individui atomizzati che l’organizzazione del proletariato in lotta ha già da sempre cominciato a formare al suo interno rende possibile l’apparizione di nuove forme di pensiero, che non corrispondono alla dicotomia borghese tra lavoro-eteronomia e piacere-emancipazione, tra lavoro ed interazione, ma che già da ora cominciano a delineare le possibilità dell’agire di fronte alla sua miseen- forma capitalistica.

La Teoria Critica è stata incapace di trattare questo concetto di organizzazione a causa dell’assenza di una teoria delle classi in quanto rappresentanti, allo stesso tempo, momenti interni al capitalismo e portatori virtuali dell’impossibilità per il capitalismo di totalizzarsi26. La Teoria Critica ha appreso dall’esperienza del fascismo (e dello stalinismo) il sospetto nei confronti di ogni prassi collettiva, considerata come necessariamente destinata a far regredire l’autonomia dell’individuo all’eteronomia di massa. La Scuola di Francoforte rimane insomma al punto di vista nostalgico nei confronti delle libertà dell’epoca borghese – libertà che rimangono astratte (il che non significa “false” o “fittizie” ma piuttosto “immediate” nel senso hegeliano, cioè limitate per il fatto di identificarsi con una posizione non mantenibile, o almeno non generalizzabile, in una società di classe): secondo Krahl, la massificazione, che è una forma di integrazione dei proletari alla totalità capitalista, appare come un destino solo se si persiste nell’identificare il proletariato con i lavoratori della grande industria (ed è per questo che i teorici critici superstiti di Weimar hanno vissuto senza speranza e con delusione il consenso al’hitlerismo ed allo stalinismo, che certamente ha mobilitato senza però avere alcun valore emancipativo). Essi dimenticano così del tutto i cambiamenti della funzione e della struttura delle classi operaie: la questione della scienza come forza produttiva diretta, la mutazione dei rapporti tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e dunque l’insieme delle questioni legate alle trasformazioni del lavoro sociale totale, del Lavoratore Totale, nel quale ha luogo la sintesi costituente le forme dell’oggettività sociale e delle soggettivazioni che vi corrispondono. L’analisi di queste ultime è indispensabile per poter apprezzare le forme possibili dell’organizzazione rivoluzionaria nel capitalismo avanzato27.

 

Problemi dell’organizzazione

Krahl lega a questa riflessione sull’organizzazione la questione delle forme del lavoro contemporaneo e delle sue capacità emancipative. In primo luogo, si tratta di criticare il modello organizzativo leninista e kominternista. Negli appunti a riguardo di lo Stato e la Rivoluzione di Lenin, datati primavera 1968, Krahl critica la validità universale del modello leninista di partito-sintesi. Nel contesto della Russia zarista, l’organizzazione bolscevica rappresenta la “forma fenomenica efficace della mediazione della coscienza, della volontà e dell’azione delle classi sfruttate”28; la sua efficacia non deve essere intesa esclusivamente in senso militare: la disciplina interna di un partito che trascende la contingenza di una società dispersa ed “irrazionale” consente infatti di sviluppare, al livello dei militanti, delle forme di socialità e di coscienza in rottura con le forme sociali eteronome: il Partito leninista assicura una sintesi sociale che costituisce delle forme soggettivo-oggettive di interazione qualitativamente superiori alle forme di vita tradizionali della Russi autocratica.

Eppure, l’applicazione meccanica ed autoritaria di questo modello, tramite l’Internazionale, ad ogni situazione specifica mantiene del modello originario esclusivamente una divisione rigida del lavoro organizzato attorno ad una centralizzazione assoluta, e che cancella completamente quelle “relazioni di solidarietà tra compagni” che compensano e sostengono allo stesso tempo la coercizione necessaria per condurre una lotta efficace29. In altre parole, l’esportazione del leninismo finisce per essere da ostacolo all’organizzazione come luogo di una “costituzione” alternativa di forme sociali e di forme di soggettività. Infatti, le condizioni storiche che hanno portato alla costituzione dell’organizzazione leninista sono indissociabili tanto dai suoi benefici che dai suoi limiti. L’interrogazione di Krahl si rivolge alla celebre funzione del partito d’avanguardia, che consiste nel “portare la coscienza di sé alle masse”, le quali sarebbero, in sé, portati ad una spontaneità disorganizzata: determinare il Partito come organo di una “dittatura di educazione rivoluzionaria” (p.212) dipende dall’esistenza di una società spezzettata ed arretrata, che non ha ancora sviluppato al proprio interno le condizioni di base per l’autonomia individuale e collettiva30. Ora, queste condizioni non si riducono, per Krahl, alla crescita economica o allo sviluppo industriale e tecnologico: esse riguardano prima di tutto ciò che si potrebbe definire lo statuto sociale dell’intelligenza. La centralizzazione e la separazione del Partito dalle forme sociali sono necessaria per la costruzione in vitro, con dei mezzi “artificiali”, di una coscienza di classe che non potrebbe svilupparsi autonomamente in una società sempre eccessivamente “natural”. Krahl rifiuta esplicitamente la giustificazione della struttura del Partito leninista quando essa si fonda solo sull’urgenza di scontrarsi con l’apparato repressivo dello Stato: questo scontro non può bastare a spiegare ed a legittimare le pratiche del centralismo autoritario come adeguato alla situazione russa. Infatti, Krahl ricerca qui un legame tra, da un lato l’organizzazione bolscevica dell’attività illegale e della presa del potere – nella quale il momento decisivo è ovviamente lo scontro con l’apparato della violenza statuale – e dall’altro lato il processo di costruzione delle condizioni del socialismo, in cui la questione che si pone è prima di tutto quella della capacità delle strutture sociali post-rivoluzionare di svilupparsi nella direzione di un superamento dello Stato e dei rapporti capitalistici senza dover ricorrere ad una violenza esteriore – o almeno di un modo di superare tale dualismo (una dittatura del proletariato necessariamente portata ad auto-abolirsi).

Questo avvicinamento tra centralismo e situazione russa dimostra essenzialmente che la Russia della congiuntura rivoluzionaria non era che appena alla fase dell’accumulazione originaria, cioè in una situazione in cui la seconda natura capitalista è scarsamente affermata in rapporto alle relazioni sociali comunitarie, personali, tradizionali, etc. È solo a partire da questa constatazione che si può apprezzare la funzione della forma-partito bolscevica: ciò che è centrale non è la costituzione di un apparato incaricato di organizzare la presa violenza del potere, ma il trasferimento della divisione del lavoro propria di questo apparato para-statuale alla forma politica del processo generale della costituzione di rapporti sociali qualitativamente differenti31. Ora, questo trasferimento era inevitabile nella situazione della Russa nel 1917: la forma sociale russa era presa in un doppio processo di dissoluzione delle strutture sociali feudali/comunitarie, e di costruzione altalenante di rapporti capitalistici attraverso l’accumulazione originaria. Ma l’accumulazione originaria implica la violenza statuale diretta come condizione dell’emergere di nuove forma capitalistiche:

Attraverso l’esercizio della violenza extraeconomica, lo Stato riveste la funzione economica di indurre le masse (uscite dalla dissoluzione delle comunità pre-esistenti), destinate alla proletarizzazione, a interiorizzare (…) le norme del lavoro capitalista : il suo compito consiste nell’assicurare la produzione di plus-valore attraverso lo sviluppo di un surplus del tempo di lavoro, e di garantire che lo scambio tra capitale e lavoro si svolga senza ostacoli, nascondendo al contempo il rapporto materiale di violenza immanente allo scambio attraverso la forma del contratto ed il diritto privato32.

Ora, secondo Krahl, la cui intera riflessione mira a pensare le condizioni di una rivoluzione al cuore del capitalismo avanzato, la coercizione statuale e l’incorporazione violenza delle norme della seconda natura capitalista, rappresentano dei momenti indispensabili e progressivi; si capisce quindi la necessità per il partito Bolscevico al potere di far proseguire il processo di accumulazione delle condizioni, non più del capitalismo, ma ormai del socialismo stesso. La struttura del partito d’avanguardia può prendere il posto e divenire un’alternativa efficace di uno Stato assolutista in quanto l’organizzazione leninista mira anch’essa a produrre una socializzazione delle pratiche attraverso l’instaurazione di un disciplinamento centralizzato delle prestazioni individuali.

 

Lo stato moderno e i suoi avatar

In condizioni pre o proto-capitaliste, una disciplina pedagogica autoritaria è la sola condizione della libertà. Bisogna tuttavia sottolineare che l’argomentazione di Krahl va ben al di là della sola problematica dello sviluppo economico considerato in qualche modo come un fenomeno naturale – essa investe la questione dei rapporti sociali come una totalità di relazioni, così come quella della costituzione soggettiva che è legata a esse: la sussunzione dei rapporti sociali alla disciplina della realizzazione del profitto capitalista dev’essere giudicata alla luce dell’apertura di possibilità, per i soggetti, di accedere a un grado superiore d’autonomia.

Ora, la disciplina capitalista, dapprima imposta dalla centralizzazione statale, ha come effetto di dissolvere le condizioni di vita miserabilmente limitate delle comunità autosufficienti, l’isolamento reciproco degli individui e delle forme di attività, la sottomissione delle capacità intellettuali all’inerzia ripetitiva delle tradizioni e degli idiotismi, e di iscrivere ogni relazione sociale in un sistema universale d’interdipendenze – ciò che, beninteso, corrisponde ad una nuova forma di eteronomia (a partire dal fatto che questa interdipendenza è realizzata grazie alla generalizzazione della forma-merce che connette le differenti attività sotto la forma di valori di scambio): una forma che si tratta di rovesciare attraverso una pratica che ne sia all’altezza.

Un punto resta implicito in Krahl – la particolarità “naturale” delle attività pre-capitaliste ha l’effetto d’inibire lo sviluppo delle potenze intellettuali dell’umanità, nelle quali e attraverso le quali gli uomini accedono alla forma più compiuta d’autonomia – qui viene interamente ripreso il concetto di soggetto elaborato dall’idealismo tedesco. Le “potenze intellettuali” sono le facoltà di astrazione e di generalizzazione che, in una società divisa in classi, si concentrano soltanto dal lato dei dominanti, i quali dispongono dunque delle conoscenze necessarie per organizzare e orientare l’insieme delle pratiche sociali e di costruire (-si) in esse una vita degna e un arricchimento interiore: ciò significa inoltre che il potere delle classi dominanti è già da sempre il potere delle generalità, la padronanza dell’Universale (della parola, del calcolo strategico, del piano…).

Lo sviluppo dello stato moderno concentra queste potenze in un apparato artificiale, separato dalle comunità particolari e dalle gerarchie naturali date come tali nella società – lo Stato moderno mostra queste potenze come distinte dai poteri immediati delle classi dominanti. Inoltre, lo Stato moderno impone questa potenza d’astrazione all’insieme del corpo sociale per il suo scopo di razionalizzazione dei rapporti d’obbedienza, sia in quanto costruzione sistematica della sua potenza materiale come apparato distinto dai poteri particolari-privati, sia in quanto unificazione, attraverso la Sovranità, della legittimità politica. Lo stato moderno estende dunque all’insieme delle pratiche sociali l’efficacia immediata dell’astrazione, ma non lo può fare se non sotto la forma di una separazione violenta nei confronti di una società sempre divisa in classi – L’universale s’oppone astrattamente alle particolarità e punta a sopprimere la loro autonomia per affermarsi nella sua purezza trascendente. L’azione dell’Universale come potenza della società non si realizza come unità mediata dell’universalità e delle pratiche sociali effettive, ma esiste come potere esteriore che s’impone su di esse. Questa implicazione di un momento d’universalità in tutte le forme della vita sociale contiene certamente un momento d’emancipazione, ma che, al posto di avvenire nella mediazione dell’universale con la molteplicità delle forme di vita, non può che apparire come negatività dell’emancipazione di fronte all’eteronomia contenuta in quest’ultime33.

L’autonomia, la soggettività emancipata, non è pensabile qui se non come separata dall’esistenza immediata dei soggetti che riproducono la loro propria esistenza particolare e che non accedono all’autonomia se non per mezzo di una disciplina dell’astratto di fronte alla quale la loro forma determinata d’attività oggettiva – mediata dalla particolarità delle condizioni oggettive – non può che apparire come il momento puramente negativo della particolarità immediata. Poiché la determinatezza oggettiva delle forme d’attività è sempre eteronoma, l’attività realmente universale non può che essere pensata come non-oggettiva – pensiero puro, o dover-essere infinito34.

La teoria hegeliana dello Stato e la teoria kantiana della libertà dispiegano la cattiva astrazione dell’Universale, culmine della coscienza universalista borghese35. Lo stato hegeliano, in quanto effettualità dell’Idea, ha per scopo la realizzazione della libertà e l’instaurazione di relazioni sociali non violente precisamente attraverso gli strumenti della violenza e della coercizione36; in Kant la libertà non esiste se non al di là dei bisogni e delle tendenze spontanee del soggetto empirico-materiale – libero è solo il soggetto puramente intelligibile, nell’autodeterminazione di una volontà che riconosce liberamente la necessità della coercizione e della violenza praticata. Imponendo una forma astratta a ogni datità sociale, lo Stato è un vettore cruciale per l’imposizione della forma astratta del valore ai valori d’uso degli oggetti e delle attività legate alla contingenza “naturale” dei bisogni e delle tradizioni – l’astrazione della vita sociale da parte della forma-Stato è il presupposto dell’astrazione operata dalla generalizzazione della forma-merce come forma dominante di connessione delle differenti pratiche sociali. Questa doppia unificazione dello spazio sociale non è che una forma astratta dell’universalità poiché essa si trova sempre confrontata con l’esteriorità della particolarità che appare come tale per l’Universale solo sotto la forma di un ostacolo da superare, di un’imperfezione da correggere, o di un’irrazionalità da chiarificare. La costituzione della libera universalità dell’autodeterminazione si rapporta alla vita sociale solo come una violenza esercitata nei riguardi di ciò che non smette di rappresentarsi come semplice esteriorità – questa riapparizione della differenza come immediatamente opposta all’Universale è beninteso un movimento di regressione, ma che denuncia l’astrazione, e dunque l’incompiutezza, dell’Universale. Il partito bolscevico, di cui Lukacs ha esposto speculativamente il modo di costituzione, riproduce questa opposizione immediata sotto la forma della concentrazione della coscienza universalista dal lato dei rivoluzionari di professione e in ultima istanza nell’apparato gerarchizzato del Partito – il Partito-coscienza diviene una “volontà” generale” incaricata di produrre la costituzione trascendentale della prassi rivoluzionaria:

Se Lukacs ha ragione a sottolineare che la liberazione non può che aver luogo come “atto libero” del proletariato, è ugualmente vero che, per lui, la coscienza di classe resta un’entità trascendentale che non può essere attribuita ai proletari empiricamente intesi e che, di fronte a essi, si manifesta come volontà generale comunista attraverso la disciplina del partito e la centralizzazione autoritaria (…) Il materialismo meccanicista della teoria della spontaneità, che critica la terza Tesi su Feuerbach, è trasformato in idealismo trascendentale. L’organizzazione comunista appare come razionalizzazione (…) della naturalità cieca della crisi e della lotta fra le classi. La spontaneità scaturisce solo da quel soggetto non-empirico che è il Partito (…) Attraverso il partito operaio, il marxismo educa l’avanguardia operaia, capace di prendere il potere e di guidare il popolo intero verso il socialismo, d’organizzare e di dirigere il nuovo ordine, e di essere maestro, capo e guida di tutti i lavoratori sfruttati e della loro vita sociale senza e contro la borghesia37.

Per Krahl, questa concentrazione nel partito del sapere che concerne la costruzione della società emancipata sfocia tanto nel terrore di stato staliniano quanto nella stabilizzazione autoritaria dello stato post-staliniano: “lungi dal condurre alla realizzazione di una società di uomini liberi e a ciò che questa presuppone, cioè il deperimento dello Stato [la fissazione dogmatica dell’idea leninista di Partito] porta a lasciare da parte il deperimento della forma-merce del prodotto e quella della forma-valore, queste sintesi dell’autonomia che i prodotti hanno acquisito di fronte ai loro produttori immediati – rappresentazioni reificate dei rapporti sociali nella coscienza degli uomini”38; l’associazione degli uomini liberi, per Krahl, avrebbe dovuto prendere la forma di una “democrazia dei consigli” contrapponendosi allo Stato integrale39.Tuttavia Krahl, in quanto pensatore dialettico, rifiuta ogni forma di mito immediatista-vitalista, volgar-castoriadista, del “consiglio” e della spontaneità opposta astrattamente al Leviatano burocratico.

Porre i problemi politici nei termini di un’esaltazione dell’auto-attività delle masse, o della Classe, opponendosi ad una sedicente espropriazione attraverso lo strumento di questa creatività magica, non è che il sintomo di un’incapacità a interrogarsi sulle condizioni storiche dell’autonomia possibile dei lavoratori. Abbiamo già visto che la realizzazione dell’Universale della forma Stato moderna contiene un momento di verità in rapporto al quale ogni apologia delle comunità organiche e delle “differenze” astrattamente opposte all’uniformazione centralizzatrice si rivela essere regressiva. E vale lo stesso anche per la relazione pedagogica che il partito leninista stabilisce con le masse: “Lenin introduce nella funzione pedagogica dell’avanguardia il momento della coscienza, che dona alla spontaneità l’autonomia alla quale l’articolava l’idealismo tedesco, e che si esprime come determinazione cosciente”40). Ogni forma sociale, ogni forma politica, non si apprezza dunque convenientemente se non dal punto di vista della sua capacità di costruire le condizioni di una realizzazione realmente universalizzabile dell’autonomia soggettiva che l’idealismo pensa sotto la forma del pensiero puro. L’universalismo borghese, con i suoi momenti statale e morale, e l’avanguardia pedagogica leninista, rappresentano due anticipazioni incomplete di questa costituzione: esse si rivelano in ultima istanza incapaci di generalizzare realmente l’autonomia, tanto che la loro pseudo-universalizzazione si tramuta, per mancanza d’universalità reale, in violenza nei riguardi delle particolarità, e ciò significa che l’universale stesso resta un particolare-immediato – l’emancipazione sotto la forma della separazione e dell’esclusione diventa sistema di dominazione e riproduzione dell’ineguaglianza e dell’eteronomia. La scommessa teorica di Krahl consiste nel cercare nelle strutture del capitalismo avanzato, da una parte, e nelle forme soggettive della mobilitazione studentesca, dall’altra, le condizioni di un superamento politico concreto delle aporie della costituzione rivoluzionaria tanto borghese quanto leninista. Questo tentativo era destinato a restare, lo vedremo, altamente aporetico; tuttavia, esso esprime, con una tensione teorica incomparabile, uno dei più alti gradi di lucidità di fronte alla congiuntura, mai raggiunta dagli attori e dai testimoni della sequenza degli anni Sessanta e Settanta.

 

Il capitalismo avanzato e il lavoratore collettivo

La congiuntura a partire dalla quale Krahl tenta di definire teoricamente una strategia politica è caratterizzata da due aspetti decisivi. In primo luogo, l’esistenza di un capitalismo avanzato, dirigista e burocratizzato, che sembra aver liquidato le forme tradizionali dell’antagonismo tra il lavoro e il capitale. Detlev Claussen ha sottolineato che, nella Germania Federale degli anni Sessanta, “tutte le istituzioni principali della società (ivi comprese quelle che emergono dal movimento operaio) non sono che dei momenti del sistema capitalista avanzato e dunque in se stesse incapaci di sviluppare un’alternativa al sistema”41.

L’SDS aveva intrapreso l’analisi del capitalismo avanzato appoggiandosi alla teoria critica francofortese; attraverso di essa, i teorici studenti consideravano il capitalismo della Germania federale come un sistema autoritario e totalizzante, tanto da incorporare e neutralizzare ogni momento d’antagonismo interno – l’integrazione dell’SPD all’interno del gioco politico istituzionale, il Verbot da cui era stato colpito il partito comunista, l’interdizione di qualunque sciopero “politico”, il sistema del sindacato unificato politicamente neutro e obbligato a “salvaguardare la pace sociale” (Claussen, pp. 8 e 10), legittimano l’analogia tra il sistema economico e istituzionale della Germania dell’Ovest e la distruzione-integrazione delle organizzazioni operaie da parte dei fascismi europei negli anni 3042.

Come e dove trovare la negazione determinata nel capitalismo avanzato? Come reperire il punto di torsione interna del sistema? Krahl avanza l’ipotesi di una contraddizione interna alla socializzazione capitalista del lavoro a all’incorporazione nel processo totale della produzione di queste “potenze intellettuali” che non possono che essere imposte in una forma disciplinare nella fase dell’accumulazione originaria: “le riflessioni di Marx nei Grundrisse e nelle Teorie sul plusvalore suggeriscono che il processo di socializzazione del lavoro produttivo ha luogo all’interno e sulla base del modo di produzione capitalista (…) Se la contraddizione tra socializzazione e appropriazione privata, tra lavoro sociale e lavoro privato, dispiega, con lo sviluppo del capitale monopolista, una dimensione nuova, allora l’intera classe proletaria si amplia”43

I caratteri fondamentali del capitalismo avanzato sono i seguenti: la socializzazione monopolista della proprietà capitalista (che implica l’introduzione di forme di pianificazione); l’intreccio tra processi economici e decisioni politiche (fino alla relativa indiscernibilità delle due forme di potere); l’incorporazione del sapere scientifico a un sistema oggettivato d’apparati tecnologici (che è in effetti un momento del capitale fisso). Di qui, il fatto che la contraddizione tra la socializzazione e l’appropriazione privata divenga sempre più palese – l’incorporazione dei saperi alla totalità organica del lavoro sociale sopprime tendenzialmente l’opposizione tra l’universale astratto e il particolare irrazionale. La società incorporata al capitalismo avanzato è una società razionalizzata, istituita e riprodotto da delle forme di conoscenza e di pensiero astratte che attraversano la totalità del corpo sociale: la funzione dominante d’un Educatore politico tende a divenire superflua nel momento in cui il sapere sociale si trasmette e si esercita negli stessi rapporti sociali immediati – ma in un immediatezza in realtà seconda, generata precisamente dalla mediazione della prassi sociale da parte dell’articolazione totale della produzione capitalista.

L’universale tende a divenire immanente ai particolari concreti – esso perviene alla sua propria mediazione nei e grazie ai particolari che, da esteriori che erano, divengono dei momenti del Tutto articolato nell’universale; ma l’universale che si autodetermina nella particolarità dei suoi momenti è, dialetticamente, il concetto – l’auto-generazione dell’autonomia attraverso l’interiorizzazione dell’esteriorità che appare poi [lett.: da quel momento in poi ] come un momento interno dell’autonomia stessa. Anche se sotto una forma che è sempre determinata dall’appropriazione privata capitalista, e che riproduce dunque una eteronomia strutturale, la razionalizzazione della società attraverso l’incorporazione al lavoratore collettivo permette di pensare l’autonomia della società nella sua interezza, senza scissione tra l’avanguardia rappresentante l’emancipazione e la sfera eteronoma dei bisogni immediati. L’autonomia si caratterizza dapprima per il suo rapporto, insieme teorico e storico-genealogico, al pensiero astratto, all’intelligenza teorica, in breve alla funzione intellettuale. La theoria fa parte, nelle società divise in classi, dell’improduttività, dell’inoperosità e dello svago, opponendosi all’attività lavorativa eteronoma; questa scissione perde molto della sua pregnanza dal punto di vista dell’articolazione totale delle attività: “la scienza fu un tempo effettivamente improduttiva. Nata dal non-lavoro, essa è oggi lavoro. Nel concetto di “lavoro intellettuale” è contenuto un superamento virtuale dell’antitesi tra inoperosità improduttiva e lavoro produttivo”44. Il lavoro sociale unificato dal capitale tende a riunire il lavoro manuale e il lavoro intellettuale – di colpo, le specializzazioni scientifiche tendono a essere cancellate: “le scienze non sono produttive in quanto scienze particolari, ma come totalità concreta – cioè, in quanto lavoro astratto al quale sono sottomessi tanto i produttori scientifici che i lavoratori salariati”; “le diverse scienze non sono produttive in quanto tali: solo la scienza unificata è realmente produttiva”45.

Inoltre, i saperi concernenti l’orientamento pratico cessano di essere unicamente ideologici, vale a dire esteriori alla scienza: “sapere, è potere, e dunque allo stesso tempo ideologia: un sapere esclusivamente tecnico è socialmente impotente. Tecnica e scienza come ideologia produttiva, creazione di una tecnica adeguata al capitale”46. Non soltanto i saperi tecnico-scientifici diventano delle fonti dirette di legittimazione dei poteri in campo – ciò che è decisivo è che i saperi legati alla gestione dei rapporti sociali sono direttamente incorporati alla scienza, al sistema totale delle scienze naturali e sociali; – la scienza assume delle funzioni ideologiche e l’ideologia, in quanto operatore della riproduzione dei rapporti sociali, assume le forme dei metodi e delle imprese scientifiche: la ragione è uno strumento di potere, certo, ma è soprattutto l’esercizio del potere che si è razionalizzato.

Il processo di valorizzazione del capitale, che non solamente garantisce la redditività delle attività produttive, ma assicura soprattutto la riproduzione della struttura dei rapporti sociali, coincide ormai con il processo del lavoro, dello scambio organico con la natura47. Il processo totale d’una produzione sempre più socializzata e resa tecnico-scientifica istituisce ormai la costituzione dell’insieme delle forme, insieme oggettive e soggettive, della società. Se questa tendenza appare compiere la profezia weberiana della “gabbia d’acciaio”, Krahl cerca tuttavia di ricavarne i momenti del processo che potrebbero aprire delle possibilità per farla finita con la dominazione capitalista. Dapprima, egli ricorda che “nella storia del genere umano non esiste alcuna direzione rettilinea del progresso tecnico che sia indipendente dai rapporti di produzione (…) la sussunzione reale del lavoro al capitale modifica la costituzione tecnologica del processo del lavoro”; “la scienza è un (…) prodotto sociale (…) Se il modo di produzione cambia, la scienza si trasforma anch’essa (Cadremmo, in caso contrario, nell’idealismo, come nel caso di Habermas)”48. Ora, la tendenza alla formazione di un sistema totale del lavoro sociale evoca la possibilità della soppressione, non solamente della scissione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, ma anche della separazione tra scienza in quanto libera attività teoretica e tecnica in quanto attività subalterna sottomessa ai vincoli del bisogno e alla resistenza della materia. L’esistenza di un’attività teoretica disinteressata e autonoma di fronte alle applicazioni che essa istruisce è una manifestazione ulteriore della concentrazione-monopolizzazione delle potenze intellettuali della società: con l’articolazione in sistema di ogni forma di attività, è la scienza stessa in quanto figura del privilegio della contemplazione che dovrebbe scomparire come forma di vita – Krahl evoca una nuova forma di pensiero che, indotta dalla scomparsa tendenziale della separazione tra lavoro e non-lavoro, rappresenterebbe un aldilà della scienz49. Il movimento studentesco ha generato uno slancio dell’immaginazione rivoluzionaria adeguato a una lotta di liberazione in delle società in cui la soddisfazione immediata dei bisogni materiali è stata tendenzialmente raggiunta. La coscienza anti-autoritaria ha rappresentato un medium nel quale “grazie alla sua lotta contro la frammentazione del mondo delle esperienze quotidiane, che non è ormai più nient’altro che una moltitudine d’informazioni manipolate cieche di fronte ai rapporti di potere, il movimento ha ricostruito il germe di una nozione astrattamente corretta della falsità della totalità sociale”50.

Ora, la coscienza anti-autoritaria è malgrado tutto questo affetta da grandi limiti storici: essa “è da assegnare, dal punto di vista empirico e genetico, alla situazione di classe dell’intelligentsia, e in particolare di quella frazione dell’intellighenzia che opera negli ambiti della cultura e delle scienze sociali”; la coscienza anti-autoritaria esprime la scissione tra la “democrazia tecnologizzata” e i contenuti, ormai obsoleti, dell’emancipazione borghese: si tratta dunque d’una “forma di declino del concetto borghese della ragione, distrutto dallo sviluppo tecnologico”51; nondimeno, attraverso la coscienza che il movimento aveva sviluppato del carattere ineluttabile di questo declino nel capitalismo organizzato, la soggettività anti-autoritaria ha potuto sviluppare una forma di totalizzazione-negazione della totalità capitalista-avanzata, e di anticipazione dell’emancipazione – in breve, essa ha funzionato come un avatar, o un ersatz, delle funzioni che Lukacs e la Teoria Critica assegnano alla coscienza (di classe). Ersatz: poiché, secondo Krahl, per funzionare come una coscienza di classe effettiva, dunque come il sapere adeguato d’un atto di liberazione che genera una nuova costituzione della forma sociale, essa dovrebbe rendersi concreta attraverso lo strumento dell’organizzazione politica del proletariato in quanto insieme delle determinazioni sociali capaci di agire come un fattore di potenza materiale. Il semplice momento negativo dell’uscita dalle ideologie della borghesia illuminata, in assenza di una pratica reale dell’organizzazione del proletariato, non ha potuto far altro che generare delle forme della coscienza piccolo-borghese che il movimento non è stato capace di superare.

I limiti strategici del movimento sono dunque da dedurre dalla forma soggettiva della piccola-borghesia decadente e protestataria. Dapprima, la sopravvalutazione delle azioni “simboliche” di provocazione, che, al posto di essere apprezzate alla luce, e all’interno, di un processo più generale di sperimentazione delle forme d’intervento politico, sono state ipostatizzate in formule definitive. La coscienza anti-autoritaria ricade qui nell’a-storicità più completa, e articola meccanicamente l’attivismo localizzato e puntuale dei gruppuscoli minoritari al fantasma di una liberazione immediata del genere umano nella sua universalità astratta attraverso lo strumento del passaggio all’atto “isterico” della provocazione sempre più isolata, effimera e auto-referenziale52. Abbiamo già visto che la scissione astratta tra un Universale vuoto e un particolare irrazionale è una forma essenziale della costituzione capitalista e della coscienza borghese – la fede nella coincidenza immediata tra da una parte un’azione che fatica a uscire dai limiti molto rigidi di un gruppuscolo o di una micro-comunità, e, dall’altra, l’universalità fittizia d’una supposta rivolta, dell’umanità contro un sistema sociale totalizzante, è sintomo dell’opera di scissioni reificanti tipiche del pensiero borghese.

Ancora più severo è il giudizio sulla maniera con cui la coscienza anti-autoritaria ha finito per pensare la liberazione e l’autonomia. La rivolta immediata dell’intellighenzia piccolo-borghese contro delle relazioni sociali che minacciano di espropriarla della sua indipendenza e dei suoi privilegi finisce, se non viene inquadrata attraverso un lavoro d’educazione politica e organizzativa (che Lenin aveva assegnato come compito alla centralizzazione e alla disciplina), per riprodurre l’individualismo aggressivo e disorganizzante del bellum omnium, dello stato di natura degli atomi d’egoismo trasfigurati in gruppuscoli settari fanatici o in “individualità” anarcoidi instabili e disperse53:

L’impossibilità oggettiva per il movimento studentesco di compiere la sua autodeterminazione di classe, la lunga durata che sola permetterebbe di formulare (…) le condizioni strategiche di una formazione orientata all’emancipazione di una coscienza di classe proletaria nelle metropoli industriali capitaliste-avanzate, spiegano l’autonomizzazione della prassi la reificazione, parzialmente settaria e immediatista, della forma organizzativa e la scomparsa di una coscienza adeguata della totalità. L’unità oggettiva della pratica politica, tale a quella che era stata determinata dalle proteste contro la guerra in Vietnam, dalle azioni anti-Springer, e dalla resistenza contro le leggi sullo stato d’urgenza (d’eccezione), si disperde in una pluralità d’azioni isolate che convergono in un indebolimento teorico. Un processo simile è una conseguenza delle determinazioni che abbiamo appena menzionato della coscienza piccolo-borghese, che è innamorata del culto dell’azione, settaria, e di un individualismo cieco. Il piccolo borghese è capace di orientarsi soltanto sulla base dei suoi interessi immediati e limitati. Egli è incapace di una solidarietà di classe stabile e di lunga durata, acquisita in maniera autonoma, attraverso una pratica organizzativa54.

La coscienza anti-autoritaria può a ogni istante deviare verso delle forme degenerate dell’individualismo piccolo-borghese: si assiste dunque a un vero processo di autodistruzione di questa coscienza nelle forme della decadenza soggettiva dei gruppi e degli individui: “questa coscienza rifiuta di sottomettersi tanto alle esigenze repressive della socializzazione delle lotte politiche che impongono una disciplina delle prestazioni, quanto ai criteri della prestazione teoretica della riflessione”55; la “frenesia dell’attivismo”, le tattiche puntuali, corrispondono all’incapacità di tollerare la disciplina dell’astrazione che impone l’esigenza di una pratica totalizzante, organizzata e teoricamente orientata. Krahl insiste sull’incapacità della coscienza anti-autoritaria a essere l’operatore di una sintesi dove le lotte convergerebbero in una presa di coscienza comune che le renderebbe la negazione determinata della totalità capitalista: la negazione anti-autoritaria resta astratta, al di sotto della mediazione necessaria della coscienza oppositiva dell’intellighenzia declassata, e tende a opporre alla creazione capitalista del lavoratore collettivo, all’estensione universale delle relazioni capitalista e del valore di scambio, la regressione a forme idealizzate d’organizzazione pre- o proto-capitaliste dell’attività sociale – niente che non possiamo ritrovare oggi in certe comunità di pamphlettari talentuosi o nel lirismo col quale J. Rancière evoca i tentativi letterari dei falegnami e degli operai tipografi. Per Krahl, nella congiuntura che fu la sua, si tratta di fondere le pratiche di lotte da opporre alla “fusione” capitalista dei differenti lavori; e il problema è che la forma soggettiva delle lotte esistenti non è affatto adeguata a questo compito di costruzione di una contro-totalità che sia all’altezza della socializzazione capitalista. La coscienza anti-autoritaria, nei suoi derivati piccolo-borghesi, finisce per assolutizzare gli “egoismi dell’emancipazione” – ciascuno vuole soddisfare i propri bisogni senza, e contro, tutti gli altri, tanto che i contenuti specifici della solidarietà comunista sono liquidati, rendendo impossibile qualunque organizzazione politica56: il reame comunista della libertà è ridotto alla gelosia del piccolo proprietario minacciato di perdere la sua casa o la sua attività (Krahl stigmatizza qui la deriva dell’ideologia degli “spazi liberi”); l’emancipazione contro i vincoli imposti dal lavoro socializzato regredisce al punto di vista dell’appropriazione empirica, puramente materiale e violenta – regressione in rapporto alla disciplina universalizzante dell’istituzione del soggetto-proprietario attraverso le astrazioni reali del diritto e dello scambio.

Sulla base di questa regressione nichilista al di sotto dell’universale reificato – ciò che torna a reificare l’arbitrario astratto del soggetto empirico nella sua particolarità – non può che svilupparsi in una forma di nichilismo – il compito dell’organizzazione consisterebbe al contrario a “esprimere materialmente attraverso le proprie relazioni interne di solidarietà la negazione determinata della formazione sociale capitalista”57; ciò implica delle forme determinate di rinuncia da parte di ciascuno ai propri godimenti immediati e una certa alienazione nel collettivo politico:

La negazione determinata dello scambio borghese, che è anche la creazione di forme di organizzazione della solidarietà proletaria, significa che ciascuno, in nome dell’emancipazione altrui, assume il grado di repressione che è richiesto per limitare i propri bisogni in funzione dei vincoli della lotta politica (…) Attraverso la negazione determinata delle forme di relazione condizionate dal valore di scambio, la morale politica dei comunisti si forma alla disciplina della lotta e prefigura, allo stesso tempo, la prassi solidale dei rapporti liberati (organizzazione come superamento prefigurato del lavoro alienato, vale a dire astratto)58.

Malgrado queste derive immanenti, Krahl insiste nel considerare decisivo ciò che chiama il “principio razionale” della coscienza anti-autoritaria: l’istanza dei movimenti di opposizione nel capitalismo avanzato non è più la miseria materiale, la penuria delle risorse atte a soddisfare bisogni vitali immediati. Il rifiuto del capitalismo avanzato è un rifiuto di una vita mutilata dalla manipolazione degli spiriti e delle coscienze, dalla riduzione amministrata dei possibili, l’impoverimento dell’esperienza, lo spreco delle possibilità materiali, l’esclusione dall’orizzonte quotidiano di ogni dimensione che trascenderebbe la sottomissione al profitto, alla specializzazione delle professioni e al conformismo massificato. La rivolta nelle metropoli industriali ha luogo in nome di un’esistenza più ricca, e non più in nome della semplice sopravvivenza: è l’emancipazione, è la possibilità di accedere a delle forme più alte dell’agire e del vivere, che sono divenuti bisogni materiali.

Questa problematizzazione delle ragioni e delle forme dell’opposizione, questa politicizzazione diretta della quotidianità, della vita ordinaria e dei suoi contenuti, questo investimento della qualità dell’esperienza umana e delle possibilità dell’uomo da parte di interrogativi politici: tutto questo rappresenta, per Krahl, il lascito decisivo, il nucleo razionale, del movimento studentesco, e che contiene forse la possibilità di un’articolazione tra, da un lato, le forme dominanti (nella congiuntura) dell’antagonismo soggettivo e, dall’altro, le strutture del capitalismo avanzato.

 

L’intellighenzia tecno-scientifica

La teoria dell’intellighenzia tecno-scientifica è, per Krahl, meno una analisi socio-economica che il tentativo di risolvere un problema i cui dati di partenza sono i seguenti: in primo luogo, una coscienza del capitalismo avanzato come “falsa totalità”, una coscienza che può sviluppare un rifiuto radicale ma che manca delle articolazioni sociali e organizzative che sole potrebbero concretizzarla in quanto negazione determinata dei rapporti sociali capitalistici – ciò che manca è il momento leniniano della concretizzazione (si veda l’exposé del 30 ottobre 2010 nella seduta del seminario del GRM dedicata a Lukacs lettore di Lenin); in secondo luogo, il capitalismo avanzato sviluppa una configurazione delle relazioni sociali – razionalizzazione generalizzata, fine della miseria materiale, formazione del lavoratore collettivo – che rendono impossibile e sterile la semplice riproposizione della forma classica, leninista, della concretizzazione organizzativa. L’It-s è meno un dato oggettivo che la denominazione di una virtualità: essa indica un luogo possibile dove potrebbe aver luogo la giuntura tra la mobilitazione studentesca del dopo-guerra e le condizioni materiali di realizzazione di una nuova sintesi sociale di cui il lavoro vivente resta il portatore virtuale. Questa giunzione esprime certo la problematica leniniana della giunzione tra coscienza e realizzazione; ma essa è caratterizzata da una problematizzazione, e un superamento, della funzione e del funzionamento del sapere, che la concretizzazione leninista assegnava al partito dell’avanguardia. Problematizzazione e superamento che operano una trasformazione delle maniere in cui ha luogo la convergenza tra i sapori dei militanti-intellettuali e i lavoratori. Bisogna dapprima precisare che gli “intellettuali” sono prima di tutto degli studenti, e degli studenti incorporati a dei sistemi d’istruzione/educazione di massa. Altrimenti detto, non si tratta di membri in divenire d’un’élite ristretta, ontologicamente resa inoperosa [desouvrée] e che si dedicano ad attività “culturali” o artistiche gratuite: si tratta di un vasto strato di futuri quadri e produttori, le cui competenze intellettuali sono programmate e sviluppate sistematicamente in funzione delle esigenze dell’amministrazione e dell’economia capitalista-avanzata. Simmetricamente, gli operai non sono più dei semi-paesani o dei semi-artigiani forzati da una violenza esterna ad adattarsi a dei compiti e a delle forme di vita che sono loro estranee – la classe operaia è ormai prodotta e riprodotta, in quanto soggetto collettivo della produzione, del consumo e di una cittadinanza strutturata a partire dal diritto pubblico del lavoro, dalle società capitaliste come sempre già interna ai saperi e alle pratiche di un’industria altamente razionalizzata. Queste condizioni specifiche della congiuntura potrebbero permettere di superare i limiti che la teoria e la pratica leninista-bolscevica ha incontrato sul punto cruciale dell’educazione politica e tecno-scientifica dei produttori (con i corollari della centralizzazione pedagogica autoritaria e dell’espropriazione dei produttori da parte dello stato).

Ritroviamo qui la problematica dei giovani maoisti francesi, ma in condizioni differenti. L’istituzionalizzazione statale delle attività intellettuali è stata fatta in Francia, da Jules Ferry, nell’ambito di una pedagogia universalista ritenuta essere solidale ad una mobilità sociale generalizzata e a una democrazia borghese espansiva: l’archetipo dell’intellettuale di Stato è dunque l’Insegnante, ed è per questo che la contestazione tanto del modello leninista quanto della società capitalista del dopo-guerra ha preso la forma di una critica della relazione pedagogica e dell’asimmetria nei saperi ch’essa presuppone. In Germania, al contrario, l’istituzionalizzazione degli intellettuali ha puntato a partire dal XVIII secolo alla creazione di uno strato di funzionari incaricati di gestire gli affari pubblici ma senza relazione con un processo espansivo d’allargamento delle basi sociali delle funzioni dirigenti – il funzionario non è un pedagogo, che mira all’emancipazione dei cittadini attraverso l’educazione, ma uno specialista del governo razionale dei soggetti: le sue funzioni di direzione sono tecniche, non civili. Ed è per questo che Krahl cerca meno di criticare l’asimmetria pedagogica che a investire politicamente la messa-in-comune tendenziale delle competenze tecnico-scientifiche: ciò che entra in crisi in Germania non è l’egemonia di una borghesia illuminata, ma il potere esclusivo dell’élite dei Beamte.

Ora, il problema che è posto da questa situazione storica è quello dell’articolazione tra la formazione dell’It-s come dimensione sociale di massa e la coscienza anti-autoritaria orientata dal Grande Rifiuto. Il legame che Krahl suppone tra questi due momenti è fornito dal malessere dell’Its di fronte alla determinazione dei criteri del lavoro intellettuale attraverso l’incorporazione di quest’ultimo alla produzione resa tecnico-scientifica59. L’It-s può sviluppare una coscienza di classe a partire dall’insoddisfazione verso i limiti che il capitalismo impone alle possibilità di emancipazione che il sistema tecnico-scientifico contiene. Dapprima, il capitalismo distrugge progressivamente l’orientamento teorico delle scienze: la ricerca di un sapere razionale e oggettivo, il lavoro sui fondamenti concettuali dei problemi, sono sostituiti come criteri della valorizzazione sociale delle scienze dall’efficacia pragmatica immediata e dalla redditività a breve termine. La scienza divenuta forza produttiva del capitale deperisce come processo d’arricchimento e di espansione dei poteri immanenti dello spirito, come vettore di una razionalizzazione reale dell’esistenza, e addirittura di una vita razionalmente organizzata e vissuta. Limitandosi alla gestione degli obiettivi prefissati dal capitalismo avanzato, il sapere tecnico-scientifico è impedito a svilupparsi secondo la sua norma immanente, e perde ogni trascendenza in relazione ai “fatti”, trasformandosi in frustrazione rispetto alle possibilità del pensiero e dell’azione che gli agenti diretti di queste potenze intellettuali socializzate intravedono, o indovinano, come messe a disposizione attraverso le virtualità immanenti all’articolazione razionale totale delle attività umane.

Questa frustrazione può rappresentare un bisogno delle masse che è direttamente legato alla norma latente ma intrinseca delle condizioni sociali di una vita più ricca e più libera – un bisogno che emerge direttamente dalle potenze intellettuali la cui liberazione è allo stesso tempo messa all’ordine del giorno e frustrata dalla socializzazione capitalista del lavoro e che è immediatamente un bisogno d’autonomia e d’emancipazione (immediatamente perché in realtà socialmente mediata alla sua origine); un bisogno che è liberato dai vincoli materiali immediati ma la cui “materialità” specifica – vale a dire la sua mediazione da parte dei rapporti sociali – può svilupparsi in coscienza critica proletaria pienamente dispiegata. Il Grande Rifiuto potrebbe, su queste basi, perdere le connotazioni morali che conserva in Marcuse, non potendo quest’ultimo indicare una negazione socialmente determinata del sistema sociale da rifiutare.

L’SDS – poiché tutto lo sforzo teorico di Krahl mira a fornire una strategia per l’SDS – si deve dotare di una determinazione organizzativa coerente con queste premesse. Una volta constatata l’impotenza di un semplice rifiuto simbolico, inevitabilmente interno a una definizione tradizionale dello statuto delle funzioni intellettuali, l’SDS ha tuttavia conosciuto una deriva in direzione di una ortodossia leninista priva di qualunque analisi della composizione attuale del proletariato60. Il proletariato industriale, integrato ai sistemi del Welfare capitalista, non può essere il portatore di una coscienza emancipatrice assoluta e incondizionata: non può che richiedere un’integrazione più vantaggiosa all’interno del sistema61. Simmetricamente, gli studenti e gli intellettuali non sono più esterni al proletariato – non è più questione di un “suicidio dell’intellettuale”, né del “tradimento di classe” da parte dell’individuo borghese dotato di una coscienza infelice e scissa, poiché non c’è più un “popolo” o un “proletariato” esterno alla razionalizzazione moderna, e le classi dominanti stesse stanno diventando interamente post-borghesi – processo dell’avvento di un capitalismo post-borghese che è stato ritardato fino a tempi molto recenti in Francia grazie al compromesso gaullo-comunista e che è stato molto più rapido e virulento in Germania e in Italia, vale a dire nei paesi in cui l’egemonia borghese era da sempre più fragile e quasi non aveva posizioni di potere da opporre alla liquidazione tecnocratica e ipercapitalista delle vestigia della civilizzazione cristiano-borghese europea. A partire dai dati della congiuntura, il compito dell’SDS consisterà in ultima istanza nel costituirsi come organizzazione unitaria dell’intellighenzia tecno-scientifica, del proletariato industriale e dei quadri produttivi62. Qui, il discorso dovrebbe sfociare su una considerazione dei dispositivi che impediscono lo sviluppo di una coscienza proletaria in seno all’ It-s. Ma per ora non affronteremo questa problematica. D’altronde, le Tesi sull’intellighenzia tecno-scientifica, il testo più celebre di Krahl, saranno l’oggetto di un lavoro ulteriore da parte del GRM.

Che attualità possiamo attribuire a queste analisi e a questi posizionamenti? Da una parte, il confronto con l’eredità e il modello leniniano porta Krahl a formulare una problematica la cui doppia faccia (ambivalenza) è oggi, secondo noi, della più grande importanza: si tratta della problematica dell’organizzazione. Krahl tocca il cuore di questa questione nel momento in cui afferma, da una parte, che la soluzione leniniana al problema organizzativo non è più praticabile oggi, e, dall’altra, che è ugualmente impossibile non porsi questo problema, dato che l’organizzazione delle pratiche di trasformazione rappresenta la sola incarnazione materiale possibile della coscienza di classe.

Il concetto di coscienza di classe, che emerge sempre da un confronto molto serrato con Lenin (e con Lukacs che è Il filosofo del leninismo), è il secondo punto dove la riflessione di Krahl rimane ancora oggi da meditare. La coscienza di classe esprime la mediazione necessaria della soggettività rivoluzionaria, orientata dagli assiomi dell’emancipazione, e la cui emergenza non presuppone una configurazione determinata dei rapporti capitalistici, con i disequilibri e le scollature interne ai modi della socializzazione che emergono dalla dinamica di produzione capitalista. Se questa mediazione è assente, nessuna ipotesi comunista può trovare delle basi materiali, né ciò che Lukacs chiamava l’entscheidende Machtfaktor capace di sostenere un processo politico. La soluzione a questo problema della differenza tra l’essere immediato e la coscienza – problema formulato da Lenin nel 1902 – è inaggirabile per ogni strategia politica che non voglia ricadere in un servilismo [suivisme è letteralmente condizione gregaria, in questo caso il seguire un processo essendone totalmente in balia e rincorrendolo sempre senza anticiparlo mai] empirico63. Krahl ha formulato correttamente e fino alla fine questa problematica, e la soluzione che ha suggerito (fondata sull’incorporazione delle potenze intellettuali al sistema totale del lavoro sociale capitalista) mira ad articolare una mobilitazione radicale a una base materiale consistente precisamente nell’eterogeneità virtuale della socializzazione del lavoro e della concentrazione del General Intellect nei confronti delle norme della produzione capitalista. Questa articolazione era ugualmente al cuore di molte posizioni della Nuova Sinistra italiana – l’Autonomia in particolare, sulla quale l’influenza di Krahl sarà diretta, ma anche i “Quaderni Piacentini”, dove dei maestri come Franco Fortini, che troveranno nel giovane filosofo ormai scomparso una riflessione vicina alle loro posizioni, svilupperanno delle analisi sull’irriducibilità alla logica capitalista della produzione e diffusione di massa di quelle conoscenze e competenze che risultano differenti dalla cultura borghese-classica.

Ora, questo processo di trasformazione e di riassegnazione delle funzioni intellettuali in rapporto all’insieme della società permetterebbe di pensare una via d’uscita in rapporto all’impasse fatale dell’edificazione leniniana del socialismo: la necessità d’imporre una razionalizzazione centralizzata che, certo, è indispensabile in mancanza di un’autonomia sufficiente delle potenze intellettuali concentrate nelle classi lavoratrici, ma che reintroduce inevitabilmente delle ineguaglianze, una divisione del lavoro, e infine la divisione in classi. Un’autonomia intellettuale, e dunque allo stesso tempo tecnica e strategico-politica, dei lavoratori associati avrebbe potuto rendere obsoleta la funzione disciplinare del partito, o dello stato, pedagogo – questa scommessa ha prodotto degli effetti, in Francia con il maoismo (la cui coscienza di questa problematica fu in effetti molto indiretta); in Italia con una sequenza di lotte operaie, studentesche e genericamente sociali che dovrebbe essere considerata come paradigmatica (ed essa lo sarà, credo, nella misura in cui il velo dell’oblio sarà rimosso dagli anni Sessanta-Settanta).

L’idea dunque era buona, ma sulla sua attualità si possono avere oggi alcune perplessità. Il presupposto di una circolazione sociale della conoscenza accresciuta da un punto di vista tanto intensivo che estensivo è oggi molto problematico: la nostra società è una società dell’uso passivo delle tecnologie, e non una civiltà delle competenze tecnico-scientifiche. Sempre più dipendenti dalle infrastrutture tecnico-scientifiche innervate dai rapporti capitalistici, le società “avanzate” contemporanee possiedono sempre meno padronanza razionale su queste infrastrutture – la razionalizzazione delle condotte di vita, che esprimerebbe non soltanto un adattamento dei soggetti alla socializzazione delle potenze intellettuali, ma anche un’incorporazione di queste a un progetto collettivo razionale di uscita dalla minorità, regredisce nelle nostre società. Il discorso di Krahl si fonda su due presupposti: in primo luogo, suppone che le scienze contengano sempre, nella loro struttura ideale e nella razionalità teoretica che è loro immanente, dei principi e dei valori universali omogenei alle idee filosofiche del Bene e del Vero, e che la generalizzazione alla società nel suo complesso di questi principi possa implicare degli effetti d’emancipazione; in secondo luogo, suppone che questa razionalità teoretica possa, attraverso lo strumento della socializzazione del lavoro reso tecnico-scientifico, iscriversi nell’esperienza degli individui e delle masse, divenire l’habitus di una popolazione umana e addirittura forse di un popolo.

Ora, questi due presupposti sembrano essere oggi obsoleti – le strategie della contro-rivoluzione capitalista degli anni Settanta-Ottanta sono state delle strategie massive di disarticolazione del lavoratore collettivo, di distruzione della socializzazione dei saperi e della possibilità di mettere in comune delle conoscenze, o di iscriverle in un’esperienza collettiva e individuale coerente. Oggi, le istanze economiche sono capaci d’orientare e “formattare” a priori la ricerca scientifica, e dunque di neutralizzare le virtualità auto-riflessive dell’attitudine teoretica orientata alla verità. Contrariamente a quanto Krahl sperava, questa neutralizzazione non causa più alcun malessere nell’intellighenzia – essa non perviene neanche più alla coscienza della grande maggioranza degli operatori scientifici; cosa probabilmente legata con la frammentazione e l’isolamento reciproco che il capitale è riuscito a imporre ai saperi. Le politiche di delocalizzazione e di precarizzazione del lavoro hanno reso impossibile la concentrazione duratura di un know-how razionale in seno a un collettivo tendenzialmente omogeneo, o almeno suscettibile di una ricomposizione dei suoi momenti interni; inoltre, i poteri economici e statali accaparrano sempre più le competenze legate al progetto, al piano, all’invenzione e alla strategia, separandole dalle conoscenze generali accessibili alla maggioranza della popolazione: nuove enclosures che separano i lavoratori dalle potenze intellettuali che istituiscono il processo del lavoro, e che si manifestano in una serie di fenomeni che vanno dall’allevamento degli scienziati in centri di ricerca vacuolizzati fino alla legislazione sulla proprietà intellettuale. A tutto questo, bisogna aggiungere la distruzione programmata delle istituzioni pubbliche preposte all’educazione generale, sempre meno capaci di assicurare le basi di una formazione omogenea e articolata, almeno virtualmente, alle acquisizioni e alle procedure dei saperi specializzati e d’avanguardia. Passivizzata di fronte a un insieme proliferante di saperi i cui orientamenti, e le cui motivazioni, dominati dagli interessi privati, sfuggono a criteri razionali di direzione strategica, la soggettività può deviare in direzione dell’irrazionalismo più disperato: lungi dal vivere in una società dove l’antica cultura è incorporata al lavoro, noi viviamo in una società della clausura dei saperi, sempre più separati gli dagli altri e di fronte a un “senso comune” largamente derazionalizzato ( e che è beninteso molto verso dalle forme di vita tradizionali pre-capitaliste). La nostra società è dunque una società post-culturale, dove le conoscenze più sofisticate e complesse non giungono più a essere riferite ad una coscienza possibile della totalità. La base materiale della coscienza di classe è dunque introvabile. Simmetricamente, la semplice coscienza antagonista non è che all’inizio di un processo di risveglio dopo due decenni di ricatti, di respingimenti e di inibizioni: si tratta di un processo fragile, che può conoscere un’inversione, e avere il fiato corto, sotto i colpi delle urgenze immediate, dell’attualità manipolata, dell’eclisse dei luoghi dove la mediazione tra l’essere e la coscienza dovrebbe aver luogo. Credo che rileggere l’opera incompiuta di Hans-Jurgen Krahl potrebbe aiutarci oggi a vedere in modo più chiaro nell’opacità del nostro presente.


Nella foto Hans-Jürgen Krahl, portavoce dell'Unione degli Studenti Socialisti (SDS), durante una manifestazione contro le leggi di emergenza, 28 maggio 1968 (Alamy foto).

Traduzione dal francese di Andrea Di Gesù e Paolo Missiroli.

Note
1. ↩ Cfr. i seminari 2010-11 del Groupes des recherches matérialistes e le due uscite dei Cahiers du GRM “Des luttes étudiantes des années soixantes en Europe Occidentale (Allemagne, France, Italie)” pubblicate nel 2012 e 2013.
2. ↩ Cfr. D. Claussen, Prefazione all’edizione italiana, in H.J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, JacaBook, 1973, pp. 7-9.
3. ↩ Ivi, p. 418, n. 2.
4. ↩ Ibidem
5. ↩ Ivi, p. 422.
6. ↩ Ibidem
7. ↩ Ivi, p. 418
8. ↩ Ibidem
9. ↩ Ivi, pp. 418-419.
10. ↩ Ivi, p. 419, nota 3.
11. ↩ Ivi, p. 420, nota 3.
12. ↩ Ibidem
13. ↩ Ibidem
14. ↩ Ibidem
15. ↩ Ibidem
16. ↩ Ivi, p. 424
17. ↩ Ibidem
18. ↩ Krahl, Costituzione e lotta di classe, p. 352.
19. ↩ Ivi, p. 353
20. ↩ IVi, p. 425
21. ↩ Ibidem
22. ↩ Ibidem
23. ↩ Ibidem
24. ↩ “Kritische Theorie und Praxis” (trad. it. “Teoria critica e prassi”), in Costituzione e lotta di classe, p. 317.
25. ↩ Ivi, p. 322
26. ↩ Ibidem
27. ↩ Ibidem
28. ↩ “Zu Lenin: Staat und Revolution” (trad. it. “Lenin: Stato e Rivoluzione”), in Costituzione e lotta di classe, pp. 211-12.
29. ↩ IVi, p. 211
30. ↩ Ivi, p. 212
31. ↩ Ivi, p. 212-213
32. ↩ Ivi, p. 213
33. ↩ Ivi, p. 216
34. ↩ Ivi, p. 216-217
35. ↩ Ivi, p. 214
36. ↩ Ibidem
37. ↩ Ivi, p. 218
38. ↩ Ivi, p. 219
39. ↩ Ibidem
40. ↩ Ivi, p. 218
41. ↩ D. Claussen, Prefazione all’edizione italiana, in H.J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, p. 12.
42. ↩ Ivi, pp.8-10
43. ↩ Ivi, p. 323.
44. ↩ Ivi, p. 384
45. ↩ Ibidem
46. ↩ Ivi, pp. 384-385.
47. ↩ Ivi, p. 383
48. ↩ Ibidem
49. ↩ Ibidem. Una trasformazione generale del pensiero, al di là dell’immediatezza di teoria e pratica, direzione ed esecuzione, lavoro e contemplazione, è ciò che lascia intravedere l’incorporazione capitalista-avanzata dei modi superiori dell’astrazione con l’insieme delle forme sociali. Nondimeno, non bisogna dimenticare che questo superamento della separazione delle attività libere dello spirito non ha luogo per ora che come sottomissione della totalità sociale alle norme della valorizzazione capitalista.
La coscienza anti-autoritaria
Se Krahl avesse preso in considerazione, nelle sue riflessioni, soltanto le tendenze spontanee del capitalismo avanzato, non avrebbe fatto altro che produrre una apologetica fantascientifica del capitalismo e del suo potere di totalizzazione – ciò che faranno i teorici italiani d’origine operaista e legati in seguito all’Autonomia, ispirandosi alle posizioni krahliane, purtroppo affascinati dalle potenze creatrici di questa connessione totali dei lavori che il teorico tedesco vedeva certo come un terreno di lotta inaggirabile, ma anche come un “mondo alla rovescia” di cui si trattava di rompere il potere di fascinazione. Il rischio del determinismo, dell’evoluzionismo, e infine del fatalismo, certo presente negli scritti di Krahl, è tutto ciò che di essi hanno conservato le teorizzazioni post-operaiste a partire dagli anni Settanta (teoria dell’Operaio sociale) fino alle congiure contemporanee a proposito delle moltitudini e del lavoro cognitivo-immateriale. Il limite essenziale di questa serie di teorie, insieme eclettiche e monotone, consiste nel voler dedurre la determinazione politica antagonista direttamente dalla fenomenologia delle forme contemporanee del lavoro produttivo. Ora, il punto di partenza delle analisi di Krahl non è in alcun modo la tendenza alla formazione del lavoratore collettivo, ma l’emergenza di una soggettività politica antagonista tra gli studenti. L’analisi dello statuto del lavoro intellettuale non diviene politicamente decisiva se non nel momento in cui un momento di conflittualità non effimera è comparso nel luogo sociale della riproduzione del sapere, che è stato reso visibile dal movimento studentesco anche come luogo di un rapporto di potere e di una opposizione possibile a esso. A partire da qui, Krahl ha potuto ritornare sull’analisi strutturale e tendenziale del capitalismo al fine di poter indicare gli sbocchi strategici per la mobilizzazione – la questione è dunque sempre la mediazione di una coscienza antagonista in atto con l’oggettività della dinamica sociale. Krahl è meno un pensatore della tendenza che della sua sovradeterminazione in una congiuntura in cui ciò che è decisivo è il dispiegamento di un antagonismo. Detto altrimenti, egli rivendica il primato della problematica della coscienza di classe, inaugurata da Lukacs e Korsch, come la sola adatta ad abbozzare una strategia per le società avanzate. Krahl avanza le sue ipotesi sull’incorporazione del sapere sociale a una nuova figura del lavoro sfruttato, e dunque del proletariato, al fine di superare il modello d’organizzazione leninista, la cui natura “pedagogica” è ormai divenuta inefficace (e l’idea di un proletariato razionalizzato mira appunto a spiegare perché) – ed egli tenta di superare questo modello per riformare la coscienza anti-autoritaria del movimento studentesco, che oscilla tra le finalità emancipatrici generali e la riproposizione di vecchi schemi organizzativi (inquadramento dei militanti attraverso strutture disciplinari rigidamente centralizzate). Quali sono gli aspetti del movimento studentesco che, secondo Krahl, sono stati portatori d’una determinazione decisiva nella congiuntura specifica? Si tratta di aspetti vanno di pari passo con la costituzione soggettiva della coscienza antagonista. Nel 1969, Krahl abbozza un bilancio del movimento studentesco. Attribuisce a esso il merito e la capacità di aver creato una “sensibilità politica capace d’indicare le nuove forme nascoste dello sfruttamento e della dominazione sublimata che regnano nel neo-capitalismo”((Ivi, p. 331
50. ↩ Ibidem
51. ↩ Ibidem
52. ↩ Ivi, p. 332.
53. ↩ Ivi, pp. 332-333
54. ↩ Ivi, p. 333
55. ↩ Ivi, p. 334
56. ↩ Ibidem
57. ↩ Ivi, p. 335
58. ↩ Ibidem
59. ↩ Ivi, p. 380.
60. ↩ Ivi, pp. 328-329.
61. ↩ Ivi, p. 348.
62. ↩ Ivi, pp. 323-324.
63. ↩ Ivi, p. 324.

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