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“L’essenza, per le fondamenta”. Intervista ad Ascanio Bernardeschi

a cura di Alessandro Testa

Il problema vero è il partito: senza un partito effettivamente internazionalista e rivoluzionario, i comunisti sono tali solo idealmente, in quanto manca lo strumento per “abolire lo stato di cose presente”

Immagine Primo EditorialeAscanio Bernardeschi si è a Siena con la tesi "La teoria della crisi economica nel sistema di analisi di Marx”. La tesi venne premiata dalla rivista del Pc "Politica ed economia". Militante della Fgci e poi Pci dal 1963 fino allo scioglimento del partito. Ha aderito subito a Rifondazione di cui è stato segretario di circolo, membro della Segreteria provinciale e del Comitato politico regionale; è stato anche Consigliere provinciale per due legislature. Ha scritto per diverse riviste sia stampate che online ed è attualmente responsabile Economia e Lavoro del giornale comunista La Città Futura.

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È cosa nota che il modello di produzione capitalistico passa per crisi ricorrenti, che sono un inevitabile prodotto delle sue contraddizioni interne. Per prima cosa, ci farebbe piacere discutere con te della natura della crisi globale che l’occidente sta vivendo oggi, a partire da elementi storico-economici che mettano in luce le basi teoriche di quello che sta succedendo.

Occorre prima di tutto sgombrare il campo dalla diffusa opinione secondo cui questa crisi sia provocata dalla pandemia, come pure da quella che la crisi del 2007/8 fosse provocata dalla cattiva finanza; certamente il coronavirus oggi e i mutui subprime precedentemente hanno fatto da detonatore, rendendo la crisi ancora più devastante, ma le cause vengono da molto più lontano e hanno a che vedere con il processo di accumulazione capitalistica.

Proviamo a partire dallo sviluppo accelerato dei primi 25-30 anni del secondo dopoguerra, quando le economie sviluppate crescevano a un ritmo medio del 5% annuo; per avere un’idea della misura, durante il periodo che va dal 1870 all’inizio della Seconda guerra mondiale, la crescita, fra forti oscillazioni – particolarmente accentuate dopo il primo conflitto mondiale – procedeva mediamente a una velocità dimezzata rispetto al periodo in esame. Tale crescita riguardò prevalentemente i paesi sviluppati a scapito del terzo mondo.

Il capitale distrutto – provvidenzialmente, dal punto di vista capitalistico – durante la Seconda guerra mondiale, tornò a crescere; lo si deduce dal fatto che gli investimenti in capitale fisso crebbero a un ritmo superiore a quello del Pil. Ciò è un indicatore dell’aumento della composizione organica del capitale che, come è noto, è un fattore che deprime il saggio del profitto; l’altro elemento che contribuì a questa caduta furono le conquiste del mondo del lavoro: la quota di reddito che andò ai lavoratori salì nel ventennio fra il 1950 e il 1970 dal 63% al 65%.

A titolo esemplificativo il saggio del profitto nell’economia Usa, che era del 18% nel 1948, precipitò all’8% nel 1960 e si mantenne, con forti oscillazioni, intorno a questo valore fino al 1976, dopo di che scese ulteriormente fino al 5,5% del 1988.

L’abbandono delle politiche keynesiane e l’affermazione del modello liberista furono una reazione a questa caduta dei profitti e non un errore tecnico, come sostengono molti economisti keynesiani; il rallentamento della crescita, attestatosi al 3%, quindi poco più della metà del periodo precedente, fu infatti un deliberato sacrificio per mettere sull’altro piatto della bilancia un freno alla caduta del saggio del profitto.

La scomparsa del blocco socialista fu un altro motivo dell’abbandono delle politiche keynesiane in quanto venne meno il pungolo dovuto alla necessità dei paesi capitalisti di competere con quel campo sul piano dei diritti sociali.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso anche la globalizzazione impose regole che contribuirono al contrasto della caduta del saggio del profitto; sempre prendendo per esempio gli Stati Uniti, il saggio, che, come abbiamo visto, era del 5,5% nel 1988, nonostante la crisi del 2007, salì, sempre fra sbalzi congiunturali, fino al 10% del 2012.

Tuttavia, anche in questo periodo il ritmo di accumulazione del capitale è stato superiore al ritmo di incremento del reddito, quindi buona parte prodotto andava ad accrescere la ricchezza dei capitalisti, determinando anche l’accentuazione delle disparità. L’aumento dei salari è stato inferiore a quello della produttività e ciò ha costituito un altro contrasto alla caduta del saggio del profitto; anche il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro, prima, e le regole di Maastricht, poi, hanno fortemente contribuito a spingere verso le politiche liberiste.

 

E per ciò che riguarda i movimenti del capitale?

È certamente interessante considerare anche i movimenti di capitale: quando una quota della ricchezza accumulata non riesce a essere impiegata in maniera profittevole all’interno, la mondializzazione consente il trasferimento di molte attività produttive verso i paesi emergenti in cui il costo del lavoro è inferiore a quello delle economie mature.

Si consideri un semplice dato: nel 1998 le rilocalizzazioni di produzioni nei paesi emergenti superavano di 20 volte il numero di quelle del 1970; tali rilocalizzazioni sono un altro motivo della perdita di potere contrattuale della classe lavoratrice. Infatti, in un mercato mondiale globale, il capitale si posiziona dove è possibile ottenere maggiori profitti e può attuare un ricatto nei confronti dei lavoratori: o rinunciate a rivendicazioni eccessive o chiudo la fabbrica e vado a produrre altrove.

Inoltre, potendo ugualmente attuare un ricatto nei confronti degli stati, li induce ad abbassare la tassazione dei profitti e dei capitali, a ridurre la progressività delle imposte, a creare un ambiente infrastrutturale e sociale favorevole al capitale stesso; si tratta del famoso marketing territoriale che pone gli stati in concorrenza fra di loro al ribasso delle tutele sociali e ambientali. L’altro intervento di politica economica favorevole ai profitti è la cessione al capitale di pezzi importanti di servizi pubblici e di settori produttivi strategici. Fra questi primeggia il settore bancario, di cui, come abbiamo evidenziato in un precedente articolo, il capitale si è riappropriato rapacemente.

 

Il quadro generale è preoccupante, ma torniamo per un momento al Pil…

Tornando appunto alla dinamica del Pil, nei primi 5 anni di questo secolo rallenta ancora la crescita (2,6%), mentre le aree emergenti sembrano avere ingranato la marcia: l’Europa dell’Est cresce del 6,6%, la Cina dell’8,7%, l’India del 6%, L’Africa e il Medio Oriente del 4%. Peggio di tutti fa l’America latina (1,7%).

Anche gli investimenti decrescono: se nel ‘74 superavano il 25% del Pil, nel 2019 non raggiungono il 22%, neppure se vi si include il poderoso sviluppo degli investimenti cinesi. Gran parte dei profitti abbandonano i settori produttivi e se ne vanno nella finanza; nel frattempo peggiorano le condizioni dei lavoratori: la loro quota di reddito scende al 58,8% ma oltre questo dato va considerato il regresso in termini di servizi pubblici goduti, oggetto di ripetuti tagli, di riduzione della progressività delle imposte e di inasprimento delle tariffe pubbliche.

 

Ma com’è possibile sostenere lo sviluppo del mercato, se i potenziali acquirenti vedono ridurre il potere d’acquisto dei loro salari e gli investimenti si riducono?

Per contrastare la diminuzione della domanda, dovuta all’impoverimento dei lavoratori, ai tagli alla spesa pubblica e alla riduzione degli investimenti, si utilizza il debito; per i lavoratori è il debito al consumo, con i famosi mutui ipotecari subprime e la loro cartolarizzazione che darà luogo, una volta scoppiata la bolla immobiliare alla crisi del 2007-8; tale crisi, pertanto, non è dovuta alla cattiva finanza, ma alla pretesa del capitalismo di tenere bassi i salari per sostenere i profitti e nel contempo impedire la caduta della domanda. Da questa crisi non ci siamo più sollevati e alla vigilia della pandemia attenti osservatori prevedevano un nuovo scoppio della bolla finanziaria.

Quindi è la crisi del 1970, dovuta alla caduta del saggio del profitto, che è rimasta irrisolta e la lieve ripresa di tale saggio a partire della fine degli anni 70 è dovuta alla svolta neoliberista, alla scomposizione della filiera produttiva, dislocabile anche nei paesi aventi un minor costo del lavoro, in virtù delle nuove tecnologie, all’intensificazione dello sfruttamento e alla finanziarizzazione che però ha alimentato bolle speculative utili a distruggere e a centralizzare capitale.

 

Il quadro generale, così come lo hai dipinto, risulta estremamente chiaro. Sarebbe interessante capire quali sono le implicazioni di tutto ciò per il nostro Paese…

Venendo all’Italia, la produttività del lavoro è cresciuta molto più dei salari (il 20% contro meno del 10%!). Già prima della pandemia il reddito reale delle famiglie italiane si era ridotto; considerando che nel frattempo sono aumentate le disuguaglianze, è evidente che i salari hanno subìto un arretramento ancora maggiore a quella media. Nel 2019, oltre un quarto della popolazione risultava a rischio di povertà o di esclusione sociale (42% al Sud); il tonfo di quasi il 9% nel 2020, quello del lockdown, è piombato in maniera travolgente su questa situazione.

I chiari segnali di ripresa della prima metà del 2021 non devono tranquillizzarci. Per prima cosa si tratta di una ripresa rispetto all’anno in cui molte attività rimasero chiuse; in secondo luogo, esiste un gap fortissimo fra la ripresa dei beni di consumo (+28,1%) e quella di energia, beni intermedi, beni strumentali ecc. che crescono di una media di oltre il 66%.

Ciò è un segno che il grosso del prodotto è appropriato dal capitale e che la quota di reddito da lavoro sta continuando ad arretrare; bisogna considerare poi che il mercato del lavoro va anche peggio perché il suo andamento non corrisponde minimamente alla ripresa produttiva e, all’interno del dato globale cresce ancora il peso del lavoro precario. Infatti, i posti di lavoro a tempo determinato aumentano di 296mila unità nei primi 5 mesi dell’anno, mentre si riducono di circa 40mila i posti a tempo indeterminato. Lo sblocco dei licenziamenti e la liberalizzazione dei subappalti non potranno che peggiorare questa situazione.

 

C’è, però, chi sostiene che la pandemia possa in qualche modo segnare un cambio di passo delle politiche economiche dell’Unione Europea. Cosa ne pensi?

Non illudiamoci che la pandemia abbia determinato un’inversione di tendenza delle politiche economiche e un rilancio del keynesismo come ingenui “sinistri” hanno decantato; gli interventi prospettati e la maggiore tolleranza verso il debito pubblico sono finalizzati a ripristinare margini di profitto socializzando le perdite.

La partecipazione statale al capitale delle imprese è esplicitamente a ciò finalizzata, non prevede un ruolo dello stato nella conduzione delle attività economiche e prevede la sua uscita dal campo non appena risanate le aziende. Ma la tolleranza verso il debito cesserà una volta usciti dall’emergenza e allora saranno nuovamente i lavoratori a pagarne e conseguenze, anzi, già ora la Commissione europea che si è pronunciata favorevolmente sul PNRR presentato dall’Italia, ha avvisato con una dose di franchezza che sfiora il cinismo, che il nostro paese dovrà “affrontare rischi elevati di sostenibilità di bilancio a breve e medio termine”.

In sintesi – ribadisco – l’abbandono delle politiche keynesiane trova una spiegazione precisa: gli stimoli della domanda attraverso il deficit spending sottrae risorse ai profitti e all’accumulazione capitalistica, mentre la piena occupazione accresce il potere contrattuale dei lavoratori, incidendo anch’essa negativamente sul saggio del profitto. Se il problema unico del capitalismo fosse la domanda, sarebbe agevole con un’opportuna politica economica prevenire le crisi; purtroppo, queste politiche incidono negativamente sui profitti e quindi devono essere messe in atto controtendenze, quelle che Marx chiamò “cause antagonistiche” alla caduta del saggio del profitto.

Le politiche liberiste sono proprio a ciò finalizzate e, anche se deprimono la domanda, possono essere preferite a quelle espansive che deprimono il saggio del profitto; quindi il capitalismo naviga fra due scogli, la crisi di profittabilità e l’insufficienza della domanda. Allontanandosi dal primo si avvicina necessariamente al secondo, e viceversa. Ci sarebbe poi un terzo scoglio, i limiti di sostenibilità ambientale che il capitalismo tende a travalicare mettendo così in discussione le prospettive del suo sviluppo.

Non sono, quindi, le politiche keynesiane la soluzione ma il controllo delle attività economiche da parte dei lavoratori associati, il che può avvenire solo attraverso una tenace lotta di classe orientata al superamento del capitalismo; ovviamente, alcuni miglioramenti delle condizioni sociali attraverso operazioni riformistiche possono essere un buon espediente tattico per accumulare forze e migliorare i rapporti di forza, purché si abbia presente che ogni avanzamento potrà essere rimangiato agevolmente se non si pone la questione del potere.

 

In questo quadro politico ed economico assai preoccupante, siamo anche evidentemente ben consci di un’acutizzazione delle politiche imperialiste degli USA e dei suoi alleati. A parte l’aspetto militare, quali sono a tuo avviso le implicazioni di carattere economico di questa fase?

Le questioni economiche e militari sono strettamente connesse: credo che l’elemento centrale da prendere in considerazione sia la perdita di peso economico da parte degli Stati Uniti. Se mai gli Usa abbiano esercitato una vera e propria egemonia (Radhika Desai, attenta studiosa di geopolitica, per esempio, lo nega), la perdita di peso economico non può che tradursi in tempi più o meno lunghi in una perdita di influenza politica e culturale.

Anche questa decadenza viene da lontano: sotto il peso della disastrosa guerra del Vietnam, della crisi degli anni ‘70 del secolo scorso e del crescente indebitamento verso l’estero Nixon fu costretto, nel 1971, a sospendere la convertibilità del dollaro, che tuttavia rimase la moneta principe degli scambi internazionali, favorendo così il disordine nei mercati di tutto il mondo.

All’indomani della vittoria Usa nella prima guerra fredda, la fine del bipolarismo non significò l’unipolarismo, bensì potevamo già scorgere i primi segnali di un nuovo multipolarismo, con l’Ue a trazione tedesca che si costituiva in un nuovo blocco economico e il Giappone che pareva primeggiare fra le potenze economiche asiatiche e che invadeva anche i mercati occidentali con prodotti ad alto contenuto tecnologico.

Intanto la Cina, prima con l’apertura nelle zone economiche speciali, poi con l’apertura tout court ai capitali internazionali, si apprestava a diventare la “fabbrica del mondo”. Anche la Russia, dopo la parentesi indecorosa di Eltsin, aspirava a riconquistare un proprio ruolo mettendo a frutto le sue cospicue risorse energetiche.

In America Latina partirono, pochi lustri fa, le prime esperienze di distacco dalla dipendenza degli Usa, e furono messi in atto importanti ed estesi accordi economici contrapposti a quelli imposti dall’imperialismo statunitense. Dal canto loro, un insieme di paesi, caratterizzati mediamente da un alto tasso di sviluppo, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia India, Cina, Sudafrica) misero in atto intese economiche, costituendo un blocco di primaria importanza.

La lunga crisi dei paesi occidentali, di cui ho detto in precedenza e gli alti tassi di sviluppo dei Brics, e soprattutto della Cina, hanno determinato una profonda modifica dei rapporti di forza economici e gli Usa possono oggi (per quanto?) primeggiare solo sul piano militare.

 

Quindi, tu ritieni che l’acuirsi dell’aggressività militarista USA sia un segno della sua intrinseca debolezza economica…

Le molte guerre, dirette o per procura, nello scacchiere mediorientale e asiatico, i golpe più o meno direttamente assistiti dagli Usa e le “rivoluzioni” colorate, volte ad abbattere governi amici delle potenze concorrenti, si spiegano col disperato tentativo degli Stati Uniti di utilizzare tutti i mezzi, compresi i muscoli, per impedire la perdita del loro peso economico e conservare la supremazia del dollaro che permette loro di approvvigionarsi nel mercato mondiale stampando carta moneta imposta come mezzo di scambio internazionale. Chi si è opposto a tale assurda regola ne ha pagato conseguenze pesantissime.

Queste modifiche dei rapporti fra le diverse economie sono state favorite anche dai movimenti internazionali dei capitali in direzione del terzo mondo, al punto che l’ex presidente Usa, Obama, durante il suo mandato auspicò un ritorno di alcuni capitali per non perdere definitivamente la battaglia dell’egemonia mondiale; a tale auspicio sono seguiti alcuni segnali di un’inversione di tendenza, grazie anche agli aumenti di salari e diritti riscontrabili in Cina che la rendono una prateria un po’ meno appetibile per il capitale.

Per esempio, se nel 2007 l’insieme dei paesi Ocse (approssimativamente il blocco “occidentale”) investivano all’estero quasi 1.900 milioni di euro, la Cina investiva solo 20 milioni di dollari. Nel 2020, i primi erano scesi a 425 milioni mentre la Cina saliva a 110 milioni, superando l’Ue e soprattutto superando gli investimenti stranieri in Cina. In termini di stock i capitali stranieri in Cina sono cresciuti molto meno del 3%, quelli cinesi all’estero sono quadruplicati, passando dal 4% al 16,2%.

Normalmente i paesi imperialisti esportano capitali più di quanti ne importino e se sta avvenendo un arresto di questa tendenza non illudiamoci che siano rientrate le ambizioni imperialistiche: il dato certifica solamente che vengono meno alcune basi materiali per l’affermazione degli imperialismi occidentali.

 

Qual è, dunque, a tuo avviso il ruolo della Cina in questa gigantesca partita geopolitica?

L’accoglimento delle “raccomandazioni” di Obama non ha impedito che l’economia cinese continuasse a crescere a ritmi multipli di quelli occidentali, anche durante la “crisi dei subprime”, anche durante “la crisi del Covid-19”, superando in termini di potere d’acquisto e raggiungendo in termini di Pil l’economia statunitense; la sua produzione, grazie a un attento lavoro per la formazione di professionalità di alto livello, è divenuta competitiva anche sul piano tecnologico. Il suo carattere di economia di mercato a forte direzione pubblica le ha consentito di azzerare, in pochi decenni, la povertà, che invece andava ampliandosi, per effetto delle politiche liberiste, in tutto il globo.

La Cina, inoltre, mettendo in atto una politica di cooperazione con i paesi del terzo mondo e con quelli vicini – una quindicina, fra cui Russia e Giappone – può contare su un mercato pari a un terzo di quello mondiale. Il suo progetto di imponenti infrastrutture, la nuova “Via della Seta”, mira a connettersi per via terra e mare con un’ampia parte del globo; da qui le guerre, per ora commerciali, i dazi elevatissimi, il boicottaggio dei progetti, compresi i gasdotti russi, i contenziosi per le presunte violazioni della proprietà intellettuale ecc.

 

È in questo quadro che vanno letti gli esiti, per quel che ne sappiamo, del vertice dei G7. Cosa ne pensi?

La Cina è stata accusata delle peggiori scorrettezze e nefandezze, tra cui il mancato rispetto dei diritti umani, di cui gli Usa e i suoi alleati sono i primi violentatori. Draghi ha dichiarato che l’Italia rivedrà gli accordi sulla Via della Seta, una delle pochissime cose buone che a suo tempo mise in atto il governo Conte nell’interesse del nostro paese; intanto gli Usa hanno annunciato un loro piano di collegamenti alternativo a quello cinese.

Biden, dal canto suo, ha voluto rimarcare la necessità di “ricostruire le alleanze tradizionali” degli Stati Uniti, dopo che il predecessore Trump aveva fatto qualche apertura alla Russia; la pretesa di Biden è di conservare la presunta egemonia Usa che si sta sfaldando e che forse già non c’è più. Ma per questo scopo, essendo essa basata sulla forza militare, si pone in continuità con Trump nell’aumento delle spese per gli armamenti e nel richiedere che gli alleati facciano altrettanto.

La nuova stagione politica, fatta di scontri ideologici, politici e militari, che Biden vorrebbe inaugurare, era già evidente nella scelta dei suoi collaboratori; chi non è amico degli Stati Uniti viene definito “autocrate” mentre dall’altra parte ci sarebbe il massimo della democrazia, come nello stato teocratico e colonialista di Israele, nel Brasile di Bolsonaro, nelle Filippine, nell’Arabia Saudita, impegnata a fare strage di civili in Yemen, e negli stessi Usa a scapito della popolazione di colore, tanto per citare solo alcuni casi.

È forse democratico il sostegno dato a diversi golpe, come quello in Bolivia o quello, per ora non riuscito, contro il governo bolivariano del Venezuela, o il criminale bloqueo economico contro Cuba nella speranza di far tornare al vassallaggio gli insubordinati dell’America Latina?

Se nel vertice è stato assente ogni riferimento al diritto internazionale e alla riattivazione del trattato di non proliferazione delle armi atomiche stipulato all’epoca della ex Unione Sovietica, ciò si può spiegare solamente con la volontà di affrontare il duello con le altre potenze economiche potendo disporre del vantaggio militare.

Questo scontro recherà al nostro paese solo danni, visto che la Cina intende rispondere con ritorsioni, per ora inferiori ai provvedimenti degli Stati Uniti, ma che comunque potrebbero danneggiare i nostri rapporti commerciali con un enorme mercato di sbocco quale quello cinese. Basti pensare che l’interscambio del nostro paese con la Cina ammontava nel 2020 a 28,5 miliardi di dollari e che nei primi cinque mesi di quest’anno, in particolare, le nostre esportazioni verso quel paese sono cresciute del 75%.

Al fantasma del Dragone si aggiunge quello della Russia a cui viene intimato di abbandonare “il suo comportamento destabilizzante” che crea “interferenza nei sistemi democratici di altri paesi”. Per questo l’Ue è stata invitata a ridiscutere gli accordi vigenti con la Russia.

 

Siamo di fronte a un vero e proprio capovolgimento della realtà. Ma quali possono essere a tuo avviso gli scenari che si stanno profilando?

“Azioni aggressive della Russia” in realtà non se ne vedono, limitandosi Putin a proteggere i propri confini e gli stati confinanti amici, e il potenziamento militare della Cina, volto ad accrescere la sua “influenza e il suo comportamento coercitivo” che “sfida la nostra sicurezza” è una favola, visto che la Cina non ha in corso conflitti e che tuttavia non può che prepararsi all’eventualità di dover far fronte ad aggressioni; alla Via della Seta, che costituisce per gli Usa “pratiche non di mercato”, vengono nella sostanza contrapposte guerre.

Sul piano dello scontro economico tutto lascia presagire che gli Usa partirebbero sconfitti. Sono i massimi debitori della Cina (27mila miliardi) che detiene ingenti riserve in dollari e avrebbe la possibilità di mettere in crisi quella moneta, mentre il deficit commerciale dello Zio Sam continua a crescere di diverse centinaia di miliardi all’anno; inoltre, anche la supremazia del dollaro rischia di svanire, visto che diverse nazioni, comprese Russia e Cina, si stanno attrezzando per utilizzare nei loro interscambi una diversa valuta, il che non sarebbe difficile, visto che il dollaro è divenuto ormai carta straccia. Il condizionale è però d’obbligo perché tale supremazia si regge sulla potenza militare americana.

 

Se, dunque, gli equilibri economici e geopolitici si stanno modificando profondamente e gli Usa hanno solo il (provvisorio?) vantaggio militare, il disperato tentativo Usa di arrestare il proprio declino costituisce un pericolo enorme per le sorti dell’umanità. Cosa ne pensi?

È tenendo di conto di ciò che si possono comprendere la promozione intorno a Cina e Russia di regimi “democratici”, per quanto spesso di ispirazione neofascista, e la costruzione, sempre intorno ai due “nemici”, di numerose basi missilistiche nucleari e sistemi satellitari spaziali; il summit della Nato del 14 giugno conferma questa lettura: i paesi aderenti sono stati chiamati alle armi in un conflitto globale contro Russia e Cina ed è stato deciso di aumentare le spese militari. Per l’Italia si tratterebbe di un aumento di oltre il 33%!

Se gli Usa vogliono trasformare il mondo in una polveriera, spetta ai popoli amanti della pace e del progresso sociale unirsi per fronteggiare le vere minacce e spetta ai lavoratori dei paesi che, come il nostro, sono alleati degli Stati Uniti, nonché ai lavoratori di quello stesso paese premere perché queste minacce non vengano messe in atto.

 

In un momento di crisi acutissima e di grande spaesamento tra la classe lavoratrice, diventa indispensabile saper proporre un programma minimo concreto e che veramente risponda ai bisogni dei lavoratori. Puoi condividere con noi le tue riflessioni?

Il programma minimo andrebbe costruito “sul campo”: secondo me dovrebbe essere lo strumento per ricomporre l’unità dei comunisti. E questa deve passare necessariamente per la riaggregazione del mondo del lavoro che le innovazioni tecnologiche e organizzative, assecondate dalle politiche liberiste, hanno scomposto in mille figure le quali spesso si auto percepiscono – erroneamente e con i media asserviti al capitale che alimentano questa percezione – come rivali; basti pensare al senso comune sui fenomeni migratori che divide i lavoratori anziché consentire la loro unificazione, come sarebbe interesse comune.

Questa tattica del capitale di evitare la ricomposizione della classe lavoratrice si esplica anche cercando di raccontare alcune contraddizioni (ambiente, genere ecc.) come non comunicanti con quella del lavoro e occultando la circostanza che sono un prodotto del modo di produzione capitalistico; è sconfortante che una certa sinistra non si distingua un granché da queste letture.

I comunisti dovrebbero, al contrario, partecipare da protagonisti alle mille vertenze parziali per connetterle, evidenziando la logica che le accomuna, che è l’asservimento di ogni aspetto della vita e della stessa riproduzione umana alle necessità dell’accumulazione capitalistica; far crescere questi movimenti e offrire loro sbocchi, anche parziali, sarà una necessità, ma occorre farlo rimanendo fermi sui principi, evitando sia di accodarsi a piattaforme basate sull’ideologia dominante sia il dogmatismo che, isolandoci, indirettamente favorirebbe proprio quelle impostazioni.

Secondo me, l’elemento centrale di un programma minimo che persegua tale obiettivo di fondo resta la piena occupazione, e il modo principe per assicurarla è la riduzione dell’orario di lavoro; infatti, lo sviluppo delle tecnologie ha ridotto in maniera poderosa il fabbisogno di lavoro e, come sostiene tenacemente Giovanni Mazzetti, questo “pane” va “spartito” equamente.

Ma non si dà riduzione dell’orario di lavoro se non è a parità di salario reale e di grado di sfruttamento: questa precisazione è necessaria perché il processo inflattivo tende a ridurre i salari reali e quindi occorrerebbe ripristinare meccanismi di indicizzazione dei salari; d’altra parte, i tagli al welfare costituiscono un altro modo per ridurre il salario sociale mentre l’intensificazione dei ritmi, la riduzione della pause ecc. potrebbero ugualmente diminuire il fabbisogno di lavoro, ricostituire l’esercito industriale di riserva e preservare il grado di sfruttamento. La riduzione dell’orario di lavoro potrebbe anche essere il mezzo perché i lavoratori possano disporre del tempo per accrescere la loro coscienza di classe.

L’altro modo per contribuire alla piena occupazione è dato dalla creazione di posti di lavoro da parte dei poteri pubblici. Per fare ciò occorre invertire il processo di privatizzazione dei servizi pubblici e dei settori industriali strategici, a partire dal sistema bancario, essendo consapevoli, però, che non basta la proprietà pubblica delle imprese e dei servizi se la loro gestione rimane improntata a criteri privatistici.

Le varie normative che hanno precarizzato il mondo del lavoro vanno smantellate, ma non si può ignorare la necessità di far fronte ai cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, per esempio lo smart working, che vanificherebbero una riproposizione tale e quale dei diritti originariamente sanciti dallo Statuto dei lavoratori; occorrerà, invece, ripensare in gran parte le tutele del lavoro, di modo che possano comprendere tutto l’arco delle condizioni lavorative, includendo, per esempio, i precari, i lavoratori a domicilio o in smart, i dipendenti delle piccole aziende, le finte partite Iva, di modo che questa rivendicazione sia effettivamente unificante.

Lo stesso contratto nazionale di lavoro dovrebbe tendere a questa unificazione e quindi non dovrebbe essere peggiorabile e andrebbero gradualmente ridotte le componenti della retribuzione legate alla produttività o a forme più o meno palesi di cottimo; gli obiettivi non dovrebbero riguardare solo il salario diretto, ma anche quello indiretto (servizi pubblici) e differito (pensioni), tenendo conto che la riduzione dell’età pensionabile costituisce un altro modo di ridurre l’orario di lavoro (nell’arco della vita).

 

Proposte chiare e concrete, queste, ma non credi che facendo ciò si esporrebbe l’Italia ad una perdita di competitività sul piano internazionale? E, inoltre, è piuttosto difficile che l’Unione Europea ci lascerebbe impunemente perseguire questo genere di politiche…

Per non essere sopraffatti dalla concorrenza internazionale ed esposti alla speculazione contro la nostra economia, queste conquiste e la stessa, necessaria, costruzione di un’alternativa all’Unione Europea, si possono praticare se si mettono sotto controllo i movimenti di capitale e si va verso un nuovo internazionalismo proletario in cui anche i lavoratori si dotino di strumenti di coordinamento internazionale, come hanno attualmente solo i capitalisti; solo nel contesto di regole rigorose per i movimenti di capitale sarà possibile anche puntare a una maggiore progressività dell’imposizione fiscale e a una lotta contro l’evasione e l’elusione fiscale.

Poiché gran parte di tali rivendicazioni sono contrastate con il pretesto dell’insostenibilità del debito pubblico, occorrerà adottare misure volte al suo contenimento: il controllo pubblico del sistema monetario e creditizio, appunto, e un audit del debito nella prospettiva di una vera e propria cancellazione, difficilmente proponibile nelle attuali condizioni. Termino infine, per comodità e non certo per importanza, con la lotta per la pace e la fratellanza fra i popoli, contrastando strenuamente i progetti bellicosi dei maggiori imperialismi e la corsa al riarmo.

 

Concludendo, mi piacerebbe chiederti quali sono, a tuo avviso, i punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva comunista in Italia.

Il problema vero è il partito: senza un partito effettivamente internazionalista e rivoluzionario, i comunisti sono tali solo idealmente, in quanto manca lo strumento per “abolire lo stato di cose presente”.

Nessuna forza politica attuale è adeguata a questo compito; spesso, addirittura, a causa di settarismi, di incrostazioni ideologiche e talvolta, purtroppo, anche di ambizioni personali, alcune di queste forze sono di ostacolo alla formazione di un partito comunista unitario e combattivo che sia parte di un più ampio fronte anticapitalista e antimperialista.

È innegabile che la frammentazione dei comunisti abbia una base strutturale nella frammentazione del mondo del lavoro; tuttavia, ciò non spiega e non giustifica la presenza di decine di organizzazioni che si dicono comuniste e che non comunicano fra di loro.

Un punto chiave per superare questo pesante limite è di ripartire dalle lotte di classe dei lavoratori promuovendo la loro presa di coscienza della necessità di lottare per il socialismo, pena il declino delle loro condizioni e dell’intera società, come la grave crisi attuale sta dimostrando. Il partito dovrebbe essere quindi l’intellettuale collettivo che forma un’avanguardia di lavoratori che si batta per questo fine.

Poiché i mezzi di informazione sono saldamente in mano alla classe avversa e la stessa scuola pubblica tende sempre più a non formare cittadini dotati di cultura adeguata e spirito critico, è urgente un lavoro di ricostruzione di una cultura alternativa che non sia riservata agli intellettuali, per quanto sia indispensabile anche il loro apporto.

La battaglia delle idee deve dotarsi, quindi, di strumenti adeguati (media, vere e proprie scuole, momenti di approfondimento teorico) in grado di fronteggiare l’offensiva borghese e anche le posizioni sostanzialmente antimarxiste di buona parte della sinistra “di alternativa”, perché è indispensabile anche la costruzione di una solida base ideologica che superi dialetticamente le attuali divisioni; la formazione di quadri proletari dovrà essere permanente, per consentire di intervenire su una realtà in costante movimento. Senza questo impegno, anche il tempo libero che potrebbe essere conquistato con la riduzione dell’orario di lavoro rischia di essere impiegato nei diversivi degradanti offerti dall’apparato ideologico borghese.

Ho già detto, a proposito del programma minimo, dell’antimperialismo. Il partito, quindi, deve intrecciare legami con tutti i partiti e movimenti internazionali che operano su questo terreno e in primo luogo con quelli comunisti.

Altro punto chiave, secondo me e secondo il collettivo politico di cui faccio parte, è il lavoro per cellule, prioritariamente di luogo di lavoro, luogo da intendersi in senso lato, visto che la catena del valore oggi si articola addirittura a livello mondiale; a maggior ragione non si è adeguati se non si stabiliscono i giusti momenti di coordinamento internazionale. Ovviamente, strutture territoriali o di luoghi di studio saranno ancora possibili dove si tratti di organizzare studenti, disoccupati, pensionati, lavoratori di imprese in cui non è possibile costituire cellule, proletari delle periferie urbane.

I lavoratori organizzati nelle cellule non dovrebbero considerarsi autosufficienti ma interloquire intensamente con gli altri lavoratori, mirando a costituire strutture consiliari ampiamente democratiche che possano riunire aderenti a sindacati e partiti diversi e non aderenti ad alcuna organizzazione. Cosa analoga dovrebbe avvenire nel territorio con la costituzione di momenti di socializzazione, mutualismo e discussione politica, valorizzando anche ciò che già esiste, per esempio le case del popolo.

Concludo con un punto che ritengo molto importante, cioè il centralismo democratico, tanto vituperato anche in ambienti sedicenti comunisti. Il modello di democrazia interna che mi piacerebbe è assai prossimo a quello disegnato da Álvaro Cunhal nel suo Il Partito dalle pareti di vetro [1] e che è agli antipodi della pratica di tanti micro-partiti esistenti. Dovrebbe esserci, infatti, una discussione franca e aperta, un lavoro collettivo, immune da personalismi, una ricerca della sintesi delle diverse opinioni, della massima unità e della massima democrazia, senza che le opinioni dei dirigenti oscurino il contributo degli altri militanti.


Note
[1] Á. Cunhal, Il Partito dalle pareti di vetro HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/” HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/” HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/” HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/” HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/” HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/” HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/” HYPERLINK “https://www.cumpanis.net/il-partito-dalle-pareti-di-vetro-2/”, recentemente tradotto in Italiano per La Città del Sole, 2020.

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