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circolointernazionalista

Classe per sè o classe per altri?

di Circolo Internazionalista “Coalizione Operaia”

copÈ passato esattamente un anno dalla pubblicazione del nostro opuscolo su “Il marxismo e la questione fiscale”, terreno di lotta politica del proletariato sul quale, nel corso dell’ultimo anno, più di qualche sedicente “rivoluzionario” ha goffamente sdrucciolato. Non abbiamo la pretesa di ritenere che la graduale sordina calata su quella che sembrava dover diventare la madre di tutte le rivendicazioni politiche di classe – la “million tax” – sia merito nostro. Una rivendicazione che risponde ad interessi di strati sociali storicamente a rimorchio, che non ha nessun aggancio con la dinamica delle lotte reali del proletariato, che non risponde alle esigenze di questa lotta, ma soprattutto che non è in cima all’agenda politica borghese, non ha gambe proprie sulle quali camminare, e viene via via lasciata cadere dagli stessi che se ne fanno promotori, per essere magari sostituita da altre parole d’ordine “asso pigliatutto”. Altrettanto irreali, altrettanto sterili. Non è affatto escluso che la “patrimoniale di classe” ritorni alla carica, una volta che “l’aria che tira” alimentata dai mantici della classe dominante la riporti anche solo marginalmente nel dibattito. Per ora, nel bilancio da stilare ad un anno dalla battaglia contro le pretese di “marxificare” la “million tax”, possiamo solo riscontrare con moderata soddisfazione che quel tentativo è stato prontamente e severamente rintuzzato. Di seguito pubblichiamo il testo della relazione di presentazione al nostro opuscolo.

* * * *

Nonostante la chiarezza cristallina della nostra posizione in merito alla questione fiscale, siamo stati “bollati” dai propugnatori di una politica fiscale massimalista (leggi: Tendenza internazionalista rivoluzionaria, sic!) di “indifferentismo”, una banale etichetta di comodo, falsa fino all’inverosimile, che prova miseramente a distogliere l’attenzione dall’intrinseca inconsistenza di qualsiasi proposta di “million tax classista”.

Nel nostro opuscolo su “Il marxismo e la ‘questione fiscale’” ci siamo sforzati di inquadrare l’argomento, sotto il profilo teorico, da quello che riteniamo un solido punto di vista di classe, e di dimostrare quanto il richiamo teorico non entri minimamente in contraddizione con quella “analisi concreta della situazione concreta” troppo spesso sbandierata da chi si accontenta di vivacchiare sull’apparenza fallace delle cose.

Solo chi non comprende il ruolo dello Stato nelle società divise in classi, e in particolare nel capitalismo, può meravigliarsi del fatto che il sistema fiscale, una delle articolazioni fondamentali dello Stato, sia “classista” e che quindi sia modellato sulle esigenze della classe dominante nel suo complesso.

I teorizzatori della “patrimoniale del 10% sul 10% più ricco” ritengono che quello fiscale sia addirittura un terreno “privilegiato” di lotta “politica” in quanto permetterebbe più di altri di svelare i rapporti tra tutte le classi e con lo Stato e, nientemeno, favorirebbe la presa di coscienza del proletariato come classe per sé. Quello fiscale, per questi profondi pensatori di “un nuovo movimento operaio”, sarebbe poi un terreno sul quale l’interesse, economico e politico, del proletariato si contrapporrebbe frontalmente a quello di tutte le frazioni borghesi.

Andiamo con ordine e sgombriamo il campo teorico da ogni detrito.

Nel nostro opuscolo abbiamo illustrato come per la teoria marxista il bottino di plusvalore estorto alla classe operaia all’interno del rapporto lavoro salariato-capitale venga spartito in: profitto industriale, interesse, rendita, profitto commerciale e imposta.

Questo non significa altro che, essendo generalmente prassi consolidata che i banditi si spartiscano il bottino dopo averlo estorto, una diversa ripartizione dello stesso non può né accrescere né diminuire la quantità dell’intera “refurtiva” (chiamiamola così per approssimarci al livello di coloro che, pur coltivando velleità da “teorici”, non comprendono che dal punto di vista del modo di produzione capitalistico e dello scambio mercantile di equivalenti il capitalista non compie nessun “furto” quando si appropria del plusvalore). Si tratta di un esempio decisamente “concreto” che non si può fingere di ignorare sostenendo che la suddivisione del plusvalore descritta da Marx sarebbe “astratta” e che non terrebbe conto di circostanze “concrete” che la modificherebbero.

Una risposta di questo genere denoterebbe la profonda incomprensione della dialettica tra astratto e concreto che permea l’analisi marxiana del funzionamento del modo di produzione capitalistico. È più che ovvio che per Marx ciò che è astratto non coincida con il concreto, se così fosse le verità scientifiche non sarebbero così controintuitive. Il pensiero scientifico procede dall’analisi dei processi concreti per “distillarne” delle leggi generali, cioè facendo astrazione dagli elementi di casualità del concreto. Questa astrazione poi consente al pensiero scientifico di risalire verso il concreto comprendendolo e ristabilendo così il legame tra l’essenza delle cose ela forma fenomenica in cui questa necessariamente si esprime. Adoperare i termini concreto e astratto secondo l’uso comune, colloquiale, da chiacchiera al bar, che li vuole contrapposti come vero e falso, e collocarli con questa accezione all’interno della critica marxiana dell’economia politica, significa alterarne il significato: ciò che in Marx è astratto e ciò che si manifesta concretamente alla superficie dei fenomeni sono entrambi falsi se presi separatamente e veri solo nella loro unità. Quindi, le circostanze concrete non “modificano” l’astrazione rendendola falsa, ne sono piuttosto l’espressione mediata che la contraddice solo ad uno sguardo superficiale, che si accontenta dell’apparenza esteriore dei fenomeni, ritenendola l’unica realtà.

Per rimanere sul terreno dell’imposta, indubbiamente le varie trattenute fiscali che un operaio si ritrova in busta paga a fine mese gli appaiono come parti del suo salario che gli vengono sottratte dallo Stato e dai suoi enti locali. Questa è la forma fenomenica, un’immagine capovolta che però ha una sua indiscutibile concretezza quando si devono fare i conti con le spese da affrontare per vivere. Ma è anche tutta la realtà? È l’essenza delle cose? Da marxisti crediamo di no, e come tali riteniamo che sia fondamentale non alimentare anche noi la “falsa coscienza” che viene servita quotidianamente al proletariato trascurando di favorire la sua comprensione dell’effettiva dinamica capitalistica.

L’imposta, che cresca o diminuisca, non può determinare l’entità del salario o del plusvalore, perché il salario è definito dal rapporto tra l’operaio e il capitalista industriale – rapporto che costituisce il perno attraverso il quale è possibile comprendere tutta la società capitalistica –, è definito dal valore della forza lavoro. Affermare il contrario significa negare ogni validità alla teoria del valore di Marx. È legittimo, ma non è marxista.

Marx è estremamente chiaro in merito al rapporto dell’imposta con il salario:

Se tutte le imposte che gravano sulla classe lavoratrice fossero radicalmente abolite, la conseguenza necessaria sarebbe che il salario sarebbe diminuito di tutto l’importo delle imposte che oggi vi entrano. Allora o il profitto del datore di lavoro aumenterebbe immediatamente nella stessa misura, o si avrebbe soltanto un mutamento nella forma dell’esazione delle imposte. Invece di anticipare nel salario, come oggi, le imposte che il lavoratore deve pagare, il capitalista le pagherebbe allo Stato direttamente, e non per quella via indiretta.[1]

Cosa significa questo passaggio? Significa che l’imposta computata nella busta paga dell’operaio non è altro che una quota del plusvalore estorto dal capitalista e rimessa al suo Stato per via indiretta. L’apparenza è che il lavoratore paghi delle tasse riducendo il suo salario, la realtà è che la sua busta paga comprende il salario più una quota di plusvalore che il capitalista versa allo Stato in qualità di “sostituto d’imposta”.

Quando Marx scrive che il profitto del capitalista aumenterebbe nella misura corrispondente a quella risultante dall’abolizione delle imposte che gravano sulla classe operaia non vuol dire altro che questo: l’imposta è plusvalore. Se il capitalista non dovesse pagarla, né indirettamente, computandola nei salari dei suoi dipendenti, né direttamente, tramite le tasse sui redditi, sui patrimoni ecc., allora il plusvalore rimarrebbe nelle sue tasche, in quelle dei percettori di rendita, di profitto commerciale e di interesse.

Facciamo bene attenzione. Questo significa che il proletariato deve rimanere indifferente di fronte ad un aumento o a una diminuzione delle trattenute fiscali sul suo salario? Neanche per idea. Come abbiamo già scritto, se le tasse aumentano, nell’immediato pesano eccome sul salario, lo comprimono e, sempre nell’immediato aumentano la quantità del pluslavoro estorto all’operaio. Per un certo periodo, infatti, l’operaio lavora con lo stesso salario nominale e per le stesse ore ma percependo un salario reale diminuito dalle tasse. Una riduzione di queste tasse al contrario aumenterebbe per un certo periodo il salario reale, a parità di salario nominale e di ore lavorate. In generale, però, questi effetti sono soltanto temporanei[2]. Nelle fasi di depressione e di crisi, nelle quali la classe operaia ha una minore forza contrattuale per via dell’inasprimento della concorrenza, il salario, che non è indipendente dall’andamento del ciclo economico, tende a rimanere per un periodo più lungo al di sotto del suo valore, per questo l’effetto di una riduzione salariale a causa delle tasse, soprattutto indirette, è più duraturo.

Ecco perché la classe operaia deve battersi contro qualsiasi aumento delle trattenute fiscali sulla sua busta paga. Ci vuole molta fantasia e ancor più malafede per sostenere che questa posizione rappresenti una qualche forma di “diserzione” dal terreno fiscale.

Ma qual è la concezione di fondo che sta alla base della “teoria” secondo la quale le tasse sul salario costituirebbero estorsione diretta di plusvalore al proletariato? Una risposta che in alcuni ambienti va per la maggiore è quella secondo la quale se le tasse percepite dallo Stato non si trasformano in Welfare, in “stato sociale”, in “salario indiretto”, allora si trasformano meccanicamente in plusvalore disponibile per un ulteriore accumulazione di capitale. Per questo, un aumento dell’imposizione “ai ricchi” costituirebbe, secondo i teorici della patrimoniale “di classe”, una riduzione del plusvalore e un aumento del salario… indiretto.

Piccolo inciso: a meno che non funga da capitalista operante nella produzione, lo Stato non estorce plusvalore al proletariato, si limita a incamerare sotto forma di imposte dirette, indirette (sui consumi, per es. l’IVA), sui redditi, sui patrimoni, ecc., parte del plusvalore già estorto dalla borghesia all’interno del processo di valorizzazione.

Per quanto riguarda il cosiddetto “salario indiretto”, nelle sue varie trattazioni della teoria del salario, Marx non ne fa la minima menzione.

Per far funzionare complessivamente la società i capitalisti sono costretti a sostenere dei costi, costi elevati che scaturiscono dal pluslavoro degli operai: esercito, magistratura, polizia; ma anche i costi della sanità – con l’attuale pandemia abbiamo visto quanto il problema sanitario possa incidere negativamente anche sull’accumulazione del capitale, quanto sia importante per il capitalista mantenere un certo standard sociale igienico-sanitario funzionale all’accumulazione – e quelli per l’istruzione, necessari anche a fornire quel livello medio di conoscenze necessarie all’operaio per rendere la propria forza lavoro utilizzabile dal capitalista ad una produttività accettabile. È evidente che una popolazione operaia con alti livelli di analfabetismo avrà un livello medio di produttività basso. Se l’operaio non è in grado di leggere il display di un macchinario, le specifiche di un pacco o le comunicazioni organizzative, non è in grado di lavorare efficacemente.

Quello che è importante stabilire però è che, almeno per chi condivide la teoria marxista del salario, non esiste nessuna relazione tra il salario che prende l’operaio e queste spese che la società capitalista è costretta a sostenere in ogni caso. Questi costi sostenuti dalla società per garantire un livello medio di funzionalità entrano nel consumo dell’operaio ma non rientrano nella determinazione del valore della sua forza lavoro, anzi, contribuiscono ad abbassarlo. Sono esterni al rapporto lavoro salariato-capitale.

Estremizzando si potrebbe rilevare che persino le forze dell’ordine, il braccio armato dello Stato, in una certa misura e come elemento del tutto secondario rispetto alla loro funzione principale, garantiscono un livello medio di sicurezza sociale di cui fruiscono anche gli operai, ad esempio impedendo che vengano sistematicamente derubati all’uscita dallo sportello bancario dal quale hanno prelevato quel salario che permette la riproduzione della loro forza lavoro. Eppure, giustamente, a nessuno è ancora venuto in mente di considerare i costi della polizia come parte del cosiddetto salario indiretto.

La teoria del salario indiretto è un modo di presentare il rapporto lavoro salariato-capitale in maniera edulcorata. È come dire: è vero che tu operaio prendi pochi spiccioli di salario, ma lo Stato, che è di tutti, ti fornisce l’istruzione, la sanità, i servizi, quindi, accontentati di quei pochi spiccioli perché in fondo non hai bisogno di altro. Per alcuni sedicenti marxisti sarebbe persino auspicabile che gli operai rinunciassero a una parte di salario diretto pur di avere un incremento del cosiddetto salario indiretto. Anzi, potrebbero persino abbandonare completamente la lotta per il salario accontentandosi di reclamare “più stato sociale”.

In questo modo però il contrasto con il capitale sfuma invece di approfondirsi e si contribuisce ad alimentare una visione dello Stato come organo super-partes nel conflitto tra le classi. Si tratta in sostanza di una teorizzazione che maschera la natura dello sfruttamento capitalistico, occultando che l’origine dello “stato sociale” per tutti, quindi anche per le altre classi e strati intermedi, sta nel plusvalore estorto al solo proletariato. Il proletariato paga per tutti.

Ma perché lo “stato sociale” abbasserebbe il valore della forza lavoro?

La parte di spesa pubblica che finisce nella voce “stato sociale”, storicamente non è il risultato di ondate rivendicative del movimento operaio. Non è qualcosa che sia stato strappato alla borghesia in preda al panico. Le assicurazioni contro malattie ed infortuni, le pensioni di anzianità ecc., l’edilizia pubblica, furono sussunte dallo Stato borghese dietro la pressione e l’iniziativa dei settori più avanzati del capitalismo, che potevano permettersi la spesa non solo senza rimetterci, ma addirittura guadagnando con la riduzione generalizzata dei salari, ben più di quanto avessero investito. Guadagnandoci economicamente e politicamente. Economicamente perché la centralizzazione della spesa da parte del capitalista collettivo (lo Stato) permette al capitalista singolo di corrispondere come imposta una quota di plusvalore inferiore a quella che dovrebbe pagare, nel vecchio e nuovo capitale variabile impiegato, per reintegrare il valore della forza lavoro; politicamente, perché lo “stato sociale” ha soppiantato le associazioni e le casse mutue operaie, spesso dal carattere marcatamente classista, sostituendole con il “benevolo e paterno” sostegno dello Stato, diffondendo l’illusione che lo Stato sia “di tutti”. Non è un caso se l’avanguardia del movimento operaio tedesco di fine Ottocento, la socialdemocrazia, si sia inizialmente opposta alla sussunzione statale di queste spese, e non è nemmeno un caso che in seguito, con il suo assorbimento da parte del capitalismo, invece se ne sia fatta paladina.

Facendo un salto ancora più indietro nel tempo, nel corso delle guerre antigiacobine dell’Inghilterra contro la Francia, alla fine del XVIII secolo, i capitalisti agrari ebbero la possibilità di ridurre drasticamente i salari dei braccianti agricoli, persino al di sotto del minimo vitale, chiedendo allo Stato di intervenire con dei sussidi per sostenere in parte il valore della forza lavoro. Una serie di spese statali, le poor laws (le tasse per i poveri) e il sistema Speenhamland (una forma di incentivo tesa a mitigare la povertà rurale) consentirono ai capitalisti di tenere ad un livello infimo il salario degli operai, salvo poi, a guerre concluse, dirottare con argomentazioni malthusiane queste spese nelle famigerate workhouses di dickensiana memoria… e senza aumentare i salari.

A proposito di questi sussidi, un magistrato di campagna inglese, nell’anno 1800, scriveva:

Immaginiamo di sommare il gettito annuo delle tasse per i poveri all’ammontare dei salari in tutta l’Inghilterra; io penso che il totale sarebbe inferiore al solo ammontare dei salari ove non fossero esistite le tasse per l’assistenza pubblica.[3]

Molti attuali teorici “patrimonialisti” per un “nuovo movimento operaio” avrebbero molto da imparare in termini di economia politica da questo signorotto di provincia inglese di più di duecento anni fa, quando il “vecchio movimento operaio” era ai suoi albori e la classe dominante parlava più chiaramente di oggi, in cui riesce senza fatica a stordire radicali e massimalisti e a ipnotizzarli con le sue mistificazioni che… sono “nell’aria”.

Ma quando, dopo aver disprezzato per mesi la battaglia per la detassazione del salario, mettendola a confronto con la ben più “radicale” e “politica” rivendicazione di una patrimoniale, si cerca di aggiustare il tiro mettendole sullo stesso piano, più che a suggestione ipnotica o a ignoranza ci troviamo di fronte ad un vero e proprio trucchetto da biscazziere: entrambe, infatti, sono sul terreno fiscale ma solo la prima rimane sul terreno di classe.

La giustificazione dell’accostamento arbitrario tra la lotta contro la riduzione del salario reale operata temporaneamente dall’imposta e la rivendicazione di una patrimoniale è infatti molto spesso questa: negli ultimi 30-40 anni la classe operaia ha perso la capacità di condurre efficacemente la lotta economica. Il proletariato non è più in grado di coalizzarsi, di costruire rapporti di forza favorevoli sul terreno economico. Soluzione? La lotta sul terreno fiscale da condurre con l’ariete politico della “million tax” sapientemente suggerito da chi conduce “un’analisi concreta della situazione concreta”. Sublime.

In estrema sintesi, non comprendendo le profonde determinazioni oggettive che muovono le lotte rivendicative, si opera un “fermo immagine” – peraltro sfocato, in quanto bisognerebbe perlomeno sollevare lo sguardo sul contesto mondiale – su una fase della dinamica della lotta di classe caratterizzata dall’estrema debolezza del proletariato, e si teorizza invece una sua perdita di capacità di lotta. In base a tale “teoria” non sarebbero le circostanze materiali legate al ciclo dell’accumulazione a mettere in movimento la classe, circostanze che andrebbero indagate con impegno per spiegare l’alternarsi dei cicli di forza e di debolezza del movimento operaio, no, è la classe operaia che non sa più come si fa a difendere i propri interessi immediati e storici. Un sottotesto di questo tipo rivela un soggettivismo ed un moralismo desolanti oltre che una mancanza di fiducia nel ruolo storico del proletariato, tipica dell’impazienza ondivaga delle mezze classi e carica di implicazioni politiche inquietanti, non ultima la grottesca presunzione di “pungolare”, con esempi edificanti o con degli slogan, una classe che nel complesso rimarrebbe colpevolmente “alla finestra”.

L’aumento delle spese nel cosiddetto “stato sociale” ha corrisposto ad un precedente ciclo dell’accumulazione. Il ciclo di lotte operaie di 40-50 anni fa è riuscito mediamente a mantenere il salario sul livello del valore della forza lavoro, negli ultimi 40 anni però la pulsione del capitale ad abbassare il salario al di sotto del valore della forza lavoro, o ad abbassare questo stesso valore, non si è certamente fermata e sotto questo profilo ha tratto vantaggio anche del livello raggiunto dalle spese nei “servizi sociali”. Nel frattempo, abbiamo assistito ad un progressivo indebolimento della spinta rivendicativa della classe operaia. Questo però non ha finora pesato oltremisura sul proletariato, anche perché merci a basso prezzo, prodotte in aree in cui il prezzo della forza lavoro è ancora schiacciato, sono entrate nel consumo della classe operaia dei paesi capitalisticamente maturi, andando a lenire gli effetti della riduzione del salario.

Ora, di fronte alla crisi e alle difficoltà nel processo di accumulazione, il capitale tende ad accelerare la modifica, già in corso da decenni, della ripartizione delle voci di spesa del suo Stato. Ripartire diversamente le voci di spesa significa ridurre la spesa pubblica? In nessun modo. Non avremmo assistito al suo gigantesco aumento nel corso della storia del capitalismo in generale e negli ultimi decenni in particolare.

Rispondere a questa domanda è fondamentale per capire il ruolo della spesa pubblica. Come abbiamo già scritto, la spesa pubblica non va identificata con il cosiddetto “stato sociale” ma con le spese complessive necessarie al mantenimento di tutta una serie di funzioni sociali, essenziali al regolare svolgimento del modo di produzione capitalistico. Queste funzioni non soltanto sono cresciute a dismisura negli ultimi 40 anni, mentre le spese in servizi sociali sono diminuite, ma in momenti di crisi devono anche cercare di non diminuire troppo e troppo in fretta per mantenere la stabilità sociale: pagando gli stipendi degli impiegati pubblici, erogando “ristori” agli strati intermedi in generale, vero pilastro della stabilità del sistema, e fornendo sussidi ad una parte della classe operaia colpita dalla disoccupazione.

È ovvio che se le spese per i servizi sociali che sostengono il salario dell’operaio vengono ridotte di colpo, o ad un ritmo fortemente accelerato, nell’immediato si arriva ad una situazione drammatica in cui la classe operaia si ritrova non solo con il proprio salario al di sotto del valore della forza lavoro, ma anche privata del sostegno fornito dallo “stato sociale”. In questa situazione, la lotta per adeguare il salario al valore della forza lavoro, complice la pluridecennale mancanza di abitudine alla lotta rivendicativa e di organizzazione del movimento operaio, non può ottenere risultati nel breve termine. Ed è proprio per questo che non possiamo essere indifferenti nei confronti dei tagli alla sanità pubblica, a quelli delle spese per l’istruzione e dello smantellamento di tutti quei servizi da cui oggi trae vantaggio anche la classe operaia.

Tuttavia, è qui che si pone il problema fondamentale. Come può il proletariato difendersi efficacemente da questa prospettiva? Chiedendo allo Stato di snaturarsi? “Imponendogli” di funzionare contro sé stesso e contro la classe di cui rappresenta gli interessi? E come? Illudendosi che la classe operaia possa controllare lo Stato borghese, con il voto o con le cosiddette “mobilitazioni sociali” – che poi in fondo non sono altro che una pressione riformista extraparlamentare nei confronti… del parlamento –, prima di abbatterlo e sostituirvi la propria dittatura? È quello che vogliono farci credere i massimalisti, ovvero i riformisti radicali. Radicali a chiacchiere, riformisti nella sostanza. È da circa centocinquant’anni che i rivoluzionari internazionalisti hanno imparato che il proletariato non può semplicemente impadronirsi della macchina statale borghese e utilizzarla ma che deve spezzarla, e, dopo un secolo e mezzo sono ancora costretti a perdere tempo con chi sostiene addirittura che il proletariato può utilizzare la macchina statale borghese senza nemmeno prima impadronirsene.

L’unico terreno di lotta sul quale il proletariato, all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, può cercare di esercitare un controllo diretto, per costruire rapporti di forza ad esso favorevoli, è quello della lotta economica: la lotta per il salario, per la riduzione dell’orario di lavoro, per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Certamente questo non è un terreno di per sé rivoluzionario, ma è un terreno che schiera ogni classe e strato sociale sulla rispettiva linea di difesa dei propri interessi concreti, interessi che non possono che essere antitetici, ed è il terreno sul quale può svilupparsi la presa di coscienza politica della necessità dell’abolizione del lavoro salariato stesso. Questo non significa, come vorrebbero far credere i furbacchioni della “million tax”, rinchiudersi nell’economicismo o ritenere che l’unica lotta politica possibile sia direttamente la lotta per il potere.

I “teorici” della TIR hanno più volte fatto l’esempio della lotta per le 10 e 8 ore lavorative per contrabbandare un’analogia con la rivendicazione “patrimonialista”, in quanto entrambe sarebbero il frutto di una pressione delle “mobilitazioni sociali” sulla legislazione e quindi sullo Stato borghese.

Come abbiamo ricordato nell’opuscolo, la lotta per la riduzione della giornata lavorativa non ha niente a che fare con “la pressione delle mobilitazioni sociali”. In quel caso, infatti, si trattava di esercitare una forza reale, concreta, non genericamente “sociale” ma classista, all’interno del rapporto operai-capitalisti generalizzato al di là della singola fabbrica o settore, per poi farla valere sulla legislazione borghese a tangibile beneficio della classe operaia, dandogli concretamente la possibilità di rafforzarsi diminuendo il suo logorio fisico e mentale. Non si trattava allora di strumentalizzare la mobilitazione tradeunionista di una parte della classe operaia per esercitare forme chiassose di pressione politica sullo Stato nell’interesse di altri strati sociali. Se è questo che si intende con “unità della lotta politica con quella economica” non abbiamo nessun problema a dirci contrari, perché non si tratta di uno sviluppo politico della lotta economica ma di una sovrapposizione “politicista” estranea agli interessi della classe operaia che si vuole spacciare per “superamento” dei limiti angusti dell’economicismo.

Detto en passant, risulta oltremodo ridicola l’attribuzione di etichette di comodo quali “economicismo”, “principismo” (qualunque cosa voglia dire) e “indifferentismo”, che nella loro ripetizione rituale e nella loro pretesa – senza risultati – di silenziare ogni critica somigliano all’epiteto: trotskista! ragliato dallo stalinistume anni addietro, come se si trattasse di un insulto. Tra l’altro, chi lancia accuse di economicismo piluccando qualche brano sparso dal “Che fare?” di Lenin dimostra ignoranza e incomprensione anche a questo riguardo: gli “economisti” nel movimento operaio russo di primo ‘900 sostenevano la necessità che la classe operaia si limitasse alla lotta economica, demandando ai liberali la conduzione della lotta politica anti-zarista. All’opposto, il nostro intento non è altro che quello di favorire il processo che dalla lotta economica può condurre la coalizione operaia alla lotta politica per i suoi interessi storici. I sostenitori della “million tax” vorrebbero far passare la panzana che chi si oppone alla patrimoniale 10 x 10 si oppone tout court alla lotta politica. Nossignori, è inutile che continuiate a provarci, noi siamo e saremo contro la vostra politica: una politica dal lessico radicale, ma riformista e interclassista nell’essenza delle cose. Al contrario degli “economisti” russi, non vogliamo che il proletariato demandi ai liberali in costume rivoluzionario la conduzione della sua lotta economica e politica. Tra le righe delle vostre critiche al presunto “economicismo” e “laburismo” si cela il rifiuto di ciò che non riuscite proprio a digerire: il classismo.

Tornando al povero Lenin, è proprio lo studio dei rapporti reciproci tra tutte le classi e gli strati sociali che ci fa dire un secco no alla patrimoniale. Sostenere, come fa chi propugna la poderosa leva della “million tax”, che il salto politico rappresentato da questa battaglia sul terreno fiscale porterebbe automaticamente la classe operaia nientemeno che allo scontro diretto contro tutte le frazioni borghesi e con il loro Stato, svelandone addirittura il carattere classista, evidenzia o una sconsolante ingenuità o la ferma intenzione di auto-ingannarsi, fingendo di ignorare che su questo terreno è possibilissima una convergenza di fatto con alcuni settori della borghesia, pronti – cosa non nuova nella storia del movimento operaio – ad utilizzare il proletariato come massa di manovra nelle loro lotte contro altre frazioni borghesi. Basti, come esempio, l’utilizzo borghese della rivendicazione della riduzione del cuneo fiscale, figurarsi quello di una patrimoniale, che viene proposta anche da alcuni dei più potenti rappresentanti della classe dominante a livello internazionale. La diatriba su quale percentuale di prelievo sui patrimoni dei “più ricchi” costituisca il salto dialettico dalla quantità alla qualità “rivoluzionaria” di una banale riforma borghese sarebbe persino divertente se non si pretendesse che possa fare la differenza tra una patrimoniale “di classe” e quella di tutti gli altri. È, d’altronde, tipico del riformismo, dopo aver proposto la riforma di turno, farsi premurosamente carico di indicare anche le risorse per realizzarla, nell’ambito dell’immutabile ordine capitalistico. Il parziale “passo di lato”, fatto da chi fino a qualche mese fa riteneva la “million tax” la madre di tutte le rivendicazioni e che adesso la sposta in posizione quasi marginale insieme ad altre rivendicazioni condivisibili, anche sul terreno fiscale, somiglia alla pratica di camuffare il coltello ponendolo accanto a forchetta e cucchiaio: può sembrare inoffensivo, ma non lo è. Un solo cucchiaio di olio motore in una cisterna di acqua potabile la rende tutta imbevibile. Noi questo intruglio non ce lo beviamo, e faremo di tutto – nei limiti delle nostre forze e di quelle di chi condivide questa battaglia – per non farlo bere alla classe operaia.

Ribadiamo che proporre una patrimoniale come rivendicazione che rafforzerebbe la classe operaia nella sua strada verso la rivoluzione è una lampante assurdità. Da un lato il proletariato non può imporre allo Stato borghese di mettere in discussione sé stesso senza abbatterlo – e se il movimento operaio, vecchio, nuovo o lavato con Perlana, avesse la forza di imporre allo Stato borghese come indirizzare le sue voci di spesa non si comprende per quale ragione al mondo dovrebbe fermarsi a mezza strada e accontentarsi di questo, tutto sommato mediocre, risultato –; dall’altro, proposte di patrimoniale persino più radicali di quelle sbandierate oggi provengono proprio da importanti rappresentanti della classe dominante, segno non tanto di una qualche “paura” della borghesia di fronte a “mobilitazioni sociali” che starebbero facendo tremare il mondo, quanto piuttosto di esigenze capitalistiche che se avranno un qualche effetto sulla classe operaia sarà probabilmente quello di impedirne o rallentarne la mobilitazione sul terreno di classe, per condurla narcotizzata e politicamente disarmata verso quella che è sempre stata l’unica vera soluzione capitalistica alla caduta del saggio di profitto: la ricostruzione dei margini di valorizzazione del capitale tramite la crisi e la guerra.

A cosa è servito il New Deal se non a legare al carro della propria borghesia il proletariato americano che, pur senza essere minimamente arrivato a far vacillare il potere borghese, stava risvegliandosi potentemente sul terreno di classe? A cosa sono serviti i lavori socialmente inutili e i sussidi di disoccupazione negli USA se non a mantenere la necessaria stabilità sociale finché non fu possibile ricostruire la redditività del capitale tramite la spesa bellica nel 1937 e con la distruzione di forze produttive operata dalla guerra stessa pochi anni dopo?

Ovviamente non pensiamo che chi propone l’assurdità della “million tax” lo faccia sempre con dolo. Riteniamo piuttosto che la rivendicazione rappresenti l’espressione teorica più o meno consapevole della natura sociale degli interessi di chi se ne fa promotore. Lo abbiamo spiegato nell’opuscolo: parte degli strati sociali il cui reddito deriva indirettamente dal plusvalore estorto alla classe operaia e che hanno in comune con questa la forma salariale che assume il loro reddito.

Con lo sviluppo della produzione capitalistica tutti i servizi si trasformano in lavoro salariato e tutti coloro che li eseguono in lavoratori salariati, avendo questo carattere in comune con l’operaio. Alcune di queste figure sociali, di fronte allo spauracchio della crisi e della conseguente incertezza dell’esistenza, tendono ad identificare le proprie esigenze di sopravvivenza come strato sociale con quelle della classe operaia e, nell’assenza di un’organizzazione classista del proletariato, tendono ad egemonizzarlo. Il problema è che i loro interessi, non come individui ma come strato sociale, divergono necessariamente da quelli del proletariato. Più reddito per questi strati intermedi o “terze persone” impiegate dallo Stato borghese significa più spesa pubblica, più spesa pubblica significa più estorsione di plusvalore agli operai. Non si scappa. Ecco che la teoria del salario indiretto viene molto opportunamente a rappresentare la foglia di fico che copre le vergogne: per essa, infatti, anche il proletariato avrebbe interesse a che la spesa pubblica cresca, perché più spesa pubblica significherebbe più salario indiretto…

Ora, ciò implica meccanicisticamente che il movimento operaio debba considerare questi strati sociali come “nemici”, alla stregua del capitale e dei suoi funzionari? No. I bolscevichi hanno trovato persino nei piccoli contadini degli alleati nel processo rivoluzionario russo, e i contadini non erano collocati all’interno della forma salariale. Similmente gli strati sociali intermedi possono diventare alleati della classe operaia nella sua lotta contro il capitale, ma non in ogni circostanza. È necessaria una crisi profonda del sistema capitalistico per ridurre drasticamente parte delle sue spese improduttive e per costringere lo Stato borghese a ridurre altrettanto drasticamente parte della schiera dei suoi funzionari e impiegati. Solo circostanze di questa portata possono far vacillare la fede di buona parte di questi strati sociali nel capitalismo e nel suo Stato.

Ad ogni modo, se gli operai russi sono riusciti ad egemonizzare le spinte dei contadini russi, affamati di terra e aspiranti alla proprietà borghese, e ad utilizzarle in funzione antifeudale e per la difesa della dittatura proletaria è perché essi stessi si erano costituiti in classe e con ciò in partito politico. Non ha alcun senso cercare alleati quando non si dispone di un esercito, e non si costruisce un esercito con elementi dagli interessi divergenti.

Al contrario la parola d’ordine della patrimoniale risulta “vincente” per i suoi promotori perché ovvierebbe alla debolezza operaia coinvolgendo nelle “mobilitazioni” altre classi e strati sociali. Ma attualmente, di fronte ad un movimento operaio debole e disorganizzato, cercare spasmodicamente l’alleanza con gli strati sociali intermedi significa in concreto subordinare il movimento operaio stesso agli interessi di questi strati sociali. Ed è sulla base di questa considerazione, e non per un presunto “settarismo operaio”, che riteniamo fondamentale e prioritario costruire l’esercito – concentrandoci sulla costituzione del proletariato in classe sul terreno delle sue, e soltanto sue, rivendicazioni – piuttosto che attardarci nella ricerca di una “massa critica”, nei fatti interclassista e dunque votata al disastro.

Abbiamo il sospetto che l’intera traballante costruzione teorica che si cela dietro la rivendicazione di una patrimoniale “di classe” non sia altro che il risultato dell’incapacità di comprendere le caratteristiche della fase attuale, e che sia figlia da un lato della constatazione delle attuali difficoltà del proletariato sul terreno della lotta economica e del mancato allargamento di questa lotta ad altri settori operai (peraltro senza comprendere appieno perché in alcuni settori, come in quello della logistica, la lotta ha luogo e con certe modalità mentre in altri settori non avviene lo stesso), e, dall’altro, del miserando tentativo di trovare delle scorciatoie ad un lavoro di lunga lena e ben poco appariscente con fughe in avanti politiciste.

L’idea di fondo dei patrimonialisti, nella sostanza, è che la difficoltà di organizzazione degli operai sul terreno dello scontro con il proprio capitalista, all’interno del processo lavorativo immediato, possa essere aggirata e surrogata con cortei e manifestazioni per raccattare energie di massa non mobilitabili con lo sciopero. Gli scioperi e i picchetti non bastano – è questo il ragionamento –, ma non bastano per raggiungere quali obiettivi? Ci domandiamo. E, senza teorizzare nessuna rinuncia agli strumenti del corteo e della manifestazione, ci domandiamo anche quali strati sociali possono aderire più facilmente e con continuità a cortei e manifestazioni piuttosto che a scioperi e picchetti.

La lotta economica ha dei limiti e delle potenzialità.

Nella società mercantile, se sono un venditore e voglio vendere la mia merce dovrò stabilire un prezzo che non rovini il compratore, altrimenti la mia merce rimarrà invenduta. Il sindacato, che in fondo è un venditore delle braccia operaie che rappresenta, avrà sempre un limite – un limite che il capitalista cercherà ovviamente sempre di spingere più in là – ogni qual volta si arriva al punto in cui la stessa esistenza dell’azienda in cui lavorano gli operai viene messa in discussione. Oltre questo punto non si può andare con la sola azione tradeunionistica. Il capitalista deve guadagnare quel tanto che è funzionale a tenere aperta l’azienda, un tanto che è crescente. Se il sindacalista però si pone come obiettivo non la gestione dell’esistente ma l’abolizione del lavoro salariato, allora passa al contrattacco, e, pur consapevole che la sola lotta economica non può risolvere il problema, utilizza questa contrattazione non in funzione della mera vendita della forza lavoro ma piuttosto nell’ottica del rafforzamento dell’unità degli operai, per costruirne e organizzarne la forza, con l’obiettivo non della conservazione ma della eliminazione del compratore. Se si ha questa prospettiva politica si riuscirà anche sul terreno della lotta economica ad essere determinati, a non compromettersi, a non dividere o mandare allo sbaraglio gli operai, a non separare e isolare i pochi dalla maggioranza. Se non si possiede questa prospettiva, ad un certo punto si sarà più che disponibili a farsi carico delle difficoltà dei capitalisti, che dal canto loro sono abilissimi a dimostrare numeri alla mano che una mezz’ora in meno di lavoro li manderebbe in rovina – non è quanto dicevano anche quando si voleva passare dalle 12 ore di lavoro alle 10, più di centocinquanta anni fa? – e non si riuscirà nemmeno a resistere all’abbassamento dei salari al di sotto del valore della forza lavoro. Se non si possiede questa prospettiva si può reagire alle difficoltà della lotta operaia cercandone un’illusoria soluzione nelle agitazioni sociali apparentemente simili degli strati intermedi.

Più volte Marx ha ribadito che occorreva far leva sulla lotta economica per arrivare alla lotta politica, ed era contrario all’idea della separazione della lotta economica dalla lotta politica, intendendole come due piani distinti ma non separati, come momenti di uno stesso processo. In certi momenti il contrasto che in fabbrica contrappone operai e padroni si generalizza, coinvolge prima una categoria, poi l’insieme della classe operaia e porta allo scontro con la classe capitalista e con la sua organizzazione statale.

La lotta economica è il terreno fertile sul quale può germogliare la lotta di classe politica. Compito dei comunisti, in quanto espressione teorica della classe operaia, è fare sì che il proletariato coltivi, curi questi germogli e organizzi il raccolto. Se il momento del raccolto viene meno, i frutti sono destinati a marcire sul campo e la lotta economica rimane all’interno dei limiti che da sola non può superare, oppure, vengono raccolti dalle espressioni politiche della borghesia e delle mezze classi in seno al movimento operaio.

Finché esiste il capitalismo la lotta per il salario è ineliminabile e si ripresenta regolarmente, ma arrivati ad un certo punto, nel momento in cui la crisi capitalistica si manifesta, nelle sue varie forme, la necessità del capitale di continuare ad esistere come capitale si scontra con la necessità della sopravvivenza fisica del proletariato: un ostacolo inamovibile si scontra con una forza inarrestabile, un paradosso che costituisce l’essenza oggettiva del processo rivoluzionario. A questo punto l’elemento soggettivo è quello che determina quale lato del paradosso deve venire meno: l’inamovibilità dell’ostacolo costituita dall’esigenza della valorizzazione del capitale o l’inarrestabilità della forza dell’istinto di sopravvivenza del proletariato. Se nel corso della lotta economica si è costruita l’organizzazione di classe, politicamente consapevole e radicata, sarà possibile trasformare la crisi del capitalismo nel suo crollo.


Relazione tenuta in occasione delle presentazioni dell’opuscolo “Il Marxismo e la questione fiscale” svoltesi a Viterbo (5 giugno 2021) e Roma (11 luglio 2021).

NOTE
[1] K. Marx – F. Engels, La critica moraleggiante e la morale criticante, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1973, vol. VI, p. 348. All’epoca di Marx le tasse che venivano pagate dagli operai erano perlopiù quelle indirette, le imposte pagate acquistando i beni di consumo, ma il discorso non cambia nella sua sostanza.
[2] “Il livello del salario espresso non in denaro, ma nei mezzi di sussistenza necessari per l’operaio, cioè il livello del salario reale, non di quello nominale, dipende dal rapporto tra domanda e offerta. Una modifica del sistema fiscale può produrre un turbamento temporaneo, ma a lungo andare non cambia nulla… In tutta la questione il proletariato non ha interesse o ha solo un interesse momentaneo”. K. Marx, Il comunismo del «Rheinischer Beobachter», Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1973, vol. VI, pp. 237-238.
[3] E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano, 1969, Vol I, p. 220.

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