Ventinove tesi
di Michele Castaldo
Da La crisi di una teoria rivoluzionaria
A dicembre del 2018 pubblicai La crisi di una teoria rivoluzionaria, un libretto breve e conciso, dove cercavo di spiegare le ragioni della crisi di una teoria che si richiama al marxismo. In appendice declinavo 29 tesi che qui pubblico nel tentativo di smuovere un dibattito ormai impantanato in schemi e ideologismi nel quale si dimenano gran parte dei militanti di sinistra, anche i migliori, cioè i più onesti, quelli che non rincorrono arrivismi nel sottobosco del potere politico, oppure quelli dediti a carrierismi e leaderismi in sette chiesastiche. Non mi nascondo: è un sasso nello stagno. La fase è complicata e una riflessione si impone.
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Il moto-modo di produzione capitalistico è un insieme di rapporti degli uomini con i mezzi di produzione e di leggi oggettive che hanno come epicentro il mercato e la concorrenza a cui gli uomini sono incapaci di sottrarsi.
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Il soggetto è il movimento storico divenuto modo di produzione capitalistico, con classi e interessi fra le classi che sono complementari e contrastanti al contempo.
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Questo movimento generale cui gli uomini sono arrivati dopo secoli di sviluppo è la conseguenza di rapporti di produzione precedenti superati da nuove forze produttive.
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Detto movimento sta entrando in una crisi generale non per l’opposizione di una classe al suo interno, ma perché ha saturato il processo di produzione e riproduzione semplice e allargato, con una sovrapproduzione sia di merci che di mezzi di produzione privi di sbocchi.
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In virtù di tale meccanismo il moto-modo di produzione capitalistico è destinato ad avviarsi verso il caos generale senza alcuna possibilità di correggere le leggi che lo regolano.
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Non c’è e non ci può essere – in virtù di dette leggi – nessuna classe in grado di capovolgere a suo favore il rapporto di proprietà dei mezzi di produzione e organizzare diversamente la produzione e quindi determinare nuovi rapporti sociali.
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Tutte le classi si intersecano in un movimento fluido dato dall’accumulazione del capitale, esse sono complementari e subiscono modificazioni secondo l’accelerazione o il rallentamento dell’accumulazione che rincorre a sua volta l’aumento continuo della produttività, sempre attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie.
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In virtù di tali considerazioni sono da ritenersi illusori e privi di ogni valenza storica gli strascichi teorici e politici del movimento operaio del ‘900 che fondava le sue prospettive sull’autonomia della classe operaia e sul presupposto di una sua metamorfosi da classe in sé – per il capitale -, a classe per sé, cioè per la rivoluzione.
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Il proletariato è costretto a seguire pedissequamente il proprio capitalismo nazionale per tenersi a galla come classe subordinata, nonostante venga continuamente svalorizzata, cioè impoverita.
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A sostegno della precedente tesi citiamo l’esempio di determinati settori produttivi trainanti come la siderurgia, la metallurgia e la chimica, in modo particolare quelli più inquinanti, che vedono una convergenza tra capitalisti e operai senza che i secondi riescano in qualche modo a separare i loro destini dai primi, proprio come i girasoli guardano il sole per mantenersi in vita.
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I capitalisti, in modo particolare in Occidente, stretti nella morsa della crisi, fanno pressione sugli Stati per un ritorno allo sciovinismo più becero. Perciò ogni Stato manda in frantumi anche il benché minimo obiettivo su ambiente, sanità e immigrazione per rincorrere fantomatiche e impossibili nuove misure protezionistiche per mantenere in vita l’insieme dell’economia nazionale sorretta dal profitto. E gli operai sono costretti a subire passivamente le imposizioni dei capitalisti.
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L’esistenza dei fattori oggettivi dello sfruttamento e dell’oppressione non sono sufficienti a determinare l’azione rivoluzionaria degli sfruttati e degli oppressi, ma è necessario che maturino i fattori determinati da una crisi generale del modo di produzione capitalistico.
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La natura materiale dei bisogni umani è alla base dell’azione e quindi della formazione di una coscienza storicamente determinata dei lavoratori. Essa si esprime in idee che danno luogo a movimenti e partiti politici ideali che mutano con il mutare delle necessità oggettive degli oppressi e degli sfruttati.
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La lunga marcia della liberazione degli oppressi e degli sfruttati può trovare uno sbocco definitivo solo con l’esaurirsi del moto-modo di produzione capitalistico.
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La lotta sindacale degli operai è una necessità contingente, un riflesso agente di cui farebbero volentieri a meno, ma sono costretti ad agire sempre come extrema ratio, di volta in volta, secondo l’andamento dell’accumulazione capitalistica nell’infernale meccanismo della concorrenza tendente progressivamente a un livellamento fra le varie aree geografiche.
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La natura sindacale della lotta proletaria si è distinta in quattro fasi: una prima fase di associazioni di mutuo soccorso; una seconda fase di associazioni di operai specializzati, di muto soccorso e di difesa corporativa contro il capitale e insieme contro la crescente concorrenza dovuta allo sviluppo di sempre nuove tecnologie; una terza fase di associazioni di proletari, operai comuni de-professionalizzati dall’accresciuta tecnologia, che chiedono quota parte nel processo crescente dell’accumulazione capitalistica; una quarta fase, quella attuale, in modo particolare in Occidente, per contenere l’arretramento dell’accumulazione.
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I comunisti, cioè l’espressione politica delle necessità oggettive dei lavoratori, sono una costante storicamente determinata, scissa in due linee parallele: una ideale e una reale, una rivoluzionaria e l’altra riformista. Il programma del partito rivoluzionario-ideale si colloca alla fine del moto-modo di produzione capitalistico. Mentre il percorso riformista è il movimento reale del proletariato che in quanto complementare si comporta con il capitale proprio come i girasoli con il sole.
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Dagli anni ’70 del secolo scorso il proletariato delle metropoli occidentali ha cominciato a regredire a causa della caduta tendenziale del saggio di profitto e dell’accresciuta concorrenza del proletariato nordafricano e asiatico.
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L’attuale fase della lotta sindacale si caratterizza soprattutto per il lento, graduale e progressivo impoverimento del proletariato delle metropoli, senza possibilità che tale tendenza si inverta.
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Questa fase preannuncia una rottura totale con quelle precedenti, nel senso che non si potranno più dare nuove associazioni operaie con le stesse caratteristiche, cioè complementari all’accumulazione e allo sviluppo capitalistico e tendenti a migliorare la propria condizione di classe. Il nuovo movimento operaio nasce dall’implosione del modo di produzione capitalistico.
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Con l’approssimarsi di una conflagrazione generale dell’intero sistema capitalistico la questione sindacale si connota perciò in maniera diversa rispetto al precedente ciclo: arretramento disordinato del vecchio movimento operaio e avanzamento altrettanto disordinato del costituente nuovo movimento operaio su basi necessariamente diverse i cui connotati al momento sfuggono a ogni previsione.
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Il nuovo movimento operaio comincerà a darsi con fiammate improvvise, fluttuando e rifluendo, perché sarà oggettivamente incompatibile con la crisi generale del modo di produzione capitalistico.
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All’impoverimento del proletariato delle metropoli imperialiste sta corrispondendo una sostanziale modificazione della struttura economica dei paesi di giovane capitalismo con una nuova proletarizzazione di centinaia di milioni di nuovi operai. Essi non possono più essere parte di nuovi nazionalismi e unità popolari anticolonialiste e antimperialiste basate su una economia prevalentemente agricola.
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I comunisti della nuova epoca storica vengono a configurarsi come molecole sparse disordinatamente, proprio come disordinatamente comincerà a mobilitarsi il proletariato. L’aggravarsi della crisi porrà alle masse proletarizzate la necessità di un’aggregazione molecolare e così diverranno rivoluzionarie di fatto.
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E’ del tutto anacronistico rappresentare gli interessi delle future generazioni degli oppressi e sfruttati con il simbolo della falce e del martello, perché esso ha avuto un significato nel movimento ascendente del capitalismo le cui rivendicazioni erano la sottrazione della terra ai feudatari in favore dei contadini, da una parte, e la vendita organizzata della forza lavoro per gli operai, dall’altra parte.
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Per queste ragioni un nuovo manifesto comunista non può che essere espressione di una ribellione generalizzata delle nuove generazioni proletarie tanto nelle periferie quanto nelle metropoli, che vedono avanzare il caos senza alcuna prospettiva di una vita migliore. Si tratterà di un movimento composito, a macchia di leopardo, disordinato e non ideologico che, strada facendo, troverà le sue linee guida e i suoi programmi di prospettiva che saranno per forza di cose lontani e distinti da quelli delle classi oppresse e sfruttate del capitalismo ascendente.
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In assenza di mobilitazioni generalizzate nelle diverse aree e nei diversi continenti, parlare di programmi politici è privo di senso, un esercizio al quale non ci sentiamo di partecipare.
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La forza dei comunisti più che nelle capacità della classe operaia sta nell’essere il riflesso delle difficoltà del modo di produzione capitalistico, che a ondate aumentano progressivamente fino alla sua implosione. Questo vuol dire che è la crisi a far scattare quel famoso riflesso agente in settori, categorie e classi sociali, che si compongono in massa d’urto e dunque in possibile soggetto rivoluzionario.
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Resta aperta la questione dello Stato, cioè di uno strumento capace di gestire in senso comunistico risorse, produzione e distribuzione. Un tema rispetto al quale è perfettamente inutile arrovellarsi il cervello perché sarà possibile affrontarlo solo in presenza di condizioni oggettive, storicamente determinate, e comunque si tratterebbe di centralizzare il tutto a livello mondiale. Si tratta di un’opera improba certamente, ma con gli attuali livelli di sviluppo dei mezzi di produzione sarebbe meno difficoltoso dei secoli precedenti. La vera questione da affrontare è se l’umanità, dopo aver sperimentato fino in fondo benefici e i danni del modo di produzione capitalistico, sia in grado di incominciare a ipotizzare ruoli e rapporti che superino i vecchi rapporti di produzione per mettere all’ordine del giorno una centralizzata produzione e distribuzione tanto delle risorse naturali quanto di quelle umane.
Allora mi chiedo in base a quale criterio i partiti sedicenti comunisti ancora presenti oggi in Russia e Cina dovrebbero essere dei "falsi" partiti comunisti, mentre il partito sedicente comunista non più presente in Italia da quel dì (il P.C.I.) sarebbe stato un "vero" partito comunista.
Mi sembra che si formuli questo giudizio sulla base del fatto che la strategia dei primi diverge notevolmente dalla strategia del secondo. Ma la strategia del secondo (raggiungimento del socialismo tramite applicazione progressiva dei principi della costituzione antifascista tramite partecipazione democratica e allargamento sempre più universale dello stato sociale) sappiamo per certo essersi rivelata fallimentare. Lo stesso dicasi per la distanza tra la strategia dei due succitati partiti comunisti tuttora esistenti e quella del PCUS, che sappiamo benissimo non esistere più.
Dunque si giudicano falsi due partiti tuttora esistenti che affermano di perseguire l'obiettivo del comunismo secondo una determinata strategia, sulla base del confronto di questa loro strategia con quella di due partiti che hanno fallito il loro obiettivo.
Mi sembra che qui ci sia qualcosa che non quadra.