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cumpanis

Movimento comunista in Italia

di Raffaele Gorpìa*

IMMAGINE ARTOCOLO DI GORPIADelle ragioni legate all’assenza nel nostro Paese di un partito comunista degno di tale nome, dopo il suicidio del PCI, si è lungamente (e improduttivamente) dibattuto senza tuttavia che vi sia stata una univocità sostanziale di vedute che potesse contribuire alla ricostruzione di un soggetto politico rivoluzionario. Il fallimento del Partito della Rifondazione Comunista (neppure percepito come tale dai suoi attuali residui militanti), ha ulteriormente complicato le cose nell’immaginario collettivo perché avvenuto solo dopo pochi anni dal crollo del Muro di Berlino; a tal proposito, giova ricordare che oggi siamo ben lungi dall’avere una uniformità di vedute non solo riguardo alle cause che hanno portato alla dissoluzione dell’Urss ma anche rispetto alle cause profonde che hanno condotto alla morte del PCI. Possiamo però, in riferimento all’ultimo trentennio, dopo la scomparsa del PCI, in mancanza di una ricostruzione storica sistematica, almeno ripartire da alcuni elementi storici recenti e da alcune dinamiche significative di vita politica del Partito della Rifondazione Comunista nonché delle sue schegge fuoriuscite nelle varie scissioni, per cercare di comprendere alcune delle cause della drammatica fase vissuta attualmente dai comunisti in Italia, dovendo, nel frattempo, constatare ancora una volta come la storia, come diceva Antonio Gramsci, è sì maestra di vita, ma (ancora oggi), non ha scolari.

Un periodo decisivo i quadri intermedi di maggioranza del PRC lo ebbero nel momento della votazione per la partecipazione o meno ai due governi Prodi, già predisposti come erano a sostenere e votare in maggioranza le direttive del gruppo dirigente; ai quadri intermedi carrieristi interessava entrare nel governo, anche in alleanza con forze politiche antagoniste, e non importava se ciò avvenisse tenendo il cappello in mano e senza alcun reale rapporto di forza.

L’importante diveniva, in questo caso, entrare nell’area di governo in quanto in palio vi era lo spostamento virtuoso degli organigrammi che spingevano tutti verso l’alto; altro che errori di linea, tanto più che, durante le concitate fasi del dibattito, a nessuno interessò sapere il parere delle iscritte e degli iscritti collocati “in basso nel partito”, incuranti come erano i quadri intermedi del famoso principio “una testa un voto”. Ed ecco che, in linea con la degenerazione democratica, già ampiamente all’epoca diffusa, coloro che stavano in basso divenivano solo dei numeri astratti, una massa informe e lontana ma utile essenzialmente solo in due momenti: quello elettorale e quello della legittimazione formale ai congressi locali; non era altro questa, da parte del PRC, che la messa in pratica delle teorie elitarie della destra. Per decenni i quadri intermedi hanno espropriato, attraverso il monopolio della rappresentanza unito al meccanismo della delega totale, l’impegno sociale e politico di numerosi e diffusi attori sociali presenti sui territori.

Potremmo sarcasticamente ed amaramente affermare che la famosa distinzione “classe in sé” e “classe per sé” viene trasformata in “ceto politico per sé”, il tutto supportato, però, da un linguaggio politico antagonista e rivoluzionario. Il crimine politico-culturale perpetrato da taluni quadri dirigenti è stato esattamente quello per cui, manipolando i fini fondativi delle loro organizzazioni a favore delle proprie carriere politiche, hanno desertificato conoscenze, inchieste sociali e relazioni di società civile, facendo scissioni a ripetizione, pur di riposizionarsi e perpetuare il loro ruolo parassitario della rappresentanza. Ed è accaduto precisamente che l’uso, ovvero la mediazione di strumenti nei diversi settori quali mezzi di produzione, mezzi per la mobilità o mezzi per la comunicazione, nella rappresentanza politica e non solo, da semplice elemento utile tende a divenire qualcos’altro; questo è un fenomeno che non è confinato solo all’ambito filosofico bensì fa parte della vita quotidiana più di quanto non immaginiamo.

Solo per fare un semplice esempio, se un docente di matematica vieta l’uso della calcolatrice ai propri studenti, lo fa affinché il loro sapere divenga un patrimonio a loro intrinseco e non sia delegato alla macchina, al contrario se ci si abitua all’uso del calcolo automatico, nel momento in cui l’uso della calcolatrice divenga impossibile poiché la stessa non risulti reperibile, allora ecco che lo studente scopre di non aver perso solo lo strumento ma anche di aver smarrito una parte di sé. Lo stesso avviene nella rappresentanza politica, classicamente intesa, in quanto la delega totalizzante verso le élite dirigenti del partito gerarchico produce, tra gli aderenti, alienazione e smarrimento di sé, senza peraltro neppure un abbozzo di pratica di “centralismo democratico”. Sono questi gli elementi che hanno prodotto anche nel nostro ambito politico la formazione di una sotto casta divenuta presto invisa al suo stesso popolo che l’ha sostenuta. Sorgono, a questo punto, alcune spontanee domande; possono gli esponenti del partito di classe elaborare una visione strategica di lungo periodo stando contemporaneamente ai vertici di partito e nelle sedi parlamentari, legati come sono agli svolgimenti della tattica parlamentare, con i relativi impegni di lavoro e la sovrapposizione delle loro funzioni ai vertici del partito? Può essere la tattica giornaliera la bussola strategica e l’orologio politico che stabilisce i tempi e le modalità e il timone dell’orientamento politico di lungo periodo?

Ma, soprattutto, sarebbe interessante capire quale sia realmente il rapporto tra i partiti della sinistra (preferibilmente comunisti) e coloro che elaborano ricerche e studi nei diversi settori della società capitalistica, sulle sue classi, i suoi mutamenti sociali e i nuovi processi produttivi, sulle sue crisi economiche e sulle sue contraddizioni. Dove sono gli economisti, gli studiosi marxisti e dove è finita l’inchiesta sociale? Il partito di classe novecentesco è il dominio del professionismo politico delle élite che traggono la loro legittimazione dalla forma delegata della rappresentanza parlamentare la quale, a sua volta, non produce soggettività antagoniste ma si limita solo a rappresentarle (oggi non ne abbiamo più neppure la rappresentanza a dire il vero). La tattica politico-parlamentare si auto-legittima giorno dopo giorno, quindi il calendario dei lavori parlamentari ne scandisce i tempi. Il professionista politico non ha bisogno dell’inchiesta sociale o della teoria marxista; quest’ultima viene relegata a svolgere solo una funzione ideologica e legittimante ma non è destinata a divenire prassi. Tale situazione poteva essere ancora comprensibile più o meno fino a circa quarant’anni fa, quando il partito novecentesco riproduceva al suo interno l’organizzazione della fabbrica e i conseguenti rapporti di proprietà e di comando-esecuzione di tipo militare, dove le funzioni di responsabilità e di gestione, formalmente divise, erano ricondotte sotto la direzione di un consiglio di amministrazione o di un singolo proprietario. In modo analogo il partito di classe tradizionale riproduceva questo agire organizzativo e, come per incanto, quell’assemblea di uguali che reclamava un mondo senza disuguaglianze finiva per applicare al proprio interno i meccanismi del dominio e dei privilegi che generavano nuove diseguaglianze.

Altro che partito dalle pareti di vetro di Álvaro Cunhal, così magistralmente descritto nel suo libro non a caso per decenni mai tradotto in Italia; i partiti di classe, al contrario, in Italia e non solo, prendevano e in parte prendono in prestito ancora la forma organizzativa dei partiti borghesi senza mai essersi messi realmente in discussione. Ancora oggi, dopo un secolo di esperienze sulle spalle, nell’era delle culture, delle conoscenze, delle specializzazioni diffuse e delle esigenze di forti soggettività politiche sui territori, vengono riproposti ancora modelli organizzativi con dirigenti fortemente motivati a riprodurre se stessi e la propria rendita di posizione, ossia la visione elitaria di una vera e propria aristocrazia proletaria della rappresentanza. Con questo non voglio assolutamente esaltare il “movimentismo” come alternativa dato che lo stesso si è spesso rivelato, proprio per la sua presunta informalità, un fenomeno generatore di relazioni ancor più autoritarie proprio perché non governate da regole neppure in via statutaria.

Si è, quindi, ben lungi dal voler contestare principi ideologici e organizzativi del partito di avanguardia del proletariato, tuttavia il tema resta quello del nodo da sciogliere riguardo alla reale contendibilità dello stesso partito al fine di promuoverne un ricambio virtuoso di classe dirigente, senza scadere nell’eclettismo o in forme di revisionismo come prodromo della trasformazione di un partito rivoluzionario in qualcos’altro. Non si può ricostruire una organizzazione politica senza che questa esprima in modo organico le esigenze delle classi sociali di riferimento. Nei decenni trascorsi si è rimasti, invece, sul terreno di un ceto politico meticcio che esprimeva, e tuttora esprime, in maniera minoritaria, la sua velleitaria radicalizzazione. Oggi le vicende storiche sono mutate, ma la questione all’ordine del giorno è rimasta e per riorganizzare una forza comunista si deve prescindere dal metodo identitario con cui ci si è mossi finora. Gruppi che si autoproclamano partiti, senza una storia che ne legittimi il ruolo e sganciati da un retroterra sociale, diventano solo nicchie manovrate da “segretari generali” in vena di protagonismo che certo non aiutano la ripresa di cui si ha bisogno. Vi è la necessità, al contrario, di un ambito non formale ma sostanziale, di transizione organizzata dove si ritrovino tutti quei comunisti che abbiano voglia di confrontarsi e di lavorare, non in modo propagandistico ma per un progetto comune e che abbiano l’umiltà di confrontarsi e di andare alla verifica delle ipotesi.

Da oltre un secolo, fino ai nostri giorni, il metodo della fondazione del partito anticapitalista segue il percorso che vede come soggetto promotore un gruppo di intellettuali, più o meno ristretto, che aspirano al ruolo di politici di professione (altra cosa dal leniniano rivoluzionario di professione), e sono definibili come soci fondatori. All’inizio, le procedure da loro attuate sono di tipo informale: convegni, appuntamenti assembleari, coordinamenti organizzativi, aggregazione di gruppi e di singoli, elaborazione delle proposte politiche, comunicazione ai media, ecc. Questo modo di procedere, oggi ancora diffusa tra i vari scissionisti del mondo comunista italiano, ci anticipa che la delega e i rapporti di proprietà si costruiscono già prima della norma statutaria la quale si limiterà, appunto, a registrare l’evento organizzativo e i rapporti di proprietà già realizzati. Pertanto, i soci fondatori sono predestinati sin dall’inizio ad essere i futuri leader e le procedure congressuali orientano il percorso in questa direzione, mentre, diciamo così le “masse dei semplici”, radunatesi intorno a loro, sono necessarie per legittimare e realizzare l’impresa politica, secondo la classica divisione del lavoro del partito di inizio Novecento laddove troviamo da una parte il lavoro intellettuale, effettuato dalla minoranza nelle sedi centrali delle aree urbane dove si prendono le decisioni e, dall’altra, il lavoro per così dire manuale presente invece nelle periferie urbane dove, quando va bene, si organizza la presenza politica e si promuovono iniziative politiche, in particolare quelle elettorali alimentando e sostanziando la guida del partito con le risorse economiche raccolte dal basso.

Il meccanismo costitutivo del partito basato sui soci fondatori non è altro che una forma di auto-cooptazione degli esponenti del ceto intellettuale, un criterio che contempla al suo interno, fin dall’inizio, in potenza, quello che sarà il regime proprietario dei promotori, se pur non ancora legittimati ma sufficientemente garantiti perché, per essere certi di portare a buon fine la leadership sull’organizzazione, diviene indispensabile disporre di un contenitore adeguato, di tipo gerarchico, con tutte le funzioni tipiche del partito piramidale e con un adeguato sostegno dal basso. A tutto ciò ancora oggi assistiamo, se pur in sedicesimi, ovvero al puntuale riprodursi di nuovi soggetti che non sono altro che una stanca e per certi versi ancor più meschina riproposizione di quanto già visto più volte da almeno la seconda metà degli anni ’90 fino ad oggi. Ribadiamo che la cultura e l’ideologia alla base di un simile agire politico sono retaggio della tradizione dei partiti di classe formatisi in società di prima industrializzazione, ossia a bassa o assente scolarizzazione, con ristrette élite intellettuali per lo più di origine borghese o agraria, e dunque partiti sviluppatisi in un contesto storico che li rendeva strutturalmente necessari. È facile che, date queste condizioni di partenza, possa poi crearsi, a maggior ragione dopo l’elezione al Parlamento, un ceto politico parassitario foriero solo di disastri sia organizzativi che ideologici.

Ma il problema, come abbiamo potuto vedere nell’ultimo decennio e prima ancora, tocca pure l’area comunista oramai fuori dal Parlamento, allorché possiamo chiaramente constatare che quest’area politica, al di là di divisioni ideologiche, oramai fuori tempo massimo, registra anche croniche divergenze sulle analisi geopolitiche e quindi sull’analisi dell’imperialismo (per cui nessuna unità si è resa oggi ancora possibile), ma fatica anche ad elaborare un’analisi del capitalismo europeo incapace com’è di collocare la dimensione politica e istituzionale in rapporto a quella economico-sociale e, inoltre, è questa un’area politica che non studia le teorie alternative riguardo il significato del deficit e del debito pubblico, si oppone al capitalismo finanziario ma non ne comprende i processi in termini storico-concettuali. Senza analisi limpide della crisi e dei suoi processi, e senza una conoscenza del capitalismo italiano, non sono possibili efficaci strategie di lotta e di eventuali alleanze politiche. Con le dovute differenze, il periodo che oggi stiamo attraversando, somiglia a quello definito al VII congresso dell’Internazionale Comunista, quando Dimitrov e Togliatti indicarono la strada per battere il fascismo. Anche oggi abbiamo bisogno per vincere, invece, di una grande unità di tutte le forze che vogliano realmente liberarsi dall’imperialismo a guida USA per impedire nuove guerre e sulle sue rovine riprendere la marcia verso il socialismo.

Ma il nodo è sempre lo stesso, con quale classe dirigente? Per rispondere a questa domanda, secondo me bisognerebbe innanzitutto capire se sussistano ancora oggi le condizioni per la riproposizione in chiave aggiornata del cosiddetto “intellettuale organico” come lo concepiva Gramsci. Dietro la decretata ideologica fine dell’intellettuale organico, lo smarrimento individualistico dello stesso, vi è la pretesa di annichilire la possibilità stessa di fare scienza della realtà, analisi oggettiva per un’azione politica che parta e ritorni ai soggetti economici, politici e sociali rivoluzionari. Rappresenta questa, cioè, un’altra moda culturale di settori determinati dell’accademia italiana, usata per riciclarsi e porsi come “paladini” disinteressati del patrimonio plurisecolare del marxismo scientifico, ormai purtroppo senza guida né custodia, decretando, allo stesso tempo, dall’interno il suo esaurirsi come spinta propulsiva sia culturale che politica. La scissione, anch’essa pienamente idealistica tra un Marx teorico-profeta della globalizzazione e un Marx politico-rivoluzionario sconfitto dalla storia del Novecento, è un classico esempio di questa deriva professoral-universitaria.

Un nuovo intellettuale organico non potrebbe che essere allora la risultante tra lotte di avanguardia nelle grandi vertenze sul lavoro, sull’ambiente, sulla pace, unitamente ad un ambito culturale (anche universitario) dove si rielaborerebbe in modo aggiornato l’analisi marxista, e tutto ciò in nuce dovrebbe poi costituire il potenziale della nuova scuola quadri di partito dalla quale non si potrebbe assolutamente prescindere. Finanche quest’ultima condizione, indispensabile per ripensare il nuovo partito quale intellettuale collettivo, non garantirebbe di per sé e in modo permanente un’avanguardia all’altezza dei tempi, perché la stessa, a sua volta, potrebbe essere condizionata negativamente da diversi fattori, ma se invece i quadri di partito vengono fuori in maniera posticcia ed eterogenea un po’ come fu ai tempi della formazione di Rifondazione Comunista, quali sarebbero i risultati? Prendiamo come esempio emblematico a tal proposito i rimborsi elettorali che, finché erano in Parlamento, percepirono sia il Partito della Rifondazione Comunista sia il Pdci per cui non sarebbero mancate le risorse economiche per realizzare un centro studi sulle trasformazioni dei processi produttivi e sulla società, e dove invece si è preferito piuttosto investire sul cospicuo patrimonio immobiliare e sugli stipendi. Nello stesso tempo, questi due partiti continuavano a definirsi “anticapitalisti” senza alcuna analisi del capitalismo, a meno che non si ritenga che per esaminare le trasformazioni dei processi produttivi, i conflitti, il capitalismo europeo e internazionale fossero sufficienti le interviste oppure i lunghi interventi generalisti dei loro leader fatti a braccio nei comizi o nei congressi o qualche intervento in merito su Liberazione. Sono queste forme politiche deleterie da cancellare e che, comunque, nessun eventuale ritorno in Parlamento potrebbe occultare. Ancora oggi assisteremmo al segretario di partito che, nel suo intervento congressuale fiume, tratta un numero considerevole di argomenti che attraversano i diversi aspetti della società e che, nonostante la loro complessità, vengono sottoposti ad una forma di riduzionismo narrativo politicamente debole; verrebbero ribadite le prese di posizione già assunte precedentemente con le successive implicazioni politiche. Ancora oggi il calendario dei lavori parlamentari e il clima politico istituzionale contingente informerebbe il suo messaggio (date le premesse non potrebbe essere altrimenti), il politicismo generalista dominerebbe la lettura della società, mentre le questioni sociali, i conflitti e le realtà particolari verrebbero affrontate rapidamente (un po’ come è avvenuto anche in occasione dell’ultima campagna elettorale) in termini prevalentemente propagandistici. In questo modo, l’elaborazione della sintesi politica generale, contingente, e la linea politica che ne deriverebbe, renderebbe marginale o inesistente la teoria marxista che verrebbe, per ciò stesso, usata in modo strumentale a giustificazione del proprio operato determinando così il definitivo divorzio tra tattica e strategia. Successivamente, attraverso l’informazione e l’attivazione dei quadri intermedi, la linea politica verrebbe ancora una volta diffusa in basso all’intero corpo del partito; contemporaneamente, attraverso i delegati eletti nelle istituzioni, la linea politica sarebbe infine portata e mediata all’interno delle assemblee elettive.

Alla fine del percorso e dopo le successive mediazioni. si riuscirebbe a far passare tutto il resto che c’è da far passare. Ecco che così la figura del Segretario Generale di partito si riproporrebbe come un lontano e mitico personaggio al quale verrebbe delegata la elaborazione politica, lui diverrebbe il depositario di una verità rivelata che discende dall’alto. In questo modo non può crescere un partito ma tutt’al più si assisterebbe nuovamente a fenomeni di involuzione testimoniati, ad esempio, dalla circostanza che le singole realtà sociali, più che essere politicamente scandagliate in profondità, sarebbero oggetto di un riassunto descrittivo atto ad entrare in connessione con la linea politica generale; pertanto, la sintesi politica piegherebbe e ricondurrebbe la complessità degli interessi economici e i conflitti ad un quadro speculare all’impianto centralizzato e verticistico del partito. La sintesi politica del segretario del partito generalista, supportata dal calendario politico-istituzionale e da un’ideologia che lo legittima, in tal modo, non troverà più necessaria l’inchiesta e la ricerca sociale, mentre sublimerà nel politicismo istituzionale la propria missione di professionista della politica. In questo modo, tanto gli studiosi marxisti, se iscritti, quanto la base del partito verrebbero ridotti ad un ruolo marginale e passivo, anzi questa stessa base diverrebbe sempre meno di militanti e sempre più di semplici aderenti e simpatizzanti di un partito che così non tarderebbe a trasformarsi in solo partito d’opinione, ovvero quello della sterile indignazione come sostituto della ricerca e della militanza. Bisogna, per esempio, ricordare che Marx in età molto avanzata, oltre alla già notevole mole di lavoro, si fece carico di compilare un questionario per indagare le condizioni di lavoro e di sfruttamento degli operai in Francia. L’inchiesta veniva motivata in questo modo: “Nessun governo, sia esso monarchico o repubblicano-borghese ha mai inteso intraprendere una inchiesta seria sulla situazione della classe operaia francese. In cambio abbiamo una massa di inchieste sulle crisi agricole, finanziarie, industriali, commerciali, politiche”. Marx faceva inoltre presente che, nonostante le scarse risorse, “noi tenteremo con i deboli mezzi di cui disponiamo, di cominciarne una”, questo a testimonianza del fatto che si faceva ricerca anche senza finanziamento pubblico (con ciò ribadisco comunque il mio pieno disaccordo all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, misura che ha definitivamente consegnato la democrazia italiana nelle mani di ristrette oligarchie finanziarie). In definitiva, come è stato già più volte ribadito, a noi serve innanzitutto individuare i piani di analisi fondamentali con le eventuali modifiche e verifiche da fare: ovvero conoscere le fasi storiche del modo di produzione capitalista e dell’egemonia, individuare le trasformazioni strutturali e le condizioni della classe, leggere le trasformazioni della composizione di classe e quindi la conseguente coscienza. In base ad una adeguata analisi della classe rilanciare le nuove forme dell’organizzazione politica aggiornate e quindi adeguate alla nuova composizione di classe. La complessità della nostra società non è un dato nuovo ed è in aumento fin dagli anni ‘60, inoltre, gli altri paesi imperialisti ci hanno preceduto e hanno indicato la strada. Il punto di crisi vero in Italia è stata la divisione tra classe operaia di fabbrica da un lato e il punto più sviluppato delle forze produttive dall’altro, elementi che invece risiedevano congiuntamente nei paesi a capitalismo avanzato e che, seppure non permettevano la rivoluzione, certamente rendevano possibile il conflitto di classe e democratico. Non si tratta in questo caso solo di un processo disgregativo ma riguarda la qualità della forza lavoro e degli altri settori sociali che risiedono nella nostra area e della sua condizione economica, sociale, politica e culturale profondamente modificata, seppure sempre con un ruolo di subordinazione e di proletarizzazione. La tecnologia è la forma della connessione lavorativa e sociale del capitale del presente e del futuro come i grandi spazi lavorativi e urbani erano la connessione lavorativa e sociale del capitale della prima rivoluzione industriale. Siamo passati da una dimensione urbanistica e geografica del capitalismo, e della politica, ad una dello spazio non naturale dettato dalle tecnologie.

E, mentre già nei Grundrisse, in Marx è il sapere la principale forza produttiva, oggi lo è la sua evoluzione: lo spazio non naturale dove si intrecciano tecnologie della comunicazione, robotica, intelligenza artificiale e flessibilità umana. Un nuovo partito deve porsi all’avanguardia anche nella lettura dei processi dettati dalla tecnologia, quindi deve entrare, con forza, nel capitalismo delle piattaforme quali spazi tecnologici, invisibili ad occhio nudo, costituiti per il dominio presente e futuro del capitale. Il Partito Comunista in Italia, nato nel ‘900 come partito antisistemico in determinate e non ripetibili circostanze storiche, si è poi trasformato progressivamente in elemento sistemico. Quando il PCI alla metà degli anni ’70 si trovava nel periodo della sua massima espansione, oltre alla quanto meno discutibile idea “eurocomunista”, si trovava a sottovalutare i grandi cambiamenti socio-economici quali la microelettronica, l’estensione della globalizzazione delle comunicazioni nonché l’avvento del liberismo economico. Il PCI degli anni ’70 non è più capace di contrapporre un proprio modello socio-economico innovativo alla innovazione di tipo capitalistico e, per di più, lo stesso non è capace di selezionare il meglio della domanda sociale proveniente dalle spinte del ’68, preoccupato come era piuttosto di neutralizzarne il potenziale sociale, politico e culturale che ne derivava. Per semplificare ulteriormente, in chiusura diciamo che la finanza, quanto l’economia, la cultura quanto il diritto, la tecnologia, la comunicazione e persino l’arte hanno concorso a formare la struttura sistemica in grado di svuotare e disgregare i partiti antisistemici, anche il più grande partito comunista dell’emisfero occidentale, quello italiano. Una struttura sistemica potente che si è imposta e che ha fatto inghiottire nel buio della storia un partito, il PCI, con milioni di elettori, centinaia di migliaia di militanti, una presenza radicata e capillare nella società. Resta, pertanto, proprio la complessità della vita sociale delle nostre società, in grado di disgregare qualsiasi genere di organizzazione politica, il vero bersaglio da aggredire per le entità politiche che guardano ai processi di emancipazione del presente e del futuro.


* Sociologo, Potenza, “Cumpanis” Basilicata

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