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Le emigrazioni e il dilemma etico-politico

di Moreno Pasquinelli

Stampa 1423456498Catto-comunismo o comunismo d’accatto?

Parafrasando Carl Schmitt sovrano è chi decide l’ordine del giorno. E’ sotto gli occhi di tutti come l’élite neoliberista, forte della sua formidabile potenza di fuoco mediatica, sia riuscita a fare del fenomeno emigratorio la questione fondamentale dell’agenda politica.

Una colossale operazione ideologica di distrazione di massa. Tutti hanno abboccato, sinistre comprese, le quali hanno anzi deciso di occupare la prima linea del fronte immigrazionista, pur restando, lo Stato maggiore, ben saldo nelle mani dei dominanti. Sarebbe sbagliato pensare che questo obbligare la pubblica opinione a considerare l’immigrazione come questione delle questioni sia solo strumentale all’evidente obbiettivo di rovesciare il governo giallo-verde. Dietro c’è molto di più, c’è una visione del mondo, la necessità di imporla come destino.

Infatti, sul fenomeno emigratorio, l’élite dominante vorrebbe tracciare la linea che divide il bene dal male, lo spartiacque tra buoni e cattivi. Cattivo è chiunque non accetti come sacro il principio morale della cosiddetta “accoglienza”, dalla parte del male starebbe chiunque respinga come eticamente superiore l’ordine cosmopolitico fondato sul melting pot multietnico. Ancora una volta ricorrendo a Schmitt siamo in presenza di “concetti teologici secolarizzati”. Rovesciare l’ordine del giorno dei dominanti dovrebbe essere il primo atto politico di chi si considera antagonista, e non solo per evitare di essere ad essi funzionali.

Come mai questo non avviene? Non è solo per insipienza tattica, accade perché gli stessi “antagonisti” hanno introiettato e fatta propria sia la visione teologica dell’élite — compresi i suoi esorcismi per combattere e circoscrivere il “male” e non esserne contaminati — solo camuffandola con la maschera di quello che un tempo sarebbe stato chiamato “catto-comunismo” o meglio comunismo d’accatto.

 

Marx come Cristo?

«Se si vuole essere un bue, naturalmente si può voltare la schiena ai tormenti dell’umanità e badare solo alla propria pelle». [1]

Traspare, in questa affermazione di Marx, tutta l’appassionata comunanza che egli sentiva verso gli oppressi. “La “passione”… quanto conta in politica? Molto disse Hegel: «La passione è la condizione perché dall’uomo nasca qualcosa che abbia valore: essa, quindi, non è nulla di immorale». [2]

Sembrerebbe che Marx ed Hegel ci rimandino, se non proprio al radicale dualismo etico-cristiano di B. Pascal — «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce» — al terzo postulato dell’imperativo categorico di I. Kant:

«Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo». [3]

Ma non è così. Come vedremo l’etica marxiana — o la gramsciana filosofia della prassi — non ha nulla a che vedere né col pietismo kantiano, né col filantropismo cristiano —le due fonti che alimentano l’attuale ideologia imperialistica del dirritoumanismo — le cui radici filosofiche stanno, com’è noto per entrambi, nella visione stoica secondo la quale tutta l’umanità costituirebbe un solo organismo naturale dal quale deriverebbe l’obbligo della reciproca e universale solidarietà. Un filantropismo che meglio del Cristo medesimo fu proprio Cicerone a tratteggiare. Prima di lui fu Aristotele, nella Politica a proporre questo astratto e fasullo altruismo per cui, mentre sacralizzava l’amicizia dell’uomo verso l’altro uomo, inneggiava all’istituto della schiavitù:

«E' chiaro dunque che la discussione ha un certo motivo e non sempre ci sono da una parte gli schiavi per natura, dall'altra i liberi e che in certi casi la distinzione esiste e che allora agli uni giova l'essere schiavi, agli altri l'essere padroni e gli uni devono obbedire, gli altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura sono stati disposti e quindi essere effettivamente padroni». [4]

Un’anticipazione, quella di Aristotele — poi ribadita da Paolo di Tarso nella lettera a Filemone — della narrazione immigrazionistica dell’oggi, che si presenta come la più classica delle monete contraffatte: in una faccia il formale filantropismo umanitario dell’accoglienza, dall’altra il sostanziale schiavismo sociale e politico a cui l’immigrato è condannato una volta “accolto”.

Marx non adorava gli oppressi in quanto tali, amava semmai coloro che rifiutando di essere schiavi o sudditi in ginocchio, non porgevano all’oppressore l’altra guancia e si alzavano in piedi diventando ribelli. La differenza tra Marx e il Cristo non sta quindi solo nei mezzi per liberare gli oppressi, è una differenza sostanziale poiché se in Marx c’è un’etica, essa è l’etica politica dell’emancipazione terrena, l’etica della lotta rivoluzionaria che mentre abbatte gli oppressori e li libera dalle catene gli fa togliere di dosso quella che egli stessi chiamò “la merda” del loro essere.

 

Tributo a Machiavelli

Ove assumessimo la tesi che la filosofia politica si divide in due grandi scuole di pensiero, quella normativista e quella realista, Marx dovrebbe essere iscritto a ben vedere alla seconda. Se per i normativisti la questione centrale è etica, ontologica — quale debba essere il “giusto ordine politico”, quali caratteristiche esso deve possedere per meritare obbedienza, ed essere dunque considerato legittimo —; per i realisti la riflessione è piuttosto cosa sia effettualmente la sfera politica, a quali regole ubbidisca l’azione politica, e la prima regola è che essa è lotta per il potere (per l’egemonia direbbe il Gramsci) tra attori antagonisti che debbono servirsi dei mezzi necessari a conquistarlo. A quelli che gli chiedevano di descrivere per filo e per segno come sarebbe stato e avrebbe funzionato il comunismo Marx rispose perentorio che suo compito non era «mettersi a prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire». [5]

Capostipite della scuola realista è senza alcun dubbio Machiavelli, a cui una certa vulgata ha attribuito la massima gesuitica che il fine giustificherebbe ogni mezzo. Essa sostiene che Machiavelli non solo opponesse le necessità fattuali della lotta politica alle istanze morali, ma che egli le disprezzasse, che non le tenesse in alcun conto. In verità né alcun gesuita né tantomeno Machiavelli hanno mai formulata la massima che gli si attribuisce. Si legge infatti nel Principe

«nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi… si guarda al fine … i mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati». [6]

Il che vuol dire che in vista di un fine buono, e solo per quello, mezzi considerati “amorali” sono ammissibili e giustificabili. Quale fosse per il nostro questo fine supremo, a cui ogni altra cosa dovesse essere subordinata, è noto: porre fine al disordine e allo stato di servitù politica dell’Italia, costruire una libera Repubblica, quindi, date le circostanze del tempo, fare appello ad un principe unificatore e riordinatore della nazione italiana.

Non è quindi corretto, a mio parere, sostenere che il Machiavelli irrigidisca il dilemma tra etica e politica, che anzi con lui il dilemma diventi irriducibile scissione; che per lui, per dirla in modo teoretico, la politica "trovi la sua norma e la sua giustificazione in se stessa”, o che la lotta politica “non ha bisogno di desumere dall’esterno la propria moralità”. [7] Tesi quest’ultima, per cui il Croce porta una diretta responsabilità:

«Machiavelli scopre la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è al di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta». [8]

Il republicanismo radicale del nostro, il valore supremo che egli attribuisce alla libertà repubblicana, che altro sono se non princìpi che attengono all’eticità del Politico? Lo sono infatti, solo che Machiavelli, e qui sta il carattere rivoluzionario del suo discorso: (a) li collega, recuperando l’eracliteo principio del polemos, all’idea della positività del conflitto politico, non più considerato come negativo elemento di discordia; (b) respinge l’idea provvidenzialistica per cui la storia sarebbe governata dalla fortuna o da Dio, ed anzi, di contro alla sorte, mette in risalto la coppia libertà-volontà per cui sono gli uomini a fare la loro storia e; (c) respinge l’etica individualistica che ritiene che l’individuo trovi in sé stesso la coscienza e la misura del bene e del male, opponendo la virtù repubblicana, l’etica della polis, ove il valore supremo è la partecipazione alla vita della comunità politica, nella quale solo l’individuo si realizza.

 

Etica contro etica

Si può avere insomma una morale senza essere irenici moralisti. Giusto dunque il giudizio di Isaiah Berlin per cui

«non ci troviamo di fronte ad un’insanabile scissione tra etica e politica, ma piuttosto al conflitto fra due etiche». [9]

Si può essere realisti in politica senza condividere le conclusioni estreme dei teorici radicali dell’autonomia del politico, alla Tronti/Cacciari per capirci i quali, sull’onda della Nietzsche renaissance di fine secolo, compiono l’errore speculare dei moralisti kantiani, trasformando a loro volta il Politico in un’ipostasi, in una substantia non meno metafisica di quella morale.

Se è così, e per noi così è, viene destituita di ogni fondamento, l’antinomia tra etica e politica, che da secoli (da Platone a Rawls, passando per Machiavelli fino a Schmitt) ha occupato e paralizzato la filosofia politica: non esiste un’etica che volteggi nella stratosfera metafisica dei “supremi valori morali”, come di converso non si dà una politica che non abbia un fondamento etico, e dunque metafisico. Detto altrimenti: una decisione politica contiene sempre, in modo esplicito o implicito, un nocciolo morale, contempla quindi in una scelta nel campo etico. Certo che tra morale e politica, tra mezzi e fini, c’è una tensione, ma essa è dialettica.

Quello che si vuole qui contestare è il dualismo manicheo essere-dover essere, la tesi, che Kant ha trasferito alla modernità, per cui ci sarebbe una legge morale naturale universale a cui l’azione politica deve ubbidire per essere buona, cioè legittima. Ed è proprio questo paradigma kantiano la base d’appoggio del pensiero politicamente corretto che va per la maggiore, ovvero del liberalismo umanitario simil-cristiano, che sembra aver colonizzato la stessa sinistra di origine marxista — che mi permisi di definire transgenica. En passant: il mito dell’accoglienza a prescindere non è altro che l’imperativo del pietista Kant:

«La solidarietà del genere umano non è solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, un “essere o non essere”, una questione di vita o di morte».

Di qui l’idea, non a caso ripresa di recente da Luigi Di Maio, secondo cui «il diritto non deve mai adeguarsi alla politica, ma è la politica che deve adeguarsi al diritto»,

Non è qui la sede per occuparci del diritto, di cosa esso sia, di quali siano le sue fonti di legittimità. Molto è stato detto e scritto su questo dopo il tramonto del giusnaturalismo — che oggi tuttavia conosce un suo risorgimento. Contro i giusnaturalisti e la metafisica dei valori, non solo Marx ma pure lo storicista Weber condusse una dura e lunga battaglia.

Prendendo a pretesto l’opposizione che questi poneva tra “giudizi di fatto e giudizi di valore” una certa critica ha bollato Weber come un ispiratore, se non proprio del nichilismo, di un cinico relativismo morale. In verità l’avalutatività weberiana, giusta o sbagliata che sia, attiene al piano epistemologico e solo ad esso, poiché «non vi è in Weber alcuna forma di indifferenza intellettuale e morale (…) L’invito alla “libertà da valori” non indica un (impossibile) distacco dalle proprie convinzioni o dai propri giudizi di valore, quanto l’invito a esercitare l’ascesi del rigore logico ed etico che è condizione necessaria per saper ricostruire l’effettiva posizione dell’altro da sé». [10]

A ben vedere, al netto del suo colossale lavoro di analisi del modo capitalistico di produzione, Marx non ha fondato una sua indipendente teoria del Politico. Era nei suoi desiderata ma non l’ha fatto, o non è riuscito a farlo date le sue malconce condizioni e la sua dipartita.

C’è chi ritiene che il suo ottimismo profetico, o meglio, il carattere teleologico del suo pensiero, potevano fare a meno di una vera e propria teoria politica. Questo è stato invece il terreno su cui si è cimentato Max Weber che, della scuola realista, dopo Machiavelli è stato uno dei giganti. E cosa ci ha detto Weber? Ci ha detto che

«Chi fa politica aspira al potere: potere come mezzo al servizio di altri obiettivi, ideali o egoistici, o potere in “se stesso”, cioè per godere del senso di prestigio che esso conferisce». [11]

Quindi, sia che i fini del politico siano altruistici o egoistici, esso ha bisogno del medium del potere per realizzarli. Weber coglie dunque come essenziale per l’agire politico sia la dimensione del conflitto, della lotta tra potenze ostili, quindi sia la sua natura strategica. E la lotta per il potere chiama in causa lo Stato, che per Weber

«è, come le associazioni politiche che storicamente lo precedono, un rapporto di dominio di uomini su uomini basato sul mezzo della forza legittima (cioè considerata legittima)».[12]

Il che vuol dire per Weber che per vincere, anche ammessa la propria morale edenica, il politico deve capire la dialettica delle forze in campo ed agire per opporre al nemico una forza più grande della sua. Per dirla ancora con Machiavelli: «Tutti e’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono». [13]

 

Prima i cittadini

Le questione delle emigrazioni — che nella neolingua politicamente corretta diventa non a caso delle migrazioni, slittamento semantico con cui si fa apologia del peregrinare nomadico — è stata fatta diventare una questione morale, privata della sua dimensione politica. Questa è stata la mossa che l’élite neoliberista e le chiese cristiane hanno compiuto di concerto. E’ evidente come essa sia non solo una mossa inefficace dal punto di vista narrativo, ma perdente dal punto di vista strategico: invece di portare acqua al mulino di chi l’ha fatta, la porta dappertutto ai suoi avversari, li si chiami “populisti”,, “xenofobi”, “nazionalisti”, che infatti accrescono i loro consensi in misura direttamente proporzionale all’accanita ostinazione con cui si insiste nell’istillarla nella testa dei cittadini.

Le sinistre, radicali e antagoniste, prive d’ogni strategia, non solo giocano di rimessa. Abituate come sono alla tecnica del più uno, hanno estremizzato la scissione tra etica e politica, considerando quindi il fenomeno emigratorio solo dal lato morale, privandolo del suo essenziale aspetto politico e sociale; dove per politico si deve intendere, appunto, la sfera della polis, le istanze della comunità le quali, fino a prova contraria ed essendo l’Unione una sub-comunità in disfacimento, sono le istanze della comunità nazionale.

E’ evidente la sorgente etico-teologica di questa visione impolitica: la credenza nell’unità etica e razionale del genere umano oltre che la qualità morale o dignità della persona. Come disse Danilo Zolo:

«Si tratta di un universalismo etico-metafisico che risente della tradizione monoteistica dell’ebraismo e del cristianesimo: c’è un solo Dio, creatore del mondo e legislatore supremo. A questo monismo metafisico ed etico —copyright: Chiesa di Bergoglio, Nda —, si accompagna la tesi della razionalità del processo storico di integrazione universale delle società umane in un’unica società mondiale». [14]

La tesi sarebbe dunque quella per cui l’unificazione culturale, politica e giuridica del genere umano (civitas maxima) sarebbe un processo necessario e irreversibile, ormai a portata di mano.

Di qui il globalismo giuridico, più precisamente western globalism — o imperialismo giuridico occidentale difensore della "esportazione di democrazia" a suon di bombardamenti “umanitari” come tragicamente avvenuto in Iugoslavia, in Afghanistan, in Iraq, in Libia e forse domani in Venezuela. Globalismo giuridico che Hans Kelsen, sulla scia di Kant, ha reso programmatico e che è stato poi fatto proprio da liberali come Johan Rawls e socialdemocratici come Jurgen Habermas, per poi sbarcare in Italia grazie al sinistro Luigi Ferrajoli, assertore accanito di un “ordinamento giuridico globale” con tanto di invocazione di una “polizia mondiale” per punire e sanzionare gli stati ... "canaglia"!

Avendo strappato alla questione la sua dimensione squisitamente politica, non è ammesso discutere della sostenibilità o meno delle immigrazioni; non si considera se esse rappresentino, siccome non sono che un aspetto della lex mercatoria globale, un fattore di frantumazione del tessuto sociale; non ci si interroga se per caso non siano lesive, per come esse avvengono, dello stesso bene comune, quindi funzionali agli interessi dei dominanti. Né si fa differenza tra asilanti, rifugiati e immigrati economici — nella neolingia ci sono anche quelli "climatici" — o d’altra risma, “son tutti esseri umani” è la risposta, che è come dire pretescamente: “son tutti figli di Dio”. Si rifiuta addirittura di considerare centrale il diritto di cittadinanza, quindi la differenza sostanziale tra cittadini e non, e questo in virtù della “universalità dei diritti umani”, tipica appunto del cosmopolitismo tardo-kantiano, che altro non è se non una versione elegante dell’individualismo liberale.

Ed è in virtù dell’umano, in nome di un’astratta umanità, che si respinge ogni appello alla sovranità nazionale e popolare. La nazione, dai liberisti fondamentalisti fino a certa estrema sinistra, è anzi deprecata come la fonte d’ogni male, ed i suoi confini da demolire come se essa fosse un nazista campo di concentramento e non invece una comunità storica che ha il diritto-dovere di proteggersi alla bisogna. L’atto dell’emigrare — invece di essere considerato una disgrazia per chi vi è costretto, nonché una rapina imperialistica ai danni dei popoli e delle nazioni che lo subiscono poiché vengono in tal modo private della loro principale risorsa umana e produttiva — è dipinto addirittura come atto emancipatorio e liberante. Siamo passati dall’internazionalismo proletario al cosmo-umanitarismo. Altro che autonomia della politica! da certe parti la politica — la politica come azione strategica per rovesciare l’ordine di cose esistente, ciò che implica il consenso del proprio popolo — è morta.

Siamo alla follia, all’idea pre-politica che non c'è differenza tra cittadini (quale che sia la loro provenienza, lingua, religione e classe sociale) e non, che l’emigrare sia un “inalienabile diritto umano” e l’accoglienza dell’emigrante da parte dello Stato preso di mira, tanto più se irregolare, come un dovere imperativo categorico. E chi della follia è preda, di questi tempi devastanti, non ha vita lunga. Chi pensa di aver ammazzato la politica, dalla politica invece verrà ucciso. Ci sarà dunque permesso di rivendicare la separazione dal moribondo come nostro inalienabile diritto, non solo politico, ma in questo caso sì, addirittura umano, poiché da queste parti, ove non l’aveste capito, c'è voglia di vivere, e lottare con i piedi ben piantati nella realtà.


NOTE
[1] Lettera a Siegfried Mayer (30 aprile 1867)
[2] G.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La nuova Italia, Vol I, p.93]
[3] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bompiani, 2003
[4]Aristotele, Politica, libro Primo
[5] K. Marx, Proscritto alla seconda edizione de Il Capitale, Einaudi 1975, p.15
[6] Machiavelli, Le opere, Editori Riuniti 1969, XVIII, pp,79-81
[7] N. Abbagnano, Storia della filosofia, Volume III, UTET 1995, pp 41-42
[8] Benedetto Croce, Etica e politica, Laterza 1981, p. 205
[9] Stefano Petrucciani, Modelli di filosofia politica, p.22, Einaudi 2003
[10]Giancarlo Rovati, Il posto dei valori nella riflessione weberiana, Vita e Pensiero 2016, p.95
[11] M.Weber, La politica come professione, Armando 1997, p.33
[12] M.Weber, La politica come professione, cit., p.33
[13] Machiavelli, Le opere, cit., VI, p ,27[14] Danilo Zolo, Nuovi diritti e globalizzazione, Università di Bologna,

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Mario Galati
Sunday, 24 February 2019 17:10
In questo articolo si ammanta lo sciovinismo di realismo e, addirittura, in modo indegno, di marxismo.
Si contesta l’universalità del genere umano, indicandola come imperativo etico categorico astratto, quando invece essa ha una chiara radice ontologica nell’essere umano come complesso di relazioni sociali, non solo nella sua identità biologica.
Si caldeggia la separazione tra cittadini e non cittadini, senza indicare il limite di questa differenza di condizioni (forse sarebbe utile ricordare l’ipotesi sull’origine straniera dei plebei nell’antica Roma e la base politico-economica della distinzione di classe).
Entrambe le proposizioni sono parte dell’ideologia nazista (e, prima, liberale). Come spiega Domenico Losurdo, l’opposizione novecentesca nazismo/comunismo era l’opposizione tra deemancipazione/emancipazione, tra il nazismo impegnato a negare il concetto universale di uomo (gli untermenschen/under man schiavi di fronte agli uomini liberi e superiori del popolo dei signori, herrenvolk) e il comunismo impegnato ad affermare l’universalità del concetto di uomo, contro ogni discriminazione, sfruttamento e sottomissione. Negare l’universalismo marxiano e marxista equivale a negare Marx e il movimento comunista.
Come la mette Pasquinelli con Gramsci che prefigurava lo stato comunista mondiale (non la globalizzazione capitalistica, ovviamente)?
Invece di contestare l’universalismo astratto del capitale come sistema di dominio e di sfruttamento, si contesta l’universalismo in sé. Mi sembra che questa posizione ricalchi quella di Nietzsche, il quale intravedeva giustamente nell’universalismo borghese del suo tempo il carattere di ideologia del dominio e dell’espansione nel mondo, e da ciò concludeva per la negazione di ogni universalismo, al fine di giustificare il particolarismo della politica di potenza (non c’è nulla di universale. Ognuno esprima ed attui la sua volontà di potenza).
Ha ragione Pasquinelli: la questione delle migrazioni va affrontata sul piano politico-sociale (con la necessaria aggiunta che il senso di umanità ne fa necessariamente parte). Io aggiungerei pure che, spesso, il moralismo dirittumanista proveniente proprio dai complici dell’imperialismo (la “sinistra” imperialista dei diritti umani e delle guerre democratiche e umanitarie), è l’altra faccia complementare del razzismo fascioleghista (in fondo, per la sinistra imperiale liberale i popoli bambini devono essere corretti e “aiutati” dai popoli superiori dell’occidente capitalistico, detentore della democrazia, dell’umanità e del progresso. L’ideologia della superiorità e il diritto di intervento dell’occidente sono conclamati. Tutto ciò è base ideologica del colonialismo e del razzismo. I leghisti non fanno altro che diffondere questa ideologia coloniale di superiorità sul fronte interno, come elemento di divisione tra i lavoratori).
Ma la risposta adeguata e realistica sarebbe quella di assecondare queste spinte, dividere i lavoratori e l’esercito industriale di riserva tra cittadini e non cittadini? Oppure di fermare gli effetti (gli immigrati. Naturalmente per il loro bene), invece di estirparne le cause, unendo i lavoratori, cittadini e non cittadini, e raccogliendo le forze contro l’imperialismo e il capitalismo? Questa divisione fa bene al movimento dei lavoratori o non è invece un’arma di distrazione di massa e di dominio al servizio del capitale e alla cui organizzazione Pasquinelli collabora?
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Eros Barone
Sunday, 24 February 2019 10:19
"A ben vedere, al netto del suo colossale lavoro di analisi del modo capitalistico di produzione, Marx non ha fondato una sua indipendente teoria del Politico. Era nei suoi desiderata (?) ma non l’ha fatto, o non è riuscito a farlo date le sue malconce condizioni (?) e la sua dipartita (!)." Evidentemente l'autore dell'articolo ignora che nel pensiero di Marx la critica della politica ha preceduto la critica dell'economia. Vediamo allora di impostare correttamente il problema che egli, sia pure in un modo e con un linguaggio maccheronici, cerca di porre. Orbene, la critica della politica, che si incentra sulla coppia opposizionale ‘società civile-Stato politico’, è stata scandita da tre tappe: 1) il liberalismo radicaleggiante del periodo della "Rheinische Zeitung" (1842); 2) il democratismo puro testimoniato dalla inedita "Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico" (1843); il passaggio al comunismo (ma non ancora al materialismo storico) attestato dai "manoscritti parigini" del 1844. Partirei però, ai fini di questa disamina, dal “Capitale” e, in particolare, da una pagina del capitolo sulla “cosiddetta accumulazione originaria”, dove Marx scrive quanto segue: “Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente [in questa proposizione teorica è racchiusa l’essenza del rapporto di ‘dominio/libertà’ tipico della società borghese]. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle ‘leggi naturali della produzione’, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del ‘potere dello Stato’, e ne fa uso per ‘regolare’ il salario, cioè per costringerlo entro i limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la ‘giornata lavorativa’ e per mantenere l’operaio stesso a un ‘grado’ normale ‘di dipendenza’. È questo un momento essenziale della cosiddetta ‘accumulazione originaria’” (“Il Capitale”, l. I, cap. 24, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 800-801). I concetti qui espressi da Marx, pur essendo elementi costitutivi della sua analisi del capitale, determinano una situazione paradossale, poiché Marx qui ci dice a chiare lettere che la borghesia ha bisogno dello Stato solo nella fase di instaurazione del modo di produzione capitalistico, ma che per riprodurre il suo dominio di classe è sufficiente, nel “corso ordinario delle cose”, il funzionamento del meccanismo interno di questo modo di produzione. La domanda che sorge è allora questa: perché lo Stato politico non solo esiste, ma si è continuamente perfezionato fino a diventare nella fase monopolistica e imperialistica una funzione organica del dominio borghese? Se si tiene conto dell’importanza che hanno, nella elaborazione storico-politica di Marx, i concetti teorico-pratici di “dittatura della borghesia” e “dittatura del proletariato”, la rottura della “macchina” dello Stato borghese e la sua sostituzione con una forma di Stato che ha in sé il principio della propria estinzione, non sarà difficile ritrovare in tali concetti la coppia opposizionale ‘società civile-Stato politico’ che Marx ed Engels non hanno mai cessato di adoperare. Il blocco della teoria politica marx-engelsiana (più nel primo, però, che nel secondo) non nasce pertanto dalle cattive condizioni di salute del ‘Moro’ o dalla mancata realizzazione dei suoi “desiderata”, ma, probabilmente, dalla tendenziale inconciliabilità fra questa coppia opposizionale e la ben nota coppia opposizionale di ‘struttura-sovrastrutture’. Concludendo, abbiamo qui un caso esemplare in cui un problema irrisolvibile nei termini della teoria marxiana (benché la geniale “Critica del programma di Gotha” fosse molto vicina al suo corretto scioglimento) sarà risolto nei termini della teoria marxista. Così, se è vero che nel “Capitale” è arduo trovare un passaggio dalla critica dell’economia politica alla problematica dello Stato, è altrettanto vero che, quando la borghesia capitalistica si è trasformata in monopolistica e imperialistica, si è dovuta creare quasi ‘ex novo’ la teoria dell’imperialismo (da Hilferding, Lenin, Rosa Luxemburg ecc.) perché mancava alle spalle un presupposto teorico sufficientemente elaborato. Ciò nondimeno, si potrebbe fare ancora un passo avanti nella presente disamina e chiedersi dove potrebbe essere, all’interno dell’apparato categoriale del “Capitale”, l’aggancio ad una teoria dello Stato capitalistico. A mio avviso, assumendo l'ipotesi euristica secondo cui la critica della politica è inscritta nella critica dell'economia politica e considerando anche l’esperienza storica di questi ultimi decenni (globalizzazione imperialistica, predominio del capitale finanziario, politiche neoliberiste ecc.), l’aggancio andrebbe ricercato in quella che Marx chiama l’“unità” del processo di produzione diretto e del processo complessivo di circolazione.
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marku
Saturday, 23 February 2019 19:41
....l’emigrare sia un “inalienabile diritto umano......

la prima che hai detto

confermi quindi quello che diceva quel nostro cugino che è partito dall'Africa circa 60.000 (sessantamila) anni fa quando non per motivi economici ma di conoscenza disse ai componenti della sua tribu:

oggi parto perchè è un mio inalienabile diritto.
E partì
Quelli rimasti, vedendolo andare, si incuriosirono non poco finchè anche altri ed ogni giorno di più pensarono
se è un suo inalienabile diritto lo è anche per noi
E partirono anche loro.

Tra gli eredi di quelle antiche genti, oggi vi sono tra gli altri dei razzisti, gli €urocentrici ma anche i sovranisti pseudoilluminati e i cattocomunisti e i comunisti d'accatto.
Dipende sempre dal punto di vista.

Buona vita a tutti


https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Sankara
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