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Pandemia e microbiologia del potere

di Borne

Un articolo su governo e pandemia

coniglio catenaGoverno

Un evento imprevisto, imprevedibile e per di più continuato, come una pandemia, espone allo stesso tempo i limiti e la parte più essenziale dell'arte di governo: la (in)capacità di far aderire il corso degli eventi a un racconto compatibile con l'insieme degli apparati di potere; nel caso degli Stati moderni, quindi, fare in modo che gli aspetti spettacolari-economici che regolano le vite, continuino ad avere senso.

Partiamo con una verità controintuitiva: da quando il virus è tra noi, nessuna particolare facoltà decisionale unitaria ha operato dall'alto, hanno funzionato (e spesso non funzionato) centri di raccolta dati, ospedali, protezione civile e croce rossa, reti di connessione internet, giornali, aziende a cui collegarsi da remoto, sistemi di trasporti merci, attività in delivery, divulgatori mediatici e sistemi di monitoraggio. Questi dispositivi hanno una propria logica, un proprio modus operandi e una maniera codificata di rispondere alle emergenze. Allo stesso tempo la loro coerenza, la coordinazione dei vari dispositivi, sono state garantite da una narrazione tecnica, centralizzata in una o più figure di governo.

I Governi propriamente detti – cioè quegli organi incaricati di rappresentare la decisionalità di Stato – hanno dovuto considerare i vincoli strutturali diversi da stato a stato, da regione a regione, con lo scopo di evitare che la situazione imprevista spezzasse l'adesione popolare alla governamentalità.

Di fronte alle carenze intrinseche degli apparati sanitari, era necessario descrivere le lacune come errori contingenti, come eccezioni, e quindi comunicare una situazione mantenuta (o tornata) sotto controllo.

Il controllo non è l'obbiettivo dei governi, ma l'imprescindibile condizione discorsiva, senza la quale l'idea stessa di Stato o di governo si sfalda, si apre a una sparpagliata diserzione collettiva, perché la narrazione apocalittica funziona a patto che l'apocalisse sia sempre a un attimo dall'arrivare o che laddove è arrivata, rimanga limitata, circoscritta, ancora contenibile.

L'impossibilità generale di prevedere l'evento, si ribalta – nel discorso dei controllori – in una caccia ai colpevoli: il comportamento irresponsabile dei runner, gli studenti che se ne vanno verso il sud, questo o quel medico che non ha compreso in tempo il virus... Proprio perché l'evento è imprevisto e sconosciuto, la narrazione del controllo si nutre della propria insufficienza: la parola lockdown viene pronunciata ovunque nonostante la sua vaghezza, la sua attuazione impossibile crea un campo di dibattito («quali sono le attività essenziali da lasciare aperte?») per nascondere che le forme di esistenza che si vogliono proteggere, contengono in sé le ragioni della catastrofe.

Non deve ingannare il fatto che dentro ogni stato esistano fazioni di potere diverse che si confrontano attorno alla narrazione. Né deve stupire che in alcuni paesi abbia a lungo prevalso una posizione «scettica» o addirittura «negazionista del virus». I contesti specifici hanno disegnato condizioni e ipotesi strategiche diverse, lasciando però invariata l'esigenza governativa di un discorso basato sul controllo. Questo meccanismo non va in crisi se ci sono più fazioni-verità in lotta tra loro, al contrario la rissosità cospirazionisti-scienziati, Trump-Fauci, rientra perfettamente dentro al copione di una dialettica democratica. Tanto più che il fronte governativo-negazionista (rappresentato inizialmente dal Regno Unito, poi da Stati Uniti e Brasile) non ha proposto un modello alternativo di gestione della situazione, ma anzi si è accodato alle stesse griglie d'azione politica, coniugandole rispetto alle specificità territoriali, economiche, mediatiche.

La situazione si è trasformata in vera crisi per i governi, quando hanno cominciato a circolare diversi discorsi di verità, non sottomessi a una logica dialettica e di rappresentazione. In alcuni segmenti di popolazione si sono ridefinite le priorità della vita condivisa, senza sottostare a una indicazione di normalità (la vita non continua come prima) ma nemmeno di sicurezza (si accetta in qualche senso di correre un rischio): è quello che è successo negli Stati Uniti, dove la rivolta non ha parlato il linguaggio della pandemia ma ne ha abolito le categorie interpretative, per parlare d'altro, per fare altro.

 

Scienza

Il ruolo del discorso scientifico durante la pandemia è attraversato da una contraddizione, la Scienza è l'enunciatrice di Verità del discorso pubblico, ma è anche percorsa da un dibattito acceso: frizioni, teorie contrapposte, punti ciechi, hanno raggiunto persino il mainstream, spesso animando patetici teatrini. La realtà non è quella di un dibattito scientifico, ma piuttosto di una serie incrociata di conflitti, poteri, necessità decisionali, dispute che questionano la maniera di afferrare il fenomeno-epidemia.

Questi due aspetti (la Scienza come Verità, e la eterogeneità delle ricerche scientifiche) non entrano in collisione, la bipolarità si tiene perché la pandemia nel discorso – il significante scientifico pandemia – viene continuamente prodotto sopra all'evento pandemico, fagocitandolo. I tanti esiti imprevisti di questa condizione senza precedenti, vengono delimitati tramite la nozione di rischio, cioè la materializzazione nel presente di qualcosa che non è ancora avvenuto. In effetti la singolarità del concetto di rischio sta proprio in questo: la costruzione di un fatto possibile avviene a priori, col preciso obbiettivo di impedire il prodursi del fatto stesso.

Più precisamente, un calcolo dei rischi è una distribuzione di probabilità, cioè un rapporto tra alcuni eventi auspicabili e l'insieme di tutti gli eventi possibili. La definizione di entrambi gli insiemi non è un compito che può essere completato – perché presuppone una conoscenza completa del sistema – né che può essere falsificato – perché è la precondizione necessaria a qualsiasi verifica sperimentale –. La definizione di questi insiemi è quindi una frattura, un modo di delineare l'ordine del discorso, è un atto di potere: si tratta di un gesto necessario alla mediazione simbolica del calcolo, ma l'ordine che introduce esiste in funzione di – e attraverso – questa mediazione. In più, la mediazione già citata rientra in una genealogia storica e sociale non solo del governo, ma anche delle forme di vita, delle prassi quotidiane, delle emozioni e delle paure.

Nel caso del Covid gli insiemi di cui parliamo sono descritti dai parametri con cui misuriamo la pandemia: il numero di persone infettate, la distribuzione geografica, le caratteristiche dei pazienti colpiti, il loro tempo di recupero. Ogni volta una conoscenza incompleta, ogni volta l'esigenza di fissare un ordine del discorso per poter agire. Attenzione, non stiamo dicendo che il virus «non esiste», ma la sua esistenza deve essere considerata dentro questa serie di atti illocutori – che corrispondono anche a concreti atti di misura – che chiamiamo costruzione degli spazi di possibilità. In questa luce, il riferimento alla Scienza e alla sua autorevolezza, servono a oscurare il carattere agente del gesto di definizione e misura, e quindi per affermare la necessità di quel gesto, che è la necessità del governo. I linguaggi tecno-scientifici diventano alfabeto del potere perché naturalizzano le condizioni della vita sociale.

Viviamo oggi una situazione in cui l'esperienza del mondo si riduce all'esperienza della misura, e quando la misura entra in crisi il mondo si rivela letteralmente incomprensibile. Nel caso del Covid questo è avvenuto per esempio con il sovraccarico delle Terapie Intensive. Questo blocco della macchina-ospedaliera ha significato una vera e propria incapacità di misurare la diffusione del virus: per alcuni giorni non si potevano curare tutte le persone che ne avevano bisogno, e per due mesi è stato impossibile ottenere una stima credibile del numero di persone infettate in Italia. Una delle norme d'emergenza introdotte è stata l'isolamento delle RSA (case di cura per anziani): si è trattato di una forma di protezione delle vite di persone ad alto rischio, ma allo stesso tempo ha dimostrato che la protezione di quelle vite era pensabile solo come protezione della macchina-ospedaliera. Una volta istituita questa bolla protettiva, è stato praticamente ovvio che l'attenzione fosse dirottata altrove, con ogni probabilità sono anche stati dimessi dalle TI, per essere inviati nelle case di cura, pazienti anziani non testati.

Nelle RSA, le vite dei degenti sono state separate da quei legami affettivi che sostanziano realmente il rapporto tra cura e vita: come effetto perverso la mortalità nelle case di cura è stata altissima. L'interruzione – in condizioni d'emergenza – della misurazione medica su queste vite, le ha di fatto rese invisibili all'occhio sociale dell'interesse generale.

I conflitti attorno ai significanti scientifici, tecnici, medici, se non mettono al centro il rapporto con l'indecidibilità – la potenza divisoria – del gesto scientifico, si riducono a una diatriba sull'istituzione, la casta, il gruppo, insomma l'autorità legittimata dallo Stato Sovrano a definire il modello di riferimento. La presunta necessità di un'autorità scientifica rimane il punto cieco del discorso. Piuttosto che sul piano della Verità, che non può essere chiuso, tantomeno dal discorso scientifico, dobbiamo concentrarci sulla produzione di senso: questa non riguarda il vero o il falso, ma il rapporto che viene ad intrattenersi tra significanti e vite.

 

Paura

Se l'«angoscia» è la tonalità emotiva fondamentale nell'apertura umana al divenire, la paura è una specie di atrofizzazione della capacità di angosciarsi, perché nella separazione irreparabile dall'oggetto che temiamo, si chiude la possibilità di dare un'altra presenza a se stessi e al mondo. La ricerca di una Sicurezza, è una tensione che si riproduce e si alimenta, ma è destinata a rimanere frustrata: in un vincolo bidirezionale, la paura invita alla fiducia nell' «esperto» e nello «scienziato», ma l'affidamento al discorso scientifico riproduce l'atto di separazione tra Soggetti e cosalità del mondo, e quindi impedisce che la paura possa estinguersi.

La descrizione della situazione interamente attraverso le lenti della paura, impedisce quindi di immaginare una vera fuoriuscita dalle condizioni che hanno prodotto la pandemia: l'esistenza del virus e della connessione globale delle vite, ma anche una precisa struttura dei nostri obblighi sociali, una enorme pressione sul bioma terrestre (che favorisce gli spillover), una maniera di intendere la salute che include la relazionalità solo come variabile dipendente.

Il lockdown, le indicazioni per la pulizia delle mani, le mascherine, il rituale dei dati sui giornali, oltre a produrre effetti immediati, sono anche un linguaggio che serve da bussola, per ristabilire una distanza dall'evento pandemico non sempre credibile ma comunque necessaria a governare, e a governarsi. Per la soggettività governata risulta difficile pensare al di fuori della logica della paura, perché il linguaggio della cittadinanza è forgiato da questa separazione tra tecnica (in questo caso, tecniche statistiche, epidemiologiche e mediche) e vita normale. Allo stesso tempo questo meccanismo funziona in una direzione politica conservatrice, perché se il virus e i suoi effetti fossero guardati come cose di questo mondo, legate con noi, si aprirebbe la riflessione sulle condizioni di riproduzione del pericolo. Il pericolo deve essere oggettificato affinché lo stato di cose che lo ha prodotto risulti naturale, immutabile, necessario.

Se il linguaggio della paura rende possibile questa forma di intelligibilità, è anche perché ne rende impossibile un'altra: un rischio non oggettificato non genera nella cittadinanza impaurita una vibrazione emotiva all'altezza della paura. Pensiamo al crollo del ponte Morandi oppure all'incendio in una fabbrica chimica a Venezia (durante il periodo del lockdown), il rischio di questi eventi è scientificamente irrisorio, proprio perché il loro prodursi dipende da una mancanza nella catena di controllo deputata alla valutazione del rischio. La catastrofe quindi non viene percepita come tale, mancano le parole per mettere in forma un sentimento comune: se il meccanismo di fiducia ne «gli esperti» non si incrina, è impossibile affermare un diverso legame con gli eventi, e quindi anche una critica alle strutture di potere che li hanno resi possibili. Il problema nel nostro rapporto al cambiamento climatico sta qui: il calcolo dei rischi è tutto proiettato nel futuro, e cementa una separazione dai nostri mondi già tossici, già inquinati, già attraversati da migrazioni climatiche. Questo accade perché il rischio è calcolato dalle stesse strutture che governano il presente, e che quindi non ritengono pensabile una fuoriuscita dalla loro logica di governo.

Per fare un esempio in direzione opposta consideriamo l'esplosione di Beirut, e le rivolte che sono seguite. In Libano è fallita ogni retorica della responsabilità individuale e del calcolo dei rischi. L'esplosione del deposito di nitrato di ammonio, è diventata la conferma di un problema sistemico e di una responsabilità politica. Non più indagini dentro una griglia esplicativa funzionale, ma affermazioni sulla pericolosità intrinseca di queste forme di esistenza. Non più la richiesta di correzioni per avere maggiore sicurezza, ma lotta per destituire un regime di possibilità.

Nella stessa ottica possiamo guardare alle rivolte statunitensi. La morte di George Floyd non è diventato un caso dentro una statistica, ma l'esempio di un rapporto specifico alla morte e quindi di un modo di vita da abolire. La circolazione della sua immagine, e poi delle immagini dei riot, hanno rimpiazzato la paura con un legame, degli sguardi prima ancora che dei corpi. Il rischio del virus non è scomparso, ma ha smesso di essere variabile isolabile in un continuo calcolo economico, per diventare uno degli elementi che costituiscono la trama delle vite. La pandemia non è più separabile dalla miseria di questo modo di sopravvivenza normale.

Ecco però, che il ruolo della paura svela l'esistenza di una battaglia sulle emozioni, e quindi stravolge gli schemi con cui siamo abituati a pensare la politica. Perché se le emozioni sono centrali nella stessa arte di governo – e possiamo dire che molto più dell'effetto tecnico delle misure governative anti-Covid, ciò che le rende efficaci è il loro effetto emotivo, perché solo l'aderenza emotiva della popolazione può garantire la pervasività delle misure – allora siamo costretti a ripensare il rapporto tra scelta e azione, tra coscienza e lotta. Questo sarà il tema inaggirabile dei tempi a venire: cosa significa lottare sulla propria percezione sensibile del mondo? Come affronteremo il problema della fisicità (ti abbraccio o no? Come ti dico che mi manca il tuo abbraccio?), o quello della festa, o quello degli spazi di cura o della vicinanza nella sofferenza? Il virus ci costringe a confrontarci con i limiti della retorica emancipativa.

 

Colpa

Nell'emergenza, il bisogno di arginare la paura si è saldato con la responsabilizzazione di specifici attori. Assegnare un perimetro di colpevolizzazione, permette di allontanare non solo la paura, ma anche la propria complicità con le incertezze. «Seguo le norme sanitarie, non è colpa mia se mi ammalo o se si ammala qualcuno attorno a me», in questo sillogismo c'è un meccanismo di soggettivazione che permette di agire dentro la paura, pagando però il prezzo di una mutilazione, perché la norma sanitaria acquista priorità su ogni altro aspetto.

La paura di cui abbiamo parlato diffusamente si coagula in paura della morte, tanatofobia. E la continua espulsione della possibilità della morte dall'ordine del discorso, sembra l'unico collante rimasto di ciò che ci ostiniamo a chiamare Società. Non ci riferiamo in questo senso a un gesto attuato dai governanti e subito dalla popolazione, al contrario la tanatofobia funziona proprio perché la colpevolizzazione può essere riprodotta a ogni livello, diventa una forma di vita che si immagina come premessa necessaria – e quindi negazione – di tutte le altre forme di vita. «Se si può prendere questa accortezza, allora si deve farlo», il campo del calcolabile esaurisce ogni possibilità, ogni misura di sicurezza può essere perfezionata, ogni soggettività è investita da un divenire che va continuamente corretto, la colpa è il nome di un'attitudine spirituale a ripetere il gesto di isolamento.

Se nella fase iniziale dell'emergenza la necessità di sopravvivenza (biologica) ha di fatto egemonizzato il piano discorsivo e emotivo, la temporalità prolungata della pandemia mostra però che c'è qualcosa di più profondo in gioco, che la necessità di sopravvivere (la nuda vita) perde di significato se non viene accompagnata da una riflessione sul senso delle vite, sulla capacità di condividere comunitariamente le domande che l'epoca ci pone. Spezzare il legame tra paura e colpa, libera lo spazio del rischio: diventano pensabili il pericolo e l'errore, si instaura una negoziazione tra spinte desideranti e piani di realtà, la morte rientra così in un discorso sulla vita.

Il virus si è delineato come attore non-umano imprevisto, ogni governo ha trovato impossibile sul lungo periodo alimentare il nesso tra paura, colpa e controllo scientifico della pandemia. Una primo effetto su larga scala è la riapertura dopo decenni dei rubinetti monetari in Europa, una messa in discussione del dogma calvinista che ha finora regolato l'unificazione statale del continente. Nei mesi che ci aspettano questa contraddizione si approfondirà, perché ogni calo della paura comporterà un aumento dei rischi calcolati, e la persistenza del virus potrebbe costringere a una presa d'atto di questi rischi al di fuori di semplici schemi colpevolizzanti. Come mai il virus rimane? Cosa c'è nelle nostre vite che lo rende pericoloso? Cosa significa convivere con un rischio per la salute? Chi è più a rischio e chi meno? Quale modo di vita è più tutelato (e quale invece è più desiderabile) in un'epoca pandemica? Queste domande potrebbero affermarsi sopra al brusio della Politica. Sarà la ricomposizione del senso il principale cruccio di qualsiasi governo, e possiamo fare la scommessa che la logica della responsabilità individuale sarà ancora al centro dei tentativi di riconfigurazione della logica statale.

Nel vuoto simbolico che accompagna ogni fenomeno privo di discorso egemonico (in questo caso privo di «consenso scientifico»), si intravede un vantaggio tattico per chi è indisponibile al governo della colpa. Bisogna forse guardare quei luoghi dove la macchina-ospedale è stata esondata, dove il saluto ai defunti è stato negato, dove la vita comune ha costruito una violazione condivisa del lockdown, fosse anche per il tempo di una festa notturna o per organizzare forme di cura non istituzionalizzate.

Bisogna cogliere nella vita dentro l'emergenza, l'apertura a una mondanità non trattenuta, un rapporto con l'esistente che non è mediato da responsabilità, «dover essere», reificazione. Il virus ha messo in luce proprio questo – in barba al progresso –, che le nostre esistenze restano indissolubilmente mondane. Non ci spaventa per questo che possiamo dimenticarci la co-appartenenza di soggetti e oggetti a un mondo che li trascende, anzi vediamo nella rinvio alla memoria, alla Verità, un inutile rallentamento che accomuna la logica scientista dei governi e il fatalismo serpeggiante in alcuni segmenti «perdenti» della cittadinanza. La stessa pandemia ci ha detto una sua verità, cioè che il progetto di governo (e computazione) di tutto l'esistente è lontano dal realizzarsi, impossibile nel presente; dentro gli scossoni di questo imprevisto, la sfacciata rinuncia alle colpe è la proverbiale merda da cui nascono i fiori.

 

Postilla sui complottismi

Le manifestazioni delle metropoli nordeuropee (ma anche in Franca e Italia) contro mascherine, distanza di sicurezza, e altre misure di contenimento del virus, rimettono al centro del dibattito sul virus la questione del «negazionismo». In altri articoli si è indagato da vicino «chi c'era davvero» in quelle piazze, approfondendo i discorsi, le forme di vita e i possibili punti di rottura. Facendo tesoro di queste considerazioni, vogliamo qui partire dal fatto che una rappresentazione del complottista si è affermata nel dibattito pubblico e mediatico senza incontrare – fino ad oggi – grandi resistenze; una rappresentazione centrata su individualità cittadine che rivendicano maggiore libertà, in nome della inesistenza del virus o della inutilità delle misure sanitarie.

L'aspetto centrale è quello della rivendicazione: se abbiamo visto sommosse imponenti sfidare i divieti di assembramento (In USA e Francia in particolare) per praticare direttamente alcuni contenuti (tramite la rivolta, il saccheggio, l'attacco alle stazioni di polizia, la visibilizzazione nello spazio pubblico, ecc.), invece le manifestazioni contro i divieti (a Berlino e Londra in particolare) hanno messo in scena un dibattito tra governo e popolazione più o meno aderente alle modalità politiche classiche. Ci sembra chiaro che l'intervento democratico non fosse nelle intenzioni di tutti i partecipanti, ma in fin dei conti ha funzionato la narrazione dei «cittadini arrabbiati», che esprimono la propria visione occupando pacificamente un terreno politico legittimo. Non casualmente, la «voce delle piazze» accetta del tutto i termini del dibattito: non emergono posizioni critiche sull'idea istituita di salute, o sul rapporto tra libertà e necessità dell'apparato produttivo, al contrario si negano alcuni elementi specifici della deduzione-politica (l'esistenza del Covid, la sua infettività, l'efficacia delle maschere, ecc.) preservando l'insieme dell'apparato logico. Riducendo all'osso, i manifestanti (o almeno, ciò che si afferma come «i manifestanti» nel racconto mediatizzato) non mettono in dubbio che se esistesse un virus estremamente pericoloso sarebbe necessario esercitare lo stesso potere che oggi criticano, ma non credono che questo sia il caso. Si esercitano piuttosto in un lamento e nient'altro che un lamento, senza nessuna rottura antidialettica. Conviene ribadire che i referenti istituzionali del complottismo (pensiamo ai Trump o Bolsonaro o al M5S), non si distinguono una volta giunti al potere per una «politica complottista» o «negazionista», ma anzi dimostrano che la funzione governamentale della comunicazione-spettacolare non si basa mai sul fare ciò che si dice, ma sul plasmare ciò che si può dire (o ci siamo scordati che il M5S non ha toccato di una virgola la legge sui vaccini, e Trump ha attuato esattamente le politiche sanitarie che gli ha sempre chiesto la destra «moderata» statunitense).

È d'altronde la questione di molti dibattiti che (per quanto polarizzati) non contengono nessuna rottura reale con l'ordine esistente, ma anzi lo solidificano aggiungendo un'opzione al mercato della rappresentazione (a volte anche elettorale). L'acrimonia, la durezza verbale dello scontro, il susseguirsi di posizionamenti retoricamente durissimi sui social network, rinforzano la struttura emotiva della contrapposizione, rendendo più difficile una fuoriuscita dalla gabbia, che è prima di tutto la gabbia della parola.

La questione dei complottismi, si rivela quindi inseparabile dallo spettacolo della rappresentazione. Possiamo dire che la figura del complottista è inseparabile oggi da un ordine del discorso anti-complottista, e quest'ultimo si prefigura come dispositivo di governo centrale dei prossimi anni. Non per caso sembra che i governi e i media (ma anche molti normali cittadini) vadano a cercare i complottisti, cioè vanno a cercare le parole e gli individui che permettono di coagulare delle tensioni politiche in un discorso complottista (che sia per identificarvisi o per identificarsi nella sua derisione), e si impegnano quindi nella costruzione di uno scontro che ha come caratteristica fondamentale quella di essere uno scontro puramente dialettico. A ben vedere è proprio così che meglio si scongiura il manifestarsi di un vero scontro. Sarà possibile, ad esempio, mettere in dubbio la sicurezza dei vaccini anti-covid, testati in tutta fretta, senza venire catturati in questa rappresentazione dicotomica?

Per chi vuole rivitalizzare una critica dell'esistente (e della gestione della pandemia) che non si limiti a un impotente lamento, è necessario indagare in primo luogo gli anfratti di questa trappola dialogica.

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