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La sindrome di Madame Bovary

di Elisabetta Teghil

Il neoliberismo, sia pure attraverso un’operazione di lobotomia, ha guarito la piccola e media borghesia dalla sindrome di Madame Bovary che consisteva, data la loro posizione intermedia nella piramide sociale, nell’essere più sensibili alla distanza che li separava dalle posizioni superiori e ai vantaggi connaturati con la posizione occupata, che ad una qualche forma di solidarietà con chi occupava posizioni inferiori nella scala sociale.

Impresa che sembrava difficile perché andava messo in discussione tutto quello che la piccola e media borghesia aveva interiorizzato nel più profondo.

A conferma che il mutamento del modello produttivo si riverbera fortemente sui valori personali e sociali.

La piccola e media borghesia sono sotto attacco. Perdono posizioni di rendita che pensavano immutabili sia dal punto di vista economico che della considerazione sociale.

Il risveglio è stato brusco. Coltivavano con tenacia il sogno della loro ascesa sociale a dispetto delle ingiustizie di questa società di cui, pure, erano consapevoli.

Piccola e media borghesia e i figli dei lavoratori erano convinti che la laurea sarebbe stata accompagnata dalla promozione sociale, discorso di facciata teso ad ingannare chi studiava e fatto proprio dalla maggior parte di quelle/i che frequentavano la scuola e l’università. Resi ciechi dall’ambizione hanno creduto di essere arrivati alla laurea per meriti propri e che la società fosse una scala percorribile per tutte/i.


Complici, perciò, e partecipi dell’inganno di cui erano oggetto che è sfociato in un doppio tradimento: nei confronti della classe di origine e nei confronti delle lotte che avevano permesso a tante/i di potersi laureare in prima generazione.

Preoccupate/i solo di coltivare il loro orticello non si sono rese/i conto che il neoliberismo, dopo aver aggredito tutte le forme di resistenza al suo progetto, si pone il problema di frantumare la cultura e di plasmare le menti.

Una scuola che contribuisce alla perdita del senso critico, che rimuove la riflessione, che produce individui disponibili a tutte le pressioni consumistiche, si configura come fabbrica del nuovo soggetto depoliticizzato e deideologizzato.


E’ la scuola del capitalismo totale.


Il neoliberismo fagocita nell’universo mercantile tutto, il lavoro, la natura, la sostanza vivente e, pertanto, anche l’immaginario e la mente.

E’ in questo contesto che la funzione socializzante dell’università viene meno e la formazione e la riproduzione della classe dirigente avvengono attraverso il censo e nelle università esclusive ed elitarie. In Italia la Bocconi in Francia le “Grandes écoles” e, negli Stati Uniti, i Colleges.

La cultura non conta più niente, l’aspetto coltivato è quello di saper produrre profitto che si realizza attraverso il passaggio obbligato del recare danno ai/alle più.

Quelle/i socializzate/i dalle università statali sono condannate/i alla precarietà e alla lotta per la sopravvivenza, le altre/i, quelle/i che vengono dalle università esclusive, non hanno una particolare cultura in più, ma vedono decuplicate le competenze che si affrancano dai vincoli spazio temporali.

La globalizzazione non riguarda più la conquista al mercato di tutti i territori o la riduzione a merce di tutto ma, nelle sue necessità autoespansive, vuole impossessarsi anche degli aspetti più propriamente privati (soggettivazione, sessuazione).

La naturalizzazione del pensiero neoliberale, portata avanti dalla socialdemocrazia in tutte le sue componenti ed articolazioni, non significa altro che la riconfigurazione dei rapporti sociali e delle pratiche culturali in conformità al modello neoliberista, e non significa altro che la mercificazione dei beni pubblici , la generalizzazione dell’insicurezza sociale, l’impoverimento dei diritti a partire dalle situazioni più esposte, non solo proletariato e sottoproletariato , ma anche lavoratori cognitivi, piccola e media borghesia.

La crescita sociale fortemente diseguale, il crollo del peso economico e del ruolo dei lavoratori cognitivi e della piccola e media borghesia non sono le conseguenze di una presunta crisi, ma riflettono la ricomposizione dei rapporti di classe in favore dei detentori del capitale.


Troppi lavoratori cognitivi hanno la responsabilità di aver fatto da megafono alla pretesa che ha il dominio di determinare la realtà e di descriverla secondo i suoi valori, canoni ed interessi.


Sono questi lavoratori cognitivi, soprattutto, che, attuando ricerche scientifiche, studi, analisi e dibattiti culturali, fondati su una serie di opposizioni e di equivalenze che si sostengono e si rispondono a vicenda, hanno veicolato, come manifestazione di società avanzata e come qualcosa di fatale, quello che non è altro che scelta e dimensione politica: il disimpegno sociale dello Stato, il rafforzamento del suo comparto poliziesco e penale, l’attacco senza quartiere al mondo del lavoro che si deve accettare “senza condizioni”, la celebrazione moralizzante della “responsabilità etica”.


Il capitale, nella sua stagione neoliberista trova ed utilizza due figure esemplari ,nell’ambito della produzione culturale, per il compimento dei suoi progetti : da una parte, l’esperto, che propone, dietro le quinte ministeriali e padronali o nell’ambito dei think tank, documenti d’impianto tecnico, spacciato per neutrale ed apolitico, infarciti, quindi, dal linguaggio economico, con grande uso di grafici , dall’altra, il transfuga del mondo universitario e cognitivo che si mette al servizio della classe dirigente e ha il compito di dare nobiltà e parvenza culturale al dominio del capitale così come oggi si esprime.

Queste due figure vengono promosse socialmente, seppure nell’ambito di un ruolo di servizio, a tutti gli altri/e viene riservato il ruolo di piazziste/i nella società dei valori e dell’ideologia neoliberista.


Da più di vent'anni assistiamo all'applicazione di una "teoria", che possiamo definire colpevolizzante, da parte del sistema socio-economico nei riguardi delle cittadine/i. Prima ci ha pensato la socialdemocrazia che, in tutti questi anni, ha attuato un ipocrita, strumentale e fuorviante coinvolgimento nelle pratiche così dette "politicamente corrette": dalla demonizzazione di chi scrive sui muri, di chi fuma, di chi non sa vivere "civilmente"... alla necessità di "aiutare", attraverso le onlus e le ong e le associazioni a vario titolo socialmente "utili", le popolazioni del terzo mondo, dalla raccolta differenziata dei rifiuti, al riciclaggio delle cose usate e al consumo "etico"....

Questa impostazione accompagna, ormai da diversi anni, ogni aspetto della vita sociale.

Il traffico è eccessivo? E 'colpa nostra perché prendiamo la macchina senza motivo! Muoiono di fame i bambini nel terzo mondo? E' colpa nostra perché mangiamo troppo e male! Ci sono troppi rifiuti da smaltire? E' colpa nostra perché non facciamo come si deve la raccolta differenziata! Si muore di tumore al seno? E' colpa nostra perché non rispondiamo adeguatamente alle campagne di prevenzione!

Tutto ciò è profondamente ipocrita perché tace, scientemente, che questo modello economico-sociale non può prescindere da una spinta sempre più forte al consumo, che nei paesi del terzo mondo la gente muore di fame perché l'espansione del capitale fa razzia di ogni ricchezza e divora le economie di sussistenza, che i tumori al seno, o di qualsiasi altro tipo, vanno di pari passo con il degrado del nostro habitat.

E' un'operazione strumentale, perché tende a coinvolgere la cittadina e il cittadino, in prima persona, nelle sorti del capitale ed è fuorviante perché vuol far credere che, così facendo, si possa migliorare questa società.

 
Ma questo modello colpevolizzante si è sovrapposto ad un altro modello, altrettanto colpevolizzante ed attualmente vincente, quello neoliberista, di cui la socialdemocrazia, non a caso, sponsorizza i valori a spada tratta.

Il modello neoliberista, profondamente reazionario, con punte clericali e fasciste, che ha smantellato lo stato sociale ,ha aumentato a dismisura la platea dei poveri/e, ha reso normale e normata la disoccupazione di massa, punta, anch'esso, alla colpevolizzazione delle cittadine e dei cittadini.

Si privatizza il servizio pubblico? Perché i dipendenti pubblici sono dei fannulloni! Si fanno le guerre neocoloniali? Perché l'occidente pretende un tenore di vita eccessivo! Ci sono i disoccupati? Perché sono privi di ambizioni e vogliono il posto sicuro! C'è il problema delle pensioni? Perché quelli dal posto fisso sono gretti ed egoisti e non fanno largo ai giovani! C'è il debito pubblico, anzi ogni bambino nasce già con una quota di debito a testa? Colpa dei genitori che sono stati dissipatori, farfalloni e pieni di pretese! La natalità è quasi a zero? Colpa delle donne che non vogliono più fare figli! Ci sono tante/i migranti sfruttati, sottopagati, al limite della schiavitù? Colpa delle italiane/i che non vogliono fare certi lavori e poi si lamentano!

In questo modo, le naturali declinazioni delle responsabilità legate all'accantonamento delle conquiste sociali, vengono totalmente rimosse e, addirittura rovesciate sulle vittime.

Essere povere/i è una colpa ed un segnale manifesto di incapacità, come nella più classica tradizione calvinista, e la ricchezza è un segno della benevolenza divina.

Disoccupazione, malattia, oppressione di qualsiasi tipo compresa quella di genere, precarietà, povertà... non sono più il frutto di questo sistema socio-economico, ma sono le vittime a diventare colpevoli dei modi che questa società produce e del dolore della loro stessa vita.

La cittadina e il cittadino, nella configurazione sociale neoliberista, devono prendere atto della loro insufficienza, ignoranza, incoscienza, incapacità ed assumersene le responsabilità accettando di essere reiette/i perché questo si sono meritate/i.

Le vittime della società divisa in classi e patriarcale, del modello basato sullo sfruttamento e sul profitto più sfrenato, nel momento in cui si rifiutano di mettere in atto le scelte loro suggerite, diventano responsabili dei crimini della società stessa.

Questa lettura introduce, quindi, la criminalizzazione della povertà, della disoccupazione, dell'ignoranza ed è una forma di razzismo, sotto mentite e negate spoglie, trascinato dal colore della pelle alla condizione, alla nascita, al genere.

E viene attuata con un meccanismo ormai sfacciato: stigmatizzare, di volta in volta, alcuni gruppi sociali per poi esporli alla collera popolare.

E' rispetto a questo fenomeno che porzioni del movimento, compreso quello femminista, sono affette dall'afasia di Wernicke che consiste in un eloquio fluente ma difettoso, se non addirittura mancante del tutto, della comprensione del linguaggio altrui, e anche del proprio, che risulta disturbato da neologismi e spostamenti di vocaboli di cui il soggetto non si rende conto, salvo quelle/i che in buona fede non sono.

 
Essere femministe, oggi, significa rompere con questi valori mortiferi, sottraendoci tutti i giorni e in tutti i momenti della nostra quotidianità.

Significa rompere l'assuefazione al controllo, ribaltare la colpevolizzazione in cui ci vogliono invischiare, recuperare la capacità di indignarci, promuovere la criticità verso la meritocrazia, la gerarchia, l'autorità, smascherare l'uso improprio di parole come democrazia, riforme, partecipazione....spezzare l'ipocrisia in cui ci vogliono imbrigliare.

Significa non sostenere mai questo sistema, neppure se le richieste sono mascherate da "nobili motivi e intenti", non aiutare mai questa economia che trasforma tutto, dalle buone intenzioni alle catastrofi, in estorsione del plusvalore.

Significa smascherare la crescita culturale che si trasforma in marketing mediatico che modella il ruolo delle Ong e delle guerre neocoloniali, con uno stravolgimento forzato sui media, e che ha permesso il riciclaggio dell’imperialismo capitalista sotto la bandiera della morale , del diritto, dell’intervento umanitario, della difesa delle minoranze.

Significa cercare di innescare meccanismi di uscita da questa società.


La via da percorrere per i lavoratori cognitivi, per gli intellettuali, per i professionisti…… non è quella di sgomitare, di “pugnalare alle spalle” i colleghi, di vendersi e/o svendersi per poter fare carriera, perché, a fronte di qualche, sempre più rara, promozione sociale individuale, c’è l’impoverimento, a tutto campo, della classe di appartenenza.

La via da percorrere è quella, già indicata da Sartre, di “compagni di strada” degli oppressi tutti: “in me c’è, dunque, una singolarissima contraddizione: scrivo libri per la borghesia e mi sento solidale coi lavoratori che la vogliono rovesciare” ed ancora quanto elabora Bourdieu nella teoria dell’intellettuale collettivo “...tutto il pensiero politico critico è dunque da ricostruire, e non può essere fatto da un singolo, guida intellettuale lasciata in balia unicamente delle risorse del proprio pensiero, o portavoce autorizzato di un gruppo o di un’istituzione che pretenda di essere la voce di chi è senza voce. E’ qui che l’intellettuale collettivo può avere un ruolo realmente insostituibile, nel contribuire a creare le condizioni sociali di una produzione collettiva di utopie realiste.”


Non ci sono scorciatoie, bisogna reinventare e ricostruire la sinistra, ma questa o sarà di classe o non sarà niente.

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