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In morte di Agitu Gudeta

di Michele Castaldo

5fec440f24000017078ad988Ogni fatto tragico come l’uccisione di una persona pone degli interrogativi sulla irrazionalità del genere umano, più è efferato un crimine e maggiori sono le domande: perché? Ma l’uccisione di Gudeta, una donna etiope di 43 anni, rifugiata da un paese ex colonia italiana e imprenditrice nel paese, un tempo colonizzatore, pone qualche domanda in più, in modo particolare perché chi l’ha uccisa è Suleiman Adams, un uomo nero ghanese immigrato in Italia, che lavorava alle sue dipendenze.

Si pone come premessa la domanda: che metodo usare per esprimere un giudizio? Negli ultimi anni ci siamo abituati al termine femminicidio per indicare l’uccisione di mogli, conviventi, amanti, fidanzate uccise dal maschio per la rottura di un rapporto sentimentale dove il corpo femminile soccombe purtroppo alla forza bruta del maschio che uccide per la perdita di possesso di quel corpo, non solo e non sempre per ragione sessuale, ma anche perché aveva riposto in esso ogni ragion d’essere della propria vita.

L’uccisione di Gudeta non è inquadrabile solo in queste casistiche, perché, almeno per quel che se ne sa, fra la femmina etiope e il maschio ghanese c’era un rapporto diverso da quelli che comunemente vengono riferiti ai sentimenti, che inducono il maschio a usare violenza fino all’uccisione. Dunque per esaminare quel tipo di rapporto, dobbiamo cercare di inquadrarlo correttamente e scoprire quali molle – o cause – scattano in determinate circostanze. Questo, per un verso, e l’uso che vien fatto di una tragedia da parte delle forze politiche che esprimono precisi interessi di forze sociali, per l’altro verso. Altrimenti parliamo del nulla.

Ora, Gudeta, donna dinamica fin dalla giovanissima età, era arrivata in Italia come rifugiata politica, che è una cosa diversa dalla condizione di immigrato/a clandestino/a, ed aveva ottenuto la protezione umanitaria sponsorizzata da Emma Bonino, era stata accolta in un certo modo dagli ambienti dell’establishment politico col fine di utilizzarla come emblema di un’immigrazione responsabile da apprezzare oltre che sfruttare, contro un’altra immagine da disprezzare e sfruttare politicamente. Poi ci mette del suo, ci mancherebbe, e diviene una imprenditrice di tutto rispetto in un settore certamente particolare dove c’è da lavorare sodo, come quello dell’allevamento di capre e la produzione di formaggi. Entra in contatto con il mondo delle cooperative e dell’agricoltura biologica e – annota il Corriere della sera – in piena pandemia da Covid, mentre in tanti chiudono, lei ha alzato una saracinesca in piazza Venezia a Trento, che ad onor del vero, non è proprio Bagnoli del Trigno, sia detto con molto rispetto per gli abitanti del piccolo comune molisano in provincia di Isernia.

Come si è detto pocanzi, Agitu Gudeta è una rifugiata politica che viene presa in consegna e protetta per essere utilizzata da ambienti dell’establishment; mentre Suleiman Adams è un immigrato arrivato con i barconi come tanti altri poveri disgraziati.

Il giovane 32enne ghanese «parla solo inglese, nonostante sia in Italia da qualche anno», sottolinea in modo maliziosamente razzista Dafne Roat sul Corriere della sera (chissà come parlerebbe bene il ghanese questa signora dopo qualche mese nel Ghana, a vivere nelle stesse condizioni in cui ha vissuto Suleiman Adams nel nostro paese).

Sicché i due personaggi, provenienti da due paesi martoriati dal colonialismo e dall’imperialismo, indipendentemente dalle condizioni di partenza, vengono a trovarsi a giocare due ruoli diversi e per certi aspetti contrapposti nel complesso meccanismo dell’accumulazione capitalistica in un paese nemico per entrambi: quello di imprenditrice per quanto riguarda una donna volitiva, tenace e capace; e quello del subordinato, cioè del pastore alle sue dipendenze.

Il caseificio che la donna aveva aperto rivelava già dal nome – La capra felice – il suo credo ambientalista e il suo antispecismo, ricevendo riconoscimenti da Slow Food e da Legambiente per l’impegno profuso con la sua azienda e il suo negozio. Agitu Ideo Gudeta, leggiamo da qualche sito «era un nome noto nel movimento antirazzista italiano, ma oggi viene usata – persino dai Verdi – per presentare il Trentino come terra di accoglienza, in un tentativo di nascondere la xenofobia di cui era oggetto». Ma questi tentativi, seppur dettati da nobilissime intenzioni non sono sconnessi dalle leggi del mercato, dunque Gudeta viene risucchiata nel vortice di quelle leggi che sono inesorabili e che conducono dritte nella spirale infernale dell’accumulazione capitalistica.

I due ruoli devono rispondere a due oggettive, ma diverse necessità: quella dell’accumulazione e della spietata concorrenza che non conoscono limiti, per la donna divenuta nei fatti piccola imprenditrice; e quella di sfamare sé stesso e i suoi due figli lasciati nel Ghana per il giovane pastore. Le due necessità convivono solo se entrambe vengono soddisfatte; mentre entrano in conflitto se entrambe o una delle due non riescono a essere soddisfatte. E fra le due non può prevalere quella subordinata del giovane ghanese, mentre tende a prevalere quella dell’imprenditrice che ha più potere. Negare ciò significa mettere la testa nella siepe, il che non ci aiuta a combattere il vero nemico che si nasconde nell’impersonalità dei meccanismi correnti dell’accumulazione.

Agitu Gudeta parla bene l’italiano, è totalmente integrata, dunque, ma non come lavoratrice dipendente, bensì come imprenditrice e gestisce un territorio che le è stato assegnato dalla provincia di Trento per sviluppare la sua attività. Tanto di cappello, ci mancherebbe. Ma un imprenditore è tale anche se è donna, e il suo assassino è un subordinato anche se è maschio. Insomma i ruoli del meccanismo infernale del modo di produzione capitalistico divengono impersonali non soltanto se l’imprenditore è maschio. Sicché l’uccisione di Agitu Gudeta, lo si può definire femminicidio perché è stata uccisa una femmina, e come tale va in ogni caso condannato, ma le ragioni lo connotano più come un delitto nei confronti di una donna, cioè di una persona che non rappresentava solo l’aspetto femminile della specie, no, ma che rivestiva un ruolo nel meccanismo infernale dell’accumulazione che è un di più e di diverso.

Suleiman Adams non ha ucciso Gudeta per amore tradito, o per il possesso dei figli, come siamo purtroppo abituati ormai ad assistere in modo sempre più frequente negli ultimi anni, no. Il giovane ghanese ha ucciso in preda alla furia causata da una non corresponsione di una o più mensilità arretrate. Quante fossero le mensilità arretrate lo potevano sapere solo loro due, e non ha alcun rilievo al fine della comprensione della causa scatenante. Sicché la questione che si pone con serietà è che un immigrato con moglie e due figli in Ghana uccide una imprenditrice che in tempo di Covid apre una nuova attività in piazza Venezia a Trento e per far fronte a spese cospicue ritarda nel pagamento del salario al proprio dipendente. Si scatena così un odio – deve essere sottolineato – nei confronti di una persona integrata, dunque arrivata, grazie anche al suo essere femmina, il che aggrava ulteriormente il quadro di un rapporto bestiale e accecante. Rimuovere questa causa, ripeto, equivale a nascondere il nemico vero e impersonale di cui ci corre l’obbligo di discutere.

Gudeta non era un imprenditore o un’imprenditrice con tanto di villa superprotetta da supersonici impianti d’allarme e guardie del corpo. Non era armata, era semplicemente una donna illusa di un progetto di accumulazione sano, di corretto rapporto con l’ambiente, cioè alternativo nel capitalismo. Ma, il capitalismo non ammette alternative.

È cinismo questo modo di ragionare? Può darsi, ma è l’unico modo che ci accosta a capire le ragioni che hanno segnato il comportamento della povera vittima, per un verso, e quello del suo assassino, per il verso opposto. Siamo così in presenza di due vittime dello stesso meccanismo che genera due cause opposte.

 

L’utilizzo del femminismo capitalistico

Veniamo ora all’utilizzo di un gesto certamente criminoso nei confronti del corpo femminile, che ne fa il potere politico che difende quello economico e di sistema.

L’operazione ideologica e politica che ne sta facendo la stampa italiana tende a dimostrare una tesi semplice: c’è una donna di pelle scura rifugiata nel nostro paese, che si è data da fare, ha imparato la lingua, si è fatta imprenditrice, si è integrata, viene stimata e apprezzata dal popolo italiano. Dall’altra parte c’è un nero, arrivato coi barconi, che non ha imparato l’italiano e che ha ucciso la propria imprenditrice per un misero salario arretrato. Osanna perciò per chi rifugiata si integra nel paese che l’accoglie; disprezzo razzista per chi arriva coi barconi, non impara la nostra lingua, del tutto irriconoscente neri confronti di chi gli offre da vivere, e per un nonnulla uccide la propria benefattrice.

Purtroppo Gudeta non è la prima vittima a cadere sotto i colpi di un povero disgraziato costretto a un gesto per il quale rovina la propria vita dopo averla tolta a un’altra persona; e certamente non sarà l’ultima. Pertanto chi punta il dito contro l’individuo criminale, specie se nero, e dunque facile bersaglio, in verità tende a rimuovere le cause vere che generano determinati rapporti come nel caso che stiamo esaminando.

Negli Stati Uniti da anni succede che “un folle” spara all’impazzata sulla folla, cioè nel mucchio. I commentatori non fanno altro che indicare quel gesto dovuto alla follia individuale.

Dal punto di vista del materialista, cioè di chi cerca faticosamente di spiegare le cause dei fatti piuttosto che liquidarli come fenomeni estranei alla normalità della convivenza civile, siamo portati a credere che si spara nel mucchio proprio perché il nemico è impersonale a causa dei rapporti di un meccanismo infernale in cui l’individuo non compare come il responsabile. Mentre in certi casi si individua nella persona che si ha di fronte il responsabile dei propri guai e si reagisce in preda all’ira. Il caso che stiamo esaminando rappresenta esattamente quello che cerchiamo di dimostrare, ovvero di un uomo che non riuscendo ad arrivare alle cause vere dell’effetto, che lo schiavizza razzisticamente, agisce nei confronti dell’ultima espressione dell’effetto, la scambia per la causa, e scatena nei suoi confronti la sua furia omicida. Se poi la rappresentanza ultima di questo effetto è femmina, da parte del maschio si scaricano tutte le furie ataviche che come genere ci portiamo dietro da millenni, come pare sia successo nel caso che stiamo esaminando. Così il pranzo è servito su un piatto d’argento ai difensori di un sistema barbaro e crudele che nascondono e rimuovono le cause vere delle tragedie nei confronti di centinaia di milioni di persone per sparare sul criminale femminicida di turno.

Mettiamo allora le carte in tavola dicendo una cosa molto semplice: gli immigrati servono, al capitale italiano come a quello di tutti gli altri paesi europei, come l’aria per respirare. Basta leggere quello che scrive per esempio il sociologo Stefano Allievi in un testo pubblicato di recente: «La diminuzione e il rapido invecchiamento della popolazione rendono necessaria una quota di immigrazione: se non ci fosse, salterebbe il sistema previdenziale e l’economia ne soffrirebbe, dato che per interi settori la manodopera è insufficiente». E, aggiunge l’illustre docente: «servirebbe integrarli, ma l’Italia non ha il coraggio di farlo».

Ora, a fronte di decine e centinaia di migliaia di immigrati che vengono schiavizzati, uno o una sale nell’ascensore sociale e per poterlo fare deve rivalersi nei confronti del proprio simile, voltare le spalle al suo passato e camminare sui morti, come un comune accumulatore. Altrimenti detto: da vittima deve trasformarsi in carnefice. In questa fredda e cinica legge si nascondono le cause della tragedia accaduta nel Trentino.

Pertanto ci è assolutamente proibito, in modo particolare nei paesi occidentali, isolare la questione del rapporto maschio-femmina dalle leggi che regolano l’insieme del modo di produzione capitalistico e che nell’attuale crisi, proprio perché priva di sbocchi, mostra il peggio di sé quale riflesso della sua definitiva degenerazione. Si impone perciò una riflessione più generale che metta al centro non solo il rapporto maschio-femmina, ma quello uomo-donna come necessità assoluta per un diverso rapporto che cominci ad affrontare insieme – per combatterle – le leggi del mercato e della concorrenza che determinano la donna a merce-feticcio-femminile da vendere alle bramosie maschiliste, e l’uomo a maschio consumista di quella merce.

Per concludere dico che, come specie umana, viviamo una fase molto complicata, perché si è chiuso definitivamente un periodo storico che vedeva il modo di produzione capitalistico crescere ed espandersi; e siamo entrati in un’altra fase dove si succederanno crisi a crisi sempre più gravi fino alla catastrofe finale proprio perché l’uomo, come specie, non è stato capace di razionalizzare il suo rapporto, attraverso i mezzi di produzione, con tutte le altre specie della natura.

Comments

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Paolo Selmi
Wednesday, 06 January 2021 10:13
Errata corrige
"A fine agosto avevo già fatto il CV di trecento persone,", mi scuso, leggasi "DUEcento persone". Per la relazione presentata poi in CdL ho allungato il brodo e ho portato la scadenza a novembre, quando l'ho presentata. Ma da settembre a novembre l'attività di compilazione era calata notevolmente, perché dopo la pausa estiva la domanda di lavoro stagionale "cinese" ripartiva. Vent'anni fa non esisteva "disoccupazione" in quel settore, in nero si trovava. Così, avevo approfittato della relativa calma, senza tutta quella coda che partiva già dallo scalone di destra, per rielaborare i dati raccolti e cominciare a impostare un lavoro più specifico individuando, fra chi aveva interesse, un minimo di competenze, tutti i documenti a posto (permesso di soggiorno e libretto di lavoro) e una sufficiente conoscenza dell'italiano, dei percorsi all'interno di quelli che erano i suggerimenti che arrivavano dalle segreterie dei sindacati di categoria piazzate lì in CdL ai vari piani. Quindi gli edili mi consigliavano un corso di piastrellista che stava partendo all'EDEM, e lì per esempio confluiva chi in Cina aveva fatto il muratore e già era addentro la materia, e a cui mancava solo un po' di italiano tecnico e riprendere la mano, piuttosto che la cooperativa lavoratori ortomercato mi consigliava un corso di mulettista che stava partendo, eccetera.
E' stata una bella esperienza. Peraltro, la CdL dopo otto mesi che ero lì per lo "stage", mi aveva iniziato a passarmi un assegno di centomila lire come contributo spese, con cui mi pagavo l'abbonamento del treno e i biglietti dei mezzi. Ed era l'unica istituzione presso cui lavoravo che mi dava un qualcosa di fisso al mese... il resto, era tutto co.co.co a fine contratto.
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Paolo Selmi
Tuesday, 05 January 2021 23:19
Caro Michele,

concordo con la tua analisi. Per tre anni ho lavorato a tempo pieno come mediatore culturale, in particolare con gli immigrati cinesi. Ho avuto l'illusione anche, nel 1999, subito dopo l'ingresso della Turco-Napolitano, che ne prevedeva la figura per legge, che tutto quello sbattimento fra comuni, questure, ospedali, scuole di ogni ordine e grado del Varesotto, cooperative sociali e CdL di Milano, potesse diventare anche un lavoro con uno stipendio, anche fossero state cinquecentomila lire fisse e le altre cinquecentomila... così, estemporanee, in base alle scadenze dei vari co.co.co. che avevo firmato... quando un operaio di primo livello in un'officina meccanica guadagnava un milione e tre, ma faceva niente, andava bene anche così... niente da fare. L'Italia non è un posto per mediatori culturali.

Nel 2016 ho recuperato da un vecchio floppy la relazione che avevo fatto per la CDL di Milano al termine di uno sportello di orientamento al lavoro e tutela sindacale per lavoratori cinesi, e l'ho messo in rete con una breve prefazione:
L'altra metà del cielo / Половина неба / Half the sky / 半邊天. Rapporto sulla comunità cinese di Milano e sullo sportello di Assistenza ai lavoratori cinesi (2000)
https://www.academia.edu/27944411/Laltra_metà_del_cielo_Половина_неба_Half_the_sky_半邊天_Rapporto_sulla_comunità_cinese_di_Milano_e_sullo_sportello_di_Assistenza_ai_lavoratori_cinesi_2000_

La tua riflessione me l'ha fatta venire in mente. La mia esperienza coi lavoratori cinesi, lavapiatti, aiutocuoco, camerieri, operai tessili alla tagliacuci o alla macchina da cucire, e - di riflesso - coi loro padroni connazionali, mi ha aperto gli occhi su tante cose. Mi ha fatto venire in mente anche un adagio che sentivo da ragazzo, quando qualche vecchio ripeteva che il peggior padrone era l'operaio divenuto padrone. In effetti quegli operai erano sfruttati, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore schiavizzati (con trattenimento in ostaggio di passaporto e permesso di soggiorno, per chi l'aveva, dietro richiesta di riscatto in denaro) da connazionali che fino a dieci anni prima erano stati a loro volta operai in confezioni o ristoranti italiani. Con l'aggravante, nel caso cinese, del "partito della mano nera" (黑手党) ovvero delle loro mafie. Il tutto, peraltro, nel totale silenzio del Consolato cinese. La scena era questa, per tre giorni la settimana di quell'anno. Scendevo a Garibaldi, giravo l'angolo e c'era il Consolato cinese, giravo due isolati e iniziava il quartiere cinese: due mondi tanto vicini, a poche centinaia di metri di distanza in linea d'aria, quanto completamente separati l'uno dall'altro... io fresco dei miei vent'anni e del mio provincialismo, mi immaginavo quel portone telecamerato come avamposto contro le ingiustizie e lo sfruttamento che loro connazionali esercitavano nei confronti di altri loro connazionali: sportelli di assistenza, interpretariato per chi faceva denunce in questura, iniziative in nome della lotta di classe e di tutela dei lavoratori cinesi contro i loro padroni... magari in collaborazione con la CdL... corsi d'italiano gratuiti... niente di tutto questo. Quel posto era noto a quei lavoratori solo per qualche timbro sui vari certificati di matrimonio, di nascita, oltre che titoli di studio, da autenticare per altra burocrazia e carta da produrre qui, in loco.

Ora, quel lavoratore ghanese la giornalista razzista sottolinea che parlava ancora solo inglese dopo qualche anno che era qui... beh, difficile far pratica, per giunta di una lingua "facile facile" come l'italiano, se fai il pastore... ancor più difficile che ci arrivi a capirlo qualcuno che non si è mai trovato catapultato in una realtà completamente avulsa dalla propria e senza alcuna pezza d'appoggio per ripartire da zero e provare a integrarsi, anche alla bell'è meglio, in tale realtà. Io dico solo questo: in quel 1999 a giugno distribuivo dei volantini per quello sportello orientalavoro in una libreria cinese di Via Messina, lo sportello era aperto solo due volte alla settimana. A fine agosto avevo già fatto il CV di trecento persone, in possesso di regolare permesso di soggiorno, che erano venuti a farsi fare da me un CV in italiano e avere qualche dritta su come cercare un lavoro "italiano". Questo per dire quanto era "chiusa" quella "comunità"... era chiusa (ed è chiusa) solo perché un cinese che sa scrivere a malapena il proprio nome in caratteri latini e arriva in Italia in queste condizioni, non assorbe la lingua italiana per osmosi, allo stesso modo in cui chiunque di noi oggi pigliasse e andasse in Cina, non assorbirebbe nulla di quella lingua e cultura per osmosi. Occorre studiare, dialogare, interagire, capire, appropriarsi di una lingua parlata e scritta completamente diverse dalle nostre... e se stai dieci ore al giorno in un ristorante o dodici su una taglia e cuci, puoi star tranquillo che non imparerai mai la lingua di Confucio, neanche a piangere, così come loro non impareranno mai la lingua di Dante nelle stesse medesime condizioni. Ma questo è inutile anche spiegarlo, alla giornalista razzista del corriere.

Torniamo al pastore ghanese... prima di farla finita a modo suo, in un Paese civile, che non è l'Italia, a questo punto debbo concludere neanche in quel Trentino che comanda tutte le classifiche nazionali di civiltà, qualità della vita, ecc., ci sarebbe stato un sindacato di categoria, uno sportello a cui rivolgersi, una lettera di avvocato, quantomeno, da far partire con raccomandata, un'ingiunzione a pagare tutto, subito, e con gli interessi e i danni e le penali del caso, e sarebbe finita lì. Ma l'Italia non è un Paese civile con gli stranieri. Qualche anno fa da noi un muratore marocchino è rimasto su una gru, la gru del cantiere dove aveva lavorato fino ad allora, sperando di attirare più attenzione possibile sul fatto che era mesi che non lo pagavano. Anche qui, il sindacato dov'era? Dov'era quando Iannece ha dato fuoco a Ion Cazacu, ingegnere romeno finito a fare il piastrellista a Gallarate nel 2000? Dov'era quando quello sportello legale e di orientamento che ero riuscito a far partire e a far conoscere, e pian piano a radicare sul territorio, proprio lì, in corso di Porta Vittoria a Milano, è stato lasciato morire?

In vent'anni le cose sono solo peggiorate. Niente integrazione, anzi, disintegrazione, anche di quel poco che si era fatto, finanche del nostro stesso tessuto sociale.

Grazie ancora del contributo.
Un caro saluto.
Paolo Selmi
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