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Non c’era un piano di uscita

di Robert Blumen

Robert Blumen: Sono passati due anni da quando ci dissero che dovevamo “abbassare la curva”

maggie chiang b660 hvvuiyn9482382Robert Blumen è un ingegnere e giornalista americano che commenta su vari argomenti di economia e di politica. Mi è sembrato il caso di tradurre questo suo articolo apparso sul sito del “Brownstone Institute” perché è un interessante esercizio di logica su come è stata condotta la campagna anti-Covid negli ultimi due anni. Più esattamente, dovremmo dire “un esercizio di mancanza di logica.”

Blumen parla di molti dettagli, ma c’è un punto fondamentale che viene fuori dal suo articolo: Qual è la “strategia di uscita” dall’emergenza? Il problema è che questo punto di uscita non è mai stato detto chiaramente nella infinita serie di “precauzioni” che ci sono arrivate addosso negli ultimi due anni. Ed è lo stesso per i vaccini, che ci sono stati presentati come l’arma finale contro il virus, ma che chiaramente non lo sono. E se non c’è una strategia di uscita, quando mai potremo uscire dallo stato di emergenza?

Dice Blumen: “Mi ci è voluto del tempo per dare un nome a questa strategia. Ho optato per “soppressione”. La ragione fondamentale per cui la soppressione non è una politica è che non ha uscita. Perché una cosa funzioni deve funzionare entro un tempo limitato. Se le misure per rallentare la diffusione sono riuscite a rallentarla, allora che si fa? La natura di una via di uscita è la risposta alla domanda: “Cosa succede quando smettiamo di fare una certa cosa?” Se la risposta è “Si ritorna indietro a quello che succedeva prima”, allora non è una via di uscita.”

Una critica che si può fare a Blumen è che non considera esplicitamente quella che in effetti sembra essere stata la strategia che i governi hanno cercato di applicare: quella dei vaccini come “arma finale”. Con un vaccino efficace, c’era una strategia di uscita: valeva la pena rallentare la diffusione dell’epidemia fino a quando non sarebbe stato possibile vaccinare la maggior parte della popolazione. In teoria, questo avrebbe debellato il virus per sempre e per sempre.

Ma, come nota Blumen citando una frase di Yogi Berra, “In teoria non c’è differenza tra teoria e pratica. In pratica c’è”. La speranza che i vaccini avrebbero debellato definitivamente e per sempre il virus era quantomeno ingenua. Si sapeva, o si sarebbe dovuto sapere, che un virus ad alta velocità di mutazione, come lo sono di solito i coronavirus, si combatte male con i vaccini. Inoltre, come è stato notato dal dottor Robert Malone e il dottor Geert Vanden Bossche, vaccinare la popolazione nel pieno di un’epidemia non è una buona idea perché stimola la diffusione di mutazioni resistenti al vaccino. Cosa che stiamo puntualmente osservando.

In pratica, e non in teoria, i vaccini non si sono rivelati l’”opzione nucleare” nella guerra al Sars-Cov2. Utili per persone anziane e con patologie pregresse, non fermano i contagi e la loro efficacia cala rapidamente nel tempo (non oltre i sei mesi come potete leggere, per esempio, qui). Di conseguenza, non riusciamo a liberarci da tutte le altre “precauzioni,” mascherine, distanziamento, test, eccetera. Come dice Blumen, se non ci decidiamo a darci un taglio, non ne usciremo mai fuori. (Prof. Ugo Bardi)

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L’anno scorso sono comparse vignette che raffiguravano un ciclo infinito di varianti e risposte del governo. Richiamano alla mente la definizione di follia (attribuita erroneamente a Einstein) che era “fare la stessa cosa più e più volte e aspettarsi risultati diversi”. O forse la frase meno nota di una miniserie di Stephen King degli anni ’90 “L’inferno è la ripetizione”.

La direzione della politica di salute pubblica negli ultimi due anni è stata difficile da capire. Può essere un compito da pazzi usare la logica e la ragione per qualcosa che è stata progettata appositamente per non avere senso. Ma arrivandoci come faccio io, senza una precedente formazione in medicina o epidemiologia, strumenti semplici come la logica e il buon senso possono ancora essere utili: i principi di base della realtà sono veri per tutti. Perché un piano funzioni, deve funzionare entro un tempo limitato; ci deve essere una via di uscita.

Abbiamo iniziato con “Due settimane per appiattire la curva”. Se non si può dire altro a favore di questo piano, bisogna riconoscere che è stato spiegato bene. Immagini come questa erano abbastanza chiare. Con la mia istruzione universitaria in matematica e fisica, ho capito che l’area sotto la curva doveva rimanere uguale in entrambe le alternative: l’una con e l’altra senza “precauzioni” (come l’etichetta nel diagramma si riferisce eufemisticamente a una condizione di vita simile a quella sotto il comunismo). La curva si poteva abbassare a costo di prolungare la durata dell’epidemia.

A parte la questione che il piano potesse funzionare o meno, è possibile proporlo senza contraddire le leggi della logica o del buon senso. Il piano di appiattimento accetta che quasi tutti alla fine saranno esposti e il contagio si esaurirà. Se il piano consente ad alcune persone di ritardare la loro esposizione, fino a un certo punto, questo potrebbe far guadagnare ai medici un po’ di tempo per imparare meglio come trattarle. O forse verrà introdotto un vaccino miracoloso che creerebbe un’immunità sterilizzante e fermerebbe l’epidemia, consentendo a coloro che avevano ritardato l’esposizione di evitare del tutto l’infezione.

E i medici hanno imparato a curare la malattia, ma i trattamenti sono stati attivamente combattuti dall’establishment medico. La FDA – il regolatore dei farmaci negli Stati Uniti – ha twittato che dovresti essere curato per covid solo se sei un cavallo. Ancora oggi, puoi essere bandito dai social media per aver suggerito che è possibile curare la malattia. Quindi ogni possibile vantaggio del piano di abbassare la curva per dare tempo di sviluppare un trattamento è stato sprecato.

Poi, sebbene il piano fosse chiaro, non era garantito che funzionasse. Ci sono diversi effetti secondari che avrebbero potuto minare la semplice storia raccontata dall’immagine. Forse stare tutti a casa non avrebbe aiutato, perché ci si poteva benissimo contagiare a casa. O forse troppe persone dovevano per forza uscire di casa perché i lavoratori delle infrastrutture critiche essenziali come i dispensatori di marijuana (n.d.t. è successo in California) devono rimanere aperti per mantenere la società in funzione.

Alcuni hanno poi suggerito che una politica che posticipa l’immunità della popolazione darebbe al virus più tempo per mutare. Dato un tempo sufficientemente lungo, chi si era infettato e aveva sviluppato un’immunità naturale a una variante precedente avrebbe dovuto affrontare un virus sufficientemente diverso da poter essere infettate di nuovo. In questo senso, il dirigente biotecnologico Vivek Ramaswamy e la professoressa di medicina Dr Apoorva Ramaswamy, scrivendo sul Wall Street Journal, si chiedevano se era veramente il caso di provare a rallentare la diffusione quando invece, “accelerare potrebbe essere più sicuro“. Lo scienziato cognitivo Mark Changzi notava che “rallentare la diffusione tra i sani non a rischio aumenta solo le possibilità dei fragili di essere infettati”. Il dottor Robert Malone e il dottor Geert Vanden Bossche, affermavano che non si può vaccinare per uscire da una pandemia” ritenendo che una vaccinazione durante un’epidemia acceleri l’evoluzione del virus a formare delle varianti diverse della versione presa di mira dal vaccino .

Molto probabilmente le “precauzioni” non hanno fatto nulla per rendere la curva più piatta. Con il senno di poi, possiamo osservare che i focolai del virus negli stati adiacenti degli Stati Uniti (o nelle nazioni vicine che sono simili per dimensioni e dati demografici in altre regioni del mondo) aumentano e diminuiscono fianco a fianco in picchi ciclici, indipendentemente da quando o se sono stati compiuti sforzi per rallentare la diffusione. Non vi è alcun impatto sulla variabilità di qualsiasi metrica di salute pubblica basata su quando è stata intrapresa una “precauzione”.

Dopo che i ricoveri hanno raggiunto il picco e poi sono scesi vicino allo zero nella primavera del 2020, mi aspettavo ingenuamente che avessimo fatto quello che potevamo, ed era finita. Se avessimo appiattito la curva o se il virus avesse fatto comunque quello che avrebbe fatto, la cosa a quel punto era irrilevante. Ma, invece di porre fine alle precauzioni, c’è stato un passaggio non dichiarato dalla strategia originale a una nuova. A differenza dell’originale, la nuova politica non è stata spiegata chiaramente. Sospetto che il motivo sia che non avrebbe potuto essere spiegata senza che diventasse ovvio che non aveva alcun senso.

“Appiattire la curva” presuppone che i contagi finiscano – o attraverso l’immunità o per ragioni che non comprendiamo completamente. Tutte le cose finiscono. Anche la piaga della peste nera si è esaurita ben prima di spazzare via l’intera razza umana. Ma se un focolaio finisce quando la maggior parte di noi è stata esposta (ed è morta o ha sviluppato l’immunità), come si può dire che rallentarla salvi delle vite? Vale la pena di fare enormi sforzi solo per la speranza che alcune persone siano esposte e ne subiscano le conseguenze più tardi piuttosto che prima?

La prova della nuova realtà mi è apparsa un giorno in cui sono rimasto bloccato in un ingorgo, durante un viaggio che io (e molti dei miei vicini) ho fatto in violazione dell’ordine di lockdown della mia città. Mentre ero perplesso su questa nuova realtà, ho notato la segnaletica digitale sopraelevata (pagata dalla massiccia spesa pubblicitaria del mio governatore per la propaganda sull’epidemia), che affermava: “Stai a casa: salva vite”. Questa è stata l’ondata iniziale di uno tsunami di propaganda che ci implorava di “rallentare la diffusione”.

Una storia su un “superdiffusore” che è andato a una festa e ha contagiato alcune persone che successivamente sono morte ha attribuito i decessi alla persona negligente che probabilmente non indossava una mascherina. Ma c’era per caso una versione alternativa della realtà in cui i partecipanti morti alla festa vivevano il resto della loro vita naturale senza mai essere esposti a un virus a cui erano vulnerabili? Il superdiffusore avrebbe dovuto essere ritenuto il solo responsabile della loro esposizione, o era solo questione di tempo prima che il virus li trovasse, in un modo o nell’altro?

I bigotti del lockdown hanno buttato disprezzo e ridicolo sui paesi che non hanno preso precauzioni per rallentare la diffusione. Per spiegare le “storie di successo” è stata offerta una piccola industria di spiegazioni adeguate alle curve: si sono rinchiusi, indossavano mascherine, si sono sottoposti a test, si sono messi in quarantena, hanno rintracciato i contatti, hanno mantenuto le distanze sociali. Hanno fatto come gli era stato detto. Hanno obbedito all’autorità. E dovremmo fare altrettanto.

Secondo il dottor Anthony Fauci, era giunto il momento per noi americani scontrosi di fare come ci era stato detto. Tuttavia, visto in retrospettiva, è successo che anche le nazioni “virtuose” hanno visto il loro picco di infezioni, o anche due, o tre, spesso dopo che tutti o quasi erano stati completamente vaccinati, dopo aver fatto un giro d’onore per la vittoria e lussato entrambe le spalle dandosi una pacca sulla schiena eccessivamente vigorosa.

Consideriamo ora la storia dei test. Alcune nazioni virtuose hanno fatto un gran numero di test. Sulla base delle lunghe file di auto per entrare nei centri dove si fanno i tamponi, anche gli Stati Uniti hanno testato molto. Quando l’ex presidente Donald Trump ha suggerito che – forse – stavamo facendo troppi test, è stato ridicolizzato. Tuttavia, in che modo i test potrebbero aiutare a rallentare la diffusione di un virus? Di per sé il test non fa altro che identificare i malati.

E’ veramente possibile sostenere che un test può fare un lavoro migliore nell’identificare le persone malate di quanto possano fare da sole semplicemente notando se hanno sintomi? Se un test una volta alla settimana non aiuta, lo fa il test due volte a settimana? E se sì, allora perché ci preoccupiamo del risultato di un test, se le persone asintomatiche non sono contagiose? In realtà i test hanno prodotto troppi falsi positivi per essere utili.

I test potrebbero in teoria aiutare se combinati con il tracciamento dei contatti e le quarantene per isolare le persone infette. Il tracciamento dei contatti era un altro rituale delle storie di successo, ma il tracciamento dei contatti non potra mai funzionare se uno si infetta anche soltanto avvicinandosi a meno di un metro e ottanta da una persona malata oppure camminando lungo lo stesso lato della strada. I contatti di secondo ordine, i contatti dei contatti, finirebbero rapidamente per includere un’intera città o regione. Questo è stato un altro esempio dell’osservazione di Yogi Berra che “In teoria non c’è differenza tra teoria e pratica. In pratica c’è».

Mi sono chiesto quali potrebbero essere gli obiettivi della nuova politica di “rallentare la diffusione”. Poteva essere lo “zero-covid”? Zero-covid era l’obiettivo di un piccolo culto di fanatici che non ha mai preso molto piede negli Stati Uniti. Un tentativo serio in questa direzione richiederebbe a un paese di vietare permanentemente i viaggi internazionali in entrata. Questo è stato fatto in una nazione piccola e strettamente controllata dove vive un mio amico. Secondo il mio amico, avevano livelli di infezione molto bassi; tuttavia, l’economia della nazione era basata sul turismo e il continuo successo della politica richiedeva che nessuno entrasse nel paese. L’operazione è andata a buon fine, il paziente è deceduto. (n.d.t. probabilmente Blumen si riferisce alla Nuova Zelanda)

Diversi altri paesi hanno provato e fallito la strategia di zero-covid. L’Antartide, che avrebbe dovuto essere una scommessa sicura, non ce l’ha fatta. E neppure ce l’ha fatta un’isoletta sperduta nel Pacifico. (n.d.t. l’isola di Kiribati). In una storia esilarante a proposito di come lo stato australiano cercava lo zero covid, il virus è scappato dal confinamento quando uno dei guardiani di un “Hotel di quarantena” è andato a letto con una donna detenuta nella struttura.

Così, ci siamo trovati a non riuscire ad appiattire la curva, e neppure a riuscire a eradicare il virus. Eravamo in una strana via di mezzo. Nella migliore delle ipotesi stavamo posponendo il danno al futuro, ma senza alcun piano per affrontarlo quando sarebbe arrivato. Gli obiettivi e le condizioni di uscita del piano non sono mai stati spiegati chiaramente. A un certo punto ho trovato una dichiarazione del dottor Fauci secondo cui le misure preventive potrebbero portare la malattia a un livello molto basso. Si presumeva che rimanesse basso per sempre? In caso negativo, allora in che modo si poteva pensare di contenere i focolai da quella base bassa?

Il professor Vinay Prasad MD dell’Università della California ha scritto un messaggio simile del presidente Biden:

Quindi, quando le persone hanno sentito nell’estate 2020 che Biden mirava a “tenere sotto controllo il covid”, alcune persone hanno immaginato uno stato di cose ottimista per cui, una volta che ci siamo vaccinati o indossavamo maschere per 100 giorni (link), il covid potrebbe essere soppresso a un livello permanentemente basso che la maggior parte di noi potrebbe dimenticarsene, proprio come ci dimentichiamo della poliomielite. Queste persone hanno immaginato uno sforzo una tantum a breve termine per “prendere il controllo del covid”, come aprire una porta.

Se dobbiamo credere che una pandemia mondiale sia cresciuta da una base di dodici persone a Wuhan, in Cina, per infettare quasi il mondo intero (incluso le tribù indigene nella giungla amazzonica che sono per definizione in quarantena), perché non dovrebbe fare lo stesso quando emergeremo dai nostri rifugi antiatomici sotterranei? E se stando assiduamente in piccoli cerchi dipinti sul pavimento nei negozi di alimentari e indossando biancheria intima sul viso fossimo riusciti a ridurre il numero di infezioni da Covid a un numero molto piccolo? Per scegliere un numero, immaginiamo, ad esempio, dodici persone. Perché il contagio non dovrebbe, in assenza di una più ampia immunità acquisita, diffondersi nuovamente da quella nuova base di dodici, fino a raggiungere alla fine tutti coloro che sono rimasti non contagiati?

Mi ci è voluto del tempo per dare un nome a questa strategia. Ho optato per “soppressione”. La ragione fondamentale per cui la soppressione non è una politica è che non ha uscita. Perché una cosa funzioni deve funzionare entro un tempo limitato. Se le misure per rallentare la diffusione sono riuscite a rallentarla, allora che si fa? La natura di una via di uscita è la risposta alla domanda: “Cosa succede quando smettiamo di fare una certa cosa?” Se la risposta è “Si ritorna indietro a quello che succedeva prima”, allora non è un’uscita.

Durante il 2020 ho avuto persone che mi hanno detto che non potevamo porre fine al blocco perché altrimenti l’epidemia sarebbe ripresa da dove era stata interrotta e milioni di persone sarebbero morte. E anche che (a volte detto dalle stesse persone) se manteniamo le misure restrittive ancora per un po’, allora potremo fermarci perché il virus non tornerà più. Un po’ di logica esclude la possibilità che il virus possa tornare e non tornare.

Dobbiamo dunque passare il resto della nostra vita recitando in un teatro che si chiama “Covid”? Il dottor Fauci ha detto che non avrebbe mai più stretto la mano a nessuno. Gli abitanti degli stati “blu” (democratici) hanno messo in quarantena i propri figli. Jenin Younes ha riflettuto su un sondaggio in cui epidemiologi ipocondriaci che hanno paura di aprire la posta spiegano che ora considerano una vita normale come pericolosamente sconsiderata. L’autore di Substack, Eugyppius scrive di un editore di una rivista medica che “non riesce nemmeno a capire cosa stiamo facendo, ma vuole che continuiamo a farlo”.

Il dottor Prasad ha spiegato la differenza tra strategie finite e infinite:

Anche se la maggior parte degli elettori di Biden era d’accordo con la sua campagna elettorale che prometteva di “mettere il covid sotto controllo” in astratto, questo slogan non specifica se lo stato di essere “sotto controllo” comporti uno sforzo una tantum o uno sforzo prolungato nel tempo. Se apri una porta, lo fai una volta e puoi dimenticarlo; se sollevi un portello, forse devi tenerlo sollevato in modo che non ricada di nuovo.

Rallentare lo spread – ammesso che una cosa del genere sia possibile – significa arrivare nello stesso posto più tardi piuttosto che prima. Che la curva sia piatta o meno, la storia è finita quando raggiungi la coda destra della curva. La strana via di mezzo del rallentamento della diffusione senza condizioni di uscita, se provata, rovinerebbe le nostre vite per sempre. Sei disposto a vivere sotto le restrizioni covid per il resto della tua vita? E i tuoi figli per il resto della loro vita e per tutte le generazioni successive? Per alcune misure che rallentano la diffusione delle malattie, come l’acqua corrente in casa, la rimozione dei rifiuti e una dieta migliore, la risposta è sì. Ma se i nostri antenati al tempo della peste nera avessero adottato un tentativo di rallentamento simile a quello fatto per l’epidemia di covid, nessuno sarebbe più uscito all’aperto dal XV secolo fino ad oggi.

Durante questo periodo di follia, alcuni di noi hanno affrontato la propria vita nel miglior modo possibile e hanno ignorato le restrizioni. Il resto del mondo sta ora facendo i conti con la consapevolezza che le “precauzioni” non fanno molto. Nella migliore delle ipotesi, accadrà comunque quello che deve accadere. Se non c’è una via di uscita, il cambiamento è permanente o andrà avanti fino a quando il danno non sarà evidente e le persone smetteranno di preoccuparsi. Poi torneranno alla normalità uno per uno.


Traduzione a cura del Prof. Ugo Bardi per The Unconditional Blog

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