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Borghesia mafiosa e postfordista

Note sull'ultimo libro di Vincenzo Scalia

di Marco Palazzotto

Pubblichiamo la recensione di Marco Palazzotto del libro di Vincenzo Scalia che sarà presentato a Palermo il prossimo 12 aprile ai Cantieri Culturali della Zisa. Qui maggiori informazioni

paolo borsellino con leonardo sciasciaSono passati quasi 30 anni dalla pubblicazione del famoso articolo I professionisti dell’antimafia di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987.  Al netto delle polemiche scaturite intorno alla figura di Paolo Borsellino, la tesi di fondo dell’articolo era quella che in Sicilia il modo migliore per fare carriera era dichiararsi antimafioso.

Oggi potremmo parlare di Imprenditori morali, come li chiama Vincenzo Scalia, sociologo e criminologo palermitano prestato all’università britannica, autore della raccolta di saggi: “Le filiere Mafiose – Criminalità organizzata, rapporti di produzione, antimafia” edito da Ediesse e in distribuzione da pochi giorni.

Riprendendo la teorizzazione di Howard Becker che sosteneva che un fenomeno sociale viene classificato come crimine nella misura in cui suscita l’attenzione e la reazione della società, Vincenzo Scalia afferma che “gli imprenditori morali rappresentano una figura-ponte, nella misura in cui orientano l’attenzione dell’opinione pubblica, definiscono il fenomeno, elaborano le strategie di intervento, tracciano i principi che devono guidare l’intervento sul fenomeno sociale oggetto dell’attenzione”. Uno dei pregi del testo Le filiere mafiose è quello di evidenziare la profonda diversità dell’autore rispetto al panorama dei professionisti dell’antimafia e degli imprenditori morali che imperversano sui nostri giornali e le nostre tribune politiche da più di 30 anni. L’approccio di analisi di Vincenzo Scalia nell’analizzare il fenomeno mafioso è infatti quello dello scienziato sociale, ben diverso da quello di tanti scrittori italiani, con la loro retorica del giustizialismo e della difesa della legalità.

Sgombrato il campo dagli equivoci della pubblicistica di cui sopra, Scalia si confronta nei suoi saggi principalmente con due filoni di pensiero presenti nella letteratura criminologica e sociologica. La prima lettura che l’autore individua è quella che fa riferimento in particolare agli studi di Diego Gambetta, secondo il quale la mafia siciliana rappresenterebbe  un’industria che produce, promuove e vende protezione. Quindi la mafia sarebbe uno dei tanti attori economici che opera nel mercato. “La mancanza di fede pubblica avrebbe permesso alla mafia di consolidarsi e svilupparsi, sopravvivendo all’affermazione dello Stato moderno, dello Stato unitario, dell’economia di mercato” (pag. 35).

Il secondo filone con il quale Scalia si confronta è quello rappresentato da Pino Arlacchi e Raimondo Catanzaro. Secondo il primo la mafia siciliana sarebbe “una organizzazione criminale che nella modernità si è dedicata principalmente alle attività imprenditoriali, abbandonando il suo originario retroterra agrario e i valori che caratterizzavano i suoi membri nella fase che precedeva l’industrializzazione”. Catanzaro offre invece, a parere di Scalia, una lettura più articolata rispetto ad Arlacchi. Cosa Nostra sarebbe un complesso di  attività economiche caratterizzate dal connubio di controllo politico e militare del territorio in cui è insediata l’organizzazione criminale (pag. 44).

Entrambe le letture appena evidenziate secondo Scalia sono utili, ma non complete al fine di spiegare il fenomeno criminale siciliano; l’autore illustra la sua interpretazione utilizzando in particolare il <<paradigma della complessità>> elaborato da Umberto Santino (il quale ha curato la prefazione del libro che stiamo discutendo), studioso palermitano e fondatore del Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato”. Tale paradigma prevede che la mafia venga vista come un “insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’acquisizione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale” (pp. 30 e 31). L’organizzazione siciliana quindi andrebbe considerata come “un prisma a molte facce, presentando aspetti culturali, criminali, sociali, economici, politici, culturali. Isolare uno di questi aspetti e ritenerlo rappresentativo dell’intero fenomeno o attribuirgli una prevalenza sugli altri, come spesso avviene, è un’operazione gratuita e una riduzione fuorviante”. (pag. 44: citazione dell’autore tratta da Umberto Santino - La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso di analisi).

L’aspetto più importante della riflessione di Scalia è quello di riprendere il concetto di <<borghesia mafiosa>>  utilizzato dall’intellettuale palermitano Mario Mineo (e rielaborato successivamente dallo stesso Santino) e inserirlo nel “paradigma della complessità”. In questo senso la mafia siciliana svolge un ruolo di primo piano nel processo di accumulazione capitalistica che interesserà l’isola dalla seconda metà dell’800 in poi.

Il pregio principale di questo testo è – a parere di chi scrive – proprio quello di considerare il soggetto criminale come inserito in un sistema di rapporti di produzione: l’approccio giusto e più scientifico, che trova la sua ragione nella concezione materialistica della storia.

Come scrive Umberto Santino nella sua prefazione al testo di Scalia lo sfondo di analisi dei rapporti di produzione, in cui si inseriscono le attività criminali di Cosa Nostra,  è quello del postfordismo ovvero un termine che descrive un’era in cui si passa da rapporti sociali legati alla produzione nella grande fabbrica specializzata e inserita nei distretti industriali che hanno prodotto “l’operaio massa”, ad un periodo in cui i beni immateriali prevalgono, la finanziarizzazione sfrenata nel periodo neoliberista e la “globalizzazione dei mercati” segnano rapporti sociali frammentati e una diversa “relazione tra soggetti Stato, economia e società”. Sull’onda di queste trasformazioni, secondo Scalia, la mafia si sarebbe adeguata, soprattutto dal punto di vista economico, alla stregua delle multinazionali scegliendo di “specializzarsi nelle funzioni direzionali e nei settori più qualificati, delocalizzando o abbandonando quei settori produttivi, in particolare quelli dei mercati illegali, che comportano alti rischi” (pag. 61).

Lo schema del postfordismo rischia tuttavia di inficiare in parte l’analisi di Scalia, se guardiamo il fenomeno mafioso sotto la lente della “questione meridionale”. Senza considerare infatti lo sviluppo del capitalismo italiano con le modalità di “annessione” e “colonizzazione” del Sud Italia dai tempi dell’Unità, sottovalutiamo alcuni elementi dello sviluppo del fenomeno mafioso. Già Antonio Gramsci aveva rilevato come l’arretratezza del sistema meridionale fosse funzionale all’accumulazione del capitale egemonico piemontese. Questo schema “interimperialista” ha caratterizzato la nostra storia anche dopo la fine del Regno d’Italia e l’avvento della Repubblica. E anche durante il famoso “glorioso trentennio” del dopoguerra abbiamo assistito a dinamiche in base alle quali il Mezzogiorno è stato costruito come bacino reazionario che serviva a rallentare le trasformazioni del paese, smorzando gli impeti socialisti degli operai e dei braccianti del centro-Nord (Clash City Workers in Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi – 2014 pp. 188-189). I rapporti commerciali e interindustriali tra aree regionali disomogenee lo confermano (ne abbiamo parlato ad esempio in questo articolo) e le scelte di stabilire basi militari nel meridione e isole con la concessione dell’autonomia dello Statuto siciliano del 1946, giocano un ruolo importante nello stabilire rapporti di produzione di tipo coloniale tra nord e sud Italia.

Così si capisce il senso che assume la presenza della criminalità organizzata, a difesa  di interessi, non solo della borghesia locale, ma di quella italiana – e aggiungerei oggi europea – nel suo complesso. Questi rapporti – meglio comprensibili nel quadro della teoria dell’imperialismo – sono oggi modificati non per l’avvento della finanziarizzazione, la globalizzazione e la produzione immateriale, ma perché il conflitto di classe e le conseguenti determinanti dei rapporti di produzione si sono spostate ad un livello superiore.

Le conseguenze sono quelle di una maggiore centralizzazione e integrazione verticale europea dentro una tendenza alla “mezzogiornificazione” dell’Italia e del sud Europa in generale. In questo contesto in cui gli investimenti esteri in Italia aumentano, per i fenomeni suddetti, il ruolo politico delle organizzazioni criminali e – in particolare – di Cosa Nostra si indebolisce.

Il nostro sistema nazionale quindi risente della crisi economica quasi decennale che influisce di riflesso anche sull’organizzazione delle mafie e di Cosa Nostra, che va perdendo il rigido controllo del territorio – a suo tempo funzione dell’accumulazione su scala nazionale -  per assumere una veste di “S.p.A. multinazionale” in concorrenza con i capitali esteri.

Sarà utile capire come i comitati di affari europei influenzeranno i mercati e le trame politiche nelle quali si muovono anche le organizzazioni criminali..

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