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lavoro culturale

Nel rovescio della libertà: il neofeudalesimo neoliberale

di Daniele Lo Vetere

Una recensione all’ultimo, magmatico, ma coerentissimo, libro di Massimo De Carolis, “Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà”, Quodlibet, 2017

433x3251495709445087download 1 Dopo l’attentato suicida di Manchester, Theresa May ha chiesto a Google, Facebook, Twitter di fare di più per contrastare il terrorismo. Siamo di fronte a qualcosa che fino a non troppo tempo fa sarebbe stato persino inconcepibile: un rappresentante del potere politico legittimo che chiede a un’azienda privata di farsi carico di una propria prerogativa, ovvero rispondere al sentimento politico fondamentale del bisogno di sicurezza, altresì detto paura. Una dichiarazione del genere, in fondo, ormai non ci stupisce (o terrorizza) quanto in effetti dovrebbe. L’ambizioso libro di Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà, spiega molto bene perché.

De Carolis va alla radice di quel vero e proprio «congegno di civilizzazione» che è il neoliberalismo: non una semplice copertura ideologica e sovrastrutturale per un capitalismo rapace, ma l’unico esperimento che, ad oggi, avrebbe cercato di dare una risposta operativa all’ormai secolare disagio della civiltà moderna, di cui il principio di sovranità era uno dei perni. Questo congegno, però, sarebbe già fallito in modi abbastanza disastrosi: ecco perché ci troviamo immersi in una società in cui la schmittiana “guerra partigiana” si è ormai sostituita alla guerra fra nazioni e in cui il potere politico è stato strutturalmente marginalizzato, ma solo per avvantaggiare nuovi poteri feudali monopolistici non legittimati democraticamente.

Il fallimento del progetto neoliberale non dipenderebbe da problemi di natura tecnica e accessoria, ma risiederebbe in un’aporia del congegno stesso, anzi in una vera e propria rimozione freudiana. Cogliere il punto cieco del neoliberalismo è proprio quanto De Carolis si propone di fare, ricorrendo agli strumenti dell’antropologia filosofica, della filosofia politica, della linguistica, della sociologia e dell’economia.

I neoliberali, pur superando alcune debolezze del liberalismo classico, ne hanno comunque confermato la fiducia nella possibilità di distinguere tra due forme di coordinamento tra esseri umani, la coercizione e la libertà: si possono intrattenere relazioni verticali, il cui modello tipico è quello feudale, o orizzontali, il cui modello tipico è il mercato, nel quale domanda e offerta si intrecciano liberamente garantendo un vantaggio per entrambe le parti. Ancorati a questa dicotomia, i neoliberali hanno rifiutato di vedere che la dimensione del potere (foucaultianamente inteso) non è solo dalla parte della coercizione, ma permea la stessa libertà. Tutto sta nell’intendere il potere non come coercizione e forza, ma, etimologicamente, come potenza e possibilità.

Tutte le società umane sono fondate su una doppia gerarchia: da un lato l’«ordine vigente» (taxis), che si concretizza nelle costituzioni, nelle leggi, nei patti, e più in generale nelle norme sociali e culturali convenzionali; dall’altra l’«ordine cosmico» (kosmos), ordine spontaneo in cui si esprime la libertà e la creatività degli individui e in cui si costituisce la normalità, il principio che fonda e legittima le norme. Si tratta di un sistema dialettico nel quale creatività e adattamento sono costantemente implicati e in cui nessuno dei due poli è prioritario, logicamente e ontologicamente, sull’altro. Il funzionamento del linguaggio umano è da questo punto di vista esemplare.

I parlanti creano la lingua sul piano cosmico, dal momento che non si può dire che ne stabiliscano le regole a tavolino; d’altra parte, ciascun parlante deve adattarsi alle norme linguistiche già date, se vuole essere compreso. Il linguaggio, perciò, non s’impone “oggettivamente”, né è soggettivamente o arbitrariamente creato: è piuttosto una «convenzione spontanea» ed è fondato sull’«attitudine a sviluppare aspettative ricorsive, tali cioè che ciascuno si aspetta che gli altri si aspettino da lui esattamente ciò che lui si aspetta da loro, e così via all’infinito» (p. 77, corsivi originali).

La comunicazione umana è però altamente instabile, perché la fedeltà al patto comunicativo (rispettare le regole della grammatica) può essere contraddetta: si può dire, con Paolo Virno, che la specificità del linguaggio umano è quella di poter «negare gli altri». Questa instabilità deve perciò essere controllata in qualche modo. Inoltre in una civiltà sana i due ordini della taxis e del kosmos devono restare distinti: se la prima cessa di rimandare all’ordine spontaneo, di essa emergerà soltanto il carattere di vuoto artificio incapace di vincolare i membri della comunità alla fedeltà ai patti; se il secondo si appiattisce sulla taxis, la società si irrigidisce in una forma totalitaria che vincola alla legge in modo poliziesco.

Nella modernità è stato il modello del Leviatano a garantire questa distinzione antropologicamente fondante: il potere sovrano, incarnando la legge che inquadra in forme prevedibili le possibilità illimitate della società, ha vincolato al rispetto dei patti (alla convergenza delle aspettative). Il costo di questo dispositivo è stato però enorme: negare lo stato di natura, garantirsi dall’ambivalenza e dall’instabilità della condizione umana (nella quale cooperazione e conflitto, intesa e fraintendimento, sono entrambi sempre possibili) imponendo in un certo senso dall’esterno del congegno una “grammatica”.

Le teorie neoliberali, non a caso formulate negli anni del dominio dei totalitarismi in Europa da economisti e sociologi tedeschi ed austriaci, hanno messo in campo un nuovo congegno di civilizzazione che evitasse la rifeudalizzazione: un congegno che garantisse dal proprio interno l’equilibrio tra taxis e kosmos, facendo a meno della tutela del potere politico, sempre troppo minaccioso per la libertà individuale. Il modello era già pronto ed era il mercato, quel dispositivo specifico della modernità capace di garantire ciecamente, con un algoritmo, la convergenza spontanea di interessi privati e interesse pubblico, di libertà individuale e rispetto dei patti: una convenzione spontanea molto simile ai linguaggi naturali.

I liberali classici, tuttavia, continuavano a ritenere autonomi il campo politico e il campo economico, ovvero applicavano l’algoritmo del valore soltanto al secondo. I neoliberali hanno invece esteso il modello del mercato a tutta la società, o meglio, all’intera civiltà umana, sia perché l’accelerazione delle trasformazioni sociali rendeva ormai obsoleto il vecchio concetto di sovranità capace di imporre fini generali, sia per recidere alla radice il rischio che il potere politico potesse intervenire a limitare la libertà “cosmica” del coordinamento tra esseri umani.

Ma l’algoritmo del valore così totalitariamente esteso ha prodotto precisamente quella rifeudalizzazione che avrebbe inteso evitare, perché non sembra essere in grado di dominare un fenomeno essenziale dell’ultimo secolo, che De Carolis chiama «dinamizzazione», concetto che gli permette di tenere insieme tre temi: quello della perdita di fondamenti diagnosticata dalla cultura delle crisi primonovecentesca, quello della «distruzione creatrice» capitalistica e infine l’inversione della priorità tra atto e potenza tipica del mondo moderno (dynamis infatti in greco significa, fra le altre cose, potenzialità).

Tutto oggi, dalle imprese aziendali alle psicologie personali, vale molto di più per il proprio potenziale di trasformazione che per questa o quella realizzazione concreta. Il valore d’uso è diventato così la semplice appendice materiale di un valore performativo, la capacità d’azione nel presente e soprattutto la promessa di efficacia futura. La finanziarizzazione dell’economia ne è un’ottima rappresentazione, ma è solo l’aspetto più evidente di una trasformazione profonda che investe ormai ogni ambito della vita sociale, non solo l’economia. Il mercato perciò è ben più di una semplice metafora, essendo il congegno stesso che governa le nostre vite e la costituzione stessa delle nostre identità: stiamo sempre “sul mercato”, creiamo il nostro “profilo” personale rifiutandoci di pagare pegno a tutte le identità ascrittive, siamo imprenditori di noi stessi e delle nostre potenzialità, calcoliamo il più favorevole rapporto tra costi e benefici persino nei rapporti personali.

Ma il rovescio – non il contrario – di questa libertà è un’esposizione nuda all’ignoto, una radicale incertezza del futuro, per cui non siamo più sicuri del nostro valore, che ha perso ogni sostanzialità, e siamo costretti a verificare la nostra consistenza solo sull’efficacia performativa dei nostri risultati. Questa incertezza costitutiva ci spinge ad aumentare, ogni volta che sia possibile, la nostra potenza, ovvero la nostra capacità di assicurarci del futuro. Ma in un sistema nel quale tutti agiscono secondo questa logica strategica, assicurarsi il proprio futuro equivale e prevedere le mosse altrui, ovvero controllarle: in una parola aumentare il proprio potere. E dal momento che ciascuno dei nostri partner fa lo stesso, la competizione per l’offerta della merce al miglior prezzo diventa ben altro che non l’idilliaco convergere delle aspettative tra pari contraenti del liberalismo classico, finendo per riportare al centro della scena il conflitto tra amico e nemico che il più fiero e ostinato detrattore del liberalismo, Carl Schmitt, ha posto al cuore della propria speculazione. “Potere”, insomma, sembra essere il nome da dare a “potenza” quando la si consideri non dal punto di vista del singolo ma della relazione con l’altro.

Quali siano i costi di questo dispositivo per la civiltà umana è ormai da tempo sotto gli occhi di tutti. Ma la verità che De Carolis ci invita a guardare in faccia è che questo dispositivo non è uno strumento di potere nelle mani di altri (di qualche potentato del finanzcapitalismo): è l’aumento stesso della nostra libertà individuale – almeno la nostra libertà individuale dentro questo congegno – ad intensificare anche le relazioni di potere in generale, dunque l’asservimento degli altri.

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