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sinistra

Per il centesimo anniversario della fondazione della Terza Internazionale

di Eros Barone

comintern e noto anche come e1gjb3Per la prima volta, dopo centinaia e migliaia di anni, la promessa di “rispondere” alla guerra tra gli schiavisti con la rivoluzione degli schiavi contro tutti gli schiavisti è stata mantenuta fino in fondo e lo è stata malgrado tutte le difficoltà.

Noi abbiamo cominciato quest’opera. Quando, entro che termine precisamente, i proletari la condurranno a termine? Non è questa la questione essenziale. È essenziale il fatto che il ghiaccio è rotto, la via è aperta, la strada è segnata.

Lenin, Per il quarto anniversario della rivoluzione.

  1. «Una nuova Internazionale veramente rivoluzionaria»

«Creare una nuova Internazionale veramente rivoluzionaria»: questa era la finalità che l’ultima delle Tesi di aprile di Lenin proponeva ai bolscevichi. La bancarotta dell’Internazionale all’inizio della guerra europea era stata infatti, per Lenin, la prova decisiva della crisi del socialismo europeo. Da questo punto di vista, la nascita di una Internazionale, che sarà la Terza dopo l’“Associazione Internazionale dei lavoratori” sorta nell’epoca di Marx e dopo l’“Internazionale Socialista” fondata nel 1889, era chiaramente la prova del maturare, ben oltre i confini della Russia, di un movimento rivoluzionario mondiale capace di assolvere il proprio compito, ossia di trasformare il pianeta in senso socialista. Così, la nuova Internazionale avrebbe dovuto essere, per un verso, la sintesi delle due Internazionali che l’avevano preceduta: della Prima doveva avere lo spirito intransigente e rigoroso, della Seconda l’organizzazione e il radicamento territoriale; ma, per un altro verso, rispetto alla Seconda essa doveva essere anche un’antitesi, in quanto doveva incarnare un netto rifiuto del riformismo, dell’opportunismo e dello spirito di compromesso che erano stati i caratteri distintivi delle socialdemocrazie europee.

Quindi, dopo la votazione dei crediti di guerra alle rispettive borghesie da parte dei partiti socialdemocratici, che segnò la bancarotta politica, ideologica e morale della Seconda Internazionale, Lenin non ebbe alcun dubbio sulla necessità e sulla urgenza della creazione di una nuova Internazionale.

Le conferenze di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916), in cui si riunirono le sinistre dei partiti socialdemocratici europei, furono perciò concepite da Lenin come propedeutiche alla costituzione della Terza Internazionale, embrioni della nuova organizzazione mondiale del proletariato rivoluzionario. Sennonché le esitazioni e le tergiversazioni della sinistra socialdemocratica, sommandosi alla incapacità di separarsi nettamente dai centristi kautskiani, portarono ben presto al fallimento del progetto zimmerwaldiano e determinarono il distacco dei bolscevichi da questa aggregazione politica instabile e oscillante. Al centro del programma politico del proletariato rivoluzionario si accampavano ora la precisa definizione dell’imperialismo come “fase suprema del capitalismo”, la decisa condanna della guerra imperialista, la rottura con il riformismo e con ogni complicità nei suoi confronti. Occorre, peraltro, sottolineare che, se è vero che la nascita del Partito Comunista Tedesco (KPD) nel dicembre 1918 fu il primo passo in questa direzione, è altrettanto vero che la nascita della Terza Internazionale fu voluta più dal gruppo dirigente bolscevico che non dai partiti europei: convinti del carattere mondiale del processo rivoluzionario da loro aperto, i bolscevichi intendevano costruire al più presto non un nuovo “parlamento internazionale della classe operaia” (come la Seconda Internazionale), ma un “partito internazionale dell’insurrezione”. In questo senso, non vi è dubbio che l’instaurazione della dittatura del proletariato in Russia ha costituito la prima base della Terza Internazionale, così come la costituzione del KPD ha rappresentato plasticamente il carattere strategico che assumeva la “questione tedesca” nella estensione del processo rivoluzionario al continente europeo.

La Terza Internazionale venne fondata pertanto il 4 marzo 1919 da un “Primo Congresso” al quale presero parte solo alcuni militanti socialisti di vari paesi, presenti a titolo personale in Russia. In realtà, nonostante Lenin avesse dichiarato nel discorso di apertura che «Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht», assassinati nel mese di gennaio del 1919, erano stati «i migliori rappresentanti della III Internazionale»,1 il partito da loro fondato, il KPD per l’appunto, si era opposto alla costituzione della Terza Internazionale, ritenendola prematura.

 

  1. Dalla Seconda alla Terza Internazionale

Come è noto, sino allo scoppio della guerra mondiale e all’approvazione dei crediti di guerra da parte dei maggiori partiti socialdemocratici, Lenin si mosse, nel quadro delle sue impostazioni, all’interno della II Internazionale con l’intento di intensificare la lotta contro l’opportunismo e il revisionismo e di estendere l’influenza della corrente bolscevica. Le divergenze che si manifestarono in ordine alla concezione del partito e alla posizione da assumere verso la corrente menscevica rivelavano, sì, differenze sostanziali nella concezione della lotta rivoluzionaria e nella interpretazione della teoria marxista, ma sfociarono in aperta rottura e nella formulazione di un giudizio complessivo sulla II Internazionale solo in coincidenza con la capitolazione di quest’ultima di fronte alla guerra imperialistica. In effetti, anche dopo anni di aspra polemica e dopo la costituzione della III Internazionale, il giudizio storico globale di Lenin sulla II Internazionale non sarà mai del tutto negativo. «La I Internazionale pose le fondamenta per la lotta proletaria internazionale per il socialismo. La II Internazionale è stata l’epoca della preparazione del terreno per una larga diffusione di massa del movimento in un buon numero di paesi. La III Internazionale ha colto i frutti dell’attività della II Internazionale, ne ha tolto via il sudiciume opportunista, socialsciovinista borghese e piccolo-borghese e ha incominciato ad attuare la dittatura del proletariato». 2 Sennonché, osserva Lenin, l’estensione del movimento si è prodotta, con la II Internazionale, «non senza un temporaneo abbassamento del livello rivoluzionario, non senza un temporaneo rafforzamento dell’opportunismo, ciò che, alla fine, ha condotto al vergognoso crollo di questa Internazionale». 3

In realtà, con la rivoluzione d’Ottobre, che aveva dimostrato la giustezza della via seguita dai bolscevichi, erano maturate ben altre premesse per la formazione di una nuova Internazionale. Con l’instaurazione della dittatura del proletariato in Russia era stata infatti creata la prima base della III Internazionale, una condizione che consentiva alla rivoluzione di estendersi agli altri paesi. Con l’estendersi della rivoluzione ad altri paesi economicamente e civilmente più avanzati, l’egemonia del movimento sarebbe passata dal partito russo ad altri partiti. «Per un certo tempo – soltanto per un breve periodo di tempo, s’intende – l’egemonia dell’Internazionale rivoluzionaria è passata ai russi, come in diversi periodi del secolo XIX era stata degli inglesi e poi dei francesi e in seguito dei tedeschi». 4

La principale preoccupazione di Lenin, a questo punto, era costituita dalle debolezza del fattore soggettivo, rappresentato dallo schieramento delle forze politiche esistenti, rispetto alla base territoriale e al punto di partenza per una rivoluzione mondiale, che la rivoluzione d’Ottobre aveva realizzato in Russia con la dittatura del proletariato. «La più grande sventura e il più grave pericolo per l’Europa sta nell’assenza di un partito rivoluzionario. Ci sono i partiti dei traditori, come gli Scheidemann, i Renaudel, gli Henderson, i Webb e soci, o delle anime servili come Kautsky. Non c’è un partito rivoluzionario. Naturalmente, il possente movimento rivoluzionario delle masse può correggere questo difetto, ma esso rimane una grave sventura e un grave pericolo». 5 Lenin, pur valorizzando il movimento di massa, non ignora i limiti ìnsiti nello spontaneismo e sa che l’anello decisivo che collega il movimento alla rivoluzione è il partito: un’organizzazione di quadri che non si improvvisa. In altri termini, la contraddizione che emerge dopo la rivoluzione tra la situazione oggettiva dirompente e la debolezza del fattore soggettivo è tale da spingere Lenin ad affermare: «Compagni, mi sembra che la nostra situazione odierna, nonostante la sua contraddittorietà, possa essere caratterizzata, per un verso, dal fatto che non siamo mai stati così vicini, come oggi [ottobre 1918], alla rivoluzione proletaria internazionale e, per l’altro verso, dal fatto che non ci siamo mai trovati in una situazione tanto rischiosa quanto l’attuale». 6 La contraddizione che si manifesta dunque dopo la rivoluzione – situazione obiettivamente rivoluzionaria e assenza di una guida politica rivoluzionaria – è il frutto della presenza e dell’influenza della socialdemocrazia. Tale frutto è il risultato, da una parte, di uno sviluppo del capitalismo e della democrazia borghese, in generale della società civile, sviluppo che la Russia non ha mai conosciuto, e dall’altra del fatto che tale sviluppo ha generato l’opportunismo socialdemocratico e rafforza la socialdemocrazia, la quale dal canto suo, essendo la forza politica che ha contribuito allo sviluppo della democrazia borghese e al progresso sociale, si è profondamente identificata con la vita di quelle società e di quelle masse lavoratrici.

Superare tale contraddizione è tanto più necessario e urgente in quanto Lenin non ritiene, nel periodo che segue immediatamente la rivoluzione, né che la dittatura del proletariato possa durare a lungo in Russia, data la condizione di isolamento in cui il paese si trova, né che sia in grado di edificare un regime socialista senza l’appoggio del proletariato dei paesi più avanzati. Pertanto, il I Congresso della III Internazionale venne convocato con mezzi di fortuna, in uno dei momenti più difficile della guerra civile, vide gravi assenze e gli stessi comunisti tedeschi vi parteciparono solo come osservatori. Furono presenti 52 delegati di 30 paesi, di cui 34 con voto deliberativo e 18 con voto consultivo. Il 4 marzo del 1919, Lenin espose le tesi per la costituzione della III Internazionale. Le tesi pongono al centro il confronto tra la democrazia borghese e la dittatura del proletariato, la valorizzazione dei soviet come tipo più alto di democrazia e come forma universalmente valida della rivoluzione proletaria. Si tratta dei temi che erano già stati sviluppati in Stato e rivoluzione e nella Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Le tesi mirano a dimostrare che non esiste una democrazia allo stato puro, universale, ma che ogni regime democratico è sempre l’espressione del potere politico di una classe sociale. La ratio di questa impostazione è evidente: occorre demistificare le posizioni socialdemocratiche, caratterizzate dalla negazione della natura di classe della democrazia; nel contempo, occorre conquistare alla concezione della dittatura del proletariato la più larga parte degli aderenti ai partiti socialdemocratici. In questo senso la discriminante che distingue i rivoluzionari dagli opportunisti è la posizione nei confronti della dittatura del proletariato. L’adesione alla dittatura del proletariato costituisce la piattaforma che deve unire e distinguere le forze rivoluzionarie. L’importanza e il valore di questa piattaforma sono per Lenin talmente decisivi che egli accoglie con scetticismo la notizia – poi rivelatasi vera – che nel KPD si era prodotta una scissione sul problema della partecipazione dei comunisti alle elezioni e al parlamento. Lenin non ha alcuna indulgenza per l’“astensionismo”, ma ritiene che la differenza di posizioni sulla partecipazione alle istituzioni democratiche borghesi non debba essere motivo di scissione per i comunisti. In una congiuntura in cui l’essenziale è separare le forze rivoluzionarie da quelle opportuniste, ciò che decide è la posizione verso la dittatura del proletariato. Così egli si esprime: «Secondo la mia convinzione, i comunisti che sono d’accordo sull’essenziale (lotta per la dittatura del proletariato e per il potere sovietico, ostilità irriducibile verso gli scheidemanniani e i kautskiani di tutte le nazioni) potrebbero e dovrebbero agire uniti. Le divergenze sulle questioni di minore importanza secondo me possono sparire e spariranno inevitabilmente: e ciò avverrà perché imposto dalla logica della lotta comune contro il nemico veramente pericoloso, contro la borghesia, contro i suoi servi dichiarati (scheidemanniani) e mascherati (kautskiani)». 7

In quel momento, il processo rivoluzionario in Europa appariva destinato a svilupparsi così rapidamente ed impetuosamente, seguendo un ritmo e una direzione analoghi a quelli della Russia, che le questioni della tattica rivoluzionaria verso le istituzioni democratico-borghesi passavano in secondo piano e il fattore decisivo era la formazione di una guida d’avanguardia priva di esitazioni opportuniste, e quindi capace di condurre il movimento operaio a colpire ed infrangere i baluardi della resistenza borghese.

 

  1. «Entro un anno l’Europa intera sarà comunista»

I partiti socialdemocratici europei furono quindi posti di fronte al fatto compiuto. Nel giro di due anni partiti comunisti, esigui in alcuni paesi, consistenti altrove (ad esempio in Francia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia), si erano formati un po’ in tutta Europa, mentre in alcuni paesi (Norvegia, Svezia, Romania) i vecchi partiti socialdemocratici avevano aderito all’Internazionale Comunista, nota in tutto il mondo come Komintern. Le “ventun condizioni”, elaborate da Lenin, esprimevano pienamente il significato politico e teorico dei lavori congressuali e dell’egemonia bolscevica, rispecchiando l’esigenza di promuovere la creazione di partiti comunisti dell’Occidente basati sulle tesi e sul modello incarnati dall’esperienza rivoluzionaria russa, con tutta l’intransigenza classista e il rigore dei princìpi che ne erano le componenti essenziali: disciplina, organizzazione ferrea e centralizzata, penetrazione tra le masse, tra i contadini, all’interno dei sindacati, nell’esercito. Da qui discendono, come logici corollari, le posizioni sul carattere organizzativo e programmatico del partito: ogni sezione aderente alla III Internazionale deve denominarsi comunista e rimuovere dai posti di responsabilità “centristi e riformisti”. Per questo motivo il II congresso è stato considerato, quasi unanimemente, non soltanto il primo vero congresso del Komintern, ma quello che ha l’importanza storica maggiore, “una sorta di Manifesto generale del comunismo”. 8

Nell’Internazionale, più ancora che all’interno del Partito Comunista (bolscevico) Russo, i dissensi furono, d’altronde, aspri. La volontà di costruire al più presto un ampio schieramento di forze rivoluzionarie aveva reso i dirigenti sovietici, in una prima fase, piuttosto disponibili ad accogliere nell’Internazionale anche gruppi politici le cui posizioni erano relativamente lontane da quelle bolsceviche (ad esempio un gran numero di militanti sindacalisti rivoluzionari o addirittura anarchici). D’altra parte, in quella fase di entusiasmi rivoluzionari in tutto il continente, era facile pensare che gli eventuali contrasti sarebbero stati superati nel fuoco della lotta rivoluzionaria. Del resto, era stato Zinov’ev, il presidente dell’Internazionale, a dire, poco dopo la sua fondazione: «Entro un anno avremo già cominciato a dimenticare che c’è stata in Europa una lotta per il comunismo, perché entro un anno l’Europa intera sarà comunista». 9 Tra il 1918 e il 1920, con il venir meno della prospettiva immediata della rivoluzione internazionale e con l’inasprirsi della lotta politica all’interno dello stesso partito bolscevico, l’atteggiamento del gruppo dirigente sovietico verso le sinistre europee cominciò a mutare.

Tra le organizzazioni di sinistra che avevano aderito all’Internazionale Comunista si erano formate due tendenze: l’una, sostanzialmente fedele al sindacalismo rivoluzionario e ad una concezione quasi anarchica dei soviet (il “comunismo dei consigli”) aveva costituito una propria centrale ad Amsterdam; l’altra, più vicina alle posizioni di Lenin, a Berlino. Al II Congresso dell’Internazionale, riunito nel 1920, proprio mentre all’interno del partito bolscevico infuriava la polemica contro il sindacalismo dell’“opposizione operaia”, Lenin prese nettamente posizione a favore del centro di Berlino e delle posizioni da esso sostenute, riuscendo a far prevalere la sua linea. L’“estremismo” sindacalista andava superato, in nome della capacità di crescere sul piano organizzativo e di conquistare la maggioranza del proletariato dei rispettivi paesi: questa era la consegna per i partiti aderenti all’Internazionale, ai quali si chiedeva inoltre di aderire ai sindacati maggioritari, anche se egemonizzati dalla destra socialdemocratica o addirittura da forze ancora più conservatrici (qual era il caso dell’AFL negli Stati Uniti). Con questa decisa presa di posizione, il movimento comunista internazionale rompeva con il sindacalismo rivoluzionario, dal quale aveva in precedenza tratto alcuni dei suoi quadri migliori. Rimaneva però fedele alla prospettiva di una rivoluzione internazionale in tempi brevi: il II Congresso si svolse infatti proprio mentre l’Armata Rossa era impegnata nella guerra rivoluzionaria contro la Polonia e la possibilità di un rapido rovesciamento dell’ordine europeo, che era stata accantonata, conosceva una temporanea reviviscenza.

 

  1. Lotta contro l’opportunismo e questione coloniale

Dal punto di vista politico-ideologico, quindi, i lavori del II Congresso incidono su tre fondamentali terreni: fare del principio della dittatura del proletariato il carattere distintivo dei partiti operai che aderiscono alla III Internazionale, espellendo gli elementi opportunisti e riformisti; riconoscere il ruolo decisivo assunto dalla questione coloniale a causa dello sviluppo dei processi di concentrazione monopolistica e del dominio mondiale di alcune potenze imperialistiche; battere le posizioni estremistiche contrarie alla utilizzazione delle possibilità legali e alla partecipazione dei comunisti ai parlamenti borghesi.

Lenin, pertanto, enuclea la questione coloniale da un’ampia disàmina della «struttura del mondo», la quale mostra che la divisione in sfere di influenza tra le potenze imperialistiche è stata compiuta non solo per mezzo della spartizione delle fonti di materie prime e dei mercati, ma anche attraverso la «completa spartizione preventiva delle colonie». Egli espone il suo rapporto, come sempre, con una chiarezza e una precisione esemplari: «Il fondamento di tutta la situazione internazionale, così come si è venuta delineando oggi, consiste nei rapporti economici dell’imperialismo. Durante il secolo ventesimo si è configurata pienamente questa nuova fase del capitalismo, che è la sua fase suprema, ultima. Naturalmente, voi tutti sapete che i tratti più caratteristici ed essenziali dell’imperialismo consistono nelle enormi dimensioni assunte dal capitale. Monopoli giganteschi hanno preso il posto della libera concorrenza. Un esiguo numero di capitalisti è talora riuscito a concentrare nelle sue mani interi settori dell’industria, dei quali si sono impadroniti società, cartelli, sindacati, trust, che hanno spesso un carattere internazionale. In questo modo interi settori industriali sono stati conquistati dai monopolisti, non soltanto in singoli paesi ma nel mondo intero, dal punto di vista finanziario, dal punto di vista del diritto di proprietà e, in parte, dal punto di vista della produzione. Su questo terreno si è sviluppato un dominio senza precedenti di un piccolo numero di grandi banche, di re della finanza, di magnati del capitale, che hanno trasformato di fatto persino le repubbliche più libere in monarchie finanziarie». 10 Mentre, alla vigilia della guerra, la popolazione coloniale era di 600 milioni di uomini ora essa arriva al miliardo. Al tempo stesso, con la pace di Versailles, si è accentuato l’ineguale sviluppo del capitalismo, una serie di potenze capitalistiche sono state, all’interno della piramide imperialistica, subordinate alle altre e i rapporti di forza si sono spostati nettamente a favore degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, che sono le due potenze dominanti, le sole che «possano intervenire in maniera autonoma nell’arena mondiale». Anzi, «soltanto gli Stati Uniti si trovano oggi in una situazione finanziaria assolutamente indipendente». 11 Sennonché – rileva Lenin - lo sviluppo del capitalismo trasforma la stessa classe operaia e fa della aristocrazia operaia «uno strato relativamente più ampio e stabile, benché costituito da un’esigua minoranza... Essa è l’effettivo “sostegno” sociale della II Internazionale, dei riformisti e dei “centristi” e, nel momento attuale, è forse il principale sostegno sociale della borghesia». 12

 

  1. Conquista della maggioranza della classe operaia e “ineguale sviluppo”

Al III Congresso (1921) si prese atto che la possibilità di una rottura rivoluzionaria su scala mondiale, almeno temporaneamente, era venuta meno. L’Internazionale era ormai un’organizzazione vastissima: presero parte, infatti, a questo Congresso 291 delegati con voto deliberativo e 314 con voto consultivo. Il divario numerico rispetto al I e al II Congresso dell’Internazionale era evidente e rispecchiava non solo la crescita delle adesioni, ma anche il rafforzamento del carattere rappresentativo, non solo nominale, di buona parte dei partiti presenti. Dal canto suo, Lenin concentrò buona parte delle sue energie nello studio e nel chiarimento delle particolarità della rivoluzione in Occidente, giungendo in questo Congresso dell’Internazionale, a porre come compito centrale, in particolare per i partiti comunisti europei, la conquista della maggioranza della classe operaia, e come linea la tattica del fronte unico, necessaria per la preparazione della rivoluzione. Nasce così il celebre opuscolo, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, nel quale lo sforzo estremamente lucido di individuare i caratteri universali dell’esperienza bolscevica è diretto a proporne lo studio e la generalizzazione. L’ineguale sviluppo della società capitalistica, su cui Lenin giustamente insiste, determina il carattere processuale e differenziato della rivoluzione proletaria, il cui radicamento nazionale deriva dal carattere complessivo delle particolarità storiche delle forze produttive e delle classi sociali. L’un aspetto e l’altro della transizione mondiale al socialismo discendono, in definitiva, dal movimento delle masse, che costituisce il dato nuovo e il fattore propulsivo di un processo rivoluzionario segnato, peraltro, dal carattere estremamente differenziato e ineguale della storia delle forze popolari e della loro realtà attuale. Al livello mondiale, la rivoluzione proletaria si distende su un’intera epoca storica, aperta dalla guerra imperialistica e caratterizzata dal processo della transizione dal capitalismo al comunismo. Nella misura in cui tale processo è contrassegnato dall’ineguale sviluppo delle forze produttive e dalle loro particolarità storiche nazionali e di classe, per un verso esso pone ai diversi reparti della classe operaia il compito di conquistare la direzione politica del proprio Stato, nel mentre, per un altro verso, tale compito risulta possibile, ed è possibile mantenere il potere, anche nel caso in cui lo Stato operaio debba rimanere solo e accerchiato per lungo tempo, purché esso Stato mantenga uno stretto rapporto con le masse oppresse e, in primo luogo, con la classe operaia. D’altronde, fin dall’agosto del 1915 Lenin era pervenuto a tale conclusione, elaborando una tesi della tattica bolscevica, che si rivelerà essenziale sia nella rivoluzione di febbraio, sia nella rivoluzione d’Ottobre, sia, da ultimo, nella costruzione del primo Stato socialista della storia umana. «L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico – egli scrive nel celebre articolo Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa, il 23 agosto del 1915 – è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo. in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati. La forma politica della società nella quale il proletariato vince abbattendo la borghesia, sarà la repubblica democratica che centralizzerà sempre più la forza del proletariato di una nazione o di più nazioni nella lotta contro gli Stati non ancora passati al socialismo». 13 Nel settembre 1916 Lenin ribadirà con forza questa tesi essenziale: «Lo sviluppo del capitalismo avviene nei diversi paesi in modo estremamente ineguale. E non potrebbe essere diversamente in regime di produzione mercantile. Di qui l’inevitabile conclusione: il socialismo non può vincere simultaneamente in tutti i paesi. Esso vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri resteranno, per un certo periodo, paesi borghesi o preborghesi». 14 Ciò nondimeno, Lenin non nutre alcun dubbio sul fatto che la rivoluzione proletaria in Russia «può essere compresa solo come uno degli anelli della catena delle rivoluzioni proletarie socialiste provocate dalla guerra imperialista». 15 Se per un verso, nella prima delle Lettere da lontano, egli insiste sulla possibilità della rivoluzione proletaria in Russia, giacché la guerra imperialista fa delle grandi masse contadine russe e della classe operaia europea i più potenti alleati del proletariato russo, per un altro verso non cessa mai di guardare alla rivoluzione russa come al detonatore della rivoluzione mondiale, che deve avere il suo epicentro nell’Europa occidentale e i suoi reparti decisivi nella classe operaia europea. 16 Questa convinzione non muta dopo la rivoluzione d’Ottobre, sta alla base della creazione della III Internazionale ed occupa un posto centrale nei suoi primi Congressi.

I problemi che Lenin affronta e risolve nel III Congresso dell’Internazionale si possono allora riassumere in queste due domande: come trasformare in effettivo protagonismo il dirompente antagonismo delle masse che si manifesta nell’Europa dell’immediato dopoguerra, dopo che la rivoluzione d’Ottobre ha spezzato la catena dell’imperialismo nel suo punto più debole, dando avvio alla rivoluzione mondiale? Come ricavare da questa formidabile esperienza (il biennio rosso 1919-1920 su scala europea) una strategia ed una tattica adeguate alle particolarità delle masse europee?

In questo senso, il carattere di massa della rivoluzione proletaria (che è l’altra faccia del suo carattere popolare) è fondamentale ed è il primo e più importante insegnamento della esperienza russa. 17 Perciò Lenin risponde con durezza a Terracini, il quale al III Congresso dell’Internazionale difende la tattica bordighiana e rifiuta la parola d’ordine della conquista della maggioranza: «Terracini dice che in Russia abbiamo vinto, benché il partito fosse molto piccolo. Egli non è contento di ciò che dicono le tesi sulla Cecoslovacchia [...] Si è detto qui che in Cecoslovacchia il partito comunista conta da 300 mila a 400 mila membri, che è necessario conquistare la maggioranza della classe operaia, creare una forza invincibile e continuare la conquista di nuove masse operaie. Terracini è qui pronto all’attacco. Egli dice: se nel partito vi sono 400 mila operai, che bisogno abbiamo di averne di più? Cancellare! (Ilarità.) Egli ha paura della parola masse e la vuol cancellare. Il compagno Terracini non ha capito molto della rivoluzione russa. Noi, in Russia, eravamo un piccolo partito, ma avevamo con noi la maggioranza dei soviet dei deputati operai e contadini di tutto il paese. (Una voce: «Giusto!».) E voi? Avevamo con noi quasi la metà dell’esercito, che allora contava per lo meno dieci milioni di uomini. Avete voi forse la maggioranza dell’esercito? Citatemi un paese simile». 18

Il dato che rispecchia sul piano politico la caratteristica essenziale delle masse nei paesi di capitalismo avanzato è dunque la loro organizzazione, frutto di una lunga e consolidata tradizione, mediata da una fitta trama di istituzioni. Questa caratteristica pone in termini concreti ai partiti comunisti il problema della conquista della maggioranza della classe operaia. In effetti, se da un lato non si può puntare sulla rapida dislocazione delle grandi masse nello scontro di piazza e di strada se non a processo rivoluzionario iniziato - dislocazione che, quand’anche ci fosse, non garantirebbe meccanicamente la conquista della maggioranza alle parole d’ordine dei comunisti, essendo le masse plasmate e condizionate dalle proprie tradizioni ed esperienze ideologiche e organizzative -, dall’altro già la conquista della maggioranza della classe operaia, nella fase della preparazione rivoluzionaria, pone ai partiti comunisti europei problemi e compiti originali, che richiedono analisi specifiche e differenziate a seconda dei diversi contesti nazionali. «Chi non capisce – incalza Lenin nella polemica con Terracini – che in Europa – dove quasi tutti gli operai sono organizzati – dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia, è perduto per il movimento comunista, e non imparerà mai nulla, se non ha imparato nulla durante i tre anni della grande rivoluzione». 19

 

  1. Partito comunista e linea di massa

In generale, afferma Lenin, vale il principio secondo il quale «possiamo (e dobbiamo) cominciare a costruire il socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente per noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. La cosa è senza dubbio molto “difficile”, ma ogni altro modo di affrontare il problema è così poco serio che non vale la pena di parlarne». 20 Lenin, perciò, nell’Estremismo concentra la sua analisi e la sua elaborazione di una linea di massa valida per i partiti comunisti europei soprattutto sulle questioni della loro condotta nei sindacati e nel parlamento. In ambedue i casi si tratta di istituzioni «storicamente superate» rispetto al livello su cui procede la rivoluzione mondiale. E tuttavia, sul piano politico, il problema fondamentale è di riconoscere lo spessore e la dimensione di massa di queste istituzioni. «Il parlamentarismo è “storicamente superato” – rileva Lenin -. Questo è vero sul piano della propaganda. Ma ognuno sa che da questo al superamento pratico c’è ancora una grande distanza. Molti decenni fa si poteva già dire così ma questo non elimina affatto la necessità di una lotta molto lunga e molto tenace sul terreno del capitalismo. Il parlamentarismo è “storicamente superato” nel senso della storia mondiale, cioè è finita l’epoca del parlamentarismo borghese, ed è cominciata l’epoca della dittatura del proletariato. Questo è incontestabile. Ma su scala storica mondiale l’unità di misura sono i decenni. Dieci o venti anni prima o dopo non contano dal punto di vista storico mondiale, sono, da questo angolo visivo, un’inezia di cui non si può tener conto neanche in modo approssimativo. Ma appunto per questo è un gravissimo errore teorico valersi della scala storica mondiale nelle questioni della politica pratica». 21

Va da sé che il ragionamento di Lenin vale su tutta la linea della tattica comunista e per ogni tipo di rapporto fra masse e istituzioni. I sindacati e il parlamento sono infatti i due terreni fondamentali su cui si esplica tale rapporto e su cui deve dispiegarsi la linea di massa dei comunisti. Così, per quel che concerne le istituzioni del dominio borghese in quanto tali, ed in particolare il parlamento, Lenin, respingendo l’astensionismo dei comunisti “di sinistra”, propone di intervenire su questo terreno attraverso un uso rivoluzionario di tale istituzione (diritto di tribuna, azione di controllo e di denuncia del potere borghese). A maggior ragione è necessaria l’azione dei comunisti all’interno delle istituzioni democratico-borghesi prima della conquista del potere soprattutto là dove, come nell’Europa occidentale, la loro influenza di massa è profondamente radicata. «Il compito attuale dell’avanguardia cosciente nel movimento operaio internazionale – afferma Lenin – cioè il compito dei partiti, delle correnti e dei gruppi comunisti, sta nel saper condurre le grandi masse (tuttora sonnolente, apatiche, abitudinarie, inerti, non ridestate, nella maggior parte dei casi) verso questa nuova posizione o, meglio, nel saper guidare non soltanto il proprio partito ma anche queste masse durante il loro avvicinamento, durante il loro passaggio alla nuova posizione». 22 Soprattutto là dove il capitalismo ha avuto uno sviluppo più antico e più pieno, una efficace linea di massa dei partiti comunisti è contraddistinta dalla capacità di unificare politicamente le masse sulla base della loro multiforme stratificazione sociale, ma anche delle forme organizzative e di coscienza entro le quali esse si muovono, e che non si può pensare di ignorare o di frantumare rapidamente. «Il capitalismo non sarebbe capitalismo, se il proletariato “puro” non fosse attorniato da una folla eccezionalmente variopinta di tipi intermedi tra il proletario e il semiproletario, [...] tra il semiproletario e il piccolo contadino, [...] tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc., e se in seno al proletariato non vi fossero divisioni regionali, di categoria o, talvolta, di ordine religioso, ecc. Da tutto questo deriva la necessità – che è necessità assoluta, incondizionata – per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista, di manovrare, di stringere accordi, di stipulare compromessi con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare, il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere. Bisogna notare, tra l’altro, che la vittoria dei bolscevichi sui menscevichi ha richiesto, non solo prima della rivoluzione del 1917, ma anche dopo di essa, l’applicazione di una tattica di manovre, di accordi, di compromessi, naturalmente tali da agevolare, accelerare, consolidare, rafforzare la vittoria dei bolscevichi a spese dei menscevichi. I democratici piccolo-borghesi (ivi compresi anche i menscevichi) oscillano inevitabilmente tra la borghesia e il proletariato, tra la democrazia borghese e il sistema sovietico, tra il riformismo e la rivoluzione, tra la simpatia per gli operai e il timore della dittatura proletaria, ecc. La giusta tattica dei comunisti deve consistere nell’utilizzare queste oscillazioni e non nell’ignorarle, e la loro utilizzazione esige che si facciano concessioni agli elementi che si spostano verso il proletariato nel momento e nella misura in cui si stanno spostando e impone che si lotti al tempo stesso contro gli elementi che si orientano verso la borghesia. Per effetto della nostra applicazione di una tattica giusta, il menscevismo ha cominciato e continua tuttora a disgregarsi sempre più: i capi ostinatamente opportunisti vengono isolati, mentre gli operai migliori, i migliori elementi della democrazia piccolo-borghese passano nel nostro campo. Si tratta di un processo lungo, e la frettolosa «decisione»: «Nessun compromesso, nessuna manovra» può soltanto recare danno all’aumento dell’influenza e all’accrescimento delle forze del proletariato rivoluzionario». 23

Tutto questo significa, quanto ai rapporti dell’avanguardia rivoluzionaria con la classe operaia vera e propria, in particolare in Occidente, che «quanto più organizzato è il proletariato di un paese capitalisticamente sviluppato, tanto maggiore serietà la storia esige da noi nella preparazione della rivoluzione, tanto più a fondo dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia». 24 È la ricerca di una linea che definisca come possa configurarsi ed «iniziare» la rivoluzione proletaria nella situazione concreta dell’Europa. «In Russia – puntualizza Lenin – nella situazione concreta e originalissima del 1917, è stato facile iniziare la rivoluzione socialista, mentre sarà per la Russia più difficile che per i paesi europei continuarla e condurla a termine. Già all’inizio del 1918 avevo avuto occasione di indicare questa circostanza, e i successivi due anni di esperienza hanno confermato in pieno l’esattezza di questa considerazione. Condizioni specifiche come: 1) la possibilità di collegare la rivoluzione sovietica con la conclusione (in virtù della rivoluzione stessa) della guerra imperialistica, che procurava sofferenze incredibili agli operai e ai contadini; 2) la possibilità di sfruttare, per un certo periodo, la lotta mortale tra due gruppi di predoni imperialistici, di portata mondiale, che non riuscivano a unirsi per lottare contro il nemico sovietico; 3) la possibilità di sostenere una guerra civile relativamente lunga, in parte grazie all’enorme estensione del paese e ai pessimi mezzi di comunicazione; 4) l’esistenza tra i contadini di un movimento rivoluzionario democratico borghese così profondo che il partito del proletariato ha potuto far proprie le rivendicazioni rivoluzionarie del partito dei contadini (cioè del partito socialista-rivoluzionario, nettamente ostile, nella sua maggioranza, al bolscevismo) e attuarle immediatamente in virtù della conquista del potere politico da parte del proletariato: queste condizioni specifiche non esistono oggi nell’Europa occidentale, e non è troppo facile che esse, o altre condizioni analoghe, si presentino un’altra volta. Ecco perché, oltre tutto, a prescindere cioè da una serie di altre cause, è più difficile per l’Europa occidentale iniziare la rivoluzione socialista di quanto non sia stato per noi». 25 Perciò la riflessione leniniana sul significato generale della rivoluzione russa è, al tempo stesso, una ricognizione sulle condizioni e i modi della rivoluzione mondiale dopo la vittoria del proletariato in Russia, e sbocca, per quanto attiene all’Europa occidentale, nella «ricerca delle forme di transizione o di avvicinamento alla rivoluzione proletaria».

Rileva Lenin nella conclusione dell’Estremismo: «L’essenziale - naturalmente è ancora molto lontano dall’essere tutto, ma è l’essenziale – è già stato fatto per attrarre l’avanguardia della classe operaia, per farla schierare con il potere sovietico contro il parlamentarismo, con la dittatura del proletariato contro la democrazia borghese. Bisogna ora concentrare l’attenzione sul passo successivo, che sembra – e in un certo senso è realmente – meno importante, ma che è invece più vicino alla soluzione pratica del problema, cioè sulla ricerca delle forme di transizione o di avvicinamento alla rivoluzione proletaria». 26 Così, nella medesima conclusione dell’Estremismo il terreno reale su cui le diverse avanguardie della classe operaia possono conquistare una effettiva funzione dirigente viene individuato nelle particolarità nazionali delle masse popolari, delle classi e delle forme di dominio. Pertanto, se sul piano strutturale è la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo che pone in termini di differenziazione nazionale il processo della rivoluzione mondiale, è poi la centralità della tematica concernente la transizione che conduce necessariamente alla individuazione della forma nazionale delle tappe e alla conseguente articolazione del processo rivoluzionario mondiale.

 

  1. L’internazionalismo proletario: una necessità storica e un’arma di lotta

L’internazionalismo proletario ha la sua genesi storica, sul piano teorico-pratico, con la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista (1848) e con la successiva fondazione, da parte di Marx ed Engels, della I Internazionale (1864-1872). Come si è accennato in precedenza, la I Internazionale gettò le basi della rivoluzione proletaria e della sostituzione del sistema capitalistico con un sistema comunista mondiale. In questo senso, la Comune di Parigi (1871) va considerata come un punto di partenza di valore storico-universale nella lotta rivoluzionaria del proletariato. La II Internazionale (1889-1914) ha avuto il merito di sviluppare in estensione l’organizzazione internazionale degli operai, abbassandone però il livello rivoluzionario e scadendo nell’opportunismo. Il suo internazionalismo fatto di parole fu abbandonato nella pratica e sostituito da una politica di collaborazione della classe operaia con la borghesia di ogni paese. La prima guerra mondiale rappresentò la prova del tradimento dell’internazionalismo proletario da parte delle forze riformiste e opportuniste, che appoggiarono i governi imperialisti. Si determinò così il fallimento della II Internazionale e la rottura completa dei comunisti col socialsciovinismo. Come si è visto, nelle conferenze di Zimmerwald e di Kienthal i bolscevichi posero le basi della rinascita di un’associazione internazionale del proletariato rivoluzionario affrancata dalle influenze imperialiste e scioviniste. Pertanto, la III Internazionale comunista (1919-1943) dichiarò guerra all’opportunismo e al socialsciovinismo borghese e piccolo-borghese, cominciando a tradurre in pratica la parola d’ordine della dittatura del proletariato, nella quale si riassume il punto più alto dello sviluppo storico e ideale del socialismo e del movimento operaio. Lenin, dal canto suo, ha introdotto profonde innovazioni nel contenuto e nella prassi dell’internazionalismo proletario al fine di porre il movimento comunista internazionale nella condizione di assolvere alcuni compiti fondamentali: a) lottare senza tregua contro i governi borghesi e lo sciovinismo da “grande potenza”, tipico degli opportunisti delle nazioni dominanti; b) unire il proletariato dei paesi imperialisti al proletariato e alle masse oppresse dei paesi dipendenti e coloniali, allo scopo di abbattere il comune nemico, l’imperialismo; c) subordinare gli interessi della lotta proletaria che si svolge in un paese agli interessi della lotta che si svolge nel mondo intero; d) concepire la rivoluzione vittoriosa e la costruzione del socialismo in un solo paese (o in alcuni paesi) come altrettanti mezzi «per sviluppare, sostenere, suscitare la rivoluzione in tutti i paesi». 27

Su queste basi, Lenin ha definito l’essenza dell’internazionalismo proletario nell’epoca dell’imperialismo e ha elaborato una sua formulazione matura, caratterizzata da una concezione del processo rivoluzionario mondiale che ha il suo fondamento nella partecipazione e nell’attiva collaborazione delle grandi masse sfruttate e oppresse di tutti i paesi. Alla luce di quanto or ora esposto, è evidente che l’internazionalismo proletario non è una semplice appendice della teoria del movimento di emancipazione del proletariato, un aspetto secondario della teoria e della tattica della rivoluzione socialista e della dittatura del proletariato o, peggio, un supplemento romantico della politica rivoluzionaria. Al contrario, esso è un principio costitutivo e integrante del marxismo rivoluzionario, un tratto distintivo del movimento operaio e comunista e uno dei suoi compiti primari, perché riflette le condizioni di esistenza, il carattere e i comuni interessi del proletariato internazionale, esprimendone la funzione storico-universale. Da questo punto di vista, il comunismo nasce e si sviluppa come forza internazionale, riflettendo la natura e il carattere del proletariato. D’altra parte, il movimento reale del proletariato rivoluzionario è per sua natura internazionalista, poiché è l’espressione di una classe che abolisce un modo di produzione, quello capitalistico, che è a sua volta una forza internazionale. Il fatto che il modo di produzione capitalistico ha una natura internazionale, ma è organizzato negli Stati nazionali, è una realtà storica contradditoria, di cui occorre tenere il debito conto traendone tutte le necessarie conseguenze ai fini della tattica rivoluzionaria del movimento di classe. In ultima analisi, tuttavia, la lotta della classe operaia di un dato paese contro la propria borghesia non è che un aspetto dello scontro internazionale tra borghesia e proletariato e la conquista, da parte della classe operaia, del potere politico in un dato paese non è che un momento dello sviluppo della rivoluzione proletaria negli altri paesi. L’internazionalismo proletario è dunque una delle più importanti armi della rivoluzione sociale e una condizione indispensabile della lotta per la completa e definitiva vittoria del proletariato sul capitalismo e la borghesia.

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I due documenti che sono qui riportati illustrano con efficacia la natura, il significato, le finalità e la struttura organizzativa dell’Internazionale Comunista nella sua storica configurazione di partito mondiale della rivoluzione proletaria e del socialismo scientifico.

 

I

Manifesto dell’Internazionale Comunista al proletariato di tutto il mondo

 (6 marzo 1919)

Sono trascorsi 72 anni da quando il Partito Comunista annunciò al mondo il suo programma nella forma di un Manifesto scritto dai massimi maestri della rivoluzione proletaria: Karl Marx e Friedrich Engels. Già a quell’epoca il comunismo – appena entrato nella lotta – era accerchiato da manifestazioni ostili, dalla menzogna, dall’odio e dalla persecuzione delle classi possidenti che giustamente presagivano in esso il loro nemico mortale. Nell’arco di questi sette decenni il comunismo ha percorso vie difficili attraverso turbinose ascese e periodi di declino, successi e dure sconfitte. Ma fondamentalmente il movimento seguiva il cammino indicato dal Manifesto del Partito Comunista. L’ora della lotta finale e decisiva è giunta più tardi di quanto non l’abbiano attesa ed auspicata gli apostoli della rivoluzione sociale. Tuttavia è giunta. Noi comunisti, rappresentanti del proletariato rivoluzionario di vari paesi d’Europa, d’America e d’Asia, riuniti a Mosca, capitale sovietica, ci sentiamo e ci consideriamo i successori e i realizzatori dell’opera il cui programma venne annunciato 72 anni fa. Il nostro compito consiste nel generalizzare l’esperienza rivoluzionaria della classe operaia, nel liberare il movimento dalle commistioni disgregatrici con l’opportunismo e il socialpatriottismo, nel radunare le forze di tutti i partiti veramente rivoluzionari del proletariato mondiale, facilitando ed affrettando così la vittoria della rivoluzione comunista nel mondo intero.

Oggi che l’Europa è coperta di macerie e di fumanti rovine, gli incendiari più scellerati si affannano a cercare i colpevoli della guerra. Alle loro spalle sta uno stuolo di professori, parlamentari, giornalisti, socialpatrioti ed altri sfruttatori politici della borghesia.

Per lunghi anni il socialismo ha predetto l’inevitabilità della guerra imperialistica e ne ha intravisto la causa nell’insaziabile cupidigia delle classi possidenti dei due maggiori concorrenti e in generale di tutti paesi capitalistici. Due anni prima dello scoppio della guerra, al congresso di Basilea, i capi socialisti responsabili di tutti i paesi accusavano l’imperialismo di essere l’autore della futura guerra e minacciavano la borghesia di attirarle addosso la rivoluzione sociale, rappresaglia del proletariato contro i delitti del militarismo. Ora, dopo una esperienza di cinque anni, dopo che la storia ha messo a nudo le ambizioni banditesche della Germania e svelato l’agire non meno delittuoso degli Stati alleati, i socialisti ufficiali dei paesi dell’Intesa continuano, insieme con i loro governi, a smascherare in modo sempre più schiacciante il Kaiser tedesco rovesciato. Peggio ancora: i socialpatrioti tedeschi, che nell’agosto 1914 proclamavano il “Libro bianco” diplomatico dello Hohenzollern come il più sacro vangelo dei popoli, ora, con servilismo non minore dei socialisti dei paesi dell’Intesa, accusano l’abbattuta monarchia tedesca, a cui si assoggettarono come schiavi, di essere la responsabile principale. Sperano in tal modo di far dimenticare la propria colpa e di cattivarsi la benevolenza dei vincitori. Ma in confronto alla posizione assunta dalle abbattute dinastie dei Romanov, degli Hohenzollern, degli Asburgo e dalle cricche capitalistiche dei relativi paesi, appare non meno infame, alla luce degli avvenimenti verificatisi e delle rivelazioni diplomatiche, la condotta delle classi dominanti in Francia, Inghilterra, Italia e negli Stati Uniti.

Fino al momento dello scoppio della guerra la diplomazia inglese rimase celata dietro la sua maschera misteriosa. Il governo della City si guardava bene dal rivelare apertamente la sua intenzione di partecipare alla guerra a fianco dell’Intesa, per non distogliere il governo di Berlino dalla guerra. A Londra si voleva la guerra. Perciò ci si comportò in modo da far sperare a Berlino e a Vienna la neutralità dell’Inghilterra e, al tempo stesso, in modo che a Parigi e a Pietroburgo si contasse con certezza sul suo intervento.

La guerra, preparata dal corso della storia per vari decenni, fu scatenata dalla provocazione diretta e cosciente della Gran Bretagna. Il governo inglese aveva calcolato di offrire il suo appoggio alla Russia e alla Francia soltanto fino al momento in cui esse si fossero esaurite completamente e nello stesso tempo di paralizzare anche la Germania, sua mortale nemica. Tuttavia la potenza del meccanismo militare tedesco apparve troppo terribile e rese necessario un intervento non fittizio ma reale dell’Inghilterra nella guerra. La parte del terzo litigante che gode, alla quale la Gran Bretagna aspirava per antica tradizione, toccò agli Stati Uniti. Il governo di Washington acconsentì tanto più facilmente al blocco inglese, che limitava le speculazioni della borsa americana sul sangue europeo, in quanto i paesi dell’Intesa indennizzarono la borghesia americana con lauti profitti per il danno subito dalla violazione del “diritto internazionale”. Ma l’enorme superiorità militare della Germania spinse il governo di Washington ad uscire dallo stato di apparente neutralità. Gli Stati Uniti assunsero di fronte all’Europa quel ruolo che l’Inghilterra aveva sostenuto nelle guerre precedenti e che aveva tentato di sostenere ancora nell’ultima guerra nei riguardi del continente, quello cioè di indebolire un campo servendosi dell’altro, di ingerirsi nelle operazioni militari solo nella misura necessaria per assicurarsi tutti i vantaggi della situazione. La posta arrischiata da Wilson, conformemente ai momenti del gioco americano, non era alta; ma era l’ultima e con essa egli si assicurò la vincita.

Le contraddizioni del regime capitalistico, a causa della guerra, si trasformarono per l’umanità nei brutali tormenti della fame e del freddo, nelle epidemie, nel regresso morale. In ciò trova la sua definitiva soluzione la controversia accademica dei socialisti sulla teoria dell’impoverimento e del graduale passaggio dal capitalismo al socialismo. Statistici e pedanti della teoria del livellamento delle contraddizioni del capitalismo si sono sforzati, per decenni, di cercare in ogni angolo più recondito del mondo i fatti reali o apparenti in grado di attestare l’aumento del benessere dei vari gruppi e categorie della classe operaia. La teoria dell’impoverimento veniva sepolta sotto i fischi beffardi degli eunuchi delle cattedre della borghesia e degli alti gerarchi dell’opportunismo socialista. Oggi assistiamo non solo all’impoverimento sociale, ma anche a quello fisiologico e biologico in tutta la sua impressionante realtà. La catastrofe della guerra imperialistica ha nettamente spazzato via tutte le conquiste delle lotte sindacali e parlamentari. E tuttavia questa guerra è sorta dalle tendenze interne del capitalismo esattamente come quegli accomodamenti economici e compromessi parlamentari ch’essa ha sepolto nel sangue e nel fango.

Il capitale finanziario che gettò l’umanità nell’abisso della guerra, ha subìto esso stesso nel corso della guerra catastrofici mutamenti. La dipendenza della carta moneta rispetto alla base materiale della produzione è stata definitivamente sconvolta. Perdendo sempre più la sua importanza di mezzo e strumento regolatore dello scambio delle merci nell’economia capitalistica, la carta moneta si è trasformata in strumento di requisizione, di predoneria e in generale di oppressione militare ed economica. La totale svalutazione della carta moneta riflette la generale crisi mortale che afferra la circolazione delle merci nel regime capitalistico. Se, nei decenni anteriori alla guerra, la libera concorrenza, quale elemento regolatore della produzione e della distribuzione, era stata soppiantata, nei principali settori dell’economia, dal sistema dei trust e dei monopoli, gli eventi della guerra hanno strappato di mano alle alleanze economiche la funzione regolatrice per consegnarla direttamente al potere militare e statale. La distribuzione delle materie prime, lo sfruttamento del petrolio di Bakù o della Romania, del carbone del Donez, del grano dell’Ucraina, la sorte delle locomotive, dei vagoni ferroviari e degli automezzi della Germania, il sostentamento dell’Europa affamata di pane e di carne, tutti questi problemi fondamentali della vita economica del mondo non sono regolati dalla libera concorrenza, né dalla combinazione di trust e di consorzi nazionali e internazionali, bensì dal potere militare che in tali questioni interviene direttamente ai fini della propria ulteriore conservazione. Se la totale subordinazione del potere statale alla forza del capitale finanziario ha condotto l’umanità al macello imperialistico, il capitale finanziario, attraverso questo macello di massa, ha militarizzato non soltanto lo Stato, ma anche se stesso, tanto da non essere più in grado di attendere alle sue funzioni economiche essenziali se non col ferro e col sangue.

Gli opportunisti che prima della guerra mondiale esortavano gli operai alla moderazione col pretesto di un graduale passaggio al socialismo, che durante la guerra pretesero l’umiltà di classe in nome della sicurezza pubblica e della difesa nazionale, esigono dal proletariato altri sacrifici per superare le atroci conseguenze della guerra. Se queste prediche potessero trovare ascolto presso le masse operaie, lo sviluppo del capitalismo celebrerebbe la sua continuità ai danni di parecchie generazioni in una forma ancora più concentrata e spaventosa, con la prospettiva di una nuova ed inevitabile guerra mondiale. Per fortuna dell’umanità questo non è più possibile. La statizzazione della vita economica, alla quale il liberalismo capitalistico tanto si opponeva, è diventata ormai un fatto compiuto. Non soltanto non è più possibile tornare alla libera concorrenza, ma neppure al dominio dei trust, dei sindacati e delle altre mostruose divinità economiche. La questione è unicamente sapere chi condurrà in futuro la produzione statizzata, se lo Stato imperialista o lo Stato del proletariato vittorioso.

In altre parole: diventerà tutta l’umanità lavoratrice la schiava incatenata di una cricca mondiale che, al colmo del suo trionfo e sotto l’egida dell’alleanza dei popoli, per mezzo di un esercito “internazionale” e di una flotta “internazionale”, prederà e strozzerà gli uni, getterà le briciole agli altri, ma, dovunque e sempre, metterà in catene il proletariato con l’unico scopo di mantenere il proprio dominio?

L’ultima guerra, che è stata in prevalenza una guerra per la conquista delle colonie, è stata nello stesso tempo una guerra condotta con l’aiuto delle colonie. Le popolazioni coloniali sono state trascinate nella guerra europea in proporzioni fino allora mai conosciute. Indù, negri, arabi, malgasci hanno lottato sul territorio europeo; e per cosa? Per il diritto di rimanere anche in seguito schiavi dell’Inghilterra e della Francia. Mai il dominio capitalistico si mostrò più sfrontato, mai il problema della schiavitù coloniale fu posto con simile asprezza.

Di qui una serie di aperte rivolte e di fermenti rivoluzionari in tutte le colonie. Nell’Europa stessa, l’Irlanda ha ricordato con sanguinosi combattimenti di strada che essa era ancora una terra asservita e cosciente di esser tale. Nel Madagascar, nell’Annam e in altre terre le truppe metropolitane hanno dovuto reprimere, durante la guerra, più di una rivolta di schiavi coloniali. In India il movimento rivoluzionario non si è arrestato un solo giorno e negli ultimi tempi è sfociato in un colossale sciopero, a cui il governo inglese ha risposto con le autoblinde a Bombay.

In tal modo la questione delle colonie non solo veniva posta in tutta la sua portata sul tappeto verde del congresso diplomatico a Parigi, ma era all’ordine del giorno nelle colonie stesse. Il programma di Wilson, nel migliore dei casi, mira soltanto a mutare l’etichetta della schiavitù coloniale. La liberazione delle colonie è possibile soltanto se avviene parallelamente alla liberazione della classe operaia nelle metropoli. Gli operai e i contadini non solo dell’Annam, dell’Algeria e del Bengala, ma anche della Persia e dell’Armenia potranno avere un’esistenza indipendente soltanto quando gli operai dell’Inghilterra e della Francia avranno rovesciato Lloyd George e Clemenceau e preso nelle loro mani il potere dello Stato. Già attualmente nelle colonie più sviluppate la lotta non si svolge sotto la bandiera della liberazione nazionale, ma va assumendo uno spiccato carattere sociale. Se l’Europa capitalistica ha trascinato forzatamente i paesi più arretrati del mondo nel vortice del capitalismo, l’Europa socialista verrà in aiuto delle colonie liberate con la sua tecnica, la sua organizzazione, la sua influenza culturale, per favorire il loro passaggio all’economia regolata del regime socialista.

Schiavi coloniali dell’Africa e dell’Asia! L’ora della dittatura proletaria in Europa segnerà anche l’ora della vostra liberazione!

Tutto il mondo borghese accusa i comunisti di annientare la libertà e la democrazia politica. Questo non è vero. Raggiungendo il potere, il proletariato constata semplicemente la totale impossibilità di applicare i metodi della democrazia borghese e crea le condizioni e le forme di una nuova e più alta democrazia operaia. Tutta la linea evolutiva del capitalismo, specialmente nell’ultimo periodo imperialistico, ha minato la democrazia politica non soltanto scindendo le nazioni in due classi inconciliabili, ma anche condannando all’atrofia economica permanente e all’impotenza politica numerosi ceti piccolo-borghesi e semi-proletari, compresi quelli più umili del proletariato stesso.

La classe operaia di quei paesi in cui lo sviluppo storico ne ha fornito la possibilità ha utilizzato il regime della democrazia politica per organizzare la lotta contro il capitale. La stessa cosa accadrà in futuro anche in quei paesi in cui le condizioni preliminari per una rivoluzione operaia non si sono ancora realizzate. Tuttavia vasti strati sociali intermedi, sia nelle campagne sia nelle città, sono ostacolati dal capitalismo nella loro evoluzione tanto da rimanere indietro di intere epoche storiche. Il contadino della Baviera o del Baden che non sa vedere oltre il campanile del suo villaggio, il piccolo vignaiolo francese rovinato dalla sofisticazione dei vini operata dai grandi capitalisti, il piccolo fattore americano dissanguato e truffato dai banchieri e dai deputati: tutti questi strati sociali, che il capitalismo allontana dalla via maestra dello sviluppo storico, sulla carta sono invitati dal regime della democrazia politica a partecipare al governo dello Stato. Ma in realtà sono le deliberazioni di un’oligarchia finanziaria quelle che, dietro lo schermo della democrazia parlamentare, decidono di tutte le questioni importanti, che regolano il destino dei popoli. Così è stato soprattutto nella questione della guerra e così è ora nella questione della pace.

Se l’oligarchia finanziaria ritiene opportuno velare il suo dispotismo con gli accordi parlamentari, lo Stato borghese utilizza, per raggiungere le mete a cui mira, tutti i mezzi della menzogna, della demagogia, della persecuzione, della calunnia, della corruzione e del terrore lasciati a sua disposizione dall’eredità del dominio classista dei secoli passati e moltiplicati dai prodigi della tecnica capitalistica. Pretendere dal proletariato che nell’estrema lotta mortale contro il capitalismo segua fedelmente le esigenze della democrazia borghese sarebbe come pretendere da un uomo che difende la sua vita dai predoni ch’egli segua le regole artificiose e condizionanti della lotta greco-romana stabilite dal suo nemico, ma da quest’ultimo non osservate.

Nel regno della distruzione in cui non solo i mezzi di produzione e di circolazione, ma anche le istituzioni della democrazia politica non significano altro che un cumulo di rovine insanguinate, il proletariato deve crearsi un proprio apparato che agisca innanzi tutto come forza coesiva all’interno della massa operaia e gli garantisca la possibilità di un suo intervento rivoluzionario nell’ulteriore sviluppo dell’umanità. Tale apparato è costituito dai soviet. I vecchi partiti, i vecchi sindacati si sono mostrati nella persona dei loro capi incapaci di intendere i compiti posti dalla nuova epoca, e ancora più incapaci di assolverli. Il proletariato ha creato una nuova forma di organizzazione che abbraccia tutte le classi operaie indipendentemente dalla professione e dal livello politico; un apparato dinamico capace di rinnovarsi e di ampliarsi continuamente, di trascinare nella sua sfera ceti sempre nuovi, di accogliere categorie di lavoratori delle città e delle campagne vicini al proletariato. Tale insostituibile organizzazione della classe operaia che si governa da sé, che lotta e che conquisterà in futuro anche il potere politico è stata suffragata dall’esperienza in vari paesi e costituisce la massima conquista e l’arma più potente del proletariato moderno.

In tutti i paesi in cui le masse sono diventate consapevoli della loro esistenza, sorgeranno anche in futuro consigli di deputati operai, soldati e contadini. Consolidare i soviet, aumentare la loro autorità, opporli all’apparato statale della borghesia: questo è oggi il compito fondamentale degli operai coscienti e onesti di tutti i paesi. Per mezzo dei soviet la classe operaia può salvarsi dagli agenti di disgregazione insinuatisi nel suo organismo attraverso le sofferenze atroci della guerra, della fame, attraverso il dispotismo dei ricchi e il tradimento dei suoi capi d’un tempo. Per mezzo dei soviet la classe operaia giungerà al potere con la massima sicurezza e facilità in tutti i paesi in cui i soviet riuniscono intorno a sé la maggioranza delle classi lavoratrici. Per mezzo dei soviet la classe operaia, giunta al potere, governerà tutti i campi della vita economica e culturale, come accade già ora in Russia.

Il crollo dello Stato imperialistico, da quello zarista fino ai più democratici, avviene contemporaneamente alla disfatta del sistema militare imperialistico. Gli eserciti di milioni di uomini mobilitati dall’imperialismo hanno potuto reggere solo finché il proletariato si è mantenuto ubbidiente sotto il giogo della borghesia. La rovina della unità nazionale significa anche l’inevitabile rovina dell’esercito. Questo è quanto è accaduto prima in Russia, poi nell’impero austro-ungarico e in Germania. Lo stesso processo ci si può aspettare anche negli altri Stati imperialisti. La rivolta del contadino contro il proprietario terriero, dell’operaio contro il capitalista, di entrambi contro la burocrazia monarchica o “democratica”, porta inevitabilmente alla rivolta del soldato contro il superiore e successivamente ad una rigida divisione fra gli elementi proletari e gli elementi borghesi dell’esercito stesso. La guerra imperialistica che opponeva una nazione all’altra si è trasformata e continua a trasformarsi sempre più in guerra civile che contrappone le classi fra di loro.

Le acerbe lamentele del mondo borghese sulla guerra civile e sul terrore rosso costituiscono la più spaventosa ipocrisia che la storia delle lotte politiche abbia mai registrato finora. Non ci sarebbe alcuna guerra civile se le cricche degli sfruttatori, che hanno spinto l’umanità sull’orlo della rovina, non avessero ostacolato qualsiasi progresso delle masse operaie, se non avessero tramato congiure e assassini e sollecitato l’aiuto armato dello straniero per mantenere saldi o per ristabilire i loro privilegi banditeschi.

La guerra civile è imposta alla classe operaia dai suoi nemici capitali. La classe operaia deve rispondere colpo su colpo, se non vuole farla finita con se stessa e rinunciare al suo avvenire che è al tempo stesso l’avvenire di tutta l’umanità. I partiti comunisti non provocano mai artificialmente la guerra civile, e se essa si presenta come necessità ineliminabile, si sforzano di abbreviarne la durata per quanto è possibile, di ridurre il numero delle sue vittime e principalmente di garantire al proletariato la vittoria. Ne consegue la necessità di disarmare tempestivamente la borghesia, di armare gli operai, di formare un esercito comunista che difenda il potere del proletariato e l’inviolabilità della sua struttura socialista. Tale è l’Armata rossa della Russia sovietica, che si erge a difesa delle conquiste della classe operaia contro tutti gli assalti dall’interno e dall’esterno. L’esercito sovietico è inseparabile dallo Stato sovietico.

Nella coscienza del carattere storico dei loro compiti gli operai più avanzati hanno mirato, sin dai primi passi del loro movimento socialista organizzato, ad unificare il medesimo su basi internazionali. La base fu posta a Londra nel 1864 dalla Prima Internazionale. La guerra franco-tedesca, da cui nacque la Germania degli Hohenzollern, travolse la Prima Internazionale e nello stesso tempo diede tuttavia impulso allo sviluppo dei partiti operai nazionali. Già nel 1889 questi partiti si riunirono nel congresso di Parigi e diedero vita all’organizzazione della Seconda Internazionale. Ma il centro di gravità del movimento operaio stava allora interamente sul terreno nazionale, nel quadro degli Stati nazionali, sulla base dell’industria nazionale, nel campo del parlamentarismo nazionale. Decenni di lavoro, di organizzazione e di riforme forgiarono una generazione di capi che in maggioranza riconosceva a parole il programma della rivoluzione sociale, ma nei fatti lo rinnegava, impantanandosi nel riformismo e nell’acquiescenza al governo borghese. Il carattere opportunista dei partiti dirigenti della Seconda Internazionale si rivelò chiaramente e condusse al più grande crollo della storia mondiale nel momento in cui il corso degli avvenimenti esigeva dai partiti operai metodi di lotta rivoluzionari. Se la guerra del 1870 inferse un duro colpo alla Prima Internazionale svelando che dietro il suo programma sociale rivoluzionario non esisteva ancora alcuna forza organica di massa, la guerra del 1914 uccise la Seconda Internazionale mostrando che dietro le masse operaie strettamente unite stavano partiti tramutatisi in mansueti strumenti del governo borghese. Ciò non si riferisce soltanto ai socialpatrioti che sono oggi passati apertamente al campo della borghesia e ne sono diventati i fiduciari preferiti, gli aguzzini più fidati della classe operaia, ma anche al centrismo socialista, nebuloso e instabile, che si sta ora sforzando di restaurare la Seconda Internazionale, cioè la ristrettezza di idee, l’opportunismo e l’impotenza rivoluzionaria della sua élite dirigente. Il partito indipendente in Germania, l’attuale maggioranza del partito socialista in Francia, il gruppo dei menscevichi in Russia, il partito laburista indipendente in Inghilterra e altri gruppi analoghi cercano effettivamente di occupare il posto che occupavano prima della guerra i vecchi partiti ufficiali della Seconda Internazionale, entrando in scena, come allora, con idee di compromesso e di unità, paralizzando in tutti i modi le energie del proletariato, prolungando la crisi e aggravando così la miseria dell’Europa. La lotta contro il “centro” socialista è la necessaria premessa della lotta vittoriosa contro l’imperialismo.

Rifiutando la mediocrità, la falsità e la putredine dei partiti socialisti ufficiali deceduti, noi comunisti uniti nella Terza Internazionale ci sentiamo i diretti continuatori degli sforzi e dell’eroico calvario di una lunga serie di generazioni rivoluzionarie, da Babeuf fino a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

Se la Prima Internazionale ha previsto lo sviluppo futuro e ne ha indicato il cammino, se la Seconda Internazionale ha radunato e organizzato milioni di proletari, la Terza Internazionale è quella dell’aperta azione di massa, dell’attuazione rivoluzionaria, della realizzazione.

La critica socialista ha sufficientemente bollato l’ordine borghese del mondo. Il compito del partito comunista internazionale è quello di abbattere quest’ordine e di erigere al suo posto l’edificio dell’ordine socialista.

Noi invitiamo gli operai e le operaie di tutti i paesi ad unirsi sotto la bandiera comunista, la cui insegna ha già riportato le prime grandi vittorie.

Proletari del mondo intero! Nella lotta contro la barbarie imperialistica, contro la monarchia, contro le classi privilegiate, contro lo Stato borghese e la proprietà borghese, contro tutte le forme dell’oppressione sociale e nazionale, unitevi!

Sotto la bandiera dei soviet operai, della lotta rivoluzionaria per il potere e la dittatura del proletariato, sotto la bandiera della Terza Internazionale, proletari di ogni paese, unitevi!

Beschlüsse, Ausrufe, pp. 3-18. 28

 

II

Tesi sulle condizioni d’ammissione

all’Internazionale comunista

(6 agosto 1920)

Il primo congresso dell'Internazionale comunista non ha fissato condizioni precise per l'ammissione alla III Internazionale. Fino al momento della convocazione del I Congresso, nella maggioranza dei paesi esistevano soltanto tendenze e gruppi comunisti. Il II Congresso dell'Internazionale comunista si riunisce in altre condizioni. Nella maggioranza dei paesi esistono oggi non solo correnti e tendenze comuniste ma partiti e organizzazioni comunisti. All'Internazionale comunista si rivolgono spesso partiti e gruppi che ancora poco tempo fa appartenevano alla II Internazionale e ora vogliono aderire all'Internazionale comunista, ma che non sono ancora di fatto comunisti. La II Internazionale è definitivamente sconfitta, e i partiti intermedi e i gruppi del "centro", consapevoli della situazione disperata in cui viveva la II Internazionale, tentano di appoggiarsi all'Internazionale comunista, che si rafforza sempre più; ma sperano di conservare una "autonomia" che permetta a loro di continuare nell'antica politica opportunistica e "di centro". L'Internazionale comunista sta in una certa misura diventando di moda. Il desiderio di alcuni gruppi dirigenti di aderire all'Internazionale comunista conferma indirettamente che questa si è conquistata la simpatia della stragrande maggioranza degli operai coscienti di tutto il mondo, e che diviene una forza di giorno in giorno crescente. L'Internazionale comunista è minacciata dal pericolo di essere inquinata da elementi oscillanti e irrisoluti che non si sono ancora definitivamente spogliati dell'ideologia della II Internazionale socialdemocratica. Rimane inoltre fino ad oggi in alcuni grandi partiti (Italia, Svezia, Norvegia, Jugoslavia ecc.), la cui maggioranza condivide i principi del comunismo, una rilevante ala riformista e socialpacifista, che aspetta solo l'occasione per risollevare il capo, iniziare il sabotaggio attivo della rivoluzione proletaria, e cosi venire in aiuto della borghesia e della II Internazionale. Nessun comunista deve dimenticare gli insegnamenti della Repubblica dei consigli di Ungheria. Troppo cara è costata al proletariato ungherese la fusione dei comunisti magiari con i socialdemocratici cosiddetti "di sinistra". Il II Congresso dell'Internazionale comunista reputa quindi necessario fissare col massimo rigore le condizioni di ammissione di nuovi partiti, e richiamare i partiti già ammessi all'Internazionale comunista agli obblighi loro imposti. Il II Congresso dell'Internazionale comunista formula le seguenti condizioni di appartenenza all'Internazionale comunista:

1. Tutta la propaganda e l’agitazione debbono avere un’impronta effettivamente comunista e corrispondere al programma e alle risoluzioni dell’Internazionale comunista. Tutti gli organi di stampa del partito debbono essere diretti da comunisti di provata fede che abbiano dimostrato la loro dedizione alla causa del proletariato. Non si può parlare della dittatura del proletariato semplicemente come di una formula corrente imparata a memoria; essa deve essere propagandata in modo tale da apparire necessaria ad ogni semplice lavoratore, lavoratrice, soldato e contadino in base ai dati della vita quotidiana, dati che la nostra stampa deve osservare sistematicamente e utilizzare giorno per giorno.

La stampa periodica e non periodica e tutte le pubblicazioni di partito debbono essere completamente subordinate alla direzione del partito, indipendentemente dal fatto che esso nella sua totalità sia nel momento dato legale o clandestino. Non è tollerabile che le edizioni abusino della loro autonomia e conducano una politica che non corrisponde interamente a quella del partito.

Nelle colonne della stampa, nelle assemblee popolari, nei sindacati, nelle cooperative di consumo, dovunque gli aderenti alla Terza Internazionale ottengano accesso, è necessario bollare a fuoco, in modo sistematico e implacabile, non soltanto la borghesia ma anche i suoi complici, i riformisti di qualunque sfumatura.

2. Ogni organizzazione che voglia aderire alla Internazionale comunista deve estromettere, in modo metodico e pianificato, da tutti i posti di maggiore o minore responsabilità del movimento operaio (organizzazioni di partito, redazione di giornali, sindacati, gruppi parlamentari, cooperative, amministrazioni comunali) gli elementi riformisti e centristi, sostituendoli con comunisti fidati, senza preoccuparsi del fatto che, soprattutto agli inizi, al posto di opportunisti «esperti» subentrino semplici lavoratori della massa.

3. In quasi tutti i paesi d’Europa e d’America la lotta di classe sta entrando nella fase della guerra civile. In tali condizioni, i comunisti non debbono fidarsi in alcun modo della legalità borghese. Essi sono tenuti a creare dovunque un apparato organizzativo che al momento decisivo aiuterà il partito a compiere il suo dovere verso la rivoluzione. In tutti i paesi in cui i comunisti a causa dello stato d’assedio e delle leggi eccezionali non hanno la possibilità di compiere legalmente tutto il loro lavoro, è assolutamente necessario combinare l’attività legale con quella clandestina.

4. Il dovere di diffondere le idee comuniste implica un impegno particolare per una propaganda condotta in modo martellante e sistematico nell’esercito. Là dove questo tipo di agitazione è impedito dalle leggi eccezionali, bisogna condurla clandestinamente. Rinunziare a questo lavoro, significherebbe tradire il dovere rivoluzionario e sarebbe incompatibile con l’appartenenza alla Terza Internazionale.

5. E’ necessaria un’agitazione sistematica e pianificata nelle campagne. La classe operaia non può vincere se non ha dietro di sé i proletari delle campagne e almeno una parte dei contadini poverissimi e se non si è garantita la neutralità di una parte delle restanti popolazioni rurali con la propria politica. L’attività comunista nelle campagne acquista al momento presente un’importanza preminente. Deve essere condotta di preferenza con l’aiuto degli operai rivoluzionari comunisti, della città e della campagna, legati alla campagna stessa. Rinunciare a questo lavoro, ovvero affidarlo a elementi non fidati, semiriformisti, equivale a rinunziare alla rivoluzione proletaria.

6. Ogni partito che desideri appartenere alla Terza Internazionale è tenuto a smascherare non soltanto il socialpatriottismo aperto ma anche la disonestà e l’ipocrisia del socialpacifismo: a dimostrare sistematicamente agli operai che senza l’abbattimento rivoluzionario del capitalismo nessun tribunale arbitrale internazionale, nessun accordo sulla limitazione degli armamenti, nessun rinnovamento «democratico» della Società delle Nazioni saranno in grado di prevenire nuove guerre imperialistiche.

7. I partiti che desiderano appartenere all’Internazionale comunista sono tenuti ad approvare la rottura totale con il riformismo e la politica del «centro» ed a propagandare questa rottura tra i più vasti strati dei loro membri. Senza di questo, è impossibile una coerente politica comunista. L’internazionale comunista chiede in modo incondizionato e assoluto che questa rottura avvenga nel più breve tempo. L’Internazionale comunista non può ammettere che opportunisti notori, i quali sono attualmente rappresentati da Turati, Kautsky, Hilferding, Hillquit, Longuet, MacDonald, Modigliani e altri, possono avere il diritto di passare per membri della Terza Internazionale. Ciò potrebbe avere come unica conseguenza che la Terza Internazionale diventi in larga misura simile alla Seconda Internazionale ormai affossata.

8. Sul problema delle colonie e delle nazioni oppresse, è necessaria una posizione particolarmente marcata e chiara dei partiti di quei paesi la cui borghesia è in possesso di colonie ed opprime altre nazioni. Qualsiasi partito che desideri appartenere alla Terza Internazionale è tenuto a smascherare gli intrighi dei «suoi» imperialisti, ad appoggiare non soltanto a parole ma nei fatti ogni movimento di liberazione nelle colonie, a esigere la cacciata dalle colonie dei propri imperialisti, a inculcare negli animi degli operai del proprio paese un sentimento davvero fraterno verso le popolazioni lavoratrici delle colonie e verso le nazioni oppresse ed a condurre in seno alle truppe del proprio paese un’agitazione sistematica contro qualsiasi oppressione dei popoli coloniali.

9. Ogni partito che desideri appartenere all’Internazionale comunista deve svolgere in modo sistematico e tenace un’attività comunista in seno ai sindacati, ai consigli operai e di fabbrica, alle cooperative di consumo e ad altre organizzazioni di massa degli operai. All’interno di queste organizzazioni è necessario organizzare cellule comuniste che, con lavoro costante e tenace, guadagnino i sindacati, ecc. alla causa del comunismo. Nel loro lavoro quotidiano, le cellule sono tenute a smascherare il tradimento dei socialdemocratici e l’incostanza del «centro». Le cellule comuniste debbono essere interamente subordinate all’insieme del partito.

10. Ogni partito appartenente all’Internazionale comunista è tenuto a condurre una lotta implacabile contro l’«Internazionale» di Amsterdam delle associazioni sindacali gialle. Esso deve propagandare vigorosamente tra gli operai organizzati sindacalmente la necessità di rompere con l’Internazionale gialla di Amsterdam. Deve inoltre appoggiare con tutti i mezzi la nascente Federazione Internazionale dei sindacati rossi, che aderiscono all’Internazionale comunista.

11. I partiti che vogliono appartenere alla Terza Internazionale sono tenuti a sottoporre a revisione i membri dei gruppi parlamentari, ad estromettere da questi gruppi tutti gli elementi non fidati, a subordinare i gruppi non soltanto a parole ma nei fatti alle direzioni dei partiti, esigendo che ciascun parlamentare subordini tutta la sua attività agli interessi di una propaganda e di una agitazione realmente rivoluzionarie.

12. I partiti appartenenti all’Internazionale comunista debbono essere strutturati in base al principio del centralismo democratico. Nella fase attuale di guerra civile acutizzata, il partito comunista sarà in grado di compiere il proprio dovere soltanto se sarà organizzato il più possibile centralisticamente, se in esso dominerà una disciplina ferrea e se la direzione del partito, sostenuta dalla fiducia di tutti i membri, godrà di tutto il potere, di tutta l’autorità e delle più ampie facoltà.

13. I partiti comunisti dei paesi nei quali i comunisti debbono operare clandestinamente debbono intraprendere di quando in quando epurazioni (nuove registrazioni) dei membri della loro organizzazione, per epurare il partito sistematicamente dagli elementi piccolo-borghesi che vi si sono insinuati.

14. Ogni partito che desideri appartenere all’Internazionale comunista è tenuto a sostenere senza riserve ogni repubblica sovietica nella lotta contro le forze controrivoluzionarie. I partiti comunisti debbono condurre un’aperta azione di propaganda per impedire il trasporto di munizioni ai nemici delle repubbliche sovietiche; debbono inoltre fare propaganda con tutti i mezzi, in modo legale o clandestino, tra le truppe inviate a soffocare le repubbliche operaie.

15. I partiti che fino ad oggi hanno ancora conservato i loro vecchi programmi socialdemocratici sono tenuti a modificare nel più breve tempo possibile tali programmi e, conformemente alla situazione particolare del proprio paese, ad elaborare un nuovo programma comunista coerente con le risoluzioni dell’Internazionale comunista. Di regola, il programma di ogni partito aderente all’Internazionale comunista deve essere approvato dal congresso ordinario o dal Comitato esecutivo di quest’ultima. Qualora il programma di un partito non sia stato approvato dal Comitato esecutivo, il suddetto partito ha il diritto di appellarsi al congresso dell’Internazionale comunista.

16.  Tutte le risoluzioni dei congressi dell’Internazionale comunista, come pure le risoluzioni del suo Comitato esecutivo, sono vincolanti per tutti i partiti appartenenti all’Internazionale stessa. L’internazionale comunista, quando opera in condizioni di durissima guerra civile, deve essere strutturata in modo assai più centralizzato di quanto non fosse la Seconda Internazionale. Naturalmente, sia l’Internazionale comunista sia il suo Comitato esecutivo nella loro attività complessiva debbono tener conto delle differenti condizioni in cui debbono lottare ed operare i singoli partiti, e prendere decisioni di validità universale soltanto per i problemi per i quali è possibile farlo.

17. Di conseguenza, tutti i partiti che vogliono appartenere all’Internazionale comunista debbono modificare la propria denominazione. Ogni partito che voglia appartenere all’Internazionale comunista deve avere il nome di Partito comunista di questo o quel paese (sezione della Terza Internazionale comunista). Il problema della denominazione non è soltanto un problema formale ma in larga misura politico e di grande importanza. L’Internazionale comunista ha dichiarato guerra a tutto il mondo borghese e a tutti i partiti socialdemocratici gialli. E’ necessario che ogni semplice lavoratore abbia ben chiara la differenza tra i partiti comunisti ed i vecchi partiti ufficiali «socialdemocratici» e «socialisti», che hanno tradito la bandiera della classe operaia.

18. Tutti gli organi dirigenti della stampa dei partiti di tutti i paesi sono tenuti a pubblicare tutti i documenti ufficiali importanti dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista.

19. Tutti i partiti che appartengono all’Internazionale comunista o hanno fatto richiesta per entrarvi sono tenuti a convocare il più presto possibile, e al più tardi entro quattro mesi dopo il II Congresso dell’Internazionale comunista, un congresso straordinario per esaminare tutte queste condizioni. Le direzioni debbono quindi curare che tutte le organizzazioni locali siano a conoscenza delle risoluzioni del II Congresso dell’Internazionale comunista.

20. I partiti che intendono entrare ora nella Terza Internazionale ma che non hanno mutato radicalmente la propria tattica debbono provvedere, prima del loro ingresso nell’Internazionale comunista, affinché non meno di due terzi dei membri del loro Comitato centrale e di tutte le più importanti istituzioni centrali siano composti di compagni che, prima ancora del II Congresso dell’Internazionale comunista, si sono inequivocabilmente e pubblicamente pronunziati in favore dell’ingresso del partito nell’Internazionale comunista. Le eccezioni sono consentite dietro approvazione del Comitato esecutivo della Terza Internazionale. L’Esecutivo dell’Internazionale comunista ha il diritto di fare eccezioni anche per i rappresentanti della corrente centrista indicati al paragrafo 7.

21. Tutti i membri del partito che respingono fondamentalmente le condizioni e le norme poste dall’Internazionale comunista debbono essere espulsi dal partito stesso. Lo stesso vale naturalmente per i delegati al congresso straordinario.

Leitsätze und Statuten, pp. 25-30. 29


Note

1 Lenin, Discorso di apertura del congresso , in Opere Complete , vol. 28, Editori Riuniti, Roma 1967, pp.. 459-460. Segnalo che l’organizzazione politica “Piattaforma Comunista” ha digitalizzato le Opere complete di Lenin pubblicate dagli Editori Riuniti (Roma, 1954-1970), riversandole in un CD-ROM che può essere richiesto al seguente indirizzo di posta elettronica: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it..
2 La III Internazionale e il suo posto nella storia, in Lenin, Opere, vol. 29, p. 280.
3 Ibidem, p. 279.
4 Ibidem, p. 282.
5 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, in Lenin, Opere, vol. 28, pp. 113-114.
6 Le parole di Lenin rispecchiavano fedelmente la situazione della Russia rivoluzionaria in quella fase drammatica. Nel marzo 1918, a Brest-Litovsk, era stato raggiunto un accordo che concedeva ai tedeschi tutta l’Ucraina e vaste parti del territorio russo (una pace “vergognosa”, come riconobbe lo stesso Lenin); nella primavera del 1918 la destra social-rivoluzionaria diede vita a una campagna terroristica contro i bolscevichi, che culminò nell’uccisione dell’ambasciatore tedesco e in un fallito attentato allo stesso Lenin. All’interno, l’opposizione anti-bolscevica non solo era aggressiva, ma riscuoteva anche, a causa dei dissensi sulla politica agraria, l’appoggio di un settore crescente della popolazione. Sul piano internazionale, vi era poi l’avvio di una campagna di diretta aggressione da parte delle potenze dell’Intesa, che si prefiggeva non solo di annettere altri territori, facendo della Russia la nuova “Africa” del colonialismo europeo, ma anche e soprattutto di rovesciare un governo socialista che costituiva una minaccia per l’ordine interno di tutto il mondo capitalistico. Così, sbarchi di truppe alleate, fra cui anche un contingente italiano, si ebbero nell’estremo Nord (inglesi) e nell’Estremo Oriente (americani e giapponesi) della Russia. Contemporaneamente, truppe fedeli al governo provvisorio, o addirittura al vecchio regime zarista, quali quelle comandate dai generali Kolciak e Denikin, davano vita alla guerra civile, in particolare nella regione del Don e nel Sud del paese, mentre contro il potere bolscevico si mobilitava anche una resistenza armata di sinistra: gli anarchici di Makhno in Ucraina e i “verdi” del social-rivoluzionario Savinkov nell’area del Don.
7 Ai compagni comunisti che facevano parte del Partito comunista tedesco e che hanno ora costituito un nuovo partito, in Lenin, Opere, vol. 30, p. 72.
8 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 1, Einaudi, Torino 1967, p. 70.
9 Testo riprodotto in A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma 1974-1979, vol. I, t. 1, p. 75.
10 Rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentali dell’Internazionale Comunista in Lenin, Opere, vol. 31, p. 205.
11 Ibidem, p. 209.
12 Tesi per il II Congresso dell’Internazionale Comunista , in Lenin, Opere , vol. 31, pp. 186-187. Lenin denuncia con parole di fuoco lo stretto rapporto fra l’opportunismo riformista-centrista e i sindacati, che costituisce una importante base sociale e di massa dello Stato democratico-borghese: «I menscevichi dell’Occidente “si sono annidati” molto più stabilmente nei sindacati; in Occidente si è delineato – con molta più forza che da noi – uno strato di “aristocrazia operaia” corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo-borghese, di mentalità imperialistica, asservita e corrotta dall’imperialismo » (ibidem, p. 42). A tale proposito, mi permetto di rammentare che ho indagato il modo come si pone, in Marx ed in Engels, il tema del rapporto tra aristocrazia operaia e colonialismo nell’articolo Aporie della ‘dipendenza’ e ‘sviluppo ineguale’ tra Inghilterra, Irlanda e Russia , pubblicato su questo sito e reperibile al seguente indirizzo: https://www.sinistrainrete.info/estero/12948-eros-barone-aporie-della-dipendenza-e-sviluppo-ineguale-tra-inghilterra-irlanda-e-russia.html.
13 Lenin, Opere, vol. 21, p. 314.
14 Il programma militare della rivoluzione proletaria, in Lenin, Opere, vol. 23, p. 77.
15 Stato e rivoluzione, in Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 850.
16 Lettere da lontano, in Lenin, ibidem, pp. 701-711.
17 Ho esaminato la genesi di questa tematica cruciale, in nesso con la categoria engelsiana di rivoluzione di maggioranza, nel mio contributo sul Problema dello Stato e la strategia del movimento operaio nell’“ultimo Engels”, in Friedrich Engels (1820-1895) – Un esempio da seguire, un pensiero da usare, a cura di Claude Pottier, Atti del convegno nazionale di studi – Gallarate, 13 maggio 1995, Galli Thierry, Milano 1997, pp. 39-55.
18 Discorso in difesa della tattica dell’Internazionale Comunista, in Lenin, Opere, vol. 32, pp. 446-447.
19 Ibidem, p. 446.
20 L’estremismo, malattia infantile del comunismo, in Lenin, Opere, vol. 31, p. 40.
21 Ibidem, p. 46.
22 Ibidem, pp. 83-84.
23 Ibidem, pp. 63-64.
24 Rapporto sulla tattica del PCR, Lenin, Opere, vol. 32 cit., p. 457.
25 Lenin, Opere, vol. 31 cit., pp. 53-54.
26 Ibidem, p. 82.
27 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, in Lenin, Opere, vol. 28, p. 297.
28 A. Agosti, La Terza internazionale – Storia documentaria, vol. I, t. 1, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 58-68.
29 A. Agosti, Op. cit., pp. 285-291.

Comments

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Mario Galati
Saturday, 09 March 2019 18:24
Non vedo ciò che tu dici nella concezione di Eros Barone. Mi sembra una tua semplificazione arbitraria. Quanto al brano di Marx, cosa dimostra? Che Marx non aveva una teoria della rivoluzione all'interno della sua concezione? Non mi sembra proprio. Intanto, neppure Marx avrebbe ridotto questa sintesi generale a formula. Poi non avrebbe ridotto tutto il suo pensiero ad una formula. E, infine, anche questa "formula" contiene il necessario momento della maturazione soggettiva come effetto (e anche, a sua volta, come causa ed elemento reale) della maturazione oggettiva della struttura: "Ecco perchè l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perchè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”. Porsi il problema e cercare la soluzione implica tutto ciò che non può essere compreso nella comoda formuletta dell'avvicendamento "oggettivo", ossia automatico, tra modi di produzione. Questa mi sembra più una concezione religiosa, di una realtà che si autorealizza e nella quale gli uomini sono soltanto burattini, che scientifica. Neppure l'antistoricismo più estremo potrebbe sostenere questo fatalismo.
Questa concezione sedicente "oggettiva" apparteneva al positivismo evoluzionistico, e al riformismo, della II Internazionale, non al genuino marxismo. È la teoria della passività e dell'attendismo. Cioè, è una teoria che ostacola l'avvicendamento tra modi di produzione. È la teoria della disorganizzazione, dell'opportunismo e del disarmo. È antirivoluzionaria e, perciò, controrivoluzionaria.
Non mi sembra proprio la concezione di Gramsci, o di Labriola, o di Lenin. E non è per nulla la concezione di Marx ("Gli uomini fanno la storia", seppure in condizioni date e determinate). Marx era un determinista dialettico, non un fatalista.
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giancarlo
Saturday, 09 March 2019 15:20
Vedi Mario Galati io sono sorpreso che si continui a riproporre certe analisi come quella del Barone quando invece Marx nella prefazione alla critica dell’economia politica del 1859 sia stato molto chiaro sul trapasso fra una formazione sociale ad un altra. Vorrei sottolineare che Gramsci proprio basandosi su questa scritto di M. elaboró la filosofía della prassi. L’errore di Barone e di molti altri è di credere che la coscienza di classe sia omogenea a tutti i lavoratori dipendenti, i servi del capitale hanno saputo come manovrare per dividere le forze del loro nemico di classe. Ma l’errore più evidente dello scritto e che non viene mai considerato l’aspetto OGGETTIVO della situazione di scontro nella contingenza. Dovrei chiarire ulteriormente cosa intendo ma innanzitutto voglio lo richiamare lo scritto di M. “Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finchè non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perchè l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perchè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.”
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Mario Galati
Saturday, 09 March 2019 10:48
Certo, come dice giancarlo, le patate con le patate e le mele con le mele. Come logica formale e aritmetica quasi quasi ci siamo (ma neppure, in quanto si vuole istituire un confronto/lotta tra un modo di produzione che c'è, il capitalismo, e un modo di produzione che non c'è. il socialismo. Il che è un assurdo, se non si limita ciò a semplice metafora, tipo: il socialismo nascente che lotta con il capitalismo morente). Sul piano della dialettica storica, direi di no. E se non facciamo nostra questa cosa basilare, Marx ed Engels sono vissuti e hanno operato invano, visto che sono proprio loro a impostare la questione nel senso ritenuto assurdo dal commentatore.
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giancarlo
Friday, 08 March 2019 22:23
.. parte, il movimento reale del proletariato rivoluzionario è per sua natura internazionalista, poiché è l’espressione di una classe che abolisce un modo di produzione, quello capitalistico, che è a sua volta una forza internazionale. .. Ma come si fa a dire che una classe abolisce un modo di produzione? Non ho mai letto una simile connessione/confronto, le classi si confrontano con altre classi avversarie, e così i modi di produzioni con altri modi.
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