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L’unità della sinistra negli anni '90 e i problemi strategici dei comunisti oggi

di Luca Colamini

bertinotti cossutta 660x4002xUno dei traumi originari e dei fattori di crisi del movimento comunista italiano degli ultimi decenni è senza dubbio la partecipazione ai governi del centrosinistra. La travagliata esperienza e i risultati deludenti di quella fase hanno rappresentato un elemento decisivo nella progressiva erosione della base di consenso dei comunisti, e uno dei punti – se non il punto – di radicali divergenze strategiche e conseguenti scissioni.

Tracciare un bilancio di quegli anni e del decennio successivo è un’operazione complessa, che non può essere esaurita da un singolo intervento e richiede al contrario un lavoro di comprensione collettiva, necessario affinché coloro che sono impegnati nella riedificazione del movimento comunista in Italia siano partecipi di una ricostruzione condivisa della storia e delle alternative in campo – le quali, si vedrà, rappresentano ancora oggi opzioni tattiche e strategiche che esercitano una seduzione sull’area comunista. Per determinare una via diversa, di non facile individuazione e di impervia percorribilità, occorre necessariamente passare attraverso una conoscenza esatta delle vie dalle quali ci si vuole distanziare.

Si deve soprattutto evitare che nuove generazioni di comunisti familiarizzino con la teoria e la prassi comunista attraverso schemi ossificati – di destra, di sinistra, di centro – che hanno già clamorosamente fallito e sono corresponsabili della condizione di massimo arretramento storico in cui versa il movimento comunista italiano.

Il discorso vale a maggior ragione quando agli schemi di analisi e di azione ereditati si aggiunge l’elemento dell’appartenenza e della fedeltà, che spesso impedisce di affrontare in modo proficuo le contraddizioni irrisolte risalenti, come minimo, agli anni ’90 e le conseguenti divisioni. E non sarà certo il ricorso alla categoria liquidatoria e superficiale del “tradimento” a consentire ai comunisti di cogliere la complessità delle dinamiche e di sviluppare un valido antidoto alla ripetizione di pratiche inconcludenti o dannose.

Occorre invece immergersi nei documenti, nel contesto dell’epoca, nella dialettica concreta delle posizioni e nella complessità della loro articolazione, per ricostruire il quadro, individuare errori, trarre insegnamenti per il presente e per il futuro.

Non si tratta di un compito esauribile in un breve articolo, ma di un percorso di studio e di discussione che deve avere tempi distesi e non essere privo di uno spirito anche genuinamente storiografico, non separato da una tensione politica volta a elaborare valide strategie per la fase che attualmente ci riguarda. Il superamento della frammentazione tanto a livello politico quanto a livello sindacale non può che passare per la responsabile assunzione di questo compito di rielaborazione collettiva plurale, ma non piattamente pluralistica: lontana, cioè, da quel pluralismo “parlamentare” in cui i molti convivono giustapposti e si limitano a rappresentare sé stessi senza mai pervenire a integrazione; una dinamica del tutto sintonica con quella, opposta, di integrazione “monistica” coatta, verticistica e burocratica. Due atteggiamenti psichici e due modalità organizzative di cui è conclamato il carattere perdente.

Questo lavoro di rielaborazione dovrebbe, auspicabilmente, riguardare l’intera storia del movimento operaio, attraverso una tribuna di discussione permanente. Con questo contributo ci limitiamo invece ad avviarlo in riferimento alla storia recente del comunismo italiano, senza pretese – anche su questo terreno più circoscritto – di esaustività e completezza, e tuttavia con la speranza di fornire punti di discussione utili al rilancio della questione comunista.

 

  1. Una vicenda paradigmatica: il Movimento dei Comunisti Unitari

Quando si pensa alle molteplici scissioni che hanno attraversato il Prc nel corso della sua storia, si risale quasi sempre alla scissione “governista” di Cossutta, che nel 1998 scelse la via della continuità dell’esperienza del centrosinistra, dando appoggio alla nascita del governo D’Alema. Qualche anno prima, però, vi fu una scissione meno frequentemente ricordata, prodotta nel giugno del 1995 da parlamentari e dirigenti di varia provenienza, tra cui esponenti di primo livello dell’ala “ingraiana”, animatrice del manifesto e poi del PdUP (Luciana Castellina, Lucio Magri e altri).

L’occasione, i punti e le ragioni di quella scissione sono rilevanti, tanto per la storia del movimento comunista italiano quanto per le questioni strategiche odierne, perché esibiscono in forma paradigmatica quel rapporto dilemmatico con la partecipazione ai governi borghesi che ha caratterizzato fin dall’inizio i comunisti “sopravvissuti” alla svolta della Bolognina e ha continuato anche nei decenni successivi a condizionarne la teoria e la prassi.

La crisi del ‘95 rappresenta il primo caso in cui la questione del governo e del centrosinistra da un lato, e la questione del contrasto alle destre dall’altro, determinano una divisione strategica e una separazione organizzativa nel campo comunista degli anni ’90. Dopo il II Congresso del 1993, infatti, il Partito della Rifondazione Comunista si era posizionato senza rilevanti lacerazioni sulla linea di “unità e alternativa”: unità del fronte dei Progressisti e delle sinistre, finalizzato all’alternativa di governo. La sconfitta elettorale del ’94, la caduta del primo governo Berlusconi e l’avvento del governo Dini cambiarono le cose. L’appoggio del Pds al governo, cui Rifondazione invece si oppose chiedendo elezioni immediate, incrinava la linea strategica di unità d’azione dei comunisti con il Pds. Quando nel marzo del 1995 il governo pose la questione di fiducia sulla manovra finanziaria correttiva, un gruppo di senatori dissidenti del Prc votò a favore, risultando decisivo per l’approvazione della manovra. Nacque, tra mediazioni fallite e calunnie incrociate (“Vermi solitari” fu il titolo di Liberazione all’indomani del voto di fiducia), il Movimento dei Comunisti Unitari. Anche Rifondazione, tuttavia, avrebbe presto riparato su un prudente “patto di desistenza” con l’Ulivo e sulla tattica di un conseguente appoggio esterno al primo governo Prodi. Dini no, Prodi si: così la mozione Bertinotti-Cossutta per il III Congresso riconfermava, nel mutato quadro della vittoria elettorale del centrosinistra, le conclusioni del congresso precedente: “influenzare l’esperienza del governo Prodi affinché il paese possa vivere un nuovo corso riformatore”.

 

  1. Quattro obiezioni degli “unitari” all’autonomia dei comunisti

È opportuno, per avviare questa discussione storico-strategica sulle posizioni “unitarie” e per impostarne una critica, partire da alcuni passaggi delle riflessioni condotte in quel periodo da Lucio Magri: uno degli animatori ideologici principali della scissione, che esemplifica per così dire la forma aulica dell’errore strategico – che non di rado ha assunto invece tinte ben più prosaiche – compiuto sia nella problematizzazione che nella promozione dell’organicità dei comunisti al centrosinistra.

Il sostegno al governo Dini, e in generale la necessità della partecipazione dei comunisti al “governo” venivano giustificati anzitutto con la tesi secondo cui sussistono “rapporti di forza in Italia e nel mondo, che non solo rendono impensabili rotture immediate e radicali, ma impediscono al movimento di massa nuove conquiste e anche solo un’efficace resistenza ove non si riesca a produrre una svolta politica e ad usare anche gli strumenti di governo”. Così Magri in una nota di commento a caldo sui dissensi interni a Rifondazione nel 1995.

In quest’ottica, “usare gli strumenti di governo”, lungi dall’essere una formula neutra, significava farsi trainare al governo da un più ampio e potente partito socialdemocratico, nel quadro di un’alleanza con forze cristiano-popolari e liberali,

pena l’isolamento, la segregazione, l’impossibilità di incidere. All’obiezione classica del “settarismo”, formulata esplicitamente nella lettera del 14 giugno 1995 con cui i dirigenti e i parlamentari dissidenti sancivano la loro uscita dal partito, si aggiungeva dunque l’obiezione, altrettanto classica, dei “rapporti di forza sfavorevoli”.

La terza obiezione, anch’essa assai familiare, puntava invece sulla consueta minacciosità delle destre, che rendeva inevitabili le alleanze con le forze borghesi. Così Magri, in una relazione pronunciata durante un’assemblea dell’area unitaria al Frentani, sempre nel 1995:“La nuova destra costituisce una novità radicale e minacciosa nella linea delle classi dominanti, […] perciò impone, e insieme consente, la costruzione di alleanze e convergenze”. Convergenze da ricercare, inoltre, non nella forma del mero cartello elettorale, praticato anche da Rifondazione comunista, bensì in quella dell’alleanza organica.

Dinanzi a una socialdemocrazia che già inseguiva ostinatamente il centro e a una formazione comunista che sceglieva (invero con una volontà non particolarmente salda) l’isolamento di principio, Magri vedeva contrarsi irrimediabilmente lo spazio di una sinistra capace di governare lo sviluppo capitalistico in una maniera più razionale di quella proposta dalla destra. Più razionale, si badi, tanto dal punto di vista dei lavoratori, quanto e soprattutto dal punto di vista del capitale: l’utopia di un capitalismo gestito e domato da sinistra, da un lato in modo più efficiente e produttivo, dall’altro con maggiore equità e con minori costi sociali. La percorribilità di questa strada si scontrava a nostro giudizio, e continua a scontrarsi nelle attuali versioni riformiste della sinistra radicale, con almeno due ostacoli: come armonizzare, da posizioni di governo, interessi di classe contrapposti, senza predisporsi a co-gestire il sacrificio della propria classe di riferimento sull’altare del governo – e del profitto capitalistico? Come conciliare il ruolo di governo con il ruolo di direzione nel conflitto di classe, senza rinunciare a una delle due funzioni – cioè alla seconda?

Contraddizioni non risolvibili, se “governo” rimane sinonimo di coalizione con le forze borghesi, anche soltanto con una socialdemocrazia gravemente compromessa con gli obiettivi di riproduzione del capitalismo.

Le riflessioni di Magri, condotte in quella fase da una posizione opportunistica e “governista” di destra, colgono invece nel segno nell’individuare, proprio in riferimento al tema del governo, alcune delle tendenze opportunistiche “di sinistra” presenti nella linea maggioritaria della Rifondazione dell’epoca e alcuni dei limiti strutturali teorici e pratici che ne hanno pregiudicato il decorso:

“La responsabilità di questo stato di cose, in Italia e in Occidente, deve essere anzitutto attribuita alla crisi di identità, alla omologazione culturale, alle genericità programmatiche della sinistra moderata e sempre più moderata. […] Ma siamo altrettanto convinti – ecco il punto – che il problema non si risolve, anzi si contribuisce ad aggravarlo, se agli errori della sinistra moderata si oppone una linea che riproduce, impoveriti, indirizzi presenti nella nuova sinistra degli anni ’70”.

Se nella prospettiva dei comunisti unitari “governo” diviene colpevolmente sinonimo di “governo borghese”, nella prospettiva dei comunisti “autonomi” l’opposizione al governo borghese finisce per degradare in rifiuto del governo in generale, o meglio nell’abbandono – divenuto via via più esplicito, a dire il vero, già nelle elaborazioni del P.C.I. del dopoguerra – della stessa prospettiva storica della conquista e dell’esercizio del potere, collocando i comunisti su una infantile posizione soltanto rivendicativa e imperniata sulla redistribuzione.

Le scelte di posizionamento parlamentare operate da Magri non erano il frutto di considerazioni meramente “politiciste”, ma pretendevano di fondarsi su un’analisi della crisi capitalistica e della composizione di classe. In questo quadro, prendeva corpo una quarta obiezione all’autonomia dei comunisti, che chiameremo “sociologica”. L’idea di una “autorganizzazione dell’antagonismo”, di una capacità immediatamente conflittuale e anticapitalistica del “nuovo proletariato” costituiva secondo Magri “l’errore totale” di Rifondazione. “Una moderna critica alla società capitalistica – scriveva Magri – può avere come soggetto reale solo l’unificazione tra questo universo sociale ed altre figure in cui il lavoro si è scisso, quelle dell’intelligenza collettiva e dell’intrapresa individuale. Ed ha dunque come mai nel passato bisogno di mediazione politica, di educazione di massa, di obiettivi intermedi e di governo”.

Oltre al rischio dell’isolamento, oltre ai rapporti di forza sfavorevoli, oltre al pericolo dell’avanzata delle destre, per i “comunisti unitari” sono anche il mutamento e la frammentazione della classe a rendere inevitabile l’adesione ai governi di coalizione con i partiti socialdemocratici e liberali e a escludere l’autonomia dei comunisti. Come le “obiezioni” precedenti, tuttavia, anche questa si basa su un’equazione indebita. La mutata composizione del soggetto sociale, la sua frammentazione in una pluralità di figure e frazioni, richiede, è vero, un poderoso sforzo di mediazione. Magri non ha certo torto nel criticare l’inefficacia delle tendenze spontaneistiche e nel designarle come strategie politiche inadeguate di fronte alla crescente complessità sociale;

ha però torto nel far coincidere la mediazione sociale, culturale, ideologica e organizzativa, di cui devono sempre farsi carico i comunisti al fine di convogliare le energie sociali verso obiettivi di lotta e di esercizio del potere politico, con la mediazione politica esercitata dal governo borghese nei confronti del pluralismo delle istanze sociali – mediazione che, al netto delle concessioni strappate dal movimento operaio, si compie sempre nel segno del dominio degli interessi di classe della borghesia.

 

  1. Il legame organico tra sinistra e capitale

Quale fosse il contenuto effettivo della prospettiva dell’unità della sinistra lo si può saggiare se dal “cielo” di Lucio Magri si scende sulla “terra” di Famiano Crucianelli, coordinatore nazionale dei Comunisti Unitari dal 1995 al 1998. Così recitava un suo intervento del 1998 agli “Stati generali della sinistra”:

“I comunisti italiani sono stati essenziali anche nei processi di modernizzazione del paese quando con le vertenze sindacali hanno politiche industriali e produttive più avanzate di quelle della Confindustria e quando hanno contribuito all’affermazione di un principio fondamentale come la coesione sociale. Utile ieri, preziosa oggi per il risanamento del Paese […]. Siamo orgogliosi del governo, del miracolo finanziario italiano e del risanamento pubblico […] Non è qui in discussione la politica di risanamento finanziario, non si tratta invertendo l’ordine del calendario, dopo la quaresima di iniziare il carnevale, ma di comprendere che siamo dentro un’emergenza sociale e che oggi la via del risanamento non passa più soltanto per la riduzione del deficit, o dell’aumento, ancor più, dell’avanzo primario, ma passa fondamentalmente per il rilancio dell’economia, per l’aumento del PIL e attraverso politiche del lavoro”.

L’assunzione dell’obiettivo conservatore della coesione sociale e del “rilancio dell’economia”, e il feticismo dell’avanzo primario: due elementi di per sé ben poco comunisti, e per giunta in aperta contraddizione tra loro, vista la connessione causale tra austerità, recessione e disagio sociale che avrebbe segnato i decenni successivi.

Prosegue Crucianelli: “Alla sinistra ancora una volta spetta un compito storico, la civilizzazione di questa moderna e straordinaria rivoluzione capitalistica, una partita che […] ha come logica premessa l’unità delle forze di sinistra e democratiche. Questa sfida riguarda tutti, e se la sinistra le affronta con spirito scissionista non solo prepara la sconfitta ma rischia il deperimento organico, la sua emarginazione storica”. Civilizzare la dinamica capitalistica, unendo le forze di sinistra e democratiche, pena la marginalizzazione storica.

Possiamo sommessamente constatare come la marginalizzazione storica sia avvenuta nonostante la strategia unitaria e l’obiettivo di ammorbidire il capitalismo, promossi da Crucianelli. E come, per converso, il capitalismo si sia tutt’altro che “civilizzato”.

Ma non basta. Colto da entusiasmo mistico, Crucianelli teorizza e rivendica un legame organico tra sinistra e capitale, in cui il capitale figura come committente, e la sinistra come ditta appaltatrice: “La sinistra è al governo perché sul finire degli anni ’80 la destra, quella che alzò le bandiere della rivoluzione Reaganiana e Thatcheriana ha dimostrato tutta la sua impotenza nel governare le nuove contraddizioni. Tutti dai poteri forti, alle moderne classi intermedie ai più deboli si sono affidati alla sinistra. I primi perché nella sinistra hanno colto una vocazione naturale a governare società complesse, la sua affinità con la modernità. I secondi perché sperano di essere più tutelati”.

La sinistra sinonimo di modernità ha accettato l’investitura delle classi dominanti come garante dei loro interessi, ha accettato l’equazione tra modernità come orizzonte valoriale e sociale progressivo e gli obiettivi particolari e aggressivi della modernizzazione capitalistica.

Sappiamo quale è stata, in seguito a questi processi, la sorte della sempre invocata “tutela” dei “più deboli”.

 

  1. Comunisti e governo: analizzare il capitalismo, sovvertire il modo di produzione

Conosciamo la storia ingloriosa della compartecipazione dei comunisti alla gestione del potere capitalistico. I tentativi di “civilizzazione” del capitale, l’adesione ai dogmi delle privatizzazioni e dell’avanzo primario, il generico richiamo alle insostenibili diseguaglianze. Conosciamo anche le difficoltà teoriche e l’inefficacia pratica della Rifondazione nella fase dell’autonomia dal centrosinistra (praticata almeno sul terreno nazionale). Autonomia interrotta dalla breve parentesi del secondo governo Prodi, e poi ripristinata a partire dalle elezioni del 2008. Ripristinata, tuttavia, non nella forma dell’autonomia dei comunisti, bensì in quella dell’unità delle sinistre. Cioè, in sostanza, la stessa linea del 1993, solo in scala ridotta. Dati per persi i Ds e poi il Partito democratico, il Prc si è attestato su una linea di unità delle forze antiliberiste e critiche della globalizzazione. Con un’annessa diluizione – o addirittura occultamento – dell’identità comunista nelle varie, fallimentari esperienze di coalizione. Ma qual è, in concreto e al di là dei suoi aspetti esteriori ed estetici, l’identità comunista, o meglio la differenza rappresentata dei comunisti?

Non si può fondatamente rompere l’unità elettorale con le sinistre se non si rompe politicamente con i contenuti e con le opzioni strategiche che hanno determinato il fallimento delle prospettive unitarie, da quelle in grande stile degli anni ’90 alle ridotte degli anni ’10 del nuovo millennio.

Proviamo dunque a formulare alcuni punti, più di “metodo” che di programma, o meglio più di quadro che di dettaglio.

Ciò da cui occorre in primo luogo prendere congedo è l’attestarsi della sinistra su posizioni di mero egualitarismo distributivo e di difesa generica dei diritti e del tenore di vita dei lavoratori, o sulle variopinte richieste di sostegno al reddito; e sulla formulazione di questi punti come “richieste”, petizioni inoltrate da un soggetto in stato di minorità, impotenza e bisogno, a un soggetto che gestisce il potere e che dinanzi alle domande sociali allenta o restringe l’offerta attraverso pratiche di governo.

Se i comunisti si limitano alle petizioni (o anche alle lotte) di natura redistributiva non si distinguono – se non per la maggiore coerenza e radicalità – dalle sinistre radicali e dalle sinistre di governo (le quali ultime si sono presentate come agenti dell’austerità responsabile, senza tuttavia abbandonare il richiamo alla giustizia sociale perequativa nelle dichiarazioni di principio). Lottare contro le disuguaglianze è necessario, ma non sufficiente.

Ciò che identifica i comunisti è infatti la lotta per il controllo della produzione: del suo contenuto, della sua quantità e della sua qualità. Che cosa si produce, quanto si produce, come lo si produce – con quali metodi e processi, quali costi sociali, umani, ambientali; con quali scopi, in risposta a quali bisogni.

Urge porre mano in maniera concreta a simili questioni, evitando di limitarsi alle dichiarazioni di principio, per quanto ortodosse e altisonanti. Definendo e illustrando adeguatamente anche i passaggi attraverso cui si prevede di realizzare il progresso verso un regime di proprietà comune dei mezzi di produzione in riferimento al contesto storico-geografico ed economico-sociale determinato.

Ciò che distingue i comunisti è inoltre il lavoro per costituire il proletariato in classe: non solo in classe cosciente di sé e contrapposta alla classe capitalista, ma anche in classe egemone e dirigente del futuro stato dei lavoratori orientato al superamento del capitalismo. Ciò implica una conoscenza e un’interpretazione adeguata dell’economia nazionale, continentale e globale, e delle alternative di politica economica da adoperare da un lato come piattaforme di lotta, dall’altro come linee d’azione per il mutamento di sistema, una volta conseguito il controllo delle leve di governo. Una conoscenza del tessuto produttivo nazionale e dei suoi nessi di interdipendenza, da un lato con la dimensione finanziaria, dall’altro con le catene transnazionali della produzione. A questo deve connettersi una ricognizione e una capacità di coordinamento dei problemi, delle vertenze e delle iniziative dei lavoratori nelle realtà produttive e nei territori.

Il solo punto di vista delle unità di base, dei lavoratori, non è sufficiente, ed è il correlato analitico della strategia della richiesta redistributiva su cui la sinistra si è avviluppata per decenni. Occorre affiancarvi il punto di vista analitico della produzione e dell’economia nazionale (e internazionale), al quale sul piano strategico corrisponde il punto di vista del governo e della direzione. Le due prospettive, l’alto e il basso, devono alimentarsi a vicenda in un dettagliato programma di ridiscussione e reindirizzo ella produzione, e di ampliamento dei margini di controllo democratico esercitato dai lavoratori sulla produzione: dalla determinazione dei suoi indirizzi generali, al rimodellamento dei processi di lavoro, dei turni, delle pause, delle ferie, dei livelli salariali, dei dispositivi welfaristici.

I lavoratori devono elevarsi, attraverso l’organizzazione e il partito, sino al punto di vista del potere, ossia del governo generale della società. Non attraverso proclami, ma con un piano d’azione dettagliato, attorno al quale è necessario chiamare a raccolta tutte le intelligenze e le forze disponibili.

La “sinistra di governo” ha creduto di dover assumere su di sé il compito dello sviluppo di un nuovo capitalismo, e si è illusa, in buona o in cattiva fede, di poter integrare gli interessi operai all’interno della ristrutturazione condotta dal capitalismo. Se il “governo”, come si è visto nella precedente ricostruzione storica, ha significato tanto per i suoi fautori quanto per i suoi oppositori invariabilmente “governo borghese”, “governo” deve invece significare esercizio del potere politico di direzione e amministrazione della società da parte della classe lavoratrice. Non lo spegnimento delle istanze dei lavoratori da parte di una “sinistra di governo” che ha assunto gli obiettivi propri del capitale.

L’assunzione di una prospettiva di governo non deve mai più significare abbandono dell’obiettivo e della prassi anticapitalista, come è stato invece nel caso, sopra illustrato, dei “comunisti unitari”. E tuttavia vale anche – e per noi oggi, ai fini di un salto di qualità teorico e organizzativo dei comunisti, vale soprattutto – il converso:

ferma restando l’opposizione alle alleanze con le forze borghesi e il rifiuto di una concezione di “governo” come compartecipazione alla gestione del potere capitalistico, il mantenimento della coerenza anticapitalista non può e non deve più significare l’incapacità assoluta di assumere la prospettiva del governo della società, e il rifiuto dell’onere di una complessità analitica e strategica adeguata al compito.

Ma come evitare, parimenti, che la presa di congedo dalle impostazioni errate della sinistra radicale e della sinistra di governo scivoli da un lato nel settarismo ingiustificato, dall’altro nel velleitarismo massimalista roboante e privo di qualunque presa sulla realtà? Come non risultare rinunciatari, e al tempo stesso non grotteschi né caricaturali? Una rapida verifica e un elementare esame di realtà evidenziano immediatamente la sproporzione tra i compiti enunciati e le possibilità reali. Ciò sarebbe vero anche qualora si producesse una (oggi mancante) illustrazione organica, articolata nei minimi dettagli, tanto degli obiettivi di lotta, quanto delle politiche economiche della futura repubblica socialista d’Italia. Ed è a maggior ragione vero rispetto agli attuali generici proclami rivoluzionari. Più decresce il peso sociale ed elettorale dei comunisti, più si accentua il profilo retorico – e si irrigidiscono gli steccati tra le diverse organizzazioni della diaspora.

Quale può dunque essere, tenuto conto delle riflessioni sin qui condotte, un programma percorribile, di qui ai prossimi anni, di agitazione e di crescita del movimento comunista, di ampliamento della sua base di consenso e delle sue capacità di intervento nella società? Come dar vita a una forza seria, credibile, utile? Quali temi, quali istanze, quali obiettivi mettere al centro?

Se da un lato, coerentemente con la migliore teoria e prassi comunista, lo scopo finale del socialismo-comunismo deve sempre essere indicato, e mentre in ogni azione e in ogni discorso parziale e settoriale deve figurare, o almeno trasparire, un legame con la prospettiva più ampia del superamento del modo di produzione capitalistico, dall’altro è del tutto inutile e deleterio ridurre la propria azione politica al solo sbandieramento dell’obiettivo storico finale, che risulta per giunta tanto più sproporzionato rispetto alle attuali forze e alle attuali capacità egemoniche e direttive della classe e delle sue organizzazioni. Che effetto può avere, se non quello della paralisi e del discredito, porre non come prospettive di fondo ma come precondizioni per l’azione politica, e in ogni caso come unici o principali punti dell’agitazione e della lotta di un’organizzazione comunista, macro-obiettivi che attualmente appaiono ai lavoratori come non conseguibili per mano dei comunisti?

Occorre evitare, lo si è detto, di presentare ai lavoratori come unico orizzonte di possibilità quello di un moderato miglioramento delle proprie condizioni di vita attraverso una redistribuzione della ricchezza: metodo che favorisce l’immiserimento economicistico dell’azione politica. Ma occorre allo stesso modo evitare di affrontare col solo strumento dell’ideologia e degli obiettivi finali le questioni parziali, che richiedono invece analisi concrete delle situazioni concrete, condotte a un livello di profondità teorica e di connessione “sentimentale” e comunicativa che risulti vincente rispetto alle posizioni concorrenti che occupano il campo. Occorre superare, in altri termini, una tendenza che ancora troppo spesso frena il lavoro dei comunisti: la tendenza a saltare il faticoso lavoro di ricerca, elaborazione e assemblaggio richiesto dalla “agitazione”, ricorrendo sistematicamente e fuori del contesto opportuno alla “propaganda”.

Non è ulteriormente prorogabile, per i comunisti in Italia, la definizione di un programma di lotta capace di evitare tanto gli errori del moderatismo riformista, quanto la disconnessione dalla realtà e il velleitarismo dell’ortodossia ridotta a professione nominale e a fraseologia rituale.

Articolare gli elementi specifici di questo programma è necessario tanto per la ricomposizione della classe, quanto per il suo esercizio di egemonia sociale e politica, dato che le frazioni di classe contigue, già per natura sensibili al traino della borghesia, difficilmente affidano il proprio futuro e investono il proprio capitale di consenso in “imprese” politiche comuniste, e tantomeno se queste ultime non dimostrano di avere piedi per terra e idee chiare.

Relegati ai margini da un’epocale sconfitta storica e da un avanzamento senza precedenti della controrivoluzione negli ultimi decenni, continueremo a essere perdenti in eterno se non sapremo diventare sufficientemente e definitivamente seri, se non spazzeremo via dalle nostre fila ogni subalternità agli obiettivi di classe della borghesia, ma anche ogni compiacimento estetico e retorico per formule non attinenti alla realtà e alla concretezza tattica e strategica.

Occorre emergere imperiosamente dalle vicende minute che hanno cristallizzato la situazione disastrosa di questi anni, e dedicare ogni sforzo ad approntare un’analisi del capitalismo all’altezza dei tempi e la definizione di un programma concreto di cambiamento della società. Questi compiti devono occupare a tempo pieno le energie dei comunisti e sono il terreno esclusivo su cui deve essere ricercata e praticata la loro unità.

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