Print Friendly, PDF & Email

la citta futura

Il Komintern e il fascismo

di Salvatore Tinè

Parte I

In questa prima parte dell’analisi sull’atteggiamento dell’Internazionale Comunista riguardo al fenomeno fascista, si mette in evidenza come il Komintern abbia rilevato fin dalla marcia su Roma la pericolosità del fascismo e il suo carattere internazionale in quanto espressione della crisi mondiale del capitale, e abbia individuato nella tattica del fronte unico la modalità per combatterlo

bbd44809af8bd382d98a1c38fe25dd14 XLIl tema del fascismo, delle sue cause e della sua natura, è al centro della discussione politica e dell’elaborazione strategica del Komintern già a partire dal suo IV Congresso apertosi a Pietroburgo il 5 novembre del 1922, pochi giorni dopo la marcia su Roma. Non sfugge al gruppo dirigente del “partito mondiale della rivoluzione” la dimensione internazionale degli avvenimenti italiani, il loro riflettere un contesto di generale controffensiva capitalistica che sembra rallentare i ritmi e i tempi del processo rivoluzionario innescato in Europa centrale e occidentale dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Di fronte alla sfida lanciata dalla prima rivoluzione operaia vittoriosa della storia, e nonostante l’estrema gravità della crisi economica e sociale seguita allo sfacelo della guerra imperialista, le classi dominanti del mondo capitalistico dimostrano di possedere ancora una forte capacità di resistenza e di tenuta politica e organizzativa. Il fascismo è una delle forme politiche che assume la controffensiva e la reazione borghesi. Di fronte a esse i comunisti sono chiamati proprio mentre si costituiscono come tali su basi totalmente rinnovate rispetto alle vecchie tradizioni del socialismo della II Internazionale, a muoversi e agire anche sul terreno della politica unitaria, sia per accumulare e unificare le forze rivoluzionarie che per conquistare la maggioranza del proletariato e una parte delle stesse masse popolari.

Perciò la tattica del fronte unico elaborata al III Congresso trova al IV Congresso la sua concreta espressione programmatica e politica nella parola d’ordine del “governo operaio”. Non più limitata alla sola iniziativa “dal basso” sul terreno sindacale, la politica di fronte unico del Komintern non esclude la possibilità e in taluni casi la necessità di una intesa unitaria con gli stessi partiti socialdemocratici anche attraverso l’appoggio o la partecipazione a governi operai in varie forme in grado di sconfiggere e disarmare militarmente e politicamente le forze apertamente reazionarie e controrivoluzionarie della borghesia e di aprire così la strada alla conquista del potere da parte del proletariato.

Il gruppo dirigente del Komintern non tarda a individuare proprio nel fascismo una delle forme principali e più pericolose nelle quali avanzano la controffensiva e la reazione borghesi. A esso non è tuttavia chiaro se tale forma sia destinata a diventare quella più importante e prevalente in almeno alcuni dei principali paesi europei o se essa si alternerà e si combinerà in vari modi con soluzioni di tipo democratico e pacifico della crisi generale del dominio capitalistico. Così riferendosi all’avvento al potere del fascismo in Italia, il presidente dell’Internazionale, Zinov’ev affermava: “Adesso si discute tra i compagni italiani per sapere ciò che succede attualmente in Italia: un colpo di Stato o una commedia. Può essere le due cose insieme. Dal punto di vista storico è una commedia. In qualche mese la situazione tornerà a vantaggio della classe operaia, per il momento è un colpo di Stato serio, una vera controrivoluzione”. Pur ribadendo il giudizio sul carattere storico-epocale della crisi del capitalismo non sfuggiva a Zinov’ev l’immediata gravità della marcia su Roma, il suo oggettivo carattere di vittoria politica della controrivoluzione, appena attenuata dall’affermazione che essa non avrebbe necessariamente impedito perfino nel breve periodo una ripresa della classe operaia e delle sue potenzialità rivoluzionarie. Tale gravità era espressa in termini ancora più espliciti e drammatici nella relazione di Radek, nel contesto di una critica severa dell’impreparazione e dei limiti che avevano caratterizzato l’azione politica antifascista e rivoluzionaria dell’intero movimento operaio italiano, compresa la sua componente comunista. Di fronte alla tremenda sconfitta della classe operaia e delle sue avanguardie rivoluzionarie segnata dall’avanzata della reazione fascista, Radek sembrava spingersi fino a delineare un passaggio di fase pur all’interno di un periodo che continuava a essere definito come quello della crisi finale del capitalismo e della transizione al socialismo a scala mondiale. “Nella vittoria del fascismo” affermava Radek “io non vedo solo il trionfo meccanico delle armi fasciste; io vedo la più grande disfatta che abbiano subito dopo l’inizio del periodo della rivoluzione mondiale il socialismo e il comunismo; una disfatta più grande di quella dell’Ungheria soviettista, poiché la vittoria del fascismo è una conseguenza del fallimento morale e politico momentaneo del socialismo e di tutto il movimento operaio italiano.”

Sottolineando come la vittoria di Mussolini e del suo movimento non fosse stata ottenuta soltanto attraverso l’uso della violenza armata, Radek richiamava l’attenzione sulla base sociale del fascismo e sulla straordinaria capacità di mobilitazione di massa della piccola e della media borghesia che esso aveva saputo dispiegare in uno scontro con i partiti e le organizzazioni del movimento operaio teso al loro isolamento politico e insieme alla loro soppressione violenta. Se la vittoria militare era stata resa possibile dall’aperto sostegno del grande capitale finanziario e dei grandi agrari, costretti nella crisi a difendere e consolidare il loro potere anche attraverso il ricorso alla violenza e al terrore fascisti, la vittoria politica era invece avvenuta per l’appoggio e il sostegno di massa che il fascismo aveva ottenuto in ampi strati del ceto medio. Il fallimento del socialismo italiano e gli stessi limiti dei comunisti avevano infatti favorito lo spostamento di tali strati nel campo della reazione nell’illusione che il fascismo avrebbe potuto costituire una forza politica in grado di rappresentarne e organizzarne gli interessi e le aspirazioni in modo autonomo. Di qui l’indicazione della necessità di un’azione politica sul terreno di una lotta di massa contro la reazione capitalistica come momento fondamentale della tattica del fronte unico politico e non solo sindacale elaborata al III Congresso del 1921: “in effetti la lotta contro il fascismo” affermava Radek “esige non solo la creazione di un’organizzazione illegale, esige non solo il coraggio che caratterizza il comunismo italiano; essa richiede anche una superiorità politica. Solo quando i comunisti saranno capaci di dare alle masse … malgrado tutto quello che hanno subito una fede nuova nella forza vittoriosa del socialismo, essi potranno riprendere la lotta contro il fascismo”.

Nella contraddizione tra la sua natura di strumento della controrivoluzione borghese e la sua base sociale piccolo-borghese, Radek individuava l’elemento di debolezza del nuovo partito reazionario guidato da Mussolini. Secondo il dirigente bolscevico tale contraddizione era destinata ad acutizzarsi proprio in seguito alla conquista del potere da parte del movimento delle camicie nere. Ne scaturiva la necessità di una iniziativa politica e di massa dei comunisti e di tutto il movimento proletario in senso antifascista volta a conquistare non soltanto la maggioranza della classe operaia ma anche il consenso o almeno la neutralità di alcuni settori dei ceti medi in vario modo colpiti dalla crisi o proletarizzati da essa. “I fascisti rappresentano la piccola borghesia andata al potere grazie all’appoggio della borghesia; essi saranno costretti da lei ad eseguire non già il programma della piccola borghesia ma quella del capitalismo.”

L’analisi di Radek coincide in alcuni punti con quella di Gramsci. Quest’ultimo in alcuni articoli su “L’Ordine nuovo” nel 1921 dedicati all’analisi del movimento mussoliniano, aveva lucidamente individuato nella mobilitazione e negli spostamenti delle classi medie non soltanto un momento fondamentale dei processi di crisi generale del capitalismo innescati dalla guerra imperialistica ma anche uno dei terreni su cui si sarebbe dispiegata l’offensiva controrivoluzionaria del capitale nelle forme della violenza e del terrorismo di Stato. Le analisi di Gramsci del fascismo italiano avevano in questo senso fissato alcuni elementi per la determinazione del suo carattere internazionale. “Cos’è il fascismo, osservato su scala internazionale?” aveva scritto in un articolo pubblicato su “L’Ordine nuovo” l’11 marzo 1921 “È il tentativo di risolvere i problemi di produzione e di scambio con le mitragliatrici e le rivolverate. Le forze produttive sono state rovinate e sperperate nella guerra imperialista … Si è creata un’unità e simultaneità di crisi nazionali che rende appunto asprissima e irremovibile la crisi generale. Ma esiste uno strato della popolazione in tutti i paesi – la piccola e media borghesia – che ritiene di poter risolvere questi problemi giganteschi con le mitragliatrici e le rivolverate, e questo strato alimenta il fascismo, dà gli effettivi al fascismo.” In un articolo su “L’Ordine nuovo” dell’11 giugno 1921, Gramsci sottolineava non a caso la capacità di mobilitazione di massa del movimento fascista e la sua duplice natura, insieme militare e politica. Alla complicità e il sostegno da parte delle istituzioni del vecchio stato liberale si accompagnava anche un rafforzamento degli elementi di compattezza e di gerarchia militare del movimento delle camicie nere, di fatto espressione di una forza e di una sia pure relativa autonomia politica. “I fascisti” scriveva Gramsci “posseggono disseminati in tutto il territorio nazionale, depositi di armi e munizioni in quantità tale da essere almeno sufficiente per costituire un’armata di mezzo milioni di uomini. I fascisti hanno organizzato un sistema gerarchico di tipo militare che trova il suo naturale ed organico coronamento nello Stato maggiore.” In questo senso il fascismo era per Gramsci un’espressione della crisi dell’ordine capitalistico, un aspetto della sua fatale decomposizione ma anche un tentativo di riorganizzare in forme politiche e organizzative nuove e in larga parte inedite le basi di massa e di consenso del potere e dello Stato borghesi, sebbene in un sostanziale rapporto di compromesso più che di organica fusione con i vecchi ceti dirigenti liberali.

Su questo intreccio tra crisi generale e parziale riorganizzazione del dominio capitalistico non mancava di richiamare l’attenzione Amedeo Bordiga nel rapporto sul fascismo tenuto al IV Congresso del Komintern riprendendo ma anche sviluppando alcuni temi della relazione di Radek che abbiamo prima richiamato. Come Gramsci, anche Bordiga individuava nell’organizzazione politico-militare del movimento fascista una delle sue principali novità: “la sua superiorità e la sua caratteristica distintiva consistono interamente nella sua organizzazione, nella sua disciplina e nella sua gerarchia”. Certo, secondo Bordiga, “quanto all’ideologia e al tradizionale programma della politica borghese” il fascismo “non ha apportato nulla di nuovo”, dato che il carattere generale e strutturale della crisi capitalistica non consentiva una effettiva riorganizzazione dell’apparato statale borghese ponendo piuttosto nuove possibilità di una ripresa rivoluzionaria, perfino nel breve periodo. Tuttavia ciò non toglieva che esso avesse avviato un processo di radicale riorganizzazione e unificazione politica delle varie frazioni del grande capitale finanziario nel suo complesso in modi e forme diversi da quelli del vecchio parlamentarismo e professionismo politico privi in Italia di partiti solidi e strutturati. Così, proprio mentre la crisi economica generale veniva mostrando le conseguenze catastrofiche dell’anarchia della produzione e del mercato capitalistici, il fascismo, almeno nella sua versione italiana, riusciva a superare almeno “l’anarchia politica” della borghesia: “gli strati della classe dominante avevano tradizionalmente formato raggruppamenti politici e parlamentari, che non poggiavano su partiti saldamente organizzati e si combattevano a vicenda, conducendo nei loro interessi particolari e locali una lotta di concorrenza che, sotto i politici di professione, provocava ogni sorta di manovre nei corridoi del parlamento. L’offensiva controrivoluzionaria imponeva la necessità di riunire, nella lotta sociale e nella politica di governo, le forze della classe dominante. Il fascismo è la realizzazione di questa necessità”.

Di lì a poco gli ulteriori sviluppi della controffensiva capitalistica in Europa avrebbe rafforzato agli occhi del Komintern la dimensione internazionale del fascismo. Ma è chiaro che la stessa esigenza di definire una tattica politica in grado di contrastare la reazione borghese conduceva il comunismo internazionale a fissare con maggiore precisione analitica anche i suoi elementi di debolezza e di fragilità sia sul piano sociale che su quello politico.

Il III Esecutivo allargato del Komintern tenutosi nel giugno del 1923 svilupperà ulteriormente alcuni aspetti dell’analisi del fascismo già fissati al IV Congresso nelle relazioni di Radek e di Bordiga, ma precisando ancora meglio e più dettagliatamente gli elementi di contraddizione e di fragilità che scandivano i processi di unificazione politica di segno reazionario delle classi dominanti così come quelli di rafforzamento delle loro basi sociali di consenso nella piccola e media borghesia urbana e rurale. Non a caso al centro della discussione del III Plenum è il tema del “governo operaio e contadino”, una ulteriore specificazione dell’elaborazione della politica di fronte unico che si lega strettamente alle necessità e ai compiti della lotta proletaria e di massa contro il fascismo internazionale. Già alla fine del gennaio del 1923, subito dopo il IV Congresso, il Komintern e l’Internazionale Sindacale Rossa lanciavano un appello contro il fascismo in Italia che con grande forza ne denunciava il nesso profondo con i caratteri della crisi capitalistica e la dimensione mondiale. Si leggeva in esso: “La situazione attuale dell’Italia è l’immagine di ciò che potrà essere la situazione nel vostro paese se voi non riuscirete ad impedire lo sviluppo del fascismo e ad abbatterlo laddove esso si è affermato. Ma le cause della nascita e del suo sviluppo non sono proprie solo dell’Italia, sono comuni a tutti i paesi capitalisti. La crisi internazionale del capitalismo porta in sé il germe della nascita del fascismo mondiale. In certi paesi la piccola borghesia disillusa attende vanamente dal fascismo una sistemazione e un miglioramento delle condizioni instabili e precarie della sua esistenza. La grande borghesia agraria e industriale sostiene direttamente il movimento e gli assicura l’aiuto dello Stato”. L’esigenza di una unità di tutte le forze del movimento operaio, a tutti i livelli, su una base coerentemente antifascista e rivoluzionaria veniva rivendicata con forza. La lotta contro la reazione fascista come fenomeno mondiale unificava in concreto il terreno nazionale della lotta di classe con quello internazionale: “Il fascismo vuole espandersi in tutti i paesi per risolvere la crisi mondiale del capitalismo a spese della classe operaia. Si possono già vedere manifestazioni fasciste in Ungheria, in Germania, in Polonia e altrove … Tutte le organizzazioni politiche, sindacali, cooperative del proletariato mondiale hanno il dovere di collaborare a questa azione, che deve assumere le forme appropriate al tentativo di organizzazione del fascismo in ciascun paese”.

L’occupazione francese della Ruhr e la crisi tedesca alimentano in Germania gli orientamenti nazionalisti e fascisti. La “questione nazionale” diventa anche per i comunisti uno dei terreni della lotta contro l’imperialismo e la reazione e uno dei temi al centro della tattica del fronte unico in Germania. Un nesso stretto lega già la lotta contro la reazione fascista e quella contro il pericolo di nuove guerre internazionali che il fascismo porta con sé. Nello stesso tempo il colpo di Stato fascista in Bulgaria con il rovesciamento del governo del leader dell’Unione Agraria Stamboliskij pone al centro dell’attenzione del Komintern la questione contadina. Di fronte allo scontro tra il governo rovesciato, espressione degli interessi della massa dei piccoli contadini ma anche di alcuni settori della borghesia agraria, e le forze della “sovversione bianca” promotrice del colpo di Stato fascista, i comunisti bulgari avevano mantenuto una posizione di inerte equidistanza. Contro tale atteggiamento il Komintern assumeva nel suo III Esecutivo allargato una posizione fortemente critica, individuando nella questione agraria uno dei momenti fondamentali della politica di fronte unico e nella parola d’ordine del governo operaio e contadino un passaggio politico fondamentale nel processo di unificazione di massa di tutte le forze rivoluzionarie. Una impostazione che veniva efficacemente riassunta in questi termini, in un appello agli operai e contadini bulgari: “Chi erroneamente credette che il conflitto tra la cricca bianca e Stambolinskij fosse una lotta tra due cricche borghesi, di fronte alla quale la classe operaia si potesse mantenere neutrale, verrà ora convinto del contrario dalle sanguinose persecuzioni contro le organizzazioni operaie. Unitevi alla lotta contro la sovversione bianca non soltanto con larghe masse di contadini ma anche con i capi del partito contadino rimasto ancora in vita. Mostrate loro dove ha portato la spaccatura tra contadini e operai, e fate loro appello per una lotta comune per un governo operaio e contadino.” Si trattava di una indicazione tattica di valore generale che denunciava i gravi pericoli di inerzia e passività politica cui una impostazione settaria dell’attività dei partiti comunisti poteva condurre di fronte alla minaccia reazionaria e alle potenzialità politiche ed egemoniche di cui essa si dimostrava capace.

La risoluzione del III Plenum sul fascismo sintetizzava in modo organico ed esaustivo l’esperienza e l’elaborazione strategica del Komintern sui temi del fronte unico proletario come processo di unificazione delle forze antifasciste e rivoluzionarie intorno alla direzione e al ruolo egemonico della classe operaia. Accogliendo alcuni spunti importanti della relazione di Klara Zetkin sul carattere disomogeneo della base sociale in parte piccolo-borghese e in parte semiproletaria del movimento fascista e sugli elementi di debolezza di quest’ultimo, la risoluzione insisteva anche sulle difficoltà e le contraddizioni del processo pure in atto di unificazione politico-statuale in senso reazionario delle classi dominanti e di rafforzamento della loro base sociale. “Il fine che il fascismo persegue, di forgiare cioè il vecchio Stato borghese «democratico» a fascistico Stato forte, sprigiona conflitti tra la vecchia e la nuova burocrazia fascista; tra l’esercito regolare con i suoi ufficiali di carriera e la nuova milizia con i suoi capi; tra la violenta e fascistica politica nell’economia e nello Stato e l’ideologia dei residui liberali e democratici della borghesia; tra monarchia e repubblicani; tra i veri e propri fascisti delle camicie nere e i nazionalisti accolti nel partito e nella milizia; tra l’originario programma dei fascisti che illuse e conquistò le masse, e l’odierna politica fascista che fa gli interessi del capitale industriale e in prima linea dell’industria pesante artificialmente ingrossata.”

Si può dire che l’analisi degli elementi di contraddizione e di debolezza del movimento fascista fosse funzionale alla fissazione del carattere di politica di massa della tattica del fronte unico mirante a unificare le forze rivoluzionarie proletarie ma anche a conquistare una parte dei settori popolari illusi dalla demagogia e dalla propaganda reazionarie: “le organizzazioni operaie devono perciò spingere con la massima energia le più vaste masse popolari contro il capitale, per difenderle dallo sfruttamento e dall’oppressione e devono contrapporre la più seria lotta di massa alle demagogiche parole d’ordine apparentemente rivoluzionarie del fascismo”. Così alcune delle indicazioni date da Radek nel suo rapporto al IV Congresso sul carattere insieme militare e politico della lotta di classe contro la reazione trovavano nella risoluzione una concreta applicazione operativa: “all’avanguardia cosciente e rivoluzionaria della classe operaia spetta il compito di prender nelle sue mani la lotta contro il fascismo che si va organizzando in tutto il mondo. Essa deve disarmare politicamente il fascismo e deve organizzare i lavoratori per una forte ed efficace autodifesa contro le sue difese”. L’indirizzo unitario si spinge fino a rivendicare la necessità della costituzione da parte dei partiti e delle organizzazioni operaie di “un organo speciale per dirigere la lotta contro il fascismo” in grado sia di organizzare “la lotta difensiva dei lavoratori mediante fondazione di squadre e loro armamento” sia di “attrarre a questa lotta tutti i lavoratori senza distinzione di orientamento”. Nella la lotta contro il fascismo il Komintern allarga allora e insieme approfondisce la tattica di fronte unico conferendo a essa una dinamica rivoluzionaria sul terreno concreto dell’iniziativa e del movimento delle masse anticipando in alcuni momenti la strategia dei fronti popolari del VII Congresso.

 

Parte II

Negli anni dell’avanzata fascista in Europa, il Komintern analizza tale fenomeno individuandone il carattere internazionale, la natura di classe in quanto manifestazione del potere capitalistico in crisi. Fino all’avvento del nazismo al potere, l’azione antifascista dei partiti comunisti e la stessa applicazione della tattica del fronte unico proletario è fortemente condizionata e limitata da un drammatico spostamento a destra delle correnti maggioritarie della socialdemocrazia, le quali aprono di fatto la strada al fascismo in Germania. Tuttavia, alla metà degli anni ’30, il Komintern saprà riprendere l’ispirazione unitaria della politica di fronte unico ampliandola e trasformandola, sul terreno dell’iniziativa e della lotta di massa, nella strategia dei fronti popolari antifascisti

Nel corso della seconda metà degli anni ’20 nel movimento comunista internazionale matura una svolta politica cosiddetta di “sinistra” destinata a segnarne l’azione politica e i rapporti con i partiti socialdemocratici e i settori del movimento operaio organizzato da essi influenzati, per un lungo periodo, fino alla vittoria del nazismo in Germania. L’individuazione del nemico principale nella socialdemocrazia, certamente uno dei momenti principali della tattica comunista in questa fase, costituisce, almeno in parte, una conseguenza dell’oggettiva radicalizzazione non soltanto dello scontro di classe in generale in molti paesi capitalistici dell’Europa occidentale e centrale ma anche dell’acutizzarsi, financo in forme di aperta “militarizzazione”, dello scontro politico all’interno del movimento operaio. Non poteva non discenderne nel concreto sviluppo dell’azione politica dei partiti comunisti una difficoltà nell’applicazione della tattica del fronte unico, nonostante gli importanti risultati del processo della loro “bolscevizzazione” promosso dal Komintern a partire dalla metà degli anni ’20.

Ma la svolta a sinistra è certamente legata non soltanto al maturare di una drammatica divisione politica nella maggioranza del partito bolscevico fino a quel momento raccolta attorno a Stalin e a Bucharin, intorno ai sempre più decisisi e cruciali problemi dello sviluppo dell’industria socialista e ai modi della sua accelerazione, ma anche all’acutizzarsi della contrapposizione tra l’Urss e il campo imperialista che rende almeno nell’immediato più incerte e difficili le stesse prospettive della “rivoluzione mondiale”. In questo contesto il problema del fascismo non poteva non riacquistare una forte rilevanza sia nell’analisi della fase sia nella stessa definizione della strategia e della tattica dei partiti comunisti. Non a caso, perciò, il tema del fascismo, della sua natura di classe e politica, così come del suo carattere internazionale fu al centro della discussione sulla strategia e la tattica del movimento comunista mondiale che si svolse al VI Congresso del Komintern, apertosi nel luglio del 1928.

Nella generale impostazione dell’Internazionale Comunista, il fascismo emerge come una delle forme specifiche del più generale processo di trasformazione e di involuzione in senso sempre più regressivo e reazionario del potere capitalistico e degli apparati dello Stato borghese che segna la fine del periodo della cosiddetta “stabilizzazione relativa” e l’ingresso in una nuova e più acuta fase della “crisi generale” del capitalismo. Le Tesi del VI Congresso sulla “situazione internazionale e sui compiti dell’Internazionale comunista” si soffermano in modo particolare sugli importanti riflessi di tale nuovo periodo della crisi generale sul “terreno politico”, ovvero sull’ “organizzazione del potere di Stato della borghesia” come momento fondamentale del processo di unificazione in senso reazionario delle varie frazioni del capitale monopolistico ovvero del “raggruppamento delle forze di classe”. Le trasformazioni del “regime statale borghese” sono scandite da “una crisi generale del parlamentarismo borghese e della democrazia borghese”. In conseguenza delle trasformazioni dello Stato capitalistico, dell’intreccio sempre più stretto tra gli apparati di quest’ultimo e i grandi trust, i conflitti economici tra capitale e lavoro tendono ad acquistare un carattere sempre più immediatamente politico. Lo Stato, i suoi apparati di dominio e di egemonia diventano il terreno immediato della lotta di classe, a partire dal livello fondamentale della produzione. “Ogni grande sciopero economico” leggiamo nelle Tesi “mette alle prese gli operai con «trust» capitalistici giganti strettamente legati al potere di Stato degli imperialisti. Ciascuno di questi scioperi acquista per questi motivi un carattere politico, cioè un carattere generale di classe.” Di qui l’importanza sempre più centrale del ruolo della socialdemocrazia nel controllo sociale e nella stessa repressione del conflitto di classe, il suo carattere apparentemente sempre più reazionario e perfino alcune tendenze alla sua “fascistizzazione”. “Il legame dei quadri superiori dei sindacati riformisti e dei partiti «riformisti» con le organizzazioni padronali e lo Stato borghese – gli operai che diventano funzionari dello Stato e funzionari delle organizzazioni padronali, la teoria e la pratica della democrazia economica, della «pace industriale» … fornisce una serie di mezzi preventivi contro lo sviluppo della lotta di classe.”

Le tendenze fasciste e gli stessi processi di fascistizzazione che investono le strutture dello Stato e gli stessi governi di coalizione con la partecipazione di partiti socialdemocratici si sviluppano, secondo le Tesi del VI Congresso, in una fase di radicalizzazione delle masse, di acutizzazione del conflitto di classe e perfino di offensiva dei settori più avanzati e combattivi del proletariato e delle masse popolari. Tuttavia le capacità di difesa e di riorganizzazione del potere capitalistico, in determinati paesi o in determinate congiunture, appaiono tutt’altro che esaurite. Nonostante la crisi il potere capitalistico è ancora in grado di appoggiarsi sul consenso e sulla attiva mobilitazione di vasti strati popolari e perfino di settori della classe operaia. Perciò, la crisi generale del parlamentarismo e della democrazia borghese si manifesta anche con l’insorgere di forme aperte di regime fascista: “pur assicurandosi il concorso della socialdemocrazia, la borghesia, in certi momenti critici ed in condizioni determinate, organizza una forma fascista di regime”. Nella capacità di suscitare sulla base “del malcontento della piccola e media borghesia urbana e rurale e anche di certi strati del proletariato déclassé” un “movimento di massa reazionario, al fine di sbarrare la strada allo sviluppo della rivoluzione” viene individuato il “segno caratteristico del fascismo”.

Ma è sulle trasformazioni che tali processi sociali e politici determinano al livello dello Stato, ovvero sul piano delle trasformazioni morfologiche dei suoi apparati di dominio e delle sue forme di egemonia sempre più pervasive e totalitarie che le Tesi del VI Congresso si soffermano. L’esercizio del terrore in una fase di crisi che sembra destinata a sfociare in un’aperta guerra civile, si accompagna infatti a un uso raffinato e sistematico della corruzione di strati di piccola e media borghesia attraverso la loro integrazione negli apparati dello Stato o nelle organizzazioni militari fasciste. Ma anche strati significativi di aristocrazia operaia, in cui tradizionalmente le burocrazie riformiste dei sindacati egemonizzati dai partiti socialdemocratici trovano la loro base sociale e di reclutamento, vengono molto spesso integrate dentro le strutture sindacali e corporative dei regimi fascisti. Il fascismo completa così e porta a compimento in questo senso le forme di egemonia sociale e politica nel segno della collaborazione di classe e dell’intreccio tra Stato e dominio del grande capitale già costruite dalla socialdemocrazia o dai governi di coalizione con i partiti borghesi da essa egemonizzati. V’è dunque secondo le Tesi del Komintern un rapporto di contiguità o di continuità storica tra fascismo e socialdemocrazia. Tuttavia, l’analisi di tale rapporto ne fissa nello stesso tempo il carattere insieme dinamico e contraddittorio: “delle tendenze fasciste e degli embrioni di fascismo esistono ora quasi dappertutto sotto forma più o meno sviluppata; l’ideologia della collaborazione di classe – ideologia ufficiale della socialdemocrazia – ha molti punti comuni con quella del fascismo. I metodi fascisti applicati nella lotta contro il movimento rivoluzionario, esistono in forma embrionale nella pratica di numerosi partiti socialdemocratici e della burocrazia sindacale riformista”. Perciò, se il contenuto della tattica del fronte unico restava immutato, doveva tuttavia modificarsene la forma, agendo adesso prevalentemente “dal basso” ai fini della conquista delle masse non ancora organizzate dalla socialdemocrazia e non coinvolte nel processo di rivoluzionarizzazione che si riteneva in una fase di accelerazione.

Ma l’intreccio tra fascismo e socialdemocrazia che le tesi del Komintern individuano come un aspetto perfino centrale della crisi generale del capitalismo non toglie che il fascismo possa darsi e si dia già in forme “pure” e tipiche. Il caso dell’Italia assume in tal senso un significato esemplare come indicazione di una linea di tendenza tutt’altro che marginale o periferica nell’ambito di quel processo di “crisi generale del parlamentarismo e della democrazia borghese” che le stesse Tesi del VI Congresso, come s’è visto, non mancano di individuare come il riflesso più importante sul terreno politico della “crisi generale” del capitalismo: “Il fascismo italiano, in diversi modi (appoggio del capitale americano, estrema oppressione sociale ed economica delle masse, certe forme di capitalismo di Stato), è riuscito in questi ultimi anni ad attenuare le conseguenze della crisi politica ed economica interna ed ha creato un tipo classico di regime fascista”. Insomma la fine del periodo della stabilizzazione relativa se segna i limiti e alcune debolezze strutturali dei regimi fascisti non toglie che questi ultimi siano in grado di gestire temporaneamente la crisi e fino a un certo punto impedirne esiti catastrofici o rivoluzionari.

L’avanzata della reazione fascista in Germania, in Austria e in alcuni paesi dell’Europa orientale, scandita dalle conseguenze sociali e politiche della crisi del ’29, confermò la giustezza dell’analisi della fase fissata nelle sue linee fondamentali nei documenti del VI Congresso del Komintern. Le stesse responsabilità della socialdemocrazia, così duramente denunciate dal gruppo dirigente dell’Internazionale Comunista, appaiono evidenti, soprattutto nel caso tedesco. La politica del tutto legalitaria e capitolazionista e per di più segnata da posizioni radicalmente anticomuniste e antisovietiche, della Spd, rappresentò una delle cause principali, se non la più grave, del disarmo politico, ideologico e militare della classe operaia di fronte all’avanzata e poi alla vittoria del nazismo in Germania. La strage del 1° maggio 1929 a Berlino, l’uccisione da parte della polizia guidata dal socialdemocratico Zörgiebel e di milizie legate alla Spd, di 32 operai comunisti appare in tal senso particolarmente emblematica non solo non solo del grado di violenza e di settarismo raggiunto dalla socialdemocrazia tedesca nella dura contrapposizione alla componente comunista del movimento operaio, ma anche della sua posizione di sostanziale debolezza e subalternità alle forze borghesi e reazionarie fortemente radicate negli apparati e nelle strutture dello Stato tedesco.

Tuttavia, nonostante il carattere di guerra civile strisciante assunto dalla tragica contrapposizione tra comunismo e socialdemocrazia, soltanto al X Plenum del Komintern svoltosi nel luglio del 1929, la categoria di “socialfascismo” venne utilizzata in un documento ufficiale. È probabile che la sua utilizzazione per definire il sempre più evidente spostamento a destra della socialdemocrazia abbia finito per ostacolare, nell’analisi della fase e quindi nella definizione di una giusta tattica rivoluzionaria sul terreno della lotta contro il pericolo fascista, una chiara individuazione della tendenza che rapidamente si affermò all’instaurazione di una dittatura terroristica aperta dei settori più aggressivi del capitale finanziario. Se era vero che la socialdemocrazia aveva rappresentato per una lunga fase un ostacolo all’unità rivoluzionaria della classe operaia, di fronte alla spettacolare crescita del partito nazista essa non poteva essere più considerata il nemico principale. Il XIII Plenum dell’Internazionale tenutosi nel novembre-dicembre 1933 non modificò le linee essenziali della tattica fin lì seguita dal Komintern ma pose alcune premesse, almeno sul piano dell’analisi della fase, per il suo superamento e per una più netta ripresa della linea del fronte unico. Nella risoluzione approvata, la caratterizzazione del fascismo avrebbe trovato una formulazione chiara e decisiva: “il fascismo è la dittatura aperta, terroristica, degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario. Il fascismo cerca di assicurare una base di massa al capitale monopolistico fra la piccola borghesia, facendo appello ai contadini, agli artigiani, agli impiegati, e ai dipendenti statali che si trovano nella condizione di spostati in confronto alle normali condizioni di esistenza, e particolarmente agli elementi declassati delle grandi città, cercando di penetrare anche in senso alla classe operaia”. Ma è soprattutto nell’aggravamento della situazione internazionale e nella tendenza dell’imperialismo alla guerra che il documento del XIII Plenum individua l’elemento principale del nuovo quadro mondiale segnato dalla vittoria della reazione nazista in Germania. Non a caso “il governo fascista della Germania” vi viene definito come “il principale istigatore di guerra in Europa”. Il suo tentativo, giustificato con “il pretesto di combattere contro il trattato di Versailles” di “formare un blocco allo scopo di provocare un nuovo bagno di sangue a vantaggio dell’imperialismo tedesco” appare in questo senso come il più grave elemento di crisi del quadro internazionale. Di qui la rivendicazione, sul terreno della tattica e della definizione dei compiti immediati dei comunisti, del nesso inscindibile tra lotta contro il fascismo e lotta contro la guerra e per la pace.

È attorno a questi nuovi cruciali obiettivi che la tattica del fronte unico ritrova concretamente il suo carattere originario di lotta di massa per l’unità della classe operaia e di tutti i settori popolari su cui la borghesia e l’imperialismo tentano di scaricare i costi della crisi. È la stessa tattica leninista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile che nel nuovo contesto della lotta contro il fascismo e contro la guerra determinato dalla vittoria di Hitler in Germania viene insieme ripresa e riformulata: “il grande compito storico del comunismo internazionale consiste nel mobilitare le larghe masse contro la guerra ancora prima che la guerra cominci, e in tal modo affrettare la condanna del capitalismo. Solo una lotta bolscevica, prima dello scoppio della guerra, per il trionfo della rivoluzione può garantire la vittoria di una rivoluzione che scoppi in coincidenza della guerra”.

Di fronte al fascismo e al conseguente aggravarsi del pericolo di guerra, la lotta per la pace e per la difesa dell’Unione Sovietica diventa un momento fondamentale dello stesso processo della rivoluzione mondiale. Dopo la conquista del potere da parte del nazismo, la reazione fascista avanza anche in Francia e in Spagna. Ma l’assalto a Palais Bourbon, sede della Camera francese, da parte della Croix-de-feu, un’associazione nazionalista e fascista, il 6 febbraio 1934, provoca l’immediata risposta spontanea della classe operaia alla grave minaccia reazionaria. Una risposta è il primo segnale importante di un processo in atto di radicalizzazione delle masse e di ripresa dell’unità di classe del proletariato. L’unità d’azione tra comunisti e socialisti in Francia si costituisce in seguito all’imponente mobilitazione di massa unitaria della classe operaia francese e al successo dello sciopero generale del 12 febbraio. Contemporaneamente in Austria e in Spagna si affermano processi analoghi di unificazione della classe operaia sul terreno della lotta di classe e della mobilitazione antifascista.” Particolarmente in Spagna tale mobilitazione, attraverso la costituzione di organismi unitari, le “Alianzas obreras” (Alleanze operaie), in grado di unificare non solo comunisti e socialisti ma anche anarchici estesi, avrebbe assunto un carattere apertamente rivoluzionario, con la lotta armata dei minatori delle Asturie contro il governo reazionario di Lerroux e la costituzione di una repubblica socialista.

È l’insieme di tali imponenti processi di dislocazione e radicalizzazione in senso rivoluzionario delle masse a mettere in crisi gli indirizzi antisovietici e anticomunisti dei partiti socialdemocratici, costretti a tenere conto dei nuovi caratteri della fase e avviare così una diversa politica. Ma è lo stesso gruppo dirigente del Komintern a cogliere per tempo la necessità di un radicale mutamento di politica e di linea tattica. In una importante riunione del Presidium del Comitato Esecutivo del Komintern svoltasi nel dicembre del 1934, Manuilskij rimetteva decisamente al centro della discussione del movimento comunista la necessità non solo di una ripresa e di un più organico sviluppo della tattica di fronte unico, ma anche di una sua differenziata applicazione nei vari paesi: “la tattica del fronte unico: ecco una faccenda nuova… Abbiamo nei diversi paesi, tutta una serie di situazioni originali diverse. E a questo proposito, compagni, non possiamo porci di fronte alla soluzione dei compiti che ne derivano con queste formulazioni consacrate, elaborate da una serie di anni”.

La necessità di una ripresa e insieme di uno sviluppo originale della tattica di fronte unico è al centro dell’elaborazione del VII Congresso del Komintern svoltosi nell’agosto del 1935 e della svolta della politica dei fronti popolari. Non certo a caso, è un eroico combattente antifascista come Georgj Dimitrov, il dirigente comunista bulgaro che al processo di Lipsia aveva smascherato la montatura nazista e l’accusa di essere stato lui il mandante dell’incendio del Reichstag, ad assumere nella primavera del 1934 la carica di primo segretario del Komintern in una fase di svolta radicale nella lotta rivoluzionaria e antifascista di tutto il movimento operaio e popolare. A partire dall’individuazione nella Germania nazista del principale “fomentatore di guerra” già fissata al XIII Plenum, nel suo rapporto al congresso, Dimitrov definisce il fascismo tedesco come “il reparto d’assalto della controrivoluzione internazionale” e “l’iniziatore della crociata contro l’Unione dei Soviet, contro la grande patria dei lavoratori di tutto il mondo”. A tale caratterizzazione del fascismo dal punto di vista della crisi della situazione internazionale si accompagna nell’analisi di Dimitrov una più attenta caratterizzazione delle trasformazioni dello Stato capitalistico determinate dalla vittoria del fascismo in Germania che segnano una nuova tappa di quella crisi del parlamentarismo e della democrazia borghese già analizzata al VI Congresso del Komintern. “L’avvento del fascismo al potere” afferma Dimitrov “non è un’ordinaria sostituzione di un governo borghese con un altro, ma è il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia – la democrazia borghese – con un’altra sua forma, con la dittatura terroristica aperta.” Il fascismo è dunque uno stato borghese di tipo nuovo. Tale nuova forma statuale ha finito per imporsi certamente per le gravi responsabilità della socialdemocrazia e per la debolezza dei partiti comunisti non ancora “abbastanza forti per sollevare le masse, senza e contro la socialdemocrazia e condurle alla battaglia decisiva contro il fascismo”, ma anche grazie alla capacità dei settori dominanti del grande capitale di costruire nuovi e più avanzati livelli di organizzazione e di integrazione passiva delle masse dentro lo stato borghese in risposta alla crisi della loro egemonia fondamentalmente determinata dalla rottura rivoluzionaria dell’Ottobre sovietico. L’unità delle frazioni dominanti del capitale finanziario e il consenso di massa su cui essa viene ristabilita non significano però che la vittoria e il consolidamento del fascismo siano inevitabili. “La dittatura fascista della borghesia” afferma Dimitrov “è un potere feroce ma instabile.” Ciò sia in ragione delle “divergenze e delle contraddizioni nel campo della borghesia”, rese ancor più acute dal fascismo proprio attraverso il tentativo del loro superamento, sia per il contrasto tra la “demagogia anticapitalistica” e l’effettiva politica di “brigantesco arricchimento della borghesia monopolistica” che oltre a smascherarne la sua essenza di classe conduce “allo scalzamento e al restringimento della sua base di massa”. Ma proprio l’insieme di questi limiti e contraddizioni del fascismo come nuovo tipo di Stato non ne rendono meccanicamente inevitabile la sconfitta o il crollo. Di contro a ogni concezione attendista o fatalista dell’azione politica, Dimitrov rivendica con forza la necessità di una attiva e concreta lotta di massa della classe operaia contro il fascismo: “la classe operaia” dice Dimitrov “deve saper utilizzare le contraddizioni e i conflitti che sorgono nel campo della borghesia, ma non deve illudersi che il fascismo si esaurisca da sé. Il fascismo non cade automaticamente. Soltanto l’attività rivoluzionaria della classe operaia permette di utilizzare i conflitti che sorgono inevitabilmente nel campo della borghesia per scalzare e abbattere la dittatura fascista.” Dunque la stessa lotta per l’instaurazione della dittatura del proletariato e per il socialismo presuppone una fase intermedia di accumulazione e di preparazione delle forze rivoluzionarie nel corso della quale soltanto il partito comunista può conquistare la direzione del fronte unico e del fronte popolare individuando obiettivi immediati di lotta e di governo, sul terreno della difesa delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato e delle masse popolari, come su quello della difesa e dell’ampliamento della democrazia. Dimitrov riprende in tal modo e sviluppa ulteriormente la tattica del fronte unico già elaborata dal Komintern soprattutto al suo IV Congresso, proponendo un ampliamento del fronte e la sua trasformazione in un fronte popolare basato sulla più larga capacità di mobilitazione e di organizzazione permanente delle masse: “noi non dobbiamo limitarci a lanciare dei semplici appelli alla lotta per la dittatura proletaria, ma dobbiamo trovare e propugnare le parole d’ordine e le forme di lotta dedotte dalle esigenze vitali delle masse dal livello della loro capacità di lotta nel momento presente. Dobbiamo dire alle masse che cosa devono fare oggi per difendersi dal brigantaggio capitalistica e dalla barbarie fascista. Dobbiamo tendere a creare il più ampio fronte unico con l’ausilio delle azioni comuni delle organizzazioni operaie delle diverse tendenze, per la difesa degli interessi vitali delle masse lavoratrici”. Ma la lotta per la salvaguardia delle libertà democratico-borghesi e contro la dittatura fascista lungi dal configurarsi come una lotta puramente difensiva o interna ai limiti della democrazia formale borghese doveva essere concepita come un momento dello stesso processo di transizione rivoluzionaria alla dittatura del proletariato. Non a caso al centro del rapporto di Dimitrov è il tema del governo come possibile sbocco politico avanzato, anche prima della conquista del potere da parte del proletariato, della costruzione dal basso e all’alto insieme di un fronte popolare antifascista sulla base del fronte unico proletario. Le straordinarie esperienze dei governi di fronte popolare che si svilupperanno di lì a un anno in Francia e in Spagna confermeranno pienamente la giustezza delle indicazioni tattiche e strategiche di Dimitrov sulla necessità di garantire uno sbocco politico avanzato anche attraverso la formazione di governi sostenuti dai partiti comunisti e dalla classe operaia, alla lotta contro il fascismo e la reazione.

Add comment

Submit