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Quattro righe e due versi per l’operaismo, una memoria di poca Storia

di Paolo Rabissi

Tra memoria e Storia il resoconto di un 'quadro intermedio' della nascita di Potere operaio, 1969-1970

schermata 2021 11 19 alle 18.11.41…se poi mi chiedi che sorte ha avuto la mia scrittura in versi nel periodo della nostra partecipazione a ‘La classe’ e alla nascita di ‘Potere Operaio’, la risposta è molto semplice, quella della talpa ( decisamente contestuale al ‘ben scavato…’, assunto dagli operaisti!). E come altrimenti? Non credere che io l’abbia sotterrata subito. Vero è che Oreste[1], appena sbarcato a Milano e appena conosciuti i miei (tiepidi) tormenti letterari in prosa, mi propose di aggiustare la faccenda con un semplice “… dopo i tuoi Proust Musil Kafka Joyce ecc che romanzi si possono ancora scrivere?” Ma lui veniva dalla rivista “Quindici” dove con Balestrini la decostruzione dei linguaggi compresi quelli poetici, era sin troppo avanzata. Il mio vero tormentone era in realtà quello dei versi. Sicché in una delle occasionali riunioni a casa nostra, più o meno primavera ’69, approfittando di un momento favorevole, ho letto davanti a tutti quelli che c’erano dei versi di cui non ricordo quasi nulla tranne di averci prospettato una sorta di molteplicità dei percorsi che ritenevo avessimo davanti a rivoluzione imminente. L’accoglienza fu tiepida, Sergio[2] col quale avevo un po’ più di confidenza, abbozzò un sorrisino. Toni invece non ebbe alcuna esitazione e mi rispose argomentando intorno alla sua decisa simpatia verso l’Uno e non verso il molteplice. Tanto bastó, dopo quell’exploit la mia scrittura in versi l’ho davvero sotterrata. So quando è riemersa. Quando mi resi conto che il progetto che mi aveva legato direttamente all’operaismo milanese per me era concluso, dopo una stagione non brevissima, alla fine del 1970.

La riassumo qui oggi, a ottantun’anni suonati, per tanti di quei motivi che non ha senso provare ad enumerarli. Scelgo però il più vicino nel tempo. E’ stata la storia di Potere operaio dello storico, ex-militante di Potere operaio, Marco Scavino,[3] consigliatomi da Sergio, a spingermi a scrivere. Delle memorie personali, si sa, occorre avere la giusta diffidenza, il tempo sovrappone e sovrappone. Personalmente godo però di due vantaggi. Anzitutto quanto scrivo è filtrato anche dalla memoria di Adriana, mia compagna dal ’66. Inoltre ho conservato e salvato dalle vicende una delle mie agende del ’69-’70.

La maggior parte dei protagonisti di quella vicenda, deceduti a parte, sono tuttora attivi[4]. I morti che ho nella mente e nel cuore sono Mario detto Marione e Primo[5]. Quando Mario scendeva da Torino a ragguagliarci sulla situazione delle lotte alla FIAT sembrava portarsi dietro l’intera Mirafiori, aveva così tanta aria intorno a sé e davanti alla Statale disegnava a braccia allargate la traiettoria delle lotte con la stessa calma e pazienza con cui avrebbe sopportato poi le ore di prigione. Primo è stato per me uno dei due, tre fratelli, maggiori, che la buona sorte mi ha regalato a Milano. Nella sua libreria Calusca negli anni ottanta e novanta mi ha dato tutto lo spazio e l’ospitalità che desideravo per le mie righe e i miei versi.

Del gruppo milanese Sergio è stato il protagonista ma tutti nell’insieme esprimevano ai miei occhi autorevolezza e competenza pari alla passione politica. Questa della passione, a dirla tutta, è uno dei tormentoni che mi accompagnano da sempre. Ho imparato a distinguere la passione viscerale dei sognatori da quella fredda dei visionari. La passione fredda, la passione lenta di questi ultimi è quella che accompagna l’organizzazione di un progetto, flessibile di fronte alle contraddizioni, rigida nell’applicazione del metodo. Sentii immediatamente che in costoro la passione politica non cedeva nulla al sogno, procedeva con metodo su un percorso non semplice e pericoloso, capace di ripiegare su se stesso ma anche di cogliere le occasioni per moltiplicare le maglie della rete. C’erano nelle fabbriche europee, dall’inizio degli anni sessanta, dopo anni di subordinazione impotente di fronte ai piani del capitalismo che, per ristrutturarsi, voleva riforme costose soprattutto per gli operai, lotte che non avevano cittadinanza perché organizzate autonomamente fuori cioè dalle mediazioni sindacali e politiche. Bisognava leggerle, studiarle, comprendere dove volevano andare, sostenerle.

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Per quanto fossi alle soglie della laurea e già coinvolto nella Storia del Risorgimento al punto che il prof. Franco Della Peruta mi aveva messo nelle mani l’archivio di un ministro delle finanze della destra storica, il liberale moderato Raffaele Busacca, la storia del movimento operaio dal dopoguerra in avanti finì con l’attrarmi potentemente proprio perché, nella lettura che gli operaisti facevano di quelle lotte a me sconosciute (non solo a me dato che una certa vulgata anche di stampo marxista dava la classe operaia del tutto integrata nel sistema), sembravano aprirsi materiali possibilità di un progetto anticapitalistico, capace di intercettare l’antiimperialismo diffuso nella società e l’antiautoritarismo gestito dai movimenti studenteschi. Quel progetto sembrava poter dare reale consistenza a quel diffuso sentimento di rivoluzione in corso che nel ’68 agitava un po’ tutti. Qualcosa doveva succedere. Per me e Adriana che già insegnavamo ribaltare metodi e contenuti nella scuola sarebbe già stata una rivoluzione.

***

Già, la rivoluzione. Anzi, ‘la situazione tendenzialmente rivoluzionaria’, era questa l’espressione che animava l’articolo ‘Maggio ’68 in Francia’ di Sergio e Giairo su Quaderni piacentini nel luglio di quell’anno. A rileggerlo oggi è come ripassare i concetti chiave dell’operaismo. Il piano del capitalismo gollista. Il polo di classe più avanzato e più antagonista (la Renault). L’operaio massa ‘polivalente’. Gli aumenti salariali richiesti capaci di mettere in crisi il piano.

Alla fine di novembre del 1968 fu occupato a Milano l’Hotel Commercio dal movimento degli studenti, in particolare quelli della Casa dello studente di viale Romagna. Lì ho conosciuto Sergio, seduto per terra in una delle stanze disadorne dell’Hotel rispondeva ai giovani studenti occupanti a domande sul Capitale di Marx e, dato che i Quaderni Piacentini con l’articolo sul maggio francese scritto con Giairo era del luglio, molto verosimilmente il suo discorso era diretto al problema dell’unificazione possibile tra lotte degli studenti e lotte operaie in corso anche in Italia.

Nei mesi successivi grazie a lui ho conosciuto la maggior parte di coloro che giravano intorno all’operaismo non solo milanese.

Parlavano un linguaggio complesso, adoperavano un lessico non difficile ma di nessi improbabili per me. Parlavano con prudenza consapevoli che ogni parola, ogni frase, poteva avere un significato decisivo, ma anche disponibili a buttare tutto all’aria e rilanciare la riflessione su un’altra pista. A tratti sembrava andassero a tentoni e ti guardavano come se aspettassero da te un’illuminazione, per questo non mi sono mai sentito troppo a disagio. Almeno all’inizio nessuno mai mi chiese una professione di appartenenza o di militanza specifica.

A prima vista sembravano politicamente venire da lontano, più di tutti Sergio e Toni, all’epoca docenti universitari entrambi e Ferruccio[6] con borsa di studio a Padova all’istituto di scienze politiche di Toni, ma poi dovevi fare i conti col fatto che la loro storia politica più importante risaliva solo all’inizio degli anni sessanta, nemmeno una decina d’anni prima: cioè all’epoca della rivista ‘Quaderni rossi’ pubblicata, dal ’61, da un gruppo di studiosi riuniti intorno a Raniero Panzieri e, dal ’63, di ‘Classe operaia’ (con molti provenienti dai Quaderni rossi) che a sua volta aveva chiuso le pubblicazioni nell’autunno del ’65. Negli anni successivi quello che ormai si chiamava operaismo, con una flessione molto politica e quasi scientifica, con la sua pratica d’intervento autonomo nelle fabbriche, continuò a proliferare in decine di situazioni nuove che andavano a unirsi a quelle già attive in particolare tra Veneto Piemonte Toscana e Roma. Già così il materiale su cui lavorare, informarmi e formarmi in quel corso storico-economico-politico accelerato, era corposo, ma dovetti subito aggiungere ‘Operai e capitale’ di Mario Tronti uscito nel ’66 (più la seconda edizione del ’67 che riportava una nuova introduzione dell’autore), due saggi per me altrettanto fondamentali di Toni usciti sulla rivista ‘Contropiano’ nel ’68, poi sempre nel ’68 la pubblicazione del primo libro dei Grundrisse tradotti da Enzo Grillo[7]. Sul finire del 68 ma forse nei primi mesi del ’69 a Statale di Milano occupata Sergio, Toni, Giairo tennero un paio di seminari: era evidente che davano ai Grundrisse un’importanza euristica teorico pratica assolutamente imprescindibile per uscire dall’ortodossia del marxismo, soffocato per loro da una infinita quanto sterile esegesi della lettera dell’opera di Marx. Rivitalizzare e aggiornare l’enorme contributo dato da Marx nello spiegare i rapporti tra capitale e classe operaia significava dare luce e significato al nuovo tipo di lotte in corso nelle fabbriche non solo italiane e nelle quali il soggetto nuovo era l’operaio massa. C’era nelle loro parole la tensione verso un progetto che aveva già corpo, accompagnare e sostenere, collegandole alle altre soggettività in lotta, studenti compresi, quelle forme organizzative autonome di operai quali si stavano sempre più frequentemente riproducendo dall’inizio degli anni sessanta e che dal ’68 si stavano moltiplicando. Quando uscì agli inizi di maggio il primo numero della rivista ‘La classe, operai e studenti uniti nella lotta’ (che si richiamava direttamente alle esperienze operaiste dei ‘Quaderni Rossi’ e di ‘Classe operaia’) animata dai gruppi operaisti attivi in ‘situazioni rivoluzionarie’ ormai collaudate che andavano da Portomarghera a Roma alla Toscana a Torino, fu chiaro che tutti erano convinti della imminente esplosione di un ciclo di lotte per qualche verso simile a quello del maggio francese dell’anno prima, anche se in realtà tutto si declinò in maniera diversa soprattutto considerando la lunga durata del ciclo italiano.

***

Comunismo? sì, perché no? E, comunque, cos’altro? Una parola compromessa già allora? E rivoluzione? Ma non è che passavamo il tempo a dibattere su queste parole. Le parole erano altre. Ruotavano intorno al lavoro di fabbrica.

Salario, orario, ritmi di lavoro, produttività, mansioni, cottimo, turni. Ma anche un sintagma decisivo: ‘composizione di classe’. Bisognava conoscere l’operaio, la sua formazione culturale e politica, il grado di interazione con i compagni di lavoro, la disponibilità al conflitto, alla lotta collettiva, al rifiuto del lavoro quando ormai è chiaro che è tutto non pagato e infine alle forme di lotta attuate. Il soggetto politico era quello che veniva chiamato ormai operaio massa, cioè quello delle leve del dopoguerra e del miracolo economico, con cui convivevano un po’ conflittualmente gli operai che avevano visto il fascismo e la guerra. Tra quest’ultimi c’erano i miei zii, dei quali sapevo molto ma non quanto vivevano dentro la fabbrica. Tra i giovani c’erano invece i miei compagni di strada del Sud. Li avevo lasciati prima che decidessero di fare il grande balzo verso le fabbriche milanesi ma soprattutto verso la FIAT. E dunque catena di montaggio, miseria di un lavoro anonimo e ripetitivo, miseria del salario, rabbia e infine rivoluzione. Così sintetizza la loro posizione Marco Scavino: “…nella nuova composizione di classe si manifestava la piena maturità della tendenza al comunismo, inteso immediatamente come soppressione del lavoro salariato, rovesciamento del sistema di fabbrica e delle norme della produzione sociale, creazione di un sistema di liberi individui associati.” (pag. 56).

Mescolo a memoria parole di natura tecnica con altre politiche con altre economiche perché era proprio così, nella pratica della lotta operaia di quegli anni il problema era uno solo, quello del comando sul lavoro. La separazione dell’ordine economico della lotta da quello politico veniva superata nella stessa riflessione teorica per il semplice motivo che ciò avveniva nel modo di comportarsi degli operai. Quando più operai dello stesso reparto, alla stessa catena di montaggio, organizzano autonomamente una lotta per bloccare tutta la produzione perché non gli tornano i conti tra la quantità di pezzi lavorati e il salario a fine giornata, vuol dire che economia e politica si sono saldate, vuol dire che la questione è stata ridotta all’osso e cioè è divenuta questione di comando sul lavoro, vuol dire che in quel momento è l’operaio che riesce autonomamente ad arrogarsi il potere di gestire il suo sfruttamento saltando le mediazioni sindacali e partitiche e guardando direttamente in faccia il padrone.

È così che anche la parola rivoluzione acquista il suo valore semantico. Che il comando sul lavoro cambi segno e passi di mano è rivoluzione. L’importante è che duri, tanto da impedire al padrone di recuperare, come avrebbe fatto a partire dal 1980 e per i quarant’anni successivi. A noi spettava l’ambizioso compito di diffondere metodi e obiettivi e forme di lotta dei centri di organizzazione operaia autonoma di base che puntavano al potere diffusi ormai in maniera decisiva nel milanese come a Portomarghera come alla FIAT come in certe fabbriche romane. La parola autonomia declinata in senso politico era per me straordinaria e carica di senso futuro. Anche perché chiamava in causa la mia autonomia di persona. Nella mia formazione, come immagino in quella di molti altri ed altre, l’autonomia era stata una necessità che si era fatta ben presto etica personale. Quando ho raccolto su di me il senso politico dell’autonomia operaia nulla mi è sembrato più appropriato e coerente con me stesso.

Forse c’era tanta ingenuità a pensare che questa situazione potesse durare fino al punto che avrebbe determinato un collasso del potere politico generale, una bella crisi di governo che finisse col dare ai leader del nuovo potere operaio l’occasione di cambiare il segno alla Storia, recuperando dignità per il lavoro, più giustizia contro tutte le schiavitù, più beni comuni a disposizione di tutti e tutte. Qualcosa doveva succedere. Per me e Adriana che già insegnavamo ribaltare metodi e contenuti nella scuola sarebbe già stata una rivoluzione.

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Forse che qualcosa del genere non stava in fondo accadendo? Tra maggio e giugno e luglio del ‘69 ‘La classe’ fece eco col settimanale con grande energia e partecipazione all’esplosione delle lotte alla FIAT. Erano prevedibili, dice ancora oggi Sergio, forse perché la lezione del maggio francese era stata proprio quella, che soprattutto il settore dell’auto produceva in Occidente una classe operaia rivoluzionaria. Dopo averci fatto fare il giro delle fabbriche di Milano e della cintura milanese, dopo averci suggerito percorsi per me inediti di ricerca storica sul capitalismo nostrano (che seppellivano l’immagine del capitalismo straccione dell’italietta post-risorgimentale e ne svelavano le strutture solidificatesi col fascismo), il mio apprendistato e non solo il mio era concluso. Il gruppetto di quadri intermedi coagulatosi a Milano, di cui Sergio era il responsabile, intorno alla rivista non era certo molto consistente, ma per il momento sufficiente a operare dentro quella ‘situazione tendenzialmente rivoluzionaria’.[8]

Le lotte operaie esplose nel ’69 che avrebbero tenuto in scacco il padronato per tutti gli anni settanta, rallentando i suoi piani di ristrutturazione, sono ormai Storia. Ora le si leggono sui libri.

Così è per il tre luglio del ’69, una giornata davvero storica per la storia del movimento operaio italiano del secondo Novecento.

Presi ormai da ‘singolare amistà’, il giorno prima, non ricordo né quanti eravamo né chi di preciso, abbiamo improvvisato su una piazzola sterrata da qualche parte di città Studi una partitella di calcio. A piedi nudi un chiodo mi ha trafitto. Non ricordo se c’era anche Oreste, più verosimilmente era già a Torino, certo c’era Lucia la sua compagna, mi ha accompagnato lei al pronto soccorso per fare l’antitetanica. Ma l’indomani io e Adriana eravamo all’inizio di corso Traiano diretti verso le porte di Mirafiori. Gli scontri tra operai e abitanti dei quartieri vicini con la polizia cominciarono presto. L’urlo incessante delle sirene delle pantere della polizia creavano scompiglio e paura. Ci siamo inoltrati ancora poi ci siamo allontanati l’uno dall’altra. Qui la memoria non aiuta più di tanto. L’immagine più potente che ho conservato è quella di una enorme bisarca carica di auto che si è messa di traverso al capo di uno dei vialoni di fronte a Mirafiori. Non ho mai capito se si trattava di un’operazione della polizia o meno, fatto sta che poi da dietro la bisarca è sbucato un plotone. Mi sono guardato intorno, ho scoperto di avere vicino Toni che mi guardava con aria interrogativa, non so cosa ha fatto lui, io non sono stato a pensarci troppo, mi sono buttato nel campo sterrato che avevo alle spalle e ho corso senza meta, probabilmente anche Toni ha fatto la stessa cosa.

Davanti all’Università, forse architettura, c’era un capannello con Alberto Magnaghi, discutevano di assemblee possibili, lui mi dice di aver visto Adriana portata via dalla polizia. Chissà perché, la cosa non mi convinse per niente. Seguii l’istinto, entrai in facoltà scavalcando i capannelli. Entrai nell’aula magna. Era affollatissima. Dall’alto, sull’ultimo dei gradoni dell’anfiteatro, Oreste stava discutendo con tutti. Vicino a lui c’era Adriana.

“ Scusa ma da dove sei entrato?” “Dalla porta!” “Credevamo di essere circondati dalla polizia, ci stavamo chiedendo come fare a uscire…”.

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Credo che dopo quel giorno non solo io ma la maggior parte di quelle che allora erano chiamate ‘avanguardie’ di classe, non solo gli operai intendo ma anche la massa di giovani e meno giovani che in vari modi erano coinvolti direttamente nel movimento in atto ( che fossero di provenienza politica socialista o comunista o cattolica ma anche di nessuna provenienza nemmeno parrocchiale come il sottoscritto), tornò a casa convinta che la situazione era ora più rivoluzionaria del giorno prima.

Del rientro serale da quella giornata ho in memoria anche immagini per niente edificanti che con l’idea che uno può avere della rivoluzione non possono entrarci neanche un po’, ma sono del tutto irrilevanti sia per la Storia sia per una memoria come la mia.

Comunque dentro quel condensato, non solo milanese, che da maggio a settembre s’era chiamato ‘La classe’, dopo gli scontri tra le varie anime del movimento consumatosi a Torino dopo il 3 luglio, si cominciò a parlare, come obiettivo principale, di forme organizzative immediate affinché le lotte operaie in corso arrivassero preparate alle scadenze contrattuali dell’autunno. Della spinta necessaria diventava strumento da quel momento il settimanale Potere operaio che diventava anche il nome del gruppo che raccoglieva oltre alla ‘La classe’ esperienze diffuse a livello nazionale antiche e nuove.

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La nascita di Potere operaio fu l’inizio di un discorso sul partito rivoluzionario, Lenin alla mano. Forse dovevo aspettarmelo almeno tanto quanto i saggi di Tronti e Negri suggerivano. E’ vero che all’inizio in realtà quella parola la si diceva e no. Ma non è che ce ne fosse bisogno. Insomma era nell’aria e si trattava ora di una reinterpretazione del ciclo di lotte operaie che cominciò da subito a impensierirmi. La stima che avevo verso tutto il gruppo e anche i sentimenti di amicizia mi impedirono sul momento di manifestare apertamente dubbi. Mi dissi persino che la causa del mio stato d’animo perplesso era la mia ignoranza della storia del movimento operaio. Durante l’inverno annunciai a Sergio e Ferruccio (che faceva la spola tra Padova e Milano) una pausa dal mio impegno militante e studiai quanto era necessario per colmare le mie lacune. Ma non c’erano libri che potevano connettere l’operaio massa e l’intellettuale massa della seconda metà del Novecento al partito per una rivoluzione di tipo bolscevico. Quello in cui ci muovevamo era un contesto del tutto nuovo al quale noi stavamo tentando di dare nome, forme espressive, contenuti. Doveva per forza esserci di mezzo un partito leninista?

Col nome di Potere operaio, alla fine di settembre del ’69, il gruppo d’intervento milanese davanti alle fabbriche e negli istituti tecnici e industriali restò pressappoco quello de ‘La classe’, ebbe però una struttura più formale e organizzata con una divisione delle aree d’intervento, con riunioni di confronto e discussione sulle esperienze avute. Sergio restava il nostro punto di riferimento, la mia volontà di andare avanti nell’esperienza restava immutata, non mi sembrò che nella sostanza fosse necessario un impegno diverso. Contribuire alla diffusione delle forme di lotta delle situazioni nelle quali la lotta operaia aveva già forme autonome di organizzazione come i Comitati unitari di base continuavo a considerarla la cosa più intelligente e rivoluzionaria, costasse quello che doveva costare comprese le misure repressive, come del resto già accadde con il carcere del direttore responsabile del giornale. Tuttavia il mio stato d’animo non era più quello di prima . L’atmosfera dentro Potere operaio rubava qualcosa, forse necessariamente, alla spontaneità delle relazioni e tendeva a sciogliere le singole situazioni locali in una identità nazionale che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto crescere col tempo. Sin dall’inizio e via via nei mesi successivi continuai ad avere l’impressione che quel progetto organizzativo, diretto più o meno apertamente al partito, non entusiasmasse nemmeno Sergio ma non avvenne mai che ne parlassimo a quattr’occhi. Del resto lui mi aveva formalmente definito un quadro intermedio e un quadro intermedio certe cose le sa, altre no, altre ancora non è detto che debba saperle.

Come afferma Scavino, pur essendo vero che Sergio dal gennaio del ’70, cioè dal convegno nazionale di organizzazione a Firenze, faceva parte della direzione nazionale, ben presto ne maturò una presa di distanza senza però rinunciare a seguire il lavoro d’intervento e i contatti nelle fabbriche a Milano.

Infatti paradossalmente i miei contatti con lui si fecero anche più frequenti, un po’ perché abitavamo vicini a Città Studi, un po’ perché mi lasciava sempre la sua cinquecento per il giro delle fabbriche e un po’ perché nelle pause mi dava generosamente una mano per la tesi che buttavo giù a spizzichi e bocconi. Quel deficit di comunicazione politica fra noi era evidentemente determinato dalle sue stesse difficoltà di comprensione e/o di accettazione di quanto avveniva dentro Potere operaio e di cui io non avevo conoscenza.

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Il periodo più intenso di attività fu proprio quello tra gennaio e l’estate. Abbiamo vissuto una dimensione carica di tensione che sembrava non dovesse finire mai. Riunioni con studenti e operai, collettivi, seminari, direttivi allargati, viaggi ripetuti a Bologna, Firenze. Tuttavia l’intervento a Milano era a mio parere insufficiente. Sin dalla fine dell’anno, dopo il contratto seguito alla strage di piazza Fontana, mi ero messo in testa che era necessario uno sforzo maggiore di organizzazione su Milano, ero convinto che la partita la si decideva soprattutto qui, non solo alla FIAT di Torino o a Portomarghera. Era la dimensione diffusa delle grandi fabbriche di grande prestigio, dalla Snia alla Breda e alla Falk, dalla Pirelli all’Alfa Romeo e all’Autobianchi, dalla Marelli alla Borletti, dalla Sit-Siemens alla Farmitalia, dalla Brown Boveri alla OM alla SNAM progetti, e tante altre ancora, dalla diversità produttiva delle numerose piccole fabbriche, dalla ricchezza tecnologica in trasformazione, che mi coinvolgeva nel giudizio. Ma non sembravamo in grado di produrre uno sforzo maggiore.

Il nostro intervento, in cui Alberto Forni, un tecnico della Farmitalia che per noi rappresentava il livello più alto di coscienza di classe per la sua esperienza di fabbrica, aveva un ruolo determinante, continuava a funzionare, definito com’era da un metodo ormai collaudato. Raccoglievamo informazioni davanti alle fabbriche, le discutevamo, facevamo una sintesi, producevamo un documento che era spesso un volantino e tornavamo davanti alle fabbriche per distribuirlo. Facevamo rete. Grazie a contatti di Sergio con operai e tecnici della Pirelli potei frequentare le riunioni serali del CUB. Ne venne fuori un articolo che stampammo in un volantone allegato al giornale. Un lungo seminario organizzato da Ferruccio alla casa dello studente di viale Romagna sull’emigrazione si risolse in un altro volantone che andammo a distribuire ai migranti in arrivo o in partenza alla centrale di Milano. Un altro seminario interno di Sergio fu dedicato all’esperienza consiliare in Germania. In particolare alle analogie tra consigli operai tedeschi e partito comunista tedesco in formazione con la tematica del partito in corso non solo dentro Potere operaio. Col dramma del partito tedesco che trascurando le necessarie mediazioni politiche col sindacato aveva finito con l’essere minoritario.

La memoria, al di là dell’agenda, mi rimanda a ore e ore davanti alle fabbriche e spesso alle scuole, per distribuire il giornale e i documenti di Linea di massa, all’entrata e all’uscita dei turni compresi quelli di notte. Mi rimanda anche a momenti critici. Un breve comizio di Oreste che purtroppo si concluse con un’aggressione vile di un gruppetto di fascisti e di cui fece le spese un giovane operaio dell’Alfa di Arese che dovemmo portare in ospedale dove rimase in osservazione per la notte ma senza conseguenze. Un duro scontro davanti all’Autobianchi di Desio con la commissione interna schierata davanti ai portoni che ci circondò con malanimo decisa a farci capire che non eravamo ben accetti. Quel giorno eravamo Alberto, Bruno, Sergio, Giairo e io. Ce ne andammo ma era chiaro che dentro la fabbrica, davanti alla quale eravamo già stati, si parlava di noi.

Tensione a causa di quell’impegno avemmo io e Adriana. Cenavamo quasi sempre in gruppo, la sera eravamo stanchissimi, al mattino scappavamo, lei sempre più spesso davanti alla Siemens nelle ore libere dall’insegnamento, io qua e là tra Pirelli, Alfa, Snia, ecc. e la scuola nel pomeriggio, poi l’estate ci fu favorevole e recuperammo. In agosto scendemmo in Calabria al mare e una domenica raggiungemmo anche Reggio. Volevamo assistere ad una manifestazione sindacale che era un tentativo di rispondere alla rivolta popolare appena scoppiata nella città e guidata dai fascisti del ‘boia chi molla’. La memoria qui non aiuta né me né Adriana. Ne siamo usciti ma con un grande spavento. Alle prime baruffe in piazza ci eravamo rifugiati in un bar riuscendo poi ad allontanarci.

Il mese precedente, verso la metà di luglio, avevamo partecipato a una riunione generale in Toscana, a Baroncoli.

***

Di quella riunione o convegno che fosse mi è rimasta l’immagine del luogo, un vecchio cascinale credo in disuso nei pressi di Firenze, grandi panini di finocchiona e il suono della parola insurrezione. A dire il vero rimbalzò poco fra le pietre, anzi rimase abbastanza soffocata dato che non ricordo che abbia suscitato reazioni particolari. Era da prendere sul serio o no? Certo l’insurrezione non era ancora ‘all’ordine del giorno’ come avrebbe recitato più in là il mensile di PO quando ormai ero uscito dal gruppo. Ricordo il mio stupore, e anche quello di Adriana, ma considerata la scarsa accoglienza generale , almeno visibilmente, seguitammo ad ascoltare gli altri interventi.

Fu un segnale però che non potevo ignorare. Nonostante la sua apparente estemporaneità mi sembrava come ci fosse là dentro intorno a quella parola una sorta di aura. Ma la parola in sé ai miei occhi era compromessa.

Non sarò stato a ripassare mentalmente i miei esami di storia del Risorgimento, con tutti i fallimenti delle insurrezioni, il saggio di Pisacane, duca e libertario, sulla rivoluzione e la sua morte in Calabria come un brigante, gli eroi proletari e quelli borghesi e quelli nobiliari, ma non potevo certo bypassare quella invece vittoriosa dei partigiani nell’aprile del ’45. Ma insurrezione era parola che a me evocava armi e guerra civile. Cose che mi spaventavano.

Insurrezione? Una bella bischerata, avrebbe commentato mia nonna senese.

L’insubordinazione operaia in realtà sembrava aver raggiunto un momento apicale. Il capitalismo nostrano sembrava incapace di reagire all’offensiva operaia che a metà ’70 non mostrava affatto di arrestarsi. Il processo organizzativo autonomo della classe operaia, il suo comando sul lavoro, non solo era in corso, nonostante la tregua del dopo contratto, ma anzi sembrava spingere per mettere in gioco la questione del potere anche a livello sociale fino allo Stato. Ma chi era in grado di raccogliere quella sfida? Non si poteva ignorarla, ma personalmente avevo in mente tempi molto più lunghi, così mi sembrava la pensassero tutti nel gruppo milanese, e decisamente non ero in grado di prefigurarmi una insurrezione. Peraltro i sindacati nella lunga tregua seguita ai contratti dell’autunno avevano mostrato di saper recuperare temi come il salario, l’orario del lavoro, ecc. in maniera più convincente di prima. Ma soprattutto cercava di inserirsi nel progetto di riforme attivato dallo Stato, con il concorso frontista di quasi tutti i partiti, PCI in testa, del quale PO denunciava la specificità fumosa e antioperaia perché tendeva ad annullare le conquiste fatte coi contratti dell’autunno. E questo era il contenuto dei volantini che portavamo davanti alle fabbriche almeno fino a primavera inoltrata. L’idea dell’insurrezione ci colse del tutto impreparati. Dove e quando era maturata?

***

Su Baroncoli la mia agenda tace. Si vede che eravamo scesi in Toscana un po’ meno da militanti e io non l’avevo portata. Invece è ricca di appunti per il convegno di Bologna un mese e mezzo dopo, finito agosto, ai primi di settembre. Ho scritto convegno a braccio ma lì sulla pagina sta scritto Prima Riunione Direttivo Nazionale, con le maiuscole.

Non c’è il nome del relatore ma le prime righe sembrano come il titolo necessario della relazione: …Processo di centralizzazione, agire localmente con un piano deciso a livello nazionale. Omogeneizzazione delle sedi su un progetto politico nazionale…

Le righe proseguono così:

…per il gruppo il problema non è solo di linea o di sollecitazione del movimento: gli obiettivi operai contro il piano riformistico sono contenuti nella crisi, il problema è perciò riuscire a gestire una risposta politica, nel senso che nello scontro prevedibile con lo stato bisogna trovare dei punti di riferimento organizzativi in grado di determinare una gestione. Il gruppo deve sì tendere a provocare lo scontro ma anche dimostrarsi capace di gestirne gli effetti politici in termini di organizzazione. Occorre dunque individuare precise iniziative di lotta…

Potere operaio dunque si proponeva chiaramente come soggetto politico che doveva diventare capace di individuare scadenze precise di lotta, promuovere lo scontro dentro il progetto riformistico di governo e sindacati e saper poi gestirne gli effetti politici in termini di organizzazione. Questo rendeva necessario porre all’ordine del giorno la questione del rapporto tra organizzazione e potere e dunque quello di una dittatura operaia contro la schiavitù del lavoro. Verso la fine della relazione inoltre si prevedeva nei mesi successivi un rimescolamento nella sinistra extraparlamentare, occorreva tenerne conto per capire le possibilità di un processo di unificazione. Tutto ciò nell’insieme a me sembrava ormai un progetto lontano.

Negli appunti non c’è accenno, come leggo in Scavino, alla necessità di promuovere la formazione di comitati politici in fabbrica e nel sociale, non tutto evidentemente ho appuntato però la memoria qui aiuta: conservo fortemente infatti l’immagine del Comitato operaio di Mirafiori da poco costituito, che venne invitato a sfilare sul palco, erano circa una decina non troppo giovani, anzi. Loro mi piacquero, quello che volevano rappresentare non molto. Il partito ora era qualcosa di più che una tendenza.

Le righe che seguono sono parole di Toni:

…Lo scontro in questo momento è possibile, non sulla base di una iniziativa soggettiva nostra, ma di una esigenza capitalistica non rimandabile. Questa situazione di crisi anche del governo è indotta dall’attacco operaio. I provvedimenti economici presi non aprono prospettive di stabilizzazione finanziaria e politica, tappano buchi. Il governo è nell’impossibilità di pianificare se non la correzione delle disfunzioni create dalle lotte….. Nelle fabbriche è situazione di lotta endemica, non recupera un livello complessivo ma determina una situazione instabile. In più la richiesta di una pratica di salario politico (cioè di non rovesciare i costi delle riforme sul salario) mai come oggi è forte, è quindi richiesta di scontro. Il governo non può resistere a questa pressione ma nemmeno impedire il livello di lotta attuale. La nostra urgenza è di caratterizzare queste lotte nel senso della nostra gestione di esse, di una nostra direzione politica dello scontro…

Il senso complessivo era dunque che l’intervento nelle fabbriche veniva decisamente messo in secondo piano. Bisognava estendere nel sociale contro governo, partiti e sindacati, con una forzatura soggettiva, il potere espresso dentro le fabbriche dalle lotte operaie.

Non tutti la pensavamo così. La mia agenda riporta quello che anche per Scavino fu forse l’intervento più critico, quello di Guido Bianchini:

…Il governo non ha i soldi per le riforme. Riflettere su questa sua impossibilità. C’è però il sindacato che canalizza il conflitto verso certe direzioni, c’è molta distanza tra gli obiettivi operai e quelli del sindacato che poi sono quelli che il capitale riesce a sopportare. Sottovalutare la capacità di riconquistarsi un margine di consenso è errore politico. Esiste un modo di gestire politicamente il conflitto che è in atto che consenta al nostro lavoro di divenire alternativo alla gestione sindacale delle lotte? Se si vuole distinguersi dal sindacato dobbiamo prolungare o precedere uno sciopero sindacale? Noi non siamo in condizione di essere un punto di riferimento organizzato. E’ illusoria l’idea che approfittare di questa crisi dipenda dalla nostra capacità d’intervento, l’intervento va continuato ma senza illudersi sul breve periodo, essere presenti nella lotta non per lo scontro con lo Stato ma per costruire organizzazione.

Di Sergio ho annotato brevemente un intervento molto stringato: bisognava rilanciare la tematica salariale ma con la complessità del discorso maturato dentro le lotte. Si dichiarava contrario a lanciare lotte su affitti e trasporti come qualcuno progettava come esemplificazione di lotte sul sociale da gestire.

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La spinta al nuovo progetto organizzativo mostrò in breve dopo il convegno che la questione dello scontro con lo Stato non poteva che passare misurandosi anche nelle piazze e questo metteva inevitabilmente a tema anche la violenza.

Dal giornale , dal ‘peso della parola stampata’, giungeva un aumento progressivo dell’enfasi data alla violenza delle lotte che sembrava quasi inevitabilmente dover condurre alle armi necessarie. Di difesa? Di attacco? L’esposizione diretta di Potere operaio in manifestazioni e scontri di piazza marcava i nuovi confini dell’intervento politico.

La trasformazione del progetto era ai miei occhi una fuga ideologica dalla realtà, una forzatura che distruggeva un lavoro di quasi due anni che per me era stato appena una premessa. Con le armi e la violenza non avevo sicuramente intenzione di avere a che fare. Un conto era l’esposizione mia e di Adriana a possibili forme di repressione sempre più probabili del resto dato che la polizia o chi per essa sul gruppo teneva da tempo gli occhi addosso. Ma non faceva per noi superare certi confini. Eravamo due intellettuali massa simili all’operaio massa che aveva bisogno di noi come messaggeri e interpreti di prima battuta. Che è quello che abbiamo continuato a fare, non solo negli anni settanta, salvaguardando il meglio della cultura, della civiltà operaista. Quello che c’interessava semmai era contribuire a rendere permanente una ‘situazione tendenzialmente rivoluzionaria’ in cui tenere viva la conflittualità per incrinare il dominio, la schiavitù del lavoro salariato. Rifiutando però armi e guerra, anche se questo dovesse costare la rinuncia a qualche porzione di libertà.

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Nel gruppo d’intervento milanese ricordo distintamente la crescita del disagio però di certo tra di noi tenevamo posizioni interlocutorie, anche se in definitiva non c’erano differenze di posizione sensibili.

Le scadenze di lotta operaia previste per ottobre in cui inserirsi con momenti organizzativi, quelle che dovevano qualificare l’intervento di Potere operaio, non ci furono. O comunque non significative. A Milano del carattere ancora interlocutorio tra noi e gli altri sono dimostrazione ancora alcune riunioni nelle quali, da quanto riporto nell’agenda, ci si interroga prudentemente su quali obiettivi eravamo davvero in grado di gestire in situazioni che, nonostante tutto, offrivano possibilità di crescita. Si pensava alla produzione di documenti politici per un intervento alla Statale dove, per la mutata estrazione sociale degli studenti, si aprivano spazi.

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Infine l’ultima riunione che l’agenda ha registrato e che non conservo per nulla in memoria, datata 4 novembre. Doveva trattarsi di un direttivo allargato dato che c’ero anch’io.

La relazione introduttiva è senza nominativo ma verosimilmente è di Alberto Magnaghi che da settembre era segretario unico. Riporto le mie righe, come al solito un po’ sincopate, nelle quali la diversità delle posizioni è ormai riconosciuta:

…Giudizio sulla crisi rispetto a Bologna: stagnazione dell’iniziativa capitalistica ma anche mancanza di una risposta operaia complessiva.

La strada repressiva anticongiunturale non serve al capitalismo, non riesce ad attaccare massicciamente, ha usato il decretone come attacco al salario ma non riesce nemmeno a mettere in moto le riforme se non coprendo alcuni costi, tamponando alcune situazioni. Non c’è nemmeno un progetto di riorganizzazione complessiva dello stato ma solo tentativi di tamponare falle nell’apparato statuale.

La situazione produttiva è ferma al 2,4 % rispetto al 7,8 richiesto. Il livello di rifiuto del lavoro impedisce la ripresa. Al capitale servono fondi per ristrutturare la produzione. Nel frattempo assistiamo ad assunzioni in massa a Milano e Torino, incremento di forza lavoro necessaria per via dei bassi livelli di produttività, di rifiuto del lavoro..

Viviamo una fase di continuità di stagnazione. Il sindacato si trova a dover gestire questa lunga tregua e per la pressione operaia è costretto a gestire le piattafome rivendicative dell’anno scorso (lotte sulle categorie, le 100 lire, le 36 ore). E riesce a catturare la spinta ma ciò non va inteso solo come necessità di star dietro all’autonomia ma come possibilità di recuperare consenso alla spinta per le riforme.

La situazione di classe vede un attestarsi delle lotte al livello del ’69. Non c’è arretramento del fronte. Secondo il rapporto di Agnelli attualmente il monte ore di scioperi è già pari a quello dell’intero ’69, lo dimostrano il rifiuto complessivo del lavoro con assenze ma anche l’estensione di lotte nelle medie e piccole fabbriche. Tuttavia a conferma dell’analisi fatta due mesi fa (a Bologna) c’è un rifiuto di uno scontro spontaneo generale. Nessuno ha intenzione di uscire in campo aperto.

Necessità dunque di caratterizzare fortemente il discorso sull’organizzazione più che l’agitazione e/o sollecitazione degli obiettivi sull’autonomia.

Da parte operaia si accentua il problema di rotture ma organizzate. Lo scontro per l’organizzazione è il terreno su cui è possibile affrontare questa fase intermedia creando squilibri nel progetto attuale di pianificazione della stagnazione. La strada è quella di gestire lotte nelle scuole, per i trasporti, ecc.

Che senso ha esaltare attualmente i Comitati operai nelle fabbriche? Lì hanno la meglio i delegati sindacali e tuttavia occorre starci dentro per introdurre elementi di rottura dato che comunque le avanguardie hanno una forte tendenza a unificarsi.

Necessità dunque ora di un’azione che sia scontro violento per l’organizzazione senza provocare scollatura tra avanguardie e la situazione generale di classe.

Se la situazione di classe è favorevole a un processo aggregativo altrettanto non lo si può dire per le forze soggettive. Lotta continua oscilla tra accettare il riflusso delle lotte o accodarsi al PCI. Il manifesto ha il peso della sua eredità politica. Però è possibile arrivare a incontri…

Alberto

Mi sembra che in realtà il capitale alcune iniziative le ha prese. Vedi i contatti con sindacati e PCI su sanità, casa, ecc.

La situazione milanese conferma l’analisi di Magnaghi. Le lotte sindacali di massa riconfermano la ciclica ripresa di lotte del ‘66/’67 con fatica minore grazie alle vittoria del ’69 e quindi con la conferma delle posizioni raggiunte e mai abbandonate.

Spazio vuoto organizzativo lasciato dal ’69. I ljvelli organizzativi attuali dunque (delegati, CUB, ecc) non rispondono alla possibilità di uno scontro a livelli militari ma riesce al massimo a portare avanti un’esigenza minima di unificazione delle lotte.

Il sindacato ha ripreso in mano il rilancio del salario in modo duro come lotta per le riforme. Questo apre spazi d’intervento molto seri.

Il sindacato con la sua iniziativa ha bruciato le possibilità di lotta sul sociale e quindi reso difficile la ripresa di lotte di massa. Noi rischiamo di andare a proporre forme di lotta bruciate dal sindacato. Non c’è riflusso, anzi è cresciuta la tensione contro la società come odio di classe. L’intervento deve garantire il consolidamento di un livello medio di lotte e tensione generale.

Tempi da rivedere. La crisi non è al culmine, né la tensione operaia.

La fase attuale va dedicata al lavoro d’organizzazione per quanto riguarda i gruppi, per la costruzione di una rete operaia.

Mario

Situazione di classe e comportamenti sindacali diversi da Milano. Alla FIAT vengono mantenuti i livelli organizzativi del ’69 ma è diffusa la consapevolezza che per aprire uno scontro non bastano quei livelli. Le avanguardie cercano livelli organizzativi senza i quali non si muovono. Però c’è un quadro generale nel quale si verifica il rifiuto del lavoro nei modi più diversi: assenteismo del 30%, disturbo della produzione con aumento degli scarti. Questa volontà di lotta c’è ma non diretta, per avere uno scontro aperto vogliono un salto organizzativo.

Lo sforzo del Comitato operaio è dato dalla richiesta di questo nuovo livello organizzativo. Il suo peso politico in fabbrica è crescente ma vuole che ci sia una capacità di sviluppare un attacco esterno altrimenti non si espone all’esterno. Per questo è necessario dimostrare una capacità politica di gestione all’esterno.

La stagnazione non è duratura. Rivediamo i tempi ma non pensiamo che il rifiuto del lavoro non faccia prendere al capitale azioni decisive per la stabilizzazione e normalizzazione produttiva. Questo congelamento di sviluppo non è pensabile che duri perché gli operai stanno facendo pagare ad Agnelli un nuovo contratto e non è possibile che lui non dia una risposta.

Oreste

Crisi d’iniziativa. Nostra e dei gruppi.

Impossibilità delle avanguardie di esprimere una direzione su forme sociali di lotta, occorre rilanciarle, privilegiare il terreno di lotta sociale è colmare l’anello dove l’autonomia non ha fatto le sue prove organizzative.

Sergio

Da certi interventi sembra dunque che il terreno di fabbrica è chiuso, è chiuso il discorso dell’organizzazione in fabbrica. Allora il partito si deve dire che lo si organizza sul livello sociale. Dunque l’organizzazione viene separata dalla classe operaia. Col discorso poi sull’insurrezione si va coerentemente alla divisione tra organizzazione militare e organizzazione del partito.

I compagni che rifiutano l’insurrezione tirino fuori l‘alternativa che io non ho.

Stagnazione, impasse, sono dovute a certe scelte fatte nel gruppo da Baroncoli sui discorsi del periodo medio. Avventurismo, che sfumata la scadenza di Ottobre non sa più cosa dire.

Occorre riverificare l’omogeneità di PO che non esiste.

Toni

Processo alle intenzioni.

Quanto alle difficoltà d’intervento in fabbrica: è un discorso superato, il lavoro d’intervento dei gruppi è esaurito. Occorre passare ad una tappa successiva nella formazione del partito. Occorre passare ad una direzione operaia diretta con l’assemblea cittadina.

La direzione centralizzata non deve essere la segreteria che è il livello formale di organizzare il gruppo ma il partito che senza direzione operaia non esiste ancora.

***

Ad aumentare il mio disagio personale nelle ultime settimane avevano contribuito alcuni episodi, occasionali e non, che mi fecero, per forza e amaramente, convinto che la questione delle armi era più avanti di quanto pensassi. Su quegli episodi non ha senso oggi dimorare. Anche se non posso fare a meno di pensare che per certuni – pochi? – la passione per la rivoluzione s’era fatta sogno, vanitosa e narcisista. E senza talento.

Per paradosso, ma non più di tanto, circa a metà ottobre, quanto c’era in quel momento del gruppo milanese andò al cinema. Vedemmo ‘Il mucchio selvaggio’ di Sam Peckinpah. Ne uscimmo un po’ sgomenti ma tutti convinti del gran film. Solo Adriana ebbe da ridire. “ Ma dai…, due ore e mezzo di sparatorie…”.

Credo comunque che nessuno allora si chiese se dovesse finire in una sparatoria anche la parabola dell’operaio fordista.

Il gruppo milanese si stava sciogliendo. Com’era nello stile, nessuno chiese niente a nessuno. Le relazioni si consumano e basta. Comprese quelle legate a ‘situazioni tendenzialmente rivoluzionarie’. Forse un po’ più a Milano che altrove.

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Note
[1] Oreste è Oreste Scalzone. Toni è Toni Negri. Giairo è Giairo Daghini, Balestrini è Nanni Balestrini. Li chiamo per nome qui ma in seguito dipenderà dal contesto.
[2] Sergio è Sergio Bologna
[3] Marco Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria, vol I, Derive Approdi, 2018
[4]Sergio fondò nel 1973 la rivista ‘Primo Maggio, saggi e documenti per una storia di classe’ avendo come editore Primo Moroni libraio della Calusca di Milano. La diresse personalmente per i primi anni e poi lasciò la direzione a Cesare Bermani (storico, fondatore del metodo storiografico della storia orale in Italia) affiancato da Bruno Cartosio (storico, esperto di Storia dell’America del Nord). Chiusa nel 1989 è rinata, sotto la sua spinta e con la collaborazione di nuovi e vecchi compagni e amici, quasi cinquant’anni dopo nel 2020 col nome ‘Officina di Primo Maggio’ e ad oggi ottobre 2021 sono usciti tre numeri. La rivista oltre che cartacea è in rete https://www.officinaprimomaggio.eu Per lo spirito e gli intendimenti politici e culturali della rivista rimando al Manifesto leggibile al link https://www.officinaprimomaggio.eu/manifesto-officina-primo-maggio/ Aggiungo qui che una ragione meno occasionale del libro di Scavino per questa memoria è stata proprio questa rinascita di Primo Maggio voluta da Sergio.
[5] Mario è Mario Dalmaviva. Primo è Primo Moroni.
[6] Ferruccio è Ferruccio Gambino. Arruolato tra gli operaisti già da quando nel ’67, ’68 girava per gli Stati Uniti, vivendo grazie anche all'ospitalità di compagni di movimento, nel pieno delle lotte degli studenti e degli operai raccogliendo materiali che poi avrebbe riversato tra di noi. Così imparammo ad apprezzare il suo sguardo fuori dagli schemi dell’Impero dove bisognava capire che non c’erano solo guardia nazionale, FBI, CIA, marines e quant’altro ma anche le lotte operaie e gli IWW, le masse di manifestanti contro la guerra nel Vietnam, il movimento per i diritti civili, quello antischiavista, e poi M.L.King, Mallcom X e il Black Panther e gli studenti rivoluzionari e le donne rivoluzionarie, e infine appunto il movimento femminista: notizie e documenti su di esso e in seguito incontri a Milano con la femminista Selma James spinsero da subito anche Adriana a dare vita a iniziative analoghe.
[7] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia
[8] Quando parlo del gruppo d’intervento milanese intendo parlare oltre che di Sergio, me e Adriana, di Alberto Forni, di Bruno Bezza, di Claudia Capurso e più tardi di Sergio Bianchini e la sua compagna di allora, di Giuseppe Bezza fratello di Bruno, di un compagno di cognome Bordiga, di Mario Nannipieri anch’egli della Farmitalia. Intorno al gruppo milanese comunque gravitavano sia pure meno assiduamente compagni del varesotto e del comasco tra cui in particolare ricordo Ronnie Pozzi, la cui figlia Francesca ha raccolto in un volume negli anni novanta una serie di interviste dei protagonisti dell’operaismo di quegli anni. (Guido Borio, Gigi Roggero.e Francesca Pozzi, Futuro anteriore, DeriveApprodi, Roma 2002. Molti nomi li ho dimenticati, al mio sguardo sicuramente un po’ sfuggiva il quadro d’insieme di tutte le iniziative di Potere operaio a Milano.

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