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moneta e credito

Note a margine del dibattito tra Blanchard e Brancaccio

Con lo sguardo rivolto al contesto italiano

di Roberto Torrini*

Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio

Le Bistro or The Wine Shop 1909 Abstract: Vengono analizzati gli elementi di contatto e di distinzione tra i punti di vista di Blanchard e Brancaccio, cercando di trarre considerazioni più generali sulle differenze tra approcci mainstream e alcuni approcci eterodossi. Si sostiene che negli approcci mainstream viene mantenuta una distinzione concettuale tra domanda e offerta in cui, con maggior nettezza rispetto agli approcci eterodossi, si individuano problemi economici che non possono essere affrontati con la gestione della domanda aggregata, anche qualora se ne ritenga utile o necessaria una gestione attiva. Condividendo questo approccio, si discute brevemente della situazione economica italiana, in cui le debolezze di offerta di lungo periodo si intrecciano con i problemi di domanda, e in cui il livello del debito pone seri vincoli alla possibilità di far ricorso alla spesa per sostenere la domanda interna. Si sottolinea infine l’utilità del dibattito accademico, anche tra scuole di pensiero diverse, che si è aperto dopo la crisi.

* * * *

La crisi finanziaria del 2008-2009 è stata un evento drammatico, con ripercussioni profonde e dolorose per milioni di persone, nonostante alcuni insegnamenti tratti dalla crisi del 1929 abbiano permesso di evitare il peggio in gran parte delle economie avanzate coinvolte. In Europa la crisi ha avuto sviluppi del tutto peculiari con il divampare della crisi dei debiti sovrani, che ha messo in luce l’inadeguatezza dei suoi assetti istituzionali, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento dell’unione monetaria. La risposta lenta dell’Unione Europea, segnata dalla contrapposizione degli interessi nazionali di breve periodo, ha prolungato ed esacerbato gli effetti della crisi finanziaria, soprattutto per le economie più deboli, incrinando le relazioni tra paesi e popoli europei.

Una crisi di tali dimensioni non poteva non avere riflesso sulla percezione del funzionamento delle moderne economie di mercato, soprattutto per quanto riguarda i sistemi finanziari; ha inciso profondamente sulla conduzione della politica monetaria, mettendo in discussioni prassi via via consolidatesi a partire dagli anni Settanta; ha alimentato un vivace dibattito sull’adeguatezza delle teorie economiche oltre che delle scelte di politica economica.

È in questo contesto che si colloca il confronto tra Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard, l’uno su posizioni che si muovono al di fuori del cosiddetto pensiero mainstream, l’altro che del mainstream fa parte, ma che certo non è incline all’ortodossia (Blanchard e Brancaccio, 2019). La domanda che il dibattito solleva può essere posta in maniera semplicistica nel modo seguente: la crisi ha messo in evidenza un problema di fondo nella disciplina economica? Ne seguirà un ripensamento degli strumenti di analisi e delle politiche in maniera simile a quanto avvenuto dopo la crisi del 1929 o in seguito alla stagflazione degli anni Settanta?

Ormai è passato oltre un decennio dall’avvio della crisi e queste domande non sono certo nuove. Subito a ridosso della crisi finanziaria molti economisti1 si sono espressi su come questa avesse posto la necessità di interrogarsi sui limiti della disciplina economica, anche alla luce della scarsa capacità della professione di leggere i fenomeni che avevano portato alla più profonda crisi delle economie avanzate dal 1929 in poi. Un decennio di politiche e gli sviluppi economici successivi hanno certo fatto ulteriormente avanzare il dibattito. Mi piace tuttavia ricordare le riflessioni a caldo di Luigi Spaventa. Spaventa sottolineava certo alcuni limiti della modellistica macroeconomica più diffusa, ma anche e forse soprattutto l’affermazione nel tempo di un vero e proprio pregiudizio ideologico, che in certa misura prescindeva dalla stessa teoria, e come questo pregiudizio avesse poi condizionato le scelte di regolatori e policy-maker:

Anche a prescindere dalla teoria della finanza [...] si deve riconoscere che gli economisti hanno contribuito a creare una sorta di Zeitgeist che ha influenzato le azioni e le omissioni dei politici e regolatori: per tale ragione ricade su di essi una qualche responsabilità per ciò che è accaduto. I regolatori, sorpresi dalla crisi con gli occhi chiusi, avevano opposto resistenza ai tentativi di mettere la regolamentazione al passo con le innovazioni finanziarie, come dimostrano molti esempi. Ciò era coerente con le credenze prevalenti: che i mercati si auto-regolassero e richiedessero un intervento dello stato il più leggero possibile; che il perseguimento dei propri interessi portasse a una corretta valutazione del rischio; che lo sviluppo finanziario fosse sempre bene favorevole alla crescita, comunque avvenisse. Ogni rispettabile economista naturalmente sapeva che la validità di tali proposizioni dipendeva da un gran numero di condizioni e ipotesi molto restrittive. La necessaria cautela tuttavia, veniva sovente meno nel processo di trasformazione dei risultati di rigorose ricerche in prodotti per il consumo immediato. Più in generale, pochi si sono opposti alla versione volgare del loro dottrine, quale era richiesta dalle congregazioni a cui erano indirizzate le loro prediche, che includevano soggetti dell’industria finanziaria con ben precisi interessi (Spaventa, 2009a).2

Personalmente condivido questa lettura e ritengo che un pregiudizio ideologico abbia alimentato un’eccessiva fiducia che i meccanismi di mercato possano assicurare esiti ottimali o almeno soddisfacenti guidando le analisi e le conclusioni di policy, più di quanto la professione non fosse o non sia tuttora disposta ad ammettere. Sarebbe ovviamente ingenuo immaginare una scienza sociale i cui attori non siano in parte guidati da convincimenti valoriali e in senso lato politici. Di tali pregiudizi vi sono tratti evidenti sia nel cosiddetto mainstream, al cui interno è presente tuttavia un amplissimo spettro di visioni alternative, sia nel variegato mondo delle teorie cosiddette eterodosse, anche se con segno generalmente opposto quanto a fiducia nel ruolo dei mercati e dell’intervento pubblico sull’economia. Allo stesso tempo non condivido le letture di quanti riducono il dibattito economico a una mera contrapposizione di punti di vista politici sulla società e sull’economia, in cui il successo di un filone di analisi sarebbe da imputare a strumenti di dominio culturale e ideologico. Ritengo piuttosto che la selezione dei filoni dominanti sia il risultato di un mix di fattori, tra i quali un ruolo importante è svolto dalla qualità delle argomentazioni teoriche in relazione agli sviluppi concreti dell’economia e ai problemi che la politica economica è chiamata ad affrontare. Da questo punto di vista, tuttavia, teoria e pratica nel governo dell’economia non seguono andamenti lineari nell’accumulazione delle conoscenze. Alcuni temi e problemi vengono con troppa facilità dimenticati; inerzie e conformismo influenzano la capacità di reazione a fronte dello sviluppo concreto degli eventi, sia in ambito accademico, sia nelle istituzioni e forse ancor di più in quanti hanno responsabilità di governo.

Fatta questa premessa e tornando alle due domande di fondo, mi sembra utile mettere in evidenza quelli che a mio avviso sono i punti di contatto e gli elementi di maggior distanza tra i due interlocutori, limitatamente al governo macro dell’economia. Entrambi gli autori ritengono necessarie politiche macroeconomiche attive, ovvero ritengono che i mercati non assicurino gli esiti più efficienti o che comunque i meccanismi di aggiustamento di mercato possano essere troppo lenti o addirittura destabilizzanti. Entrambi ritengono utile o necessaria una politica attiva nella gestione della domanda aggregata, sia tramite gli strumenti di politica monetaria sia tramite la politica fiscale. Da questo punto di vista, l’interlocutore scelto come obiettivo critico da Emiliano Brancaccio non si colloca certo all’estremo opposto dello spettro della teorica economica mainstream, anzi, potremmo dire che i due interlocutori si muovono in campi adiacenti.

Blanchard è anche disposto a ritenere non pienamente fondata quella dicotomia tra domanda e offerta che guida i modelli economici standard, ovvero l’idea che le fluttuazioni della domanda non alterino il sentiero di crescita dell’economia guidato dai cosiddetti fondamentali: fenomeni di isteresi o comunque lentissimi processi di aggiustamento fanno sì che gli shock di domanda possano alterare in maniera persistente o permanente il sentiero di crescita dell’economia; inoltre la presenza di equilibri multipli può far sì che l’economia vada a collocarsi lontano dagli equilibri più favorevoli, come conseguenza di shock esogeni e decisioni di politica economica. Da questo punto di vista Blanchard dichiara che l’esperienza recente della crisi lo ha convinto della necessità di politiche ancor più aggressive e tempestive. Non solo, Blanchard mette in evidenza come sul piano concreto la politica monetaria si sia adeguata (in Europa meno prontamente) alla nuova situazione di strisciante deflazione, mentre minore sia stato il suo impatto sulla politica fiscale, e nella gestione del debito pubblico, in un contesto di tassi di interesse inferiori al tasso di crescita nominale dell’economia (anche se non nel caso dell’Italia). Anche da questo punto di vista i punti di contatto tra i due autori sono notevoli.

Cosa differenzia allora i due autori sul piano delle politiche e dell’impianto teorico?

Innanzitutto mi sembra una premessa meta economica, che Blanchard rende esplicita: con tutti i limiti che conosciamo i mercati svolgono una funzione fondamentale non pienamente sostituibile dalle istituzioni pubbliche: l’intervento pubblico può correggerne gli esiti macroeconomici e cercare di regolamentare i mercati al meglio, in una sfida continua e senza una soluzione finale, dati i processi di innovazione che ne guidano l’evoluzione. In un’economia di mercato, si può decidere di affidare al settore pubblico la gestione diretta di pezzi importanti dell’economia, ma i mercati non possono essere completamente sostituiti da omniscienti autorità pubbliche. Il ragionamento di Blanchard è quindi quello di un economista che ritiene incomprimibile, oltre certi limiti, l’azione dei mercati e con essa il ruolo e la libertà di imprese, investitori, consumatori e lavoratori che reagiscono a incentivi economici. Non credo che questo punto di vista sia pienamente condiviso da Brancaccio e comunque è probabile che i due autori non concordino sui limiti da porre al campo d’azione dell’intervento pubblico.

È qui che intervengono forse le differenze più profonde, differenze anche analitiche, che mi sembra si possano estendere al confronto più ampio tra il pensiero economico standard e parte della galassia eterodossa, ma non necessariamente nella sua interezza. Semplificando, a me pare che il lato dell’offerta del sistema economico sia scarsamente rilevante in alcuni approcci non standard (esemplificativo il dibattito in corso sulla Modern Monetary Theory) e che la relazione tra alcune variabili chiave sia considerata essenzialmente indeterminata, dando l’impressione (illusione?) che la loro determinazione sia nella disponibilità piena della politica economica (in particolare i prezzi dei fattori produttivi). Dal lato opposto, il pensiero economico standard ritiene che l’offerta abbia un ruolo centrale, fino all’estremo, in alcuni approcci, di non considerare le fluttuazioni e il livello della domanda un vero problema per il sistema economico. Anche nei teorici mainstream più inclini a riconoscere la necessità di una gestione attiva delle leve di politica economica, tuttavia, è ben chiaro che la struttura dell’offerta e i comportamenti di imprese, lavoratori e consumatori, anche in reazione alle politiche, hanno un ruolo centrale, ruolo di cui tenere pienamente conto nelle scelte di politica economica.

L’approccio teorico di Brancaccio tiene ampiamente conto dei problemi di “struttura” dell’economia e quindi non può essere ricondotto alle semplificazioni tipiche di quella eterodossia che bada solo ai problemi di domanda. Nel manuale di Brancaccio, tuttavia, per comprensibili ragioni di esemplificazione didattica, il lato dell’offerta sembra avere un ruolo passivo, adattivo direi, così che la gestione della domanda sembra sempre in grado di guidare l’economia verso la piena occupazione, senza che ciò richieda aggiustamenti dal lato dell’offerta; i prezzi dei fattori non hanno un ruolo allocativo, ma svolgono essenzialmente una funzione distributiva e come tali sono determinati dai rapporti di forza tra diversi interessi.

L’intervento pubblico nella gestione della domanda aggregata sembra essere giustificato solo nella sua versione espansiva; di contro, gli interventi restrittivi non sembrano essere mai necessari o al limite sono da interpretare come soluzioni inappropriate a uno strisciante conflitto distributivo. Indicativa da questo punto di vista l’insistenza nel libro sul fatto che non esisterebbe una relazione certa tra salari e prezzi, in quanto il mark-up sui costi sarebbe endogenamente determinato dal rapporto di forza tra interessi contrapposti. Ma anche ammesso che non esista una relazione meccanica tra le due variabili, se ne può trarre la conclusione che i margini di profitto possano essere compressi a piacimento senza ripercussioni economiche? Al termine della descrizione del suo modello didattico lo stesso Brancaccio allerta il lettore, specificando che sarebbe un errore trarre da esso conclusioni ingiustificatamente ottimistiche sulle concrete possibilità di spingere la domanda e i salari a livelli massimi senza temere contraccolpi sulle “condizioni di riproduzione del capitale” (Brancaccio, 2017, pp. 72-73). Del resto, da questo punto di vista anche nel campo eterodosso si possono trarre spunti di riflessione su come tassi di rendimento del capitale eccessivamente bassi possano retroagire negativamente su investimenti e crescita, e quindi disoccupazione, di fatto ponendo dei limiti alla possibilità per i salari di crescere sistematicamente più della produttività (ad esempio Marglin e Bhaduri, 1990). Su questo punto mi piace anche citare Blanchard (1997) che, riflettendo sulle conseguenze del wage push degli anni Settanta in alcune economie europee, mostra come un economia aperta che per le sue dimensioni non sia in grado di influenzare il rendimento del capitale prevalente sui mercati globali, una spinta salariale che riduca il rendimento al di sotto di quello medio possa innescare meccanismi di riequilibrio via declino degli investimenti e innalzamento del tasso di disoccupazione. Questo ci ricorda che anche qualora non si riconosca la validità della teoria neoclassica della distribuzione dei redditi e formazione dei prezzi dei fattori, i singoli paesi non necessariamente hanno la possibilità di influenzare la determinazione del tasso di rendimento del capitale. Non a caso Brancaccio evoca nel suo intervento a Milano la possibilità di introdurre controlli sui movimenti dei capitali: una ipotesi, tuttavia, sulla cui attualità/possibilità storica mi sento di esprimere dei dubbi.

Questi richiami sono utili per sottolineare una differenza di approccio rispetto ai filoni dominanti, che mi sembra di individuare nella relazione tra domanda e offerta. Anche se come indicato da Blanchard i due lati non sono così separati come si tende a credere, nel senso, ad esempio, che una protratta caduta della domanda può avere effetti protratti o addirittura permanenti sull’offerta, ciò non di meno i problemi di offerta rimangono concettualmente diversi da quelli di domanda: alcuni problemi originano dal lato della domanda e possono essere affrontati con le politiche monetarie e fiscali, altri originano dal lato dell’offerta, e richiedono soluzioni diverse dai primi, compresi eventuali aggiustamenti dei prezzi nei diversi mercati (anche dei fattori). In tale schema teorico, anche se si ritiene che le politiche pubbliche abbiano un ruolo di primaria importanza, non si pensa che esse possano guidare il sistema verso soluzioni arbitrarie; il decisore pubblico cercherà di ottenere gli obiettivi desiderati, ma nel rispetto delle compatibilità macroeconomiche, storicamente date, che ne limitano l’azione.

Tra questi vi è il vincolo/obiettivo di garantire la stabilità macroeconomica del sistema, il che significa, se necessario, anche frenare le pressioni inflazionistiche con politiche restrittive. Un esempio per tutti, particolarmente significativo, è l’obiettivo del raggiungimento della massima occupazione, dato il vincolo-obiettivo della stabilità dei prezzi. Per quanto viviamo oggi in una fase di debole inflazione in tutte le grandi economie avanzate, la lezione della stagflazione degli anni Settanta non può certo essere rimossa dall’orizzonte teorico e pratico, come pure non possono essere ignorati i casi limite di alcune economie che, anche oggi, fronteggiano fenomeni di inflazione fuori controllo e conseguenti crisi valutarie.

Da questo punto di vista, riconoscimenti del ruolo fondamentale dei fattori di offerta si trovano anche nel campo degli economisti dichiaratamente eterodossi. Significativi mi sembrano da questo punto di vista i commenti critici di Thomas Palley alla Modern Monetary Theory, approccio teorico in cui i fattori di offerta a suo dire sarebbero largamente sottovalutati. Palley così si esprime:

Nel mondo reale, la politica economica e i risultati delle politiche sono soggetti a numerosi vincoli e interessi economici. Questi includono questioni riguardo i tassi di interesse di lungo periodo sul mercato del credito privato e sui titoli pubblici, la stabilità dei mercati finanziari, la bilancia dei pagamenti e il tasso di cambio, il vincolo inflazionistico imposto dalla curva di Phillips, e vincoli alla credibilità e implementazione delle politiche (Palley, 2019, p. 12, nostra traduzione).

E ancora sui vincoli esterni alla politica economica:

Il finanziamento monetario dei deficit può anche avere conseguenze negative sul tasso di cambio e la bilancia dei pagamenti. Deficit di bilancio espansivi si diluiscono in deficit commerciali tramite il loro impatto sul reddito e la domanda di importazioni. Il deterioramento della bilancia commerciale tende poi a deprezzare il tasso di cambio. Il tasso di cambio tenderà a deprezzarsi anche a causa dell’aggiustamento delle posizioni internazionali di portafoglio. A sua volta, il deprezzamento del tasso di cambio può causare inflazione, che peggiora il problema del deprezzamento. In aggiunta, in alcune circostanze, il deprezzamento può indurre una contrazione dell’economia (ivi, pp. 14-15).

Da ultimo Palley si spinge a considerare possibili effetti depressivi di espansioni fiscali, in ragione del contesto e della reazione dei mercati:

E’ interessante che l’effetto dei deficit di bilancio sui mercati del credito e delle attività può essere espansivo o recessivo. Il segno dipende probabilmente dallo stato dell’economia (cioè se è vicina o lontana dal pieno impiego) e dalle aspettative sul futuro, che sono influenzate dalla natura del regime di policy (ivi, p. 14).

L’elenco di Thomas Palley è lungo e articolato e mi è sembrato utile riportarlo quasi nella sua interezza in quanto ci ricorda la complessità del governo dei sistemi di mercato, anche qualora si ritenga che i mercati lasciati a se stessi non garantiscano equilibri ottimali per l’economia.

Tornando alle domande di partenza, a me sembra che la recente crisi apra il campo a profondi ripensamenti sul ruolo delle politiche economiche, sia per quanto riguarda la regolamentazione dei mercati, sia per quanto concerne le politiche macroeconomiche. Tuttavia, una buona teoria macroeconomica deve tener conto dei limiti delle politiche e soprattutto essere in grado di dare indicazioni utili distinguendo concettualmente la natura dei problemi che devono essere affrontati. A mio avviso resta utile la distinzione, con tutti i caveat già ricordati, tra problemi che originano dal lato della domanda da quelli che invece attengono alla sfera dell’offerta. La crescita di lungo periodo di un’economia può essere aiutata da una saggia gestione della domanda aggregata, ma non è certo solo da questa che dipendono i destini di lungo termine di un sistema economico. Anche nel breve termine, inoltre, non sempre i problemi originano dalla debolezza della domanda interna. Un paese che perda competitività a causa di uno shock esogeno permanente, che determini una caduta delle sue quote di mercato e deficit persistenti di parte corrente, difficilmente potrà recuperare i livelli di attività in maniera sostenibile espandendo la domanda interna (qualunque sia il regime dei cambi). Possono sembrare conclusioni ovvie, ma a mio avviso tanto ovvie non sono guardando al dibattito di politica economica nazionale, in cui si tende a ritenere, pressoché in ogni frangente storico, che la crescita dipenda dalla possibilità di sostenere la domanda con politiche macroeconomiche espansive.

Da un lato, io ritengo che vi siano buoni motivi per ritenere che nell’economia globale allignino attualmente pressioni deflattive che originano da fattori strutturali, che frenano la domanda. Tra questi fattori possono sicuramente rientrare gli squilibri nella distribuzione dei redditi ampiamente sottolineati da Brancaccio nel capitolo 4 del suo libro e richiamati anche da Blanchard e Summers (Brancaccio, 2017; Blanchard e Summers, 2019); tali squilibri possono anche essere all’origine di crescenti livelli di indebitamento privato e pubblico (si veda ancora Brancaccio, ma anche Rajan, 2010, a testimonianza dei punti di contatto analitico tra scuole di pensiero diverse). Dall’altro credo occorra rifuggire da facili generalizzazioni o meccaniche applicazioni di queste analisi all’insieme delle economie avanzate. In particolare mi preme sottolineare alcuni aspetti specifici dell’economia italiana che richiedono cautela quando si passi dal dibattito internazionale a quello sull’economia del paese, ormai da un ventennio in una fase di declino economico relativo e ancora profondamente segnata dalla crisi finanziaria e da quella dei debiti sovrani.

A partire dalla fine degli anni Novanta, l’Italia ha registrato tassi di crescita modestissimi; ha mostrato una perdita superiore alle altre economie avanzate delle sue quote di mercato e, fino alla crisi, uno strisciante aumento del deficit di parte corrente, nonostante la debolezza della crescita. Contrariamente a quanto avvenuto in molte altre economie avanzate, inoltre, la quota dei profitti al netto delle rendite immobiliari e il rendimento del capitale hanno iniziato a flettere fin dal 2001 (Torrini, 2015; Amici et al., 2018), in particolare nel settore manifatturiero, ovvero nel settore più esposto alla concorrenza internazionale. Ciò è accaduto nonostante il debole aumento dei salari reali, dato l’arresto della crescita della produttività del lavoro. Alla base di questi sviluppi, vi sono probabilmente i rapidi mutamenti dell’ambiente competitivo internazionale (Bugamelli et al., 2018), a partire dall’integrazione nel commercio internazionale della Cina e dei paesi dell’Est Europa, unitamente a rapidi cambiamenti tecnologici di cui sembrano essersi avvantaggiati soprattutto paesi con un tessuto produttivo con un peso più rilevanti di grandi imprese e settori tecnologicamente avanzati. Non mi sembra quindi che la stagnazione dello scorso decennio, che fece già all’epoca parlare di declino (ben prima quindi della grande crisi), possa essere dipesa prioritariamente da un problema di domanda interna o da squilibri distributivi, più rilevanti invece su scala globale (in Italia i salari sono cresciuti più della produttività del lavoro non meno, cosa peraltro difficile data la stagnazione del prodotto per ora lavorata). Si potrebbe invece discutere delle conseguenze di lungo termine che ha avuto la decisione dei governi di arrestare dopo l’ingresso nell’euro l’aggiustamento dei conti pubblici, con il progressivo azzeramento3 degli avanzi primari faticosamente costituiti negli anni Novanta, scelta che ha sicuramente accresciuto la fragilità del paese a fronte della crisi dei debiti sovrani.

Nella fase attuale, i problemi di offerta non sembrano superati, stante la debolezza della crescita della produttività, anche se il paese ha recuperato faticosamente una sufficiente capacità di competere sui mercati internazionali. A ciò si aggiunge la sfida di un rilancio della domanda interna, in particolare degli investimenti privati e pubblici, dopo la caduta registrata con la crisi dei debiti sovrani, nel rispetto del duplice vincolo di non vanificare i progressi con rialzi dei tassi sul debito sovrano e di non incrinare i recuperi di competitività che hanno sostenuto fino ad oggi la debole ripresa seguita alla crisi. Si tratta di vincoli stringenti, ma che a giudizio di chi scrive non sarebbe saggio ignorare a meno di non voler correre deliberatamente il rischio di esiti che non è certo esagerato dipingere come drammatici. Penso che questa mia valutazione sulle specificità del caso italiano e dei vincoli che esso pone sia in fondo condivisa non solo da Blanchard, ma anche da Brancaccio.

Ciò non di meno, il richiamo a un ruolo più attivo delle politiche economiche, punto di contatto tra Brancaccio e Blanchard, non è certo irrilevante per il nostro paese. Questo tipo di confronto può favorire un più ampio consenso per politiche più inclini a sostenere la crescita economica, sia a livello globale sia soprattutto e livello europeo, contesto di riferimento irrinunciabile per l’Italia. Nell’area dell’euro si può ad esempio auspicare che il dibattito intellettuale favorisca il superamento di alcuni limiti della sua architettura istituzionale, ad esempio con la costituzione di strumenti centrali per la stabilizzazione fiscale e la condivisione dei rischi macroeconomici, nonché l’assunzione di un più chiaro impegno per la gestione degli squilibri interni di parte corrente.

Sul piano culturale, ritengo che la crisi abbia riaperto lo spazio a un dibattito più problematico e meno schematico, che attribuisce nuovamente rilevanza alla possibilità che un confronto costruttivo tra paradigmi di ricerca alternativi possa favorire il progresso della conoscenza in campo economico. Tale dibattito, tra l’altro, può accrescere i gradi di sovrapposizione tra le conclusioni di policy di economisti che seguono approcci teorici anche piuttosto diversi tra loro. La contaminazione delle idee avrà a mio avviso tanto maggior successo quanto maggiore sarà il rigore delle analisi e maggiore la capacità di costruire schemi teorici che colgano la complessità di economie di mercato. Il ruolo attivo della politica economica può trovare oggi più facile consenso, ma ciò richiede, come ho più volte ricordato in questo intervento, una diagnosi attenta dei problemi che si fronteggiano e dei limiti che la politica economica incontra in un’economia di mercato, che a giudizio di chi scrive è bene che rimanga tale. Alcuni limiti possono essere “semplicemente” culturali o derivare dalla difesa di interessi costituiti, ma credo che la buona teoria possa saper distinguere e guidarci nelle scelte più appropriate.


* Contributo al numero speciale di Moneta e Credito dal titolo “Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio”, ispirato dal dibattito tra Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio tenutosi presso la Fondazione Feltrinelli a Milano il 18 dicembre 2018. Numero a cura di Emiliano Brancaccio e Fabiana De Cristofaro.
Le opinioni espresse non coinvolgono l’istituzione di appartenenza. L’autore è stato direttore dell’Agenzia nazionale di valutazione del Sistema universitario e della ricerca (ANVUR).
Quest’opera è distribuita con licenza internazionale Creative Commons Attribuzione ‒ Non commerciale ‒ Non opere derivate 4.0. Copia della licenza è disponibile alla URL http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/
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Blanchard O. e Summers L. (2019), “Ripensare la politica macroeconomica: evoluzione o rivoluzione?”, Moneta e Credito, 72 (287), pp. 171-195 (orig. “Rethinking Stabilization Policy: Evolution or Revolution?”, NBER Working Paper, n. 24179, Cambridge (MA): National Bureau of Economic Research, 2017).
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Note
1 Si vedano ad esempio i diversi contributi apparsi nella serie Policy Insights del CEPR, in particolare di Leijonhufvud (2009) e Acemouglu (2009), oltre che il contributo di Spaventa citato più avanti (2009a). Sulle difficoltà delle previsioni economiche si veda Visco (2009). Sulla necessità di riconsiderare l’uso dei modelli DSGE e in generale sui limiti di conoscenza che si incontrano nel governo dell’economia, si veda Caballero (2010). Blanchard et al. (2010), sulle lezioni della crisi per la conduzione della politica economica.
2 Cfr. sullo stesso tema anche Spaventa (2009b).
3 L’avanzo primario scese progressivamente dal 4,6 per cento del PIL nel 1999 allo 0,4 nel 2006, nonostante la spesa per interessi fosse diminuita nello stesso periodo di quasi 2 punti del prodotto.

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AlsOb
Tuesday, 15 October 2019 17:40
Questo pateticamente scrive un profluvio di parole inutili senza minimamente avvedersi del cambio fisso e del fatto che il debito nazionale è in moneta straniera.
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AlsOb
Tuesday, 15 October 2019 17:40
Questo pateticamente scrive un profluvio di parole inutili senza minimamente avvedersi del cambio fisso e del fatto che il debito nazionale è in moneta straniera.
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