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ilmulino

I caratteri variegati della democrazia

Salvatore Biasco

salinas arte delle democrazia COVER COMUNICATO 750x315Le riflessioni di Salvati sullo stato della democrazia in Occidente sono da par suo penetranti e piene di suggestioni analitiche. Il suo punto di vista, anche dove non convinca pienamente, è innegabile che contenga sempre un elemento di verità. Non sono, tuttavia, le singole affermazioni - delle quali, appunto, accetto il contenuto di verità - a spingermi a scrivere queste note, ma la necessità di inquadrare meglio il senso complessivo dell’articolo e l’ispirazione che muove quelle riflessioni, in una sorta di ragionamento ad alta voce. Non ho capito se il suo bersaglio polemico (o meglio la correzione di giudizio che Salvati auspica) sia diretto a coloro che ripropongono l’adozione integrale di un approccio «socialdemocratico», o indirizzato a demitizzare il «mito» dei «Trenta gloriosi» dal punto di vista della qualità democratica, a introdurre una categoria di giudizio da non dare per acquisita (l’eccezionali-tà delle condizioni esterne), o a mettere in guardia da facili semplificazioni di analisi di un fenomeno complesso.L’incipit è una domanda sulle ragioni che spieghino il coro di analisi sul peggioramento odierno della qualità democratica nei capitalismi occidentali. Salvati non è evidentemente convinto che quel peggioramento vada preso per scontato, non perché non veda gli aspetti problematici della democrazia oggi, ma perché ritiene che nei due secoli in cui è stata il sistema politico prevalente ha manifestato, talvolta anche con maggiore gravità, i problemi che oggi appaiono così evidenti.

Molto raramente o forse mai quel sistema politico ha avvicinato l’ideale dell’eguale influenza di tutti i cittadini nelle decisioni e di esiti conseguenti di buon governo. Sotto sotto, anche i periodi che fanno pensare a un’età d’oro della democrazia e che oggi rimpiangiamo (gli anni del secondo dopoguerra) sono stati di fatto l’esito di una combinazione particolare di eventi e condizioni istituzionali dell’economia internazionale (e della conseguente espansione del benessere), ma che nulla hanno a che fare con la qualità della partecipazione democratica.Oggi come ieri il processo politico produce oligarchie, semmai anche incorporate nel sistema dei partiti. Produceva delega passiva e partecipazione ridotta. La facilità di ottenere esiti soddisfacenti di governo dava l’illusione di buona democrazia. Il fatto che quelle combinazioni non siano più ripetibili e che ne siano conseguenza una caduta dell’espansione del benessere e un accrescimento dell’insicurezza e di condizioni di disagio cambia le sensazioni, ma avviene per una ragione puramente esterna che fa perdere adesione al sistema sociale e produce il giudizio di una democrazia più in crisi e più deludente di quanto sia mai stata. Salvati ha in mente periodi alquanto estesi della storia dell’Occidente. Io mi limito al confronto con le caratteristiche che il sistema democratico odierno presenta in relazione al trentennio «socialdemocratico». Qui è mia impressione che egli sovrapponga spesso il giudizio sulla peculiarità e irripetibilità delle condizioni che segnarono quel periodo a un giudizio scettico sull’idea che ci siano state un’età dell’oro dei processi democratici e soprattutto minori contraddizioni tra capitalismo e democrazia. Talvolta si potrebbe essere portati a pensare che dal primo dei due giudizi discenda l’altro.

L’irripetibilità del mondo del dopoguerra (dal punto di vista internazionale, sociale, antropologico e relativo agli amalgami sociali) è ovviamente fuori discussione. Chiediamoci però se oggi i processi democratici siano più o meno equivalenti a quelli di allora e se viviamo nella stessa cornice «democratica» di allora.

La «democrazia» ovviamente non è riferita, negli argomenti che seguono, ai principi liberali di organizzazione dello Stato - dalla separazione dei poteri al pluralismo politico, o alla libera espressione e formazione della società civile (caratteri che, con un’estensione più o meno ampia, non sembrano in discussione nell’area a maggior benessere in questa parte del mondo) - ma è riferita agli elementi di sostanza che si esprimono sul terreno della partecipazione, della padronanza e capacità di incisione che i singoli hanno sui destini individuali e collettivi. È riferita soprattutto alla concezione economica e sociale della democrazia. Va aggiunto che attiene all’ordine democratico la capacità di integrare sistematicamente la società attraverso il consenso e la coesione, o quanto meno il contenimento e la proceduralizzazione dei conflitti. Ma la democrazia è più di questo: è sovranità popolare (per quanto indiretta), col suo corollario di diritti e obbligazioni universali nella sfera politica, civile e sociale. È un ordine di inclusione, vale a dire, di redistribuzione di potere e ricchezza, di godimento pieno della cittadinanza, di riduzione delle distanze tra condizioni individuali. Salvati dà una definizione un po’ estrema delle qualità astrattamente democratiche dei sistemi politici: la uguale capacità di incidenza nelle decisioni di tutti i cittadini, che ovviamente non ritrova in nessun momento della storia politica. Mi accontenterei di meno: di una ragionevole presenza degli elementi citati in precedenza.

Nel mio ultimo libro (Regole, Stato e uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, Luiss University Press, 2016, cui rimando per ulteriori approfondimenti) sostengo che per quanto sia arbitrario porre in scala gli elementi di democrazia sostanziale e arrivare a un giudizio sintetico, possiamo convenire di considerare più democratico un sistema quanto maggiori siano le possibilità di scelta individuale e collettiva in merito ai vari aspetti dell’assetto sociale ed economico / quanta più partecipazione quel sistema consenta / quanta più capacità di controllo abbiano i singoli sui processi che su di loro ricadono / quanta più socialità di qualsiasi forma sia incorporata nel processo produttivo / quanto più protetti siano i rischi sociali / quanto maggiore sia l’equilibrio di poteri in campo economico / quanto maggiore sia la trasparenza in tutti i campi dell’agire economico / quanto minore sia l’area del conflitto di interessi di coloro le cui scelte coinvolgono terzi / quanto più il sistema sia protetto dall’incertezza economica e preservato da crisi e oscillazioni.

A me sembra che il peggioramento in quasi tutte queste direzioni sia inequivocabile. Il che non mi fa perdere di vista che anche nei periodi d’oro - per quanto fosse ampio lo spettro di elementi di democrazia sostanziale incorporati nel processo politico ed economico - l’ambito capitalistico in cui tale processo è avvenuto (e avviene) non ammetteva soluzioni radicali, che contraddicessero la logica di accumulazione privata e la demotivassero, o sfidassero con decisione il principio della proprietà, o superassero certe soglie negli assetti regolatori e redistributivi o, ancora, ponessero una seria sfida al potere delle oligarchie economiche o di altro tipo. In un certo senso, la democrazia è sempre stata a sovranità limitata nell’ambito del capitalismo. Allora come oggi.

Tuttavia, la base di legittimazione dei governi e di ciò che conseguiva al meccanismo economico-so-ciale in essere di funzionamento della società (cioè, l’accettazione delle scale sociali in termini di reddito e potere) poggiava prevalentemente sull’inclusione sociale, sul patto, vale a dire sulle potenzialità degli strati popolari di incidere su quel meccanismo, esserne parte, e poterlo condizionare in un compromesso. È molto diverso quando quella legittimazione del processo economico e politico in essere è affidata prevalentemente a un contesto culturale che sancisce l’ineluttabilità del presente, la sua immodificabilità e l’assenza di alternative (oltre che le potenzialità di progresso e di prosperità generale che il nuovo capitalismo proclama di incorporare, ormai in disuso).

La base di questa inclusione sono stati i partiti di massa: quei partiti, cioè, che hanno incanalato le domande popolari. Essi appartenevano al campo della sinistra democratica ma potevano anche essere di ispirazione social-cristiana. I partiti socialdemocratici soprattutto avevano costituito, col loro peso nella società e sullo Stato (nonché con la capacità egemonica di diffondere oltre il loro perimetro la propria cultura e le proprie istanze), l’antidoto a che il mercato (e le classi che esso beneficia) potesse stabilire un ordine unilaterale. Erano conseguentemente stati un nucleo di resistenza e di riequilibrio rispetto agli esiti dei processi spontanei. I partiti di massa, in generale, potevano essere poco democratici prima come sono poco democratici oggi, come sottolinea Salvati. Ma il problema non è lì: è nei contrappesi che costituivano nella società e nella capacità di azione collettiva che consentivano ai singoli di incidere sui propri destini (nei luoghi di lavoro e fuori da essi); è nei canali di partecipazione, nella mobilità sociale ecc.

L’empowerment del cittadino comune è imparagonabile oggi rispetto a ieri. Il partito politico tradizionale, quand’anche dominato da oligarchie politiche, esprimeva pur sempre leadership che non richiedevano per emergere disponibilità di mezzi finanziari o l’appoggio di chi di quei mezzi dispone. Nella qualità della democrazia contano perfino le sensazioni soggettive di sentirsi coinvolti personalmente nel processo pubblico: un conto è sentirsi parte di una coalizione, di un processo che coinvolge orizzontalmente i propri simili, un altro è sentirsi parte di una tifoseria. In quel processo si esprimeva la voglia di riscatto collettivo di interi settori, vale a dire riscatto demandato alle conquiste nel processo istituzionale e legislativo da ottenere dentro un comune progetto politico. La democrazia è un fatto pervasivo di coinvolgimento nello spazio pubblico prima di essere un sistema di procedure.

Tutto questo non sarebbe stato possibile se non avesse trovato all’altro capo uno Stato permeabile all’azione di gruppi sociali e capace di dare a essi rappresentanza. Uno Stato che, programmaticamente, esercitava attraverso le sue istituzioni il contrappeso al potere che scaturisce dalla sfera economica, in modo che, al di là dell’essere attori del sistema economico, i singoli si sentano cittadini.

Oggi può non piacere e possiamo trovare anomala una condizione in cui ciascun gruppo è in condizioni di amministrare un qualche parametro (in alcuni casi la semplice forza dell’azione collettiva, in altri le leve economiche dirette) capace di condizionare le politiche generali e singoli provvedimenti, o capace di ripristinare la propria quota di reddito ogni qual volta sia minacciata. Conosciamo l’epilogo degli anni Settanta, che giustamente, osserva Salvati, portava in nuce tutta la storia successiva. Ma perfino in quel periodo l’economia cresceva a ritmi che non si sarebbero ripetuti poi, e le mediazioni cui era costretta l’azione pubblica erano anche portatrici di innovazione sociale in cui i cittadini continuavano a essere sollecitati a sentirsi parte di una comunità, non solo attori del sistema economico.

Dal punto di vista delle qualità democratiche non è indifferente che alternative di governo e organizzazione sociale esistano e si fronteggino in concorrenza e che le scelte presentate ai cittadini possano essere differenziate e distinte. Ciò non significa negare che anche allora esistessero ortodossie dettate dalle convenienze, dai rapporti di forza e dagli orientamenti culturali che abbracciavano sinistra e destra insieme. Il quadro che verrà dopo priverà gli elettori di alternative sostanziali. Quale che sia lo schieramento vincente, quella gabbia di acciaio che è andata formandosi attorno alle opzioni di politica economica ha lavorato per una conduzione degli affari che si è discostata sempre meno dai (e successivamente è caduta appieno nei) canoni che a poco a poco sembrano individuare l’unica via possibile alla crescita.

Sebbene i governi rispondano a un elettorato variegato e non siano mai tutt’uno con la borghesia più abbiente, né necessariamente siano i loro fiduciari (e a volte rappresentino coalizioni che includono strati popolari), la pratica nella conduzione degli affari finisce per non discostarsi, se non per varianti non significative, da un canone standard, perché il comportamento dei governi è tenuto dentro binari stretti da logiche «coercitive esterne», che vengono poi internalizzate da schieramenti e responsabili politici. Logiche che disegnano il canovaccio dentro il quale l’azione pubblica è spinta a prendere in considerazione solo la creazione di condizioni business friendly, definite da una sorta di piattaforma unica nella quale i governi imparano a destreggiarsi, di cui si perdono origini e implicazioni e il segno sociale. Ma quel segno non è neutro socialmente, perché l’imperativo alla competitività e alla garanzia che le molle per l’accumulazione - per come è disegnato nella piattaforma - non vengano toccate irrobustisce nella competizione globale la forza che consente al potere economico di dettare l’agenda della politica economica (e, per derivazione, della politica tout court)] forza che contrasta tutto ciò che è percepito come ostacolo alla competitività (politiche redistributive, tassazione, protezione del lavoro, vincoli normativi). Non solo questo: stabilisce l’humus culturale e il senso comune. Una forza che prima poteva essere temperata e che comunque doveva fare i conti con poteri controbilancianti. Quanto affermato non è qualcosa di ignoto, e certamente non lo è a un analista del calibro di Salvati, che conosce benissimo questi sviluppi. Per questo sono sorpreso che esiti a considerarli come parte integrante di un deterioramento della qualità democratica. Il fatto che i caratteri di allora siano irripetibili e che un programma democratico che li ripresenti sia improponibile non inficia il giudizio storico né dovrebbe indurre a vedere quel periodo sotto altra luce. Ma anche di questo penso che Salvati sia consapevole. Il che mi porta a interrogarmi di nuovo sul motivo che ispira il suo articolo. L’unica rappresentazione che me lo rende comprensibile è uno schema del tipo seguente, in cui i bersagli siano analitici: la qualità democratica della vita politica e sociale - intesa come uguale incidenza di tutti i cittadini nelle decisioni pubbliche - non è variata molto, ma essa si cala in due condizioni esogene, che sono quelle in cui hanno operato i capitalismi occidentali, espansive e di grande permissività nel primo caso; coercitive, competitive e con bassa espansione nel secondo. Variano le sensazioni che i due scenari alternativi producono ma non la sostanza elitaria e oligarchica dei modi in cui si svolge la vita collettiva.

Io non nego che i differenti scenari possano aver reso idilliaco ciò che era contraddittorio (ma è questione di pesi). Tuttavia, mi chiedo: siamo sicuri che quegli scenari vadano solo presi come esogeni?

Ovviamente molto è prodotto non consapevole di forze impersonali, di fattori tecnologici e di trasformazioni della società non controllabili. Ma la cultura diffusa nel secondo dopoguerra era cooperativa ed era guidata dalla consapevolezza che il capitalismo è instabile e vulnerabile, produce gravi ineguaglianze e differenziazioni, che ha bisogno di bardature al comportamento degli operatori e di regole globali per preservare ciò che ha un valore collettivo di stabilità, occupazione e salvaguardia dei diritti dei popoli; ed era consapevole che la società va costruita attraverso riforme e ingegnerie sociali che spostino potere e reddito e creino coesione. Come chiamarla se non cultura democratica? Il perno per temperare queste caratteristiche risiedeva nell’azione interventista dello Stato, nelle regole che riusciva a imporre, nel primato della politica sull’economia, all’interno così come nel consesso internazionale. Quella consapevolezza contagiava anche le élite dominanti ancora disposte allora a mettere in opera programmi estesi di funzioni collettive. Se poi le bardature sono state deboli e l’azione dello Stato (degli Stati) miope è per la perdita - a livello di responsabilità pubblica, sentimento diffuso e convinzione analitica - di un senso critico sull’operare del mercato e per una visione atomizzata dei rapporti sociali e economici, che ha ispirato il processo di depotenziamento delle regole, e di ritiro dello spazio pubblico.

Già che siamo in argomento, si può affermare che non è indifferente alla qualità della democrazia che una cultura democratica sia diffusa e che controbilanci una cultura di legittimazione del mercato e dell’ordine capitalistico. L’una che riflette le aspirazioni al coinvolgimento nelle decisioni, alla partecipazione, all’eguaglianza, alla trasparenza, ai diritti - metterei anche: che contesti l’ordine costituito - (aspirazioni che possono violare la logica del libero mercato); l’altra che accrediti un modus operandi fatto di interazioni motivate dal profitto e assicuri che le motivazioni di adesione e performance siano conformi alla logica del processo economico, e che venga introiet-tato un sistema di valori consono al suo modo di operare rendendone accettabili gli esiti. L’una comunitaria, l’altra individualistica. L’una che enfatizza la produzione come processo cooperativo e sociale, l’altra che enfatizza l’autonomia dei singoli e giustifica le gerarchie sociali che scaturiscono dal possesso individuale del capitale e dalla logica di accumulazione. Le due culture, di solito, coesistono e interagiscono.

Se poi abbiamo finito per ritrovare l’ordine neoliberale come scenario internazionale, e se è avvenuto che la destrutturazione del precedente ordine ha portato all’assetto semi-anarchico successivo (che oggi si tenta di nuovo di imbrigliare, per quel che ancora si può), è perché vi è stato un regresso della cultura democratica di fronte a quella liberale. La seconda ha finito per sopraffare la prima, diventando un pensiero pressoché totalizzante a livello di concezione tanto dell’ordine internazionale quanto dei singoli Paesi occidentali. Si tratta di una cultura che ha finito per far considerare ineluttabilmente superiori i dettati e le logiche del mercato, e che fornisce un quadro unico di interpretazione del mondo e dei suoi criteri di governance. Pensiamo solo ai presupposti - poi tradotti nella pratica - su cui nasce il Trattato di Maastricht, che non è un accidente della Storia. Pensiamo alla liberalizzazione completa dei movimenti di capitale e delle merci.

Ma quella cultura non è solo responsabile di una preclusione verso il governo internazionale dell’economia. È anche responsabile di altri processi che mutano l’humus democratico se il programma politico che suggerisce è dotare i singoli di strumenti economici di partecipazione al mercato più che di strumenti politici per la partecipazione. Se l’idea stessa di contratto sociale si eclissa, se non induce alla mobilitazione ma a cercare le soluzioni o le vie di uscita singolarmente, se determina un alone di disfavore verso lo Stato, se affievolisce l’anelito universalista dello Stato sociale, se porta alla spoliticiz-zazione nel dibattito pubblico e nell’azione politica delle questioni del lavoro e di quelle inerenti i poteri economici.Da ultimo: dove stiamo andando? Qui concordo con Salvati: non è in vista un collasso delle democrazie intese come sistema procedurale e di convivenza civile. Anche i movimenti contestatori non mettono in discussione il quadro di regole civili, che possiamo considerare consolidate in Occidente. Inoltre, a livello internazionale, è più facile che le difficoltà del momento portino a definire un insieme di regole condivise, piuttosto che a guerre economiche e a un «rompete le righe». Tuttavia, il rapporto tra capitalismo e democrazia si è molto deteriorato e si è molto squilibrato e la sensazione di arretramento sostanziale della democrazia non è un’illusione ottica, ma la traduzione soggettiva e analitica degli eventi in corso. È possibile aspettarci in futuro un riequilibrio? È già molto cercare di evitare un deterioramento. Ciò dipenderà essenzialmente dalle vicende economiche e dal formarsi di coalizioni capaci di mobilitarsi per maggiori conquiste democratiche. Lo svuotamento della democrazia forse basta e avanza, e può anche rimanere al punto in cui è. Si porterebbe dietro, certamente, una crisi dell’accumulazione in Occidente, ma questa si riverserebbe non tanto sui profitti e sull’accumulo di capitale (che hanno ormai trovato modo di proteggersi ugualmente), quanto sulla situazione sociale. La variabile è se questa esplode rendendo il tutto instabile o se può anche essere tenuta (malamente) sotto controllo dalle tante mediazioni costruite in questi anni. Probabilmente è questo lo scenario più plausibile

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