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labottegadelbarbieri

Un ricordo di Samir Amin

di Giorgio Riolo (*)

Il marxismo di Samir Amin e il progetto di emancipazione per i popoli delle periferie del mondo

bourdain cuba no reservations.0I.

Samir Amin rientra tra coloro i quali più si sono attenuti alla feconda interazione e al reciproco sostanziarsi di teoria e storia, di astratto e concreto, di conoscenza e realtà fattuale storico-sociale. È il suo un contributo di grande valore per dare coerenza teorica e categoriale a questo materiale empirico, reale. È in lui soprattutto la feconda interazione e la stretta interdipendenza di impegno politico militante e di necessaria riflessione teorica e culturale.

Il militante (comunista, terzomondista-internazionalista, antimperialista, altermondia-lista ecc.) dialoga e illumina l’intellettuale marxista. E viceversa. È un pendolo, una oscillazione tra i due poli, costante. L’intera sua parabola di vita, e il suo apporto per noi, e per questo siamo qui a svolgere questo seminario, si dispiega dalla precoce adesione ai valori (morali, etici, intellettuali) socialisti e comunisti e dalla precoce lettura di Marx fino alla recente scomparsa come continuo confronto con la storia reale, con il capitalismo, con Marx e con i marxismi storici, con la storia del movimento operaio, socialista e comunista, e dei movimenti di liberazione nazionale del Sud del mondo, con il socialismo reale e con le varie rivoluzioni nelle periferie (Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc.), con la concezione generale della alternativa socialista.

 

II.

Il compito mio in questo seminario è pertanto quello di soffermarmi sul peculiare marxismo di Amin e sui suoi apporti al sistema di idee che origina da Marx. E sulla storia reale della sua militanza politica come apporto originale al progetto di emancipazione umana che chiamiamo socialismo, in primo luogo per i popoli e le classi subalterne delle periferie del mondo.

Così facendo, giocoforza, ritornerò a precisare alcuni caratteri del capitalismo realmente esistente. Avendo come riferimento ovviamente la relazione iniziale di Massimiliano Lepratti.

Procederò per punti, anche schematici, e se vogliamo possiamo naturalmente approfondire nel dibattito. Concludo con una veloce considerazione finale, per venire a noi e ai nostri giorni.

 

III.

La prima mossa è sempre una mossa etica, una scelta morale, una scelta di campo. Questo è per tutti nella vita, ma è soprattutto per chi non si accontenta dello stato di cose e si accinge a impegnarsi per cambiare. Il ragazzo Amin proviene da un ambiente famigliare e sociale relativamente privilegiato, non ricco, ma abbiente.

Nella realtà di un Egitto povero, sotto protettorato britannico, la visione di bambini e coetanei condannati alla miseria non lo lascia indifferente. Nella scuola media francese in cui studia metà degli studenti si professa “nazionalista” e metà “comunista”. Con ovvia idea molto vaga di cosa ciò significhi e comporti. A 15 anni legge il Manifesto del partito comunista e a 18 Il capitale, ma ora è a Parigi per completare gli studi. Si iscrive al Partito comunista francese. Come militante comunista egiziano, nel 1950 ha la possibilità di assistere a una riunione informale di esponenti di vari partiti comunisti asiatici e africani.

Costoro non aderiscono alla posizione espressa dalla relazione di Ždanov del 1948 con cui l’Urss di Stalin sanciva la definitiva e codificata, com’era abitudine nella gerarchia mondiale comunista di allora, teoria del mondo diviso in due campi. A Ovest il campo occidentale capitalistico, a guida Usa, e a Est il campo orientale socialista, a guida Urss. Era nondimeno quella la reazione sovietica alla dichiarazione della cosiddetta “guerra fredda”, contenuta nella dottrina Truman del 1947.

Questi comunisti, diversamente dai partiti comunisti occidentali e latinoamericani, di stretta osservanza sovietica, reagiscono e affermano, anche se non ancora pubblicamente, che il mondo in realtà è diviso in tre poli, in tre campi. Esiste un terzo campo, il Sud del mondo, alla mercé del colonialismo, del neocolonialismo, dell’imperialismo. E impegnato nelle lotte per affrancarsi da questi sistemi di dominio e di oppressione. È il cosiddetto “terzo mondo”, come lo denominerà nel 1952 il sociologo francese Alfred Sauvy.

 

IV.

La svolta storica, la data periodizzante è rappresentata dalla Conferenza di Bandung, in Indonesia, nell’aprile 1955. L’India di Nehru, l’Egitto di Nasser, l’Indonesia di Sukarno, la Jugoslavia di Tito e tanti altri paesi, con il beneplacito e la partecipazione della Cina, e con la presenza di Chou En-Lai, danno avvio al movimento o “era di Bandung”, con rinnovato impulso alla decolonizzazione e allo sviluppo nazionale e popolare autonomo. Con l’avvio del movimento dei paesi non-allineati con la Conferenza di Belgrado nel 1961.

È un’era non così lineare, con forti contraddizioni, ma è un processo nuovo su scala mondiale. L’Urss e i partiti comunisti favoriscono questo processo. Questi sviluppi storici interagiscono con il coevo lavoro teorico di Amin per la tesi di dottorato.

La questione all’ordine del giorno, la domanda cruciale è “perché esiste il cosiddetto sottosviluppo?”. La risposta immediata non è il ritardo nella traiettoria lineare degli “stadi di sviluppo”, non è mancanza di sviluppo, teorie degli anni cinquanta poi rese coerenti dal lavoro di Walt W. Rostow nel 1960. Il “divario” non è possibile colmarlo con opportune politiche economiche. Il sottosviluppo è il prodotto necessario e dialettico dello sviluppo (o sovrasviluppo, nel generale “malsviluppo”, come noi “terzomondisti”, tra fine anni sessanta e anni settanta, preferivano denominare) dei paesi dominanti del centro capitalistico. Essendo il capitalismo una formazione sociale polarizzante.

Le coppie dialettiche Nord-Sud, Centro-Periferia, Sviluppo-Sottosviluppo costituiscono la chiave per capire come realmente funziona il capitalismo, come funziona il mondo. Tutto ciò confluirà nella prima opera sistematica di Amin L’accumulazione su scala mondiale. Critica del sottosviluppo del 1970 e ancor più rigorosamente, dal punto di vista teorico, nella successiva opera del 1973 Lo sviluppo ineguale.

 

V.

Va da sé che queste acquisizioni retroagiscono sulla interpretazione di Marx e dei vari marxismi storici e del socialismo come movimento reale. Ad Amin non interessa la cosiddetta “marxologia”, lo studio accademico, l’interpretazione dei testi, ritenuti “sacri”, di Marx. “Partire da Marx”, ripete sempre Amin, non per “andare oltre Marx”, bensì “con Marx” svilupparlo, rivederlo (nozione legittima di “revisionismo”), correggerlo anche, pensare con la propria testa. In breve, proseguire la sua opera.

Un Marx condizionato dal proprio tempo e dal non aver avuto modo di completare la propria opera. Un Marx condizionato da un certo “eurocentrismo”. E sembra che il termine, di grande efficacia interpretativa di una tendenza storica-culturale generale, sia stato coniato dallo stesso Amin. È soprattutto il Marx degli articoli scritti per la New York Daily Tribune nei primi anni cinquanta dell’Ottocento, sulla dominazione britannica in India, sulla Cina ecc. È una visione da “missione civilizzatrice del capitalismo”. Tutto questo poi rivisto e corretto dall’ultimo Marx, dal 1870 in poi, quando si confronta con la Russia e con i rivoluzionari russi e con le letture di opere di etnologia, antropologia ecc. (vedi i Quaderni etnologici, pubblicati postumi nel 1972 dall’etnologo Lawrence Krader).

Come è noto, Marx nei vari piani di stesura del Capitale, pose il titolo “mercato mondiale” al futuro, e mai scritto, Libro VI dell’opera. Egli finì la stesura e curò personalmente solo il Libro I. Il Libro II e Libro III li curò l’amico Engels, ricavandoli dai suoi numerosi quaderni e dalle stesure provvisorie.

Il risultato è che Marx studiò da par suo statica e dinamica del modo di produzione capitalistico a partire dalla sede classica di questa formazione storico-sociale rappresentata dall’Inghilterra. La forma-merce, il feticismo delle merci, il denaro, il capitale, la categoria del valore e poi del plusvalore e via via tutte le numerose acquisizioni e categorie dal Libro I fino al Libro III sono aspetti rilevanti del microcosmo della fabbrica e dell’economia su scala nazionale (anche se già il Libro III allarga il discorso “ai tanti capitali” e alla loro interazione, alle crisi del sistema ecc.).

Ora però si tratta di considerare la compiuta formazione storico-sociale capitalistica. Amin pone al centro la nozione di “formazione sociale” rispetto alla pur necessaria nozione di “modo di produzione”. In questo modo si cerca di evitare lo “economicismo” e il “determinismo” dei marxismi storici, semplificati, scolastici ed eurocentrici. È una totalità in cui interagiscono i vari momenti, l’economico, il sociale, il culturale, il politico, l’ideologico ecc.

Si tratta insomma di considerare lo “organismo intero” e non solo la “cellula”, i vari organi e apparati. È il capitalismo nella sua evoluzione su scala mondiale, come sistema mondiale, come unità di analisi quindi, e non come semplice sommatoria di formazioni nazionali giustapposte. Nella logica intrinseca di questo sistema è l’intero che determina, che soverchia e plasma le sue singole parti.

 

VI.

Il marxismo come sistema, come scolastica, nasce nel contesto della Seconda Internazionale e dei tanti partiti socialisti di ispirazione marxista dal 1870 in avanti. Nasce a opera di Kautsky, di Plechanov e altri. È una interpretazione di Marx in senso economicistico e deterministico, confacente a una fase storica in cui la classe operaia occidentale, grazie alla “rendita imperialistica”, come la definisce Amin, grazie ai sovrapprofitti da sfruttamento coloniale e imperialistico, può ottenere più alti salari, oltre ai salari da fame della precedente epoca del capitalismo industriale.

È l’epoca della seconda mondializzazione capitalistica, del capitale finanziario, del capitale monopolistico (l’epoca degli “oligopoli” come dice giustamente Amin), dell’imperialismo classico e della nuova espansione mondiale del capitalismo.

Già lo stesso Engels aveva messo in guardia i socialdemocratici tedeschi a non considerare il socialismo come un “capitalismo senza capitalisti”, e dopo ci torniamo a proposito del socialismo reale. È, dice Amin, la “alienazione economicistica”, tipica nella società capitalistica. Dal momento che la legge del valore dagli ambiti propriamente economici si estende a ogni ambito della società e della vita degli individui e dei gruppi umani, investe ogni forma di vita, individuale e collettiva. L’economicismo è la religione vera della società capitalistica. E tuttavia economicismo e alienazione economicistica investono anche coloro i quali dovrebbero trasformare questo stato di cose.

La forma di lotta tradunionistica, come dirà in seguito Lenin, per più alti salari rappresenterà la forma principale di lotta in Occidente. Già Engels, il quale muore nel 1895, aveva intravisto la nascita della cosiddetta “aristocrazia operaia”, condizionante molto la complessiva classe operaia inglese. La “rendita imperialistica”, all’origine di detta aristocrazia operaia, era ricavata in primo luogo dallo sfruttamento coloniale dell’Irlanda e poi delle altre colonie, soprattutto l’India, e poi dal corso “normale” dell’imperialismo su scala mondiale.

Inoltre questi marxismi storici condividevano una concezione lineare, stadiale, dei modi di produzione e delle formazioni sociali nella storia. La cosiddetta “teoria dei cinque stadi” e soprattutto il rapporto meccanicistico base-sovrastruttura completano questa concezione della storia, distorta rispetto alla concezione originale di Marx.

 

VII.

La cosiddetta “accumulazione originaria” o “primitiva” (è il famoso capitolo XXVI del Libro I del Capitale), descrive bene il processo storico che conduce alla nascita del capitalismo compiuto. Già Marx affermava che era da intendersi anche come condizione permanente al fine di produrre e riprodurre il processo capitalistico stesso. Amin sottolinea “accumulazione permanente”, “accumulazione per espropriazione-spoliazione” (in ciò riprendendo Giovanni Arrighi). Espropriazione-spoliazione dapprima dei contadini e la loro conseguente espulsione dalle campagne per andare a vendere la propria forza-lavoro nelle fabbriche, nelle città. E poi dei popoli su scala mondiale.

I contadini, espropriati dei beni comuni o demaniali, ancestrali (boschi, pascoli, terre, fiumi ecc.), per mezzo delle “recinzioni”, e delle leggi che autorizzavano questo processo, i famosi Enclosures Acts. Oltre ai furti, alle violenze (“la violenza, forza economica essa stessa”, Marx nel capitolo sopraccitato), ai soprusi ecc. I popoli, espropriati per mezzo della espansione polarizzante del capitalismo.

Nel Libro I del Capitale, Marx a un certo punto dice che nel capitalismo la ricchezza scaturisce “minando al contempo le due fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”. In sostanza, amplia il discorso Amin, la terra è la “natura” e “l’operaio” sono gli esseri umani. Il giusto rilievo di Marx occorre ampliarlo e aggiungere una terza fonte, “i popoli oppressi”.

 

VIII.

Da Marx in avanti la classe-soggetto per eccellenza della trasformazione era considerata, ed è ancora considerata da molti marxismi, la classe operaia, il proletariato urbano e di fabbrica.

Si riteneva che il soggetto contadino, i contadini, fosse una classe destinata a scomparire nel progresso trionfale del capitalismo, almeno in Occidente. Oppure veniva considerata “riserva della reazione”, soprattutto nell’esperienza francese, nella fattispecie della Vandea prima, nel contesto della grande rivoluzione del 1789, e poi nel contesto della rivoluzione del 1848 e della Comune di Parigi del 1871, tutti fenomeni parigini o cittadini in generale. Kautsky aveva trattato della “questione agraria”, in ambito della Seconda Internazionale. Ora in Amin, la questione diventa “contadina”.

Nel “marxismo della periferia”, come preferisco definire questo filone, la classe-soggetto “i contadini” ha un posto centrale. A partire dalla semiperiferia Russia (e ricordiamo le avvertenze di Lenin, nella costruzione del socialismo, e poi di Bucharin, di preservare la preziosa alleanza operai-contadini), le rivoluzioni del Novecento saranno soprattutto rivoluzioni contadine. Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc. Mao, Ho Chi Minh, Giap, Josè Carlos Mariategui, Frantz Fanon, Fidel e il Che e tanti altri rientrano in questo marxismo. Amin è uno dei principali esponenti di questa corrente. È la “vocazione terzomondista del marxismo”, come egli ricorda spesso.

Da qui la propensione di Amin per la via cinese, per la Cina, per Mao. Già dal 1957 e poi decisamente dall’avvio nel 1960 dell’ormai aperto conflitto cino-sovietico.

Il modello cinese serve anche ad Amin per compiere un’analisi e una critica del socialismo reale e del modello sovietico.

 

IX.

Per completare l’apporto di Amin nel proseguire l’opera di Marx, occorre fare riferimento ad alcuni sviluppi del suo pensiero, in relazione anche ad altri sviluppi.

In primo luogo, per rendere conto delle profonde trasformazioni del capitalismo su scala mondiale, da fine Ottocento in avanti, si erano avuti i contributi di Rosa Luxemburg (L’accumulazione del capitale del 1913), di Lenin (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo del 1916, in realtà nell’originale russo “più recente”, “ultima”), aiutato dalle opere di Hilferding (sul capitale finanziario) e di Hobson (sull’imperialismo come politica), e di Bucharin (L’economia mondiale e l’imperialismo del 1915).

Dopo il 1945 si erano venute precisando tre scuole, a proposito di rapporto Nord-Sud, centro-periferia, in ordine di tempo:

1. la “scuola dell’accumulazione polarizzante” di Samir Amin

2. la “scuola della dipendenza” (F. H. Cardoso, divenuto in seguito presidente liberista del Brasile, Celso Furtado, T. Dos Santos, A. Gunder Frank), anche come critica del “desarrollismo”, lo “sviluppismo” in America Latina concepito da Raul Prebisch, al quale si devono le nozioni di “centro” e di “periferia”.

3. la “scuola del sistema-mondo” di I. Wallerstein, alla luce anche della lezione dello storico francese Fernand Braudel.

Nella concezione della rendita imperialistica e quale contributo innovativo di Amin rientra la “teoria del valore mondializzato”, trattato in precedenza da Massimiliano Lepratti.

 

X.

Amin deve molto a chi, nel secondo dopoguerra, ha fatto molto per proseguire l’opera di Marx e per rendere conto delle trasformazioni del capitalismo nel Novecento. Sono soprattutto i marxisti attorno alla rivista Usa Monthly Review. In particolare Paul M. Sweezy e Paul Baran.

Già a partire dagli anni cinquanta essi elaborarono la categoria di “surplus”, non nuova, essendo categoria esplicativa dello sviluppo umano, della civiltà, dalla rivoluzione neolitica in avanti (eccedenza, sovrappiù, plusprodotto). Ora come aspetto importante nella riproduzione capitalistica, come categoria per capire la riproduzione complessiva del sistema, come risorsa per la spesa pubblica, soprattutto il surplus per la spesa militare. Ritorna il “militarismo” come categoria importante. Aveva iniziato Rosa Luxemburg nell’indicare come il militarismo fosse non solo fenomeno antropologico, sociologico, culturale, politico (politica di potenza, camarille guerrafondaie, violente ecc.), ma fosse un aspetto importante come settore della produzione complessiva sociale. Fosse parte organica, e non estemporanea, della produzione capitalistica e della riproduzione del capitalismo nel suo complesso.

Questi marxisti proposero, e propongono tuttora, di aggiungere ai due settori tradizionali, studiati da Marx nel Libro II del Capitale, della produzione complessiva sociale, il primo settore “mezzi di produzione” e il secondo settore “mezzi di consumo”, anche il terzo settore dei “mezzi di distruzione di massa”. Le armi e l’industria militare in sostanza.

Baran e Sweezy sono gli autori del libro fondamentale del 1966 Il capitale monopolistico, diventato poi uno dei “libri del ‘68”. Nel quale si fa soprattutto riferimento alla “struttura economica e sociale americana”, al ruolo egemonico Usa, al suo militarismo ecc.

In questo libro i due autori esprimono in modo netto e diretto l’assunto di tutto questo “marxismo della periferia” e dei movimenti di liberazione del Sud del mondo. Una sorta di manifesto del terzomondismo, nelle periferie del mondo e nei movimenti giovanili in Occidente, “L’iniziativa rivoluzionaria che prima era appannaggio del proletariato europeo è ormai passata alle masse diseredate delle periferie del mondo”.

In questo rovesciamento, in questa “rivoluzione copernicana”, in questa visione anche palingenetica, messianica anche in settori del terzomondismo occidentale, delusa dal proletariato occidentale, considerato ormai “integrato nel sistema”, secondo la concezione anche di Marcuse, agiva anche l’altra visione apocalittica proveniente dalla Cina. Da Lin Piao nel 1965, poco prima dell’avvio della “rivoluzione culturale”. In un suo scritto spiegava come i popoli oppressi di Asia, Africa e America Latina, la “campagna mondiale”, dovessero accerchiare la “città mondiale”, formata dalle potenze imperialistiche, Usa in primo luogo. Il calco nello scenario mondiale della rivoluzione cinese, svoltasi e vinta avente come base le campagne e i contadini.

 

XI.

Dicevamo che il modello cinese aiuta molto Amin nella sua valutazione del socialismo reale e del sistema sovietico. Un suo saggio riporta il titolo appunto “Trent’anni di critica del sistema sovietico 1960-1990”.

Dapprima Amin sembra aderire alle tesi dell’altro maoista francese Charles Bettelheim. Le nozioni usate erano “capitalismo di stato” e “borghesia di stato”. Ma poi Amin si avvicina alle tesi di Sweezy per capire in che cosa consiste il socialismo di tipo sovietico.

Amin ricorda Engels. Come si diceva prima, l’amico e compagno di Marx diffidava i socialdemocratici tedeschi dal concepire il socialismo come “capitalismo senza capitalisti”. Non si tratta solo di sviluppo delle forze produttive, soprattutto nell’arretrata Russia appena uscita dalla rivoluzione. Non si tratta solo di rattrapage, come dice Amin, di sforzo, tensione, per “colmare il divario”, come si prescrive nella teoria degli stadi di sviluppo ai paesi cosiddetti sottosviluppati. In questo caso per raggiungere il livello di sviluppo industriale e di benessere dei paesi capitalistici sviluppati.

Bensì si tratta, sempre nelle parole di Amin, di faire un’autre chose. Si tratta di costruire altri rapporti sociali, di pensare che la più grande forza produttiva è l’uomo stesso, che occorre porre fine all’alienazione mercantile e al rapporto alienato processo produttivo-operaio sovietico ecc.

La deriva di Stalin (criticato dallo stesso Mao nei suoi appunti di lettura “Stalin ignora la politica e le masse, mette in rilievo solo la tecnologia e i quadri tecnici” e “Stalin non prende in considerazione l’uomo. Vede le cose, non l’uomo”) era, secondo Amin, preparata anche dalla concezione di Lenin secondo il quale, e secondo la sua celebre definizione, il socialismo era “Soviet+elettrificazione del Volga”. Tanto che poi, esautorati i soviet, è rimasta solo “l’elettrificazione”. Inoltre, sempre secondo Amin, Lenin condivideva la concezione, dominante nella società borghese, della cosiddetta neutralità della scienza e della tecnica.

Anche se Amin spesso cita il Mao nel suo discorso del 1963 rivolto ai quadri del Partito comunista cinese (“Voi avete costruito una borghesia. Non dimenticatelo; la borghesia non vuole il socialismo, vuole il capitalismo”) tuttavia rigorosamente, per Sweezy, e poi per Amin stesso, nel sistema sovietico non di borghesia si tratta. Perché non c’è accumulazione e non esiste proprietà privata. Esiste bensì una “nuova classe”, dominante, privilegiata, che controlla la proprietà statale, non collettiva, dei mezzi di produzione e controlla la distribuzione dei beni. Una nuova classe che si riserva l’accesso a consumi privilegiati, di lusso, molti importati solo a beneficio di questa classe dall’Occidente. Una classe che per continuare a dominare intrattiene rapporti clientelari-mafiosi con il resto del popolo. Come elargizioni di favori e di effimeri privilegi, comportando questo in basso narcosi sociale, apatia. Il risultato erano deideologizzazione e spoliticizzazione diffuse, di massa, come rilevava Lukács in una delle sue ultime interviste nel 1970.

Quando Eltsin completava il lavoro sporco dello smantellamento e della fine ingloriosa dell’Urss come stato-nazione e come sistema sovietico e procedette alla confisca dei beni e delle sedi del Pcus, non deve sorprendere che nessuno iscritto al partito si mobilitò, si recò a difendere le sedi, i simboli ecc.

 

XII.

Per Amin il socialismo è da concepire come “transizione”, come lungo processo storico, al pari della lunga transizione e gestazione del capitalismo. Il capitalismo europeo impiegò secoli per giungere alla sua fase compiuta, dai prodromi della rivoluzione comunale del XI secolo fino al Rinascimento e soprattutto nella transizione mercantilistica tra Rinascimento e avvio della rivoluzione industriale, tra 1500 e 1800, come Amin indica.

Questa possibile alternativa socialista deve confrontarsi oggi con la nuova globalizzazione-mondializzazione, che noi chiamiamo del neoliberismo trionfante e che Amin preferisce chiamare degli “oligopoli generalizzati”, in presenza di potenti oligarchie finanziarie transnazionali. Nel contesto della fine

1. a Ovest, nell’Occidente capitalistico, dei compromessi sociali (il “compromesso socialdemocratico”) tra capitale e lavoro, come risultato della vittoria sul nazifascismo e della forza acquisita dal movimento operaio e dalle forze politiche della sinistra

2. a Est, del socialismo reale e del sistema sovietico

3. a Sud, con la fine di Bandung e del primo “risveglio del Sud”

La ripresa del socialismo come transizione su scala mondiale esige una “Bandung 2”, un nuovo “risveglio del Sud”. In presenza di un mutato quadro del contesto mondiale, dal momento che nella nuova globalizzazione-mondializzazione è sì consentita e incoraggiata l’industrializzazione di alcuni paesi, alcuni detti emergenti, ma sempre come sviluppo dipendente grazie ai “cinque monopoli” (tecnologia, mezzi di comunicazione, controllo delle risorse, finanza, armi di distruzione di massa) appannaggio dei paesi della cosiddetta “Triade”, dell’imperialismo collettivo di Usa, Europa e Giappone.

Allora ritorna a essere fondamentale per il Sud del mondo la nozione di “sviluppo autocentrato” di contro allo “sviluppo extravertito”, al servizio dello sviluppo dei paesi dominanti. È la concezione dello sviluppo autonomo, rispondente ai bisogni della nazione e del popolo. Si tratta di produrre beni per il proprio fabbisogno e non beni per l’esportazione (caffè, cacao, soia, mais ecc. a beneficio dei consumi dei paesi dominanti, per l’allevamento di animali da carne ecc.).

Per fare questo occorre la mossa preliminare della deconnexion, del delinking, dello “sganciamento” dalla logica dello sviluppo capitalistico nel quale le periferie debbono soggiacere allo “aggiustamento strutturale” continuo secondo i voleri dei paesi dominanti del centro.

 

XIII.

In questo processo un passaggio fondamentale è la costruzione di un “mondo multipolare”. Contro il dominio unilaterale, unipolare, degli Usa. E contro il suo continuo tentativo di “controllo militare del pianeta”.

L’egemonia Usa è messa in discussione da alcuni paesi come la Cina, la Russia, l’India, l’Iran ecc. Con l’avvertenza che questi paesi svolgono un ruolo “antiegemonico”, appunto, ma non “antisistema”, non anticapitalistico. Non mettono in discussione il capitalismo. Anzi.

 

XIV.

Amin definisce il capitalismo come “una parentesi della storia”. Come sistema ormai “obsoleto”, “senile”, “in declino”, addirittura dal 1880, dalla fase degli oligopoli e dell’imperialismo, dalla grande crisi detta “grande depressione” del 1873-1896. Quella fase inaugura un’epoca di guerre e di rivoluzioni che si dispiega in tutto il Novecento.

La questione ambientale è questione cruciale e Amin ne è consapevole. Già dalla Conferenza di Stoccolma del 1972, nella costruzione in Africa di Enda (Azione Ambientale e di Sviluppo nel Terzo Mondo) e nella costruzione, a inizio degli anni ottanta, del Forum du Tiers Monde.

Infine, entro il Forum Mondiale delle Alternative, su impulso di Amin e di Houtart, ci siamo impegnati per accogliere il contributo del Global Footprint Network (la Rete mondiale dell’Impronta Ecologica promossa soprattutto da Mathis Wackernagel) e quello di Elmar Altvater (“socialismo solare”) e di John Bellamy Foster, attuale direttore della Monthly Review. Altvater e Bellamy Foster fautori di quel “socialismo ecologico” o “ecosocialismo”, tanto più necessario oggi, a fronte delle sfide e delle minacce per l’equilibrio e la sopravvivenza della vita nel pianeta. In questo la contraddizione capitale-lavoro si coniuga strettamente, e non gerarchicamente, con la contraddizione uomo-natura e produzione-ambiente.

 

XV.

Con Amin e Houtart abbiamo contribuito a creare e sviluppare il Forum Mondiale delle Alternative. In ciò precorrendo la nascita del Forum Sociale Mondiale, da Porto Alegre 2001 in avanti.

L’assunto era contenuto nello slogan “convergenza nella diversità” delle varie correnti, tendenze, culture, movimenti, partiti ecc. che si opponevano alla globalizza-zione-mondializzazione neoliberista. Il cosiddetto movimento altermondialista origi-na da lì. In Italia tale movimento si è palesato soprattutto al vertice G8 di Genova nel luglio 2001.

Il Forum Sociale Mondiale si è mosso sempre tra due poli. Nella metafora usata da Houtart, e ripresa da Amin, tra la “Woodstock sociale”, come happening, come spazio aperto in cui ritrovarsi e conoscersi, ma senza alcuna implicazione organizzativa, senza parole d’ordine vincolanti ecc., e una sorta di “nuova Internazionale”, con implicazioni organizzative e misure vincolanti. Amin è stato critico nel vedere prevalere entro il Forum le potenti Ong occidentali. Com’egli diceva, una concezione edulcorata della lotta al neoliberismo, consona a un capitalismo che si degna di

1. “dare una verniciata di verde”, con il cosiddetto sviluppo sostenibile

2. concedere la “lotta alla povertà”, come mitigazione delle gravi sperequazioni e ineguaglianze diffuse

3. promuovere la governance, il “buon governo” degli organismi sovranazionali, questi ultimi senza alcuna legittimazione democratica e responsabili di molti squilibri a livello planetario.

Negli ultimi tempi sosteneva che le lotte sociali decisive nel mondo ormai si svolgevano fuori dal contesto del Forum Sociale Mondiale, perdendo così quest’ultimo ruolo e importanza nell’arena mondiale, dopo le esaltanti e promettenti fasi iniziali dei primi forum.

 

XVI.

Sempre entro il Forum Sociale Mondiale, Amin ha insistito sulla ripresa della nuova “questione agraria”. La vera e propria “questione contadina” contemporanea.

La micidiale azione dello agrobusiness, l’agricoltura capitalistica fortemente meccanizzata e a intenso uso di fertilizzanti chimici e di pesticidi continua a rovinare la piccola agricoltura famigliare di sussistenza. Vale a dire a rovinare l’esistenza di metà della popolazione mondiale, circa 3,5 miliardi di persone. Ciò comporta un’ulteriore espulsione di contadini e delle loro famiglie dalle campagne del Sud del mondo. In presenza di uno sviluppo dell’industria asfittico su scala mondiale, non più capace di assorbire questa manodopera resa libera, queste espulsione si risolvono un ingrossamento a dismisura dell’esercito industriale di riserva, di persone allo sbando nello Slum Planet, nella “bidonvillizzazione del mondo”, con le molte città delle periferie del mondo, accerchiate da enormi favelas, slums, bidonvilles ecc.

Circa un miliardo di persone sono migrate in questo modo in questi ultimi decenni, essendo la migrazione Sud-Sud ormai dominante, rispetto alle poche centinaia di migliaia di persone della spesso disperata migrazione Sud-Nord.

 

XVII.

Nell’espansione polarizzante del capitalismo e dell’imperialismo a essere distrutte sono anche identità, appartenenze, culture, comunità. Spesso le reazioni spontanee dei popoli investiti sono state, e sono, di chiusura difensiva identitaria, “culturali-stica”, come la definisce Amin.

Il culturalismo è un problema, poiché è un ripiegarsi e un volgersi al passato, è passatismo. Nell’area storica interessata dall’Islam, invece di volgersi, come “passatismo”, alle fiorenti civiltà egizia, mesopotamiche, arabo-persiana ecc. la prima identità che viene assunta è proprio l’Islam.

Amin non distingue tra “Islam moderato” e “Islam radicale e fondamentalista”. Si tratta in entrambi i casi di “Islam politico”, antidemocratico, repressivo, oscurantista, lesivo della dignità della donna. Un potente freno all’autentico processo di emancipazione delle classi subalterne e dei popoli delle periferie. Questo detto dal versante di una profonda conoscenza del contenuto propriamente religioso e culturale in generale, della storia complessiva dei sistemi religiosi, del cristianesimo e dell’Islam in particolare.

 

XVIII.

Concludo.

Samir Amin rientra nella generale corrente, tra Ottocento e Novecento, dello “ottimismo storico”. Una forza e una dinamica necessarie che hanno sospinto potenti movimenti, potenti masse umane, hanno consentito potenti resistenze, grandi trasformazioni, rivoluzioni riuscite o fallite, riforme di varia natura ecc.

Oggi, alla luce dell’esperienza storica e in questo contesto di crisi generalizzata delle forze antisistema, abbiamo qualche difficoltà ad accogliere le posizioni di Amin a proposito del capitalismo “obsoleto”, “senile”, “parentesi della storia” ecc. Eppure ci sono esponenti non marxisti, valenti studiosi, che parlano di “postcapitalismo”, com’è proprio il titolo del libro di Paul Mason.

La fiducia e il fermo convincimento in Amin secondo cui c’è sempre una via d’uscita, c’è sempre un orizzonte, la storia non è finita, erano tuttavia contagiosi. Com’era contagioso il suo costante equilibrio e il suo costante buon umore, il suo istintivo impulso a confrontarsi sempre, con il colto e con lo sprovveduto, con il giovane militante inesperto e il vecchio attivista carico di esperienza, senza differenza.

Di sé diceva che il suo posto lo considerava sempre nel terzo mondo africano e arabo. E ne era fiero. Eppure era anche figlio dell’illuminismo, della grande tradizione rivoluzionaria francese. Da parte di madre, aveva antenati giacobini della rivoluzione del 1789. Da parte della moglie Isabelle, tra gli antenati, c’era Camille Desmoulins, l’avvocato rivoluzionario che arringò la folla per dare l’assalto alla Bastiglia, inizio della rivoluzione.

Benché fermamente convinto della succitata “vocazione terzomondista del marxismo”, tuttavia egli ha disposto, proprio come segno del suo essere fino in fondo internazionalista, nella necessaria visione universalistica del marxismo e del comunismo, che alla sua morte venisse inumato al cimitero Père Lachaise di Parigi. Accanto alle tombe degli eroici combattenti della Comune di Parigi e alle tombe dei volontari delle Brigate Internazionali della guerra civile spagnola.

Una degna sepoltura a conclusione di una vita piena, ricca, intensa. Una vita degna di essere vissuta.


(*) Relazione tenuta da Giorgio Riolo al seminario sul pensiero di Samir Amin, svoltosi a Milano il 10 novembre 2018. Le relazioni sono state elaborate da Massimiliano Lepratti, Giorgio Riolo e Daniela Danna.

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