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marx xxi

"Il totalitarismo liberale". Presentazione

di Alessandro Pascale

pascale totalitarismoliberaleÈ in uscita a inizio a dicembre 2018 “Il Totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale”. Si tratta del primo volume della collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe, edita da La Città del Sole e curata dal sottoscritto. Per offrire una presentazione complessiva dell'opera si riporta il seguente file dove è possibile trovare i contenuti delle prime pagine del libro, comprendenti l'Indice, la Dedica, l'Introduzionemetodologico-politica, sempre dall'Introduzione, Il paradigma totalitario e il revisionismo storico, la presentazione della collana Storia del Socialismo e della Lotta di Classe” e le indicazioni per acquistare il libro in prevendita e sostenere la raccolta fondi predisposta per finanziare la collana. Qui di seguito si riportano l'Introduzione metodologico-politica e Il paradigma totalitario e il revisionismo storico.

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Introduzione metodologico-politica

Il 15 dicembre 2017, grazie all'ausilio fondamentale di diversi collaboratori, pubblicavo sul sito www.intellettualecollettivo.it il saggio A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo. Dopo soli 6 mesi circa 2000 persone avevano scaricato l'opera, messa a disposizione gratuitamente in un non comodissimo formato di due file pdf. Mentre le principali forze politiche erano impegnate nella campagna elettorale delle elezioni politiche del marzo 2018, cominciavano presto ad arrivare i primi ringraziamenti privati, i complimenti e gli attestati di omaggio all'opera, di cui continuavano a dare notizia solo pochi canali mediatici, alcune testate di informazione “militanti” presenti con crescente successo sul web (l'associazione politico-culturale Marx21, il giornale comunista online La Città Futura, il portale Resistenze.org curato dal Centro di Cultura e Documentazione Popolare) [1].

Sorgeva da più parti la richiesta di poter fruire in maniera più comoda e agevole dell'opera e ho cominciato a vagliare l'interesse delle case editrici a pubblicare l'opera: Giordano Manes e “La Città del Sole” hanno raccolto la sfida. Si poneva il problema della modalità di pubblicazione di migliaia di pagine divise in volumi e capitoli. Rispettare l’ordine seguito nella prima edizione avrebbe dato luogo ad un problema politico: dato lo scopo non solo storico e scientifico, ma anche politico dell'opera, urgeva capire come riuscire a diffondere fin da subito alcune delle sue tesi più importanti, nella consapevolezza che limitarsi ad interpretare il passato è senz'altro giusto e doveroso, ma l'orizzonte per un comunista non può che essere quello di cercare di mutare il mondo presente. Occorreva insomma far capire come questo libro non fosse una celebrazione agiografica o una mera ricostruzione storica (“revisionismo del revisionismo” dirà senz'altro qualcuno) dell'ultimo secolo.

A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo era un atto di accusa politica. Lo scopo dell'opera era, infatti, di far aprire gli occhi su un quadro d'insieme, su una visione più ampia di quella solitamente ristretta con cui guardiamo alla nostra società. Si riproponeva come chiave di lettura privilegiata l'ottica del materialismo storico, applicato ad un abbozzo di storia mondiale dell'ultimo secolo. Una storia nella quale emerge nettamente e prioritariamente la dialettica tra imperialismo e socialismo. Questo conflitto ha alimentato un processo storico in cui la lotta di classe ha saputo fare un salto di qualità nella sfida al regime borghese, affermatosi progressivamente su scala mondiale. Il regime tirannico borghese tuttavia prosegue tutt'oggi. Mentre alcuni fingono di non vederlo, molti non ne hanno sinceramente cognizione, per il semplice fatto che non conoscono adeguatamente la storia passata e ancor meno quella contemporanea. Ciò dipende certamente anche da “colpe” soggettive e individuali, ma origina soprattutto da fattori oggettivi e materiali ben precisi: il distacco progressivo delle organizzazioni comuniste occidentali, e dei relativi intellettuali organici, dal marxismo-leninismo, acceleratosi dopo il 1956. Ne sono conseguiti il declino del “marxismo occidentale” nelle società capitalistiche e la conseguente affermazione sempre più “totalitaria” del “pensiero unico” neoliberista a partire dagli anni '80 del '900. La caduta dell'URSS e delle democrazie popolari dell'Europa Orientale si è accompagnata in Occidente all'autodistruzione delle organizzazioni comuniste, in preda ovunque ad un revisionismo più o meno esasperato, che in Italia ha condotto il PCI alla formalizzazione della propria natura socialdemocratica.

L'accettazione dei paradigmi ideologici “neoliberisti” da parte del “Partito Socialista Europeo” ha palesato il secondo grande tradimento storico di tali “progressisti”: dopo aver votato i crediti di guerra nel 1914, sancendo la spaccatura con il settore internazionalista (futura avanguardia comunista che formerà il Comintern nel 1919), negli ultimi 40 anni la socialdemocrazia europea si è posizionata nel campo imperialista, diventando sostanzialmente “la sinistra della NATO”. È stata una scelta di campo pienamente borghese e padronale, caposaldo delle sovrastrutture attuali fondate con lo scopo di salvaguardare il “libero mercato” (ad esempio l’UE), ossia gli interessi della borghesia e del grande Capitale, cioè oggi le multinazionali. Nella scelta di campo tra Capitale e Lavoro, la socialdemocrazia ha scelto senza indugio il primo. Le ragioni per cui ciò è avvenuto sono variegate e sono le stesse di quelle di molti “comunisti” che hanno accettato il paradigma “neoliberista”: chi per debolezza teorica e cedimento ideologico, chi perché ha ingenuamente accettato per vere le menzogne dell'imperialismo, chi per opportunismo individuale e calcoli di convenienza, chi perché voleva si andasse in quella direzione fin dall'inizio, chi perché più o meno segretamente in combutta già da tempo con l’avversario politico. Negli ultimi decenni hanno resistito in pochi in tutta Europa. Le masse popolari, deluse dal fallimento “storico” del socialismo e dal trasformismo delle proprie organizzazioni, hanno abbracciato il messaggio della “fine della Storia” connesso all'espansione della società dei consumi e della cultura mercificata, egemonizzata dagli USA. Anche se lo sfruttamento relativo aumentava, la crescita economica fondata sul furto legalizzato e sistematico del resto del mondo garantiva all'Occidente di far crescere abbastanza il tenore di vita medio della propria popolazione, la quale iniziava ad appoggiare imbelle e quasi entusiasta le nuove “riforme” che distruggevano le conquiste del Welfare State ottenute durante il “Trentennio Glorioso” (1945-75).

La crisi economico-finanziaria del 2007-08 ha portato ad un brusco risveglio, ma quando in Italia è stato smantellato l'articolo 18 (2012) dello Statuto dei Lavoratori, conquistato all'apice della forza operaia nel 1970, non c'è stata opposizione popolare combattiva e di massa. Non c'è stato nemmeno uno sciopero generale, nella complicità delle burocrazie sindacali ormai anch'esse pienamente conniventi con il regime padronale. Questa è tutta storia nota, trattata ormai da una svariata pubblicistica. Quel che è più raro trovare è un ragionamento che colleghi l'offensiva “neoliberista” al paradigma leninista dell'imperialismo, identificato come la fase suprema del capitalismo. Tale realtà, tanto palese, non solo non entra nel dibattito pubblico del Paese, ma nemmeno in quello accademico e politico (e a fatica perfino nelle organizzazioni comuniste!). Questo nesso è stato trattato nella prima edizione di A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo in più punti e verrà approfondito nelle pubblicazioni successive a questo presente volume.

Nel presente volume di cosa si tratta quindi? Si svelano le tecniche egemoniche con cui borghesi e imperialisti hanno potuto annebbiare e in una certa misura controllare le coscienze dei popoli, costruendo un sistema solo apparentemente libero e democratico. Il totalitarismo, essendo tale, non è necessariamente visibile se visto da una prospettiva interna. È così assurdo quindi pensare che viviamo inconsapevoli in un mondo orwelliano? L'incubo immaginato da Orwell in 1984 non si è manifestato nell'Unione Sovietica, bensì nel mondo odierno, dando luogo a quello che è un vero e proprio totalitarismo “liberale”. Essendo “liberale” è un totalitarismo che non impedisce la libertà di critica e di indagine verso il capitalismo, ma le lascia spazio solo entro limitati margini, specie quando tale critica vuole penetrare nelle masse e assumere caratteri politici collegandosi all'organizzazione rivoluzionaria di classe (il partito comunista).

Si obietterà che non c'è bisogno di formulare un nuovo paradigma (il totalitarismo liberale), per descrivere ciò che nell'analitica marxista c'è già: il concetto di “Stato borghese”, o meglio di “dittatura della borghesia”. Tuttavia le classi dominanti sono maestre nell’uso politico del linguaggio e raccolgono consensi diffusi condannando come “relitti storici” le categorie analitiche tradizionali. L'uso della categoria “totalitarismo liberale”, non utilizzata in tutta la prima edizione di A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, vuole essere non solo una provocazione culturale ma una vera e propria denuncia politica. Il “totalitarismo liberale” dimostra come sia possibile che in Italia e in Occidente sia stata annientata e liquidata l'opzione politica comunista e, in parallelo, la visione materialista della storia. La coscienza di classe e la conoscenza delle cognizioni minime del marxismo-leninismo oggi in Italia sono quasi azzerati, e rimangono ben pochi “reduci” e “nuove reclute” consapevoli del carattere illusorio della democrazia liberale in cui viviamo. La maggioranza della popolazione, non solo italiana ma anche occidentale, non ha consapevolezza di vivere in un sistema totalitario: il sostanziale consenso sociale verso il sistema capitalista è senz'altro maggioritario, al momento. Ma inizia finalmente ad incrinarsi e le crepe sono ben visibili, seppur concretizzate in urla di protesta confuse e poco coscienti. La Storia non è affatto finita.

Occorre svelare la profonda offensiva ideologica con cui si è arrivati alla condanna storica del comunismo, equiparato all'infamia del nazismo dalle istituzioni borghesi e dai loro intellettuali organici. La condanna politica del comunismo, che minaccia di ridiventare anche condanna giuridica, si fonda su ricostruzioni faziose, omissioni, falsificazioni, presupposti errati e malcelata partigianeria politica. A sostegno e a conferma di tali tesi vengono qui estratti due capitoli molto diversi da A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo: il 23 e il 9. Il primo, qui racchiuso nella Parte I (cap. 1-12), era intitolato Le tecniche imperialiste dell'egemonia culturale. Si trattava idealmente del capitolo che chiudeva il percorso storico fino ad allora tracciato, offrendo l'analitica riguardo al “presente storico” in cui viviamo, mostrandone un quadro d'insieme inedito. Un quadro in effetti difficilmente comprensibile (o accettabile) storicamente e politicamente se non inserito all'interno di un percorso più ampio, tratteggiando così dialetticamente gli elementi di continuità e di trasformazione rispetto ai secoli precedenti. È possibile che il lettore maturerà dubbi e scetticismi riguardo ad alcuni punti, in questo volume non dimostrati perché dati per scontati e dimostrati nelle sezioni precedenti del libro originario. Sono certo però che gli interrogativi maggiori sorgeranno sull'epoca in cui viviamo oggi, per cui sarà più semplice accogliere con minore pregiudizio anche la seconda parte di questo volume.

Originariamente tale sezione costituiva il nono capitolo di A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, intitolandosi L'Antistalinismo è Anticomunismo. Un titolo all'epoca necessario per lanciare un messaggio soprattutto ai comunisti. Qui si è ritenuto più utile mostrare come la questione dello “stalinismo” rientri in stretta connessione con l'offensiva ideologica contro il comunismo. Di stalinismo parlava già Trockij negli anni '20 e '30, eppure se tale categoria analitica ha potuto diffondersi a livello accademico e popolare in maniera travolgente ciò è avvenuto per ragioni politiche. In ultima istanza è stata determinante la lotta di classe condotta con ogni mezzo anche in campo culturale dalla borghesia: nelle scuole, nelle università, nei Parlamenti, nelle associazioni, nei partiti, nei sindacati, sulle riviste e in tutto il resto del circuito mediatico. Oggi iniziamo ad incrinare questo paradigma, mostrando come il suo rafforzamento e la sua affermazione siano conseguenze della Guerra Fredda e della vittoria dell'attuale Totalitarismo Liberale in cui viviamo. Si offre una serie di contributi utili a smontare la versione dominante sul “male del comunismo”, svolgendo così anche un ruolo politico che avrebbe dovuto essere assolto in questi decenni da quei comunisti che intendevano rifondare il comunismo. Lo smantellamento della nozione di “stalinismo”, oltre ad approfondire una falla macroscopica nella narrazione borghese ufficiale, risponde anche alla domanda se sia lecito parlare di un totalitarismo comunista. No, non se ne può parlare. Per comprendere fino in fondo questa affermazione perentoria occorrerà attendere la pubblicazione dei volumi dedicati alla storia dell'Unione Sovietica. Il lavoro di riaffermazione della verità storica necessita quindi di un lungo periodo e della volontà di rafforzare la voce critica di questa opera.

Questo libro è il primo volume di una collana nominata Storia del Socialismo e della Lotta di Classe, di cui si presenta più avanti il progetto. La scelta di dividere l’opera originaria in una decina di nuovi volumi consentirà di contenere i costi, garantire la maggiore diffusione e fruibilità dell'opera e aggiornarne i contenuti. I tempi di pubblicazione dei volumi dipenderanno dal successo del presente primo volume, oltre che dalla necessità di apportare i necessari ritocchi formali e stilistici, che in certi casi porteranno ad ampliare e approfondire alcuni contenuti, in altri a stravolgerli completamente, al fine di ridefinire un progetto che è cresciuto, maturato e si è affinato rispetto alla sua prima edizione. Si rammenta in ogni caso che A cent'anni dalla Rivoluzione d'Ottobre. In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo rimarrà sempre a disposizione gratuitamente sul web [2] nel formato originario.

La Storia del Socialismo e della Lotta di Classe è rivolta in primo luogo al movimento comunista, alla classe lavoratrice, agli sfruttati, ai proletari d'Italia. Ma è idealmente indirizzata, quando sarà possibile svolgerne una traduzione, al movimento comunista internazionale e agli sfruttati di tutto il mondo. Torniamo a combattere uniti ed organizzati il nemico di classe che ci attacca ogni giorno da ogni parte. Il nemico è la borghesia. Tra le borghesie nazionali la più potente è ancora quella statunitense. Non è un caso che gli Stati Uniti d'America siano la più dirompente potenza imperialista dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi. L'imperialismo statunitense si è dimostrato essere sanguinario, spietato nella lotta e nella repressione dei comunisti e di popoli interi rivoltosi in ogni area del mondo. La lotta contro la borghesia italiana ed Europea e sue relative sovrastrutture (Confindustria, BCE, UE, UEM), che soffocano la reale sovranità politica del nostro Paese, si deve svolgere in parallelo alla battaglia per rivendicare l'uscita dalla NATO. La borghesia nostrana continua ad appoggiare gli interventi militari in Africa e nel Medio Oriente, i quali creano cataclismi umanitari. Ne escono rafforzati gli interessi borghesi per la penetrazione in tali territori delle multinazionali occidentali, che acquisiscono così nuovi mercati da sfruttare e su cui speculare intensivamente. Ne consegue però anche il fiume di migranti che conduce alle nostre coste, in una società in cui la propaganda e la menzogna mediatica diventano la norma.

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a) Il paradigma totalitario e il revisionismo storico

«Se il compito della filosofia è comprendere il proprio tempo nel concetto, Hannah Arendt è il filosofo per eccellenza della nostra epoca […]. Hannah Arendt, più di ogni altro (e spesso prima), ha infatti pensato il totalitarismo». Così scriveva nel 2006 Paolo Flores D'Arcais [3]. Per volontà dell'Unione Europea, dal 2009 si ricorda ogni 23 agosto (data dell'anniversario del Patto Molotov-Von Ribbentrop del 1939), la “Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari”. Questo non è stato che uno degli ultimi atti con cui si è giunti a far trionfare la visione imposta da Hannah Arendt a metà del secolo scorso, quando diede alle stampe il suo noto Le origini del totalitarismo (1951). Il termine “totalitarismo” sembra che sia nato in Italia per descrivere il fascismo già all'inizio degli anni '20. Mussolini rivendicò il termine, ritenendolo utile per descrivere l'aspirazione ad una identificazione totale tra Stato e società. Fino a quel momento della Storia i dittatori e i sistemi autoritari non erano mancati, eppure a detta dei “moderni” mai si era concretizzata

«quella particolare forma di potere assoluto, tipica della società di massa, che non si accontenta di controllare la società, ma pretende di trasformarla dal profondo in nome di un'ideologia onnicomprensiva, di pervaderla tutta attraverso l'uso combinato del terrore e della propaganda: quel potere, insomma, che non solo è in grado di reprimere, grazie a un onnipotente apparato poliziesco, ogni forma di dissenso, ma cerca anche di mobilitare i cittadini attraverso proprie organizzazioni, di imporre la propria ideologia attraverso il monopolio dell'educazione e dei mezzi di comunicazione di massa» [4].

Stante queste caratteristiche, come fa giustamente notare Emanuela Catalano,

«la Arendt fa leva sul carattere di assoluta novità del fenomeno totalitario, inteso come luogo di “cristallizzazione” di tutte le contraddizioni dell’epoca moderna, e lo analizza nel suo significato generale: esso è un fenomeno nuovo ed impensato, che travalica i confini della semplice oppressione e della comprensione, rendendo inutilizzabili le tradizionali categorie della politica, del diritto e dell’etica. […] Hannah Arendt, in perfetta coerenza con la tesi da lei sostenuta nel suo saggio, definisce come totalitari soltanto due sequenze storiche, brevi e ben localizzate: i dodici anni del regime nazionalsocialista in Germania e due parentesi nella storia del regime sovietico (1929-1941 e 1945-1953), con il rischio che tutti gli altri sistemi dittatoriali vengano relegati nella vasta categoria di regimi autoritari, ed occultando di conseguenza quanto il peso dell’ideologia, il tipo di legittimità, la struttura, l’organizzazione e la pratica del potere così come il livello di mobilitazione e di inquadramento della vita civile possano essere diversi da una società all'altra» [5].

Chiaramente questa operazione della Arendt è stata a lungo osteggiata:

«per molto tempo la categoria del totalitarismo è stata rifiutata, o quanto meno guardata con sospetto, dalla cultura di sinistra (in particolare quella marxista), perché, prescindendo da qualsiasi riferimento alla base sociale dei regimi, accomunava fenomeni giudicati incomparabili come il nazismo e lo stalinismo. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, il termine si è largamente affermato nel linguaggio politico corrente (e anche in quello della sinistra)» [6].

Sabbatucci e Vidotto ci ricordano, in questo breve passo, come la Storia sia sempre frutto di interpretazione ed in una certa misura di “mediazione”, andando a modificarsi anche radicalmente nel corso del tempo. Ciò che una volta poteva sembrare positivo col tempo viene giudicato negativo, e viceversa. Non mancano gli esempi famosi in tal senso: storici che attenuano la crisi dell'Impero Romano nel III secolo, obiettano che l'Italia della Controriforma in fondo stesse bene sotto il dominio spagnolo, senza contare i pennivendoli che arrivano a giustificare la bontà e le conseguenze positive del Colonialismo europeo degli ultimi secoli. La Storia cambia quindi, ma non sempre ciò avviene ricostruendo fedelmente i fatti. Chi pensa che non valga più al giorno d’oggi l’osservazione per cui la Storia sia scritta dai vincitori, non conosce evidentemente in maniera approfondita la disciplina e pecca notevolmente di ingenuità.

Se nella prima parte dell'opera dimostreremo che oggi viviamo in una sorta di moderno totalitarismo, nella seconda parte mostreremo in parte come sia avvenuta in senso schiettamente e sfacciatamente anticomunista questo processo di riscrittura della Storia, provando a spiegare come e perché si sia arrivati oggi alla condizione denunciata dal giovane militante politico Paolo Spena:

«Frequentare la scuola negli anni 2000, o anche l’università specialmente nelle facoltà umanistiche, significa subire un bombardamento ideologico senza precedenti, che mira a cancellare e revisionare la storia del movimento operaio, recidendo i legami fra questa storia e le nuove generazioni, che oggi godono sempre di meno dei diritti conquistati proprio dalla lotta di questo movimento. Oggi il movimento operaio e comunista, dopo la sconfitta storica degli eventi del 1989-91, viene criminalizzato dall’ideologia del sistema che si è autoproclamato vincitore nonostante la sua crisi profonda. Una enorme falsificazione della storia, in cui le vittime diventano i carnefici e chi ha combattuto per il progresso e la democrazia diventa il nemico da demonizzare, mentre si pretende di raccontare alla gioventù, che oggi vede negato il proprio diritto a un futuro stabile e dignitoso, che il mondo di oggi è l’unico possibile. Riacquistare la capacità di analizzare in modo critico la realtà presente e passata, smascherando il contenuto di classe e la natura tutta ideologica di ciò che oggi si vuole far passare per neutralità oggettiva, è il primo passo per tornare a vincere» [7].

Al termine della lettura della presente opera si inizierà a dubitare di vivere in “democrazia” e di essere realmente liberi, tanto forte è il controllo diretto e indiretto esercitato nella nostra società di massa dai media e da ristrette élite padronali. Siamo ancora liberi di scegliere molte cose, certo, ma secondo limiti pre-determinati che in fin dei conti non si differenziano notevolmente, rimanendo sempre all'interno di una serie di strutture e sovrastrutture borghesi. Cogliere come la nostra epoca sia già di fatto una forma di totalitarismo significa riuscire a comprendere l'essenza violenta della nostra società. Ciò non avviene per ragioni “naturali”, bensì per cause determinate ad arte e confacenti al dominio di una manciata di persone sulla maggior parte dell'umanità. Un dominio fondato sul Terrore delle guerre, della disoccupazione, delle persecuzioni, delle migrazioni, dell'alienazione, della repressione. Un Terrore spesso auto-imposto, o meglio, accettato apparentemente volontariamente, quasi abbracciato gioiosamente. Un Terrore figlio di un Totalitarismo di tipo nuovo: morbido, accogliente, colorato, “liberale” per l'appunto. Perché andare a rompere le certezze? Perché andare ad incrinare tale meraviglioso sogno capitalistico che tanto benessere ci ha apportato?

Si potrebbe rispondere che la Verità viene prima di tutto, ma c'è un elemento molto più pesante e gravido di conseguenze per tutti: il problema principale è infatti che tale sistema non sta più funzionando. Ciò comporta il rischio che il Totalitarismo attuale, nient'altro che l'attuale forma con cui si esercita la dittatura della borghesia, torni ad essere assai meno “liberale” di quanto è stato finora. Diventa necessario, quindi, anzitutto far aprire gli occhi a molti, attuando una rigorosa critica che potrà svilupparsi con adeguatezza solo nell'arco di tutti i successivi volumi della collana. Al contempo fin dalla presente opera si intende ricordare che un altro mondo possibile c'era, in certe parti del mondo c'è ancora, e in altre sarà ancora possibile ricostruirlo, magari molto meglio di come è stato realizzato finora, se si è capaci di imparare dalle lezioni della Storia.

Gli apologeti del sistema capitalista obietteranno che la categoria del “totalitarismo” non sia lecita né ammissibile per descrivere la nostra società odierna, e men che meno facendo riferimento all'Occidente. Che vi sia una diversità qualitativa è indubbio: noi oggi siamo liberi di poter pubblicare un libro del genere, laddove in altre epoche la libertà di stampa non era garantita, né molto spesso neanche la libertà di pensiero. Tale libertà di cui disponiamo è senz'altro preziosa, e permette di distinguere il totalitarismo attuale da quello nazifascista, il quale si basava anche su un controllo ferreo e censore della cultura e dell'editoria, con modalità in fondo non così differenti da quelle imposte dalla Chiesa Cattolica sulla gran parte della società cristiana nel corso della sua Storia. L'offensiva ideologica borghese della seconda metà del '900 ha avuto un tale successo da trovare, infatti, un precedente storico solo nel controllo esercitato dalla Chiesa Cattolica durante il suo millenario (almeno dal Concilio di Nicea del 325, fino agli scossoni subìti nel XVIII secolo dall’Illuminismo) dominio esercitato nell'ambito culturale, d'accordo con re e signori dell'epoca schiavistica e poi feudale.

Di recente il filosofo Maurizio Ferraris ha parlato della «postverità» come di un concetto utile «a cogliere l'essenza della nostra epoca» [8]. Nella sua analisi Ferraris pone in rilievo le novità di un'era caratterizzata dalla «Medialità». Purtroppo il filosofo torinese non coglie il nesso tra la tecnologia e il controllo esercitatovi direttamente e indirettamente dai grandi monopoli, ritenendo forse non più attuale tale questione. Dimostreremo la necessità di rivedere tale assunto. Ferraris coglie bene però le distorsioni di una società dominata fin dal modo di pensare da uno scollamento tra ciò che è (ontologia), ciò che viene conosciuto (epistemologia) e i mezzi con cui avviene la trasmissione del sapere (tecnologia).

Quando si parla di controllo della comunicazione per mezzo dei media non si può fare a meno di pensare al Ministro nazista della Propaganda Joseph Goebbels, fedele braccio destro di Hitler. Goebbels non è stato però il primo né l'ultimo a troneggiare in questo campo. Oggi il Capitale si è fatto più furbo ed evita di palesare i propri imbrogli in maniera esplicita e chiara. Non esiste più un Ministero della Propaganda, almeno formalmente. Esiste da molto tempo un sistema di controllo mediatico molto più raffinato e, per l'appunto, “liberale”, che consente la permanenza di pensieri critici ed antitetici alla cultura dominante, seppur relegati in un angolino ben nascosto. Lo «spettro del comunismo» per decenni è stato temuto dalla borghesia e percepito come un'alternativa concreta dai lavoratori di tutto il mondo. Anche nei terribili anni di Hitler, quando si bruciavano i libri dell'ebreo Marx e il dissenso politico era punito con la prigionia, gli operai sapevano di essere costretti al silenzio e a chinare il viso, ma non pochi mantenevano l'idea di un mondo alternativo, esemplificato dall'esistenza stessa dell'URSS. Così come la Chiesa stroncò per secoli ogni forma di eresia religiosa, alla stessa maniera la borghesia reazionaria guidata da Hitler si lanciò in quella grande guerra coloniale di sterminio che avrebbe avuto il doppio pregio di fornire al popolo tedesco il proprio «spazio vitale», ma anche di sradicare una volta per tutte la speranza rimasta viva nella mente di milioni di lavoratori.

Perfino durante il totalitarismo nazista non era insomma stato possibile giungere ad una completa equivalenza tra la “legalità” nazista e la “moralità” interiore dei singoli individui, per usare due concetti nell'accezione kantiana. L'equivalenza tra legalità capitalistica e moralità popolare era stata ancor meno accettata nel XIX secolo, così come mai nella Storia si è assistito ad un'epoca in cui siano mancate sollevazioni sociali in rivolta verso una condizione sociale ritenuta ingiusta e illegittima. Laddove non sono riusciti millenni di regimi tirannici e nemmeno i totalitarismi nazifascisti, è riuscito invece per un breve periodo il totalitarismo “liberale”, capace di annebbiare la mente di miliardi di lavoratori rimasti sul finire del secolo XX privi di un riferimento ideale alternativo. Il crollo dell'URSS ha davvero coinciso per un certo periodo con la «fine della Storia» nella mentalità delle classi popolari occidentali. La vittoria del capitalismo, ormai naturalizzato e proclamato eterno nel suo dominio, è apparsa netta e straripante. Naturalmente tale dominio, basato sulla sussunzione delle menti e sul loro controllo indiretto, riguarda soprattutto la società occidentale, la quale gode nel suo complesso dei maggiori frutti della globalizzazione economica capitalistica. Tali discorsi valgono molto meno per i popoli del “Terzo Mondo”, laddove non a caso permangono, in forme diverse e variegate, società e regimi antimperialisti e anticapitalisti. Molto più forte è in tali Paesi la consapevolezza di vivere in un sistema truccato, in cui a guidare le redini del gioco ci sono pochi grandi burattinai seduti su comode poltrone a Washington, New York, Londra, Parigi, Berlino, Roma, ecc.

Per i popoli asiatici, latino-americani, africani, il regime subìto è tutt'altro che “liberale”, ed assai più visibile è la violenza quotidiana esercitata da un imperialismo che ha saputo portare avanti silenziosamente le istanze del colonialismo; eppure non manca anche in tali Paesi uno stadio molto avanzato di subalternità verso i dogmi della “democrazia liberale”, del “libero mercato”, del “sogno americano” e così via. Ciò dipende in una certa misura dagli attuali rapporti di produzione interni a tali Stati, oltre che dalle diseguali relazioni internazionali, ma è anche una conseguenza culturale figlia di un'epoca: segno cioè che le difficoltà derivanti dal crollo della grande “utopia” si sono fatte sentire ovunque, anche a causa degli errori e delle tattiche sbagliate dei comunisti. L'odio per l'Impero Statunitense e per gli Occidentali è però sempre più diffuso nel mondo, anche se “a casa nostra”, in Paesi sempre più colonizzati culturalmente, nel senso comune maggioritario non se ne colgono le ragioni.

Questo è in fondo il più grande trionfo dell'imperialismo: la propria mimetizzazione, la propria scomparsa. L'imperialismo esiste (ontologia), ma le principali sovrastrutture tecnologiche e mediatiche (tecnologia) non ne parlano, quindi non ve ne è cognizione (epistemologia). Ciò che è conosciuto non corrisponde quindi a ciò che è reale. E viceversa. Eppure non si nega l'accesso all'esistente. Non si impedisce all'individuo di conoscere realmente la realtà. Si riesce però a convincere la maggior parte del popolo della veridicità della versione dominante propinata. Un'altra piccola parte del popolo, quella più curiosa, furba e consapevole, viene corrotta e ingaggiata diventando la nuova aristocrazia operaia (si pensi al “filosofo” Marchionne), oppure messa prudentemente ai margini del sistema mediatico, depistata, derisa, denigrata. Le conseguenze malevoli del Sistema vengono infine spiegate con una serie di tecniche egemoniche che distolgono lo sguardo dalle cause reali dei problemi individuali e collettivi.

In un simile sistema gli uomini e le donne che decidono di ribellarsi non mancano e non mancheranno mai, perché le volontà “ideali” saranno sempre in ultima istanza determinate dalle costrizioni materiali; la rivolta però perde peso e consapevolezza teorica, non disponendo di un'adeguata ideologia emancipatrice capace di fungere da valida guida per la prassi. Nell'apparente confutazione del marxismo (ideologia “ribelle” ancora in auge negli anni '70), i “ribelli” recuperano l'anarchismo, il radicalismo, il populismo, l'astrattismo, l'ascetismo, le religioni, gli estremismi, l'individualismo, l'arte, lo yoga e così via: la rivolta si frantuma, si individualizza, diventa adozione di un differente stile di vita, porta spesso al rifiuto della politica in quanto semplice gestione dell'esistente, non trovando al contempo un'ideologia valida per pensare, e tantomeno costruire, qualcosa di alternativo al capitalismo.

Ci fu un tempo in cui chi era comunista, cogliendo forse parzialmente alcuni di tali aspetti, in un momento di sbandamento collettivo, cercò di salvare capra e cavoli scindendo Lenin da Stalin, poi Engels da Lenin, poi Marx da Engels, infine (perché no?) l'ideale utopistico e filosofico del socialismo dalle rigidità del materialismo storico. La protesta, non più scientifica e sistematica, si faceva astratta e lirico-poetica... certamente non più organizzata in maniera adeguata e di massa. L'irrazionalismo tornava a farla da padrone, e nella confusione generale diventava possibile rilanciare la grande giostra che aveva caratterizzato la gran parte della Storia umana: gli oppressi, non avendo che un solo paradigma ideologico e determinati valori in testa, nella smentita generalizzata delle possibilità di poter costruire una società su basi scientifiche, si rassegnarono all’esistente, oppure cercarono di trovare delle varianti di gestione non riuscendo però a percepire le storture della società. Così come le lotte proletarie nel Medioevo si esprimevano spesso a livello religioso attraverso l'adesione alle “eresie”, così oggi assistiamo al trionfo, nel variegato campo delle sinistre europee, di revisionismi, socialismi utopistici e subalternità capitalistiche di vario tipo. L'inadeguatezza di tali rivolte è tale da screditare alla radice il senso stesso della rivolta, dando luogo a quel fenomeno pericoloso del “pensiero unico” a cui fortunatamente si sta ormai per porre termine. Il Totalitarismo “liberale” ha i giorni contati.

È la stessa tecnologia infatti a porre le basi della ricomposizione del nesso tra ontologia ed epistemologia, premessa dialetticamente indispensabile per un'adeguata prassi politica. Se infatti l'imperialismo controlla ancora in maniera ferrea i principali media (televisioni, radio, giornali), non altrettanto può fare con internet, salvo far cadere la propria maschera “liberale”. Il web oggi è una giungla in cui si trova qualsiasi cosa. Come tale, in sé, non è altro che uno strumento tecnologico neutro, con la differenza però qualitativamente e quantitativamente rilevante di essere “democratico”: esso consente cioè a chiunque di poter accedere a determinati contenuti rimasti celati dal grande circo Barnum costruito dai servi del Potere. La Verità Storica e Politica ormai esistono e sono già state svelate, seppur in maniera sparsa e frammentata, da una grande quantità di uomini probi e donne integerrime. Il lavoro che ritengo di aver svolto con profitto realizzando In Difesa del Socialismo Reale, mettendolo a disposizione gratuita sul web, è stato semplicemente di assemblare e far conoscere tale Verità Storica già scoperta da altri. L'aver costruito questa piccola casamatta virtuale mi permette di essere certo del fatto che una scintilla continuerà sempre a permanere, potendo diffondersi come un virus capace di colpire non il sistema operativo di un pc, bensì la coscienza di chi ama la giustizia e la libertà.

Il grande problema sta oggi nel riuscire a diffonderla, questa Verità, sfidando i potenti mezzi a disposizione dell'imperialismo per mantenere l'egemonia culturale sulle masse popolari. Si tratta di andare contro i pregiudizi, le certezze acquisite nel tempo, le televisioni, i giornali, la Chiesa (e le altre religioni), i ceti politici, gli opinionisti, gli intellettuali, i filosofi, gli economisti, le massime organizzazioni internazionali, le istituzioni scolastiche e perfino la maggior parte dei libri presenti nelle librerie e nelle biblioteche. Qualunque sia l'esito di questa lotta non ci si potrà aspettare che uno o più libri possano porre termine ad un totalitarismo, o più in generale ad un qualsiasi regime. Solo la forza dei popoli è tale da poter distruggere un ordine politico, perfino il più spietato, ingiusto e “liberale”. Un totalitarismo è in fin dei conti, come faceva notare la stessa Hannah Arendt, originato da una certa dose di razzismo e di imperialismo, fase suprema del capitalismo. Nel delineare questa formula del “totalitarismo liberale” anticipo che non si può abbattere un simile regime se non attaccando al cuore il fenomeno dell'imperialismo, il che in Italia significa porre la questione del socialismo come unica struttura socio-economica concretamente alternativa al capitalismo nel contesto dato, ossia un Paese ad elevato tasso di sviluppo tecnologico e industriale.

Questa però è un'altra storia che qui introdurremo soltanto, necessitando di ulteriori approfondimenti storico-critici sulle falsità raccontate riguardo allo “stalinismo”, al socialismo, ecc. Sarà quindi utile per ora concentrarsi sull'obiettivo iniziale espresso: introdurre nel lettore un dubbio sistematico sulle verità che gli sono state raccontate fin dall'infanzia. Chi avrà la pazienza e la voglia potrà aspettare i lavori successivi che daranno una diversa prospettiva sugli eventi dell'ultimo secolo, potendo constatare personalmente quanto sia stato radicalmente sfacciato il revisionismo storico che oggi permea il senso comune, nella Resistenza sempre più flebile della “società civile”.


NOTE
1 Si vedano a tal riguardo gli articoli disponibili su index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28646-in-difesa-del-socialismo-reale-e-del-marxismo-leninismo, index.php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28684-la-sovranita-nazionale-e-la-centralita-della-lotta-antimperialista, lacittafutura.it, resistenze.org.
2 Sul sito www.intellettualecollettivo.it.
3 P. Flores D'Arcais, Il totalitarismo secondo la Arendt, La Repubblica (web), 13 ottobre 2006.
4 G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 350.
5 E. Catalano (a cura di), Hannah Arendt. Studio sulle origini del totalitarismo, Filosofico.net.
6 G. Sabbatucci & V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, cit., p. 350.
7 P. Spena, L’equiparazione fra i “totalitarismi” e la criminalizzazione del socialismo, Senzatregua.it, 8 febbraio 2017.
8 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 10.

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