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senso comune

La sinistra dopo la sinistra

di Raffaele Cimmino

populismo sinistraScrive Alex Honneth: “E’ dalla fine della seconda guerra mondiale che non si registrava un’indignazione popolare di tale entità, alimentata dalle dinamiche sociali e politiche innestate dalla globalizzazione dell’economia … stante il disagio crescente è come se venisse a mancare la capacità di pensare a qualcosa in grado di spingersi oltre l’esistente, di immaginare una realtà sociale oltre il capitalismo. La divaricazione tra sdegno esperito e una qualsivoglia aspettativa futura e lo svincolamento della protesta da ogni visione di un possibile miglioramento è un fenomeno effettivamente nuovo nella storia delle società moderne a iniziare dalla Rivoluzione francese”(1).

La presa d’atto di questo stato di cose è il livello minimo dal quale fare ripartire ogni riflessione e ogni possibile rifondazione, se si passa il termine, della sinistra nello spazio nazionale e in quello europeo. Ma non si avanza di un passo né sulla questione della crisi della sinistra né nel contrasto alla destra se non si affronta la questione cruciale che affonda tutta ancora nei ruggenti anni ’90 – e in verità anche prima. Per dirne una, la globalizzazione, che per i suoi cantori di sinistra sembrava un processo progressivo e inarrestabile. Aver assunto questo polo discorsivo ha lasciato del tutto sguarniti davanti alla de-globalizzazione, o globalizzazione nazionalista, che ha la sua espressione più visibile nella presidenza Trump e nella guerra dei dazi in corso.

Finita la fase ascendente della liberalizzazione globale, che doveva portare ovunque la democrazia e decretarla “fine della storia”, si assiste al ritorno alla luce del sole di conflitti per il controllo del mercati e dei flussi di merci, mentre la rivoluzione digitale apre la prospettiva della cancellazione di milioni di posti di lavoro, non sostituibili se non cambia il modello di sviluppo. Tutto dice che siamo non più soltanto ai prodromi di una transizione egemonica da Occidente e Oriente: le rumorose farneticazioni di Trump e il silenzioso lavorìo della leadership cinese sono manifestazioni eloquenti(2).

Questi temi non si possono fronteggiare se non si maneggia la questione controversa ma inaggirabile dell’autonomia del Politico dall’Economico. Sta facendosi spazio un dispositivo riassumibile più o meno nell’idea che contro lo strapotere del mercato serva più stato per tutelare meglio gli interessi nazionali e per dare protezione alle vittime della globalizzazione. Questo dispositivo politico, comunemente noto come populismo o sovranismo, è oggi all’ attacco degli assetti esistenti non per sovvertirli ma per riscriverli adattati alle esigenze del momento. Sono messi in crisi – ma da destra questo è il punto – i meccanismi presuntamente irenici della globalizzazione neoliberale. E’ così rimasto incagliato nelle sua contraddizioni chi da sinistra ha veicolato l’ideologia della globalizzazione.

Certo, sembra ormai caduto il velo la falsa neutralità dell’Economico, veste sotto cui si è nascosto le forza demolitrice e rivoluzionaria del capitalismo (Marx dixit). Il finanzcapitalismo, che sembrava avere subito un colpo mortale nella crisi, è più forte di prima. David Harvey ci ricorda con Marx che le crisi del capitalismo, o meglio, delle fasi di accumulazione del capitalismo, non significano la sua fine ma preparano la scena per il suo rinnovamento. Niente sembra più vero quando si guardano agli scenari aperti dalla crisi iniziata dall’esplosione della bolla dei subprime nel 2007. Dentro la crisi stessa il capitale ha continuato a cercare una soluzione spaziale ai suoi problemi di sovraccumulazione e “in questo quadro la difesa del luogo contro la potenza dell’accumulazione capitalista diventa una significativa linea di lotta anticapitalista”(3). Una linea che, aggiungiamo noi, dovrebbe appartenere alla sinistra.

La sfida è interamente al livello del senso e della funzione che dovrebbe svolgere una sinistra efficace in questo torno di tempo, fino a chiamarne in causa la stessa necessità storica. Non si può immaginare oggi una sinistra se non profondamente rinnovata nelle sue fondamenta teoriche e nella sua strategia, il che rende impraticabili le vecchie rotte, inadatte al mondo nuovo. Non è adatta al nuovo mondo né la sinistra che pensasse ancora possibile il patto socialdemocratico, che presupponeva l’egemonia del keynesismo; non lo è la sinistra che ha scelto la “terza via” facendosi sostenitrice acritica della democrazia dei mercati. La prima è stata dissolta con il modello economico sottostante, che è durato solo i “trenta gloriosi” anni del dopoguerra. La seconda ha costituito un unico complesso con le élite economiche e finanziarie, divisa dalla liberaldemocrazia solo da pochi infinitesimali gradi di separazione. Qualcuno parla ancora di socialismo liberale utilizzando la vecchia formula d’antan, un tentativo di occultare una sostanziale convergenza. Ma questo escamotage non riesce neanche più a spostare in avanti la resa dei conti, che alla fine, a cavallo della grande crisi, è arrivata(4).

Non che non fosse diffusa la sensazione che il sistema fosse in bilico. Troppi elementi di socialismo per dire troppa democrazia nella Costituzioni europee ammoniva la società finanziaria (e banca) Jp Morgan, pensando forse principalmente all’Italia. E infatti, per restare a noi, a corollario della scelta politica a favore dei mercati è stata spesso posta la questione della democrazia decidente come unica democrazia funzionante. Un vecchio cavallo di battaglia della sinistra “riformista” fin dai tardi anni ’80, motore di tutte le riforme, o controriforme, attuate o abortite in direzione della centralizzazione del potere decidente. Una scorciatoia che tentava di riempire il bicchiere della politica che inesorabilmente veniva svuotato dalla riorganizzazione internazionale del capitale all’ombra delle grandi istituzioni internazionali, la globalizzazione appunto che imponeva le sue leggi. Il risultato è stato quello di ampliare la frattura tra governanti e governati.

Una linea di pensiero sostiene che questa cesura rappresenta il portato insopprimibile delle istituzioni rappresentative, laddove a ovviare a questo limite una funzione di rappresentanza ben miscelata con sovranità del popolo, uguaglianza e democrazia rappresentativa, o in varie dosi diretta, può sfuggire alla declinazione negativa che la pone in contrasto con i propri principi. In questo modo la si renderebbe capace di colmare almeno tendenzialmente il divario che invece il populismo esalta tra élite e popolo-comunità(5). Che negli ultimi decenni si sia andati in direzione opposta, facendo di tutto per allargarla la faglia, sembra innegabile.

Proprio qui si annidano le ragioni, chiare per chi le voglia vedere, per le quali il popolo della sinistra ha praticato il suo esodo dal ‘900 così di fatto dissolvendo un blocco sociale consolidatosi, tra riarticolazioni e ridimensionamenti, nel corso di decenni. Uno scisma che meriterebbe un’analisi più approfondita, in grado di andare oltre la semplice registrazione del fatto compiuto. Non si tratta dell’esito di divisioni e dispute interne come si dice in forma di autoassoluzione. Questo semmai è l’effetto del cambio di campo delle leadership, non certo la causa. Leaders diventati free riders al servizio del capitale e dei suoi agenti, sostenitori della necessità delle riforme liberiste abbandonando al proprio destino i tradizionali insediamenti sociali e cedendo agli stilemi della democrazia del pubblico. Il corto circuito tra la politica-spettacolo agita dai media, democrazia del pubblico e rappresentanza ha offuscato il fenomeno della divaricazione tra sinistra politica e le aspettative di una società colpita dalla crisi nei suoi strati più deboli dal ridisciplinamento in senso neoliberista.

La gran parte della sinistra di ogni latitudine è stata tra gli attori politici di questa svolta. Si è prestata con micidiale efficacia a fare da volenteroso carnefice, adottando l’astuzia retorica di presentare come soluzione dei problemi di economie perlopiù stagnanti e di pezzi di società in affanno quello che – i sacrifici necessari – in realtà ne perpetuava le cause. Si sono progressivamente ristretti gli interessi che si intendevano rappresentare fino a identificarli, nei casi più estremi, con quelli dei capitalisti più spregiudicati e pericolosi della finanza rampante. Anzi, per dirla con Carlo Galli, è stata la sinistra, o per meglio dire il personale politico della sinistra riformista, a introdurre e veicolare il neoliberismo in Europa

Questa sinistra sta chiudendo la sua storia. E, se non è già successo, come in Francia, si appresta ad essere spazzata via da un ruolo significativo perché espressione di un vecchio ordine che non esiste già più. Si tratta di capire se e come possa essere sostituita da qualcos’altro. Intanto, la sinistra è sempre esistita, o meglio, è sempre stata percepita tale, anche dai suoi avversari e perciò combattuta aspramente, per avere l’obiettivo di cambiare i rapporti di forza nella società. Sovvertirli o riequilibrarli, ma comunque cambiarli. In qualche misura la sinistra è sempre stata anti-sistema, quel ruolo che ora si assegnano compiaciuti i “nuovi barbari”, che sono molto più interni al sistema di quanto dica la loro propaganda.

La sinistra reale, quella che l’elettorato sta duramente punendo, si è adattata invece all’esistente limitandosi a darsi il compito di immaginare qualche lenitivo sulla sfondo di una società che ha abolito il conflitto sociale dalla sua geografia mentale e culturale. Solo che il rimosso è tornato sotto forma di incubo. Quello che si voleva sradicare, il conflitto sociale, è tornato trasfigurato come rivolta contro le élite di cui la sinistra politica viene considerata parte integrante. Viste le fratture prodotte da un modello economico e sociale che non fa prigionieri tra i perdenti, non può essere una sorpresa. Che per questo richieda percorsi inediti dovrebbe essere altrettanto chiaro.

Il tema della ricostruzione della sinistra, dunque, è una questione complessa che ha per sfondo la pressoché irreversibile crisi di questa parte politica in tutta Europa, con qualche ragguardevole eccezione – il Labour di Corbyn, portoghesi, Syriza, se reggerà – che difficilmente invertirà la tendenza generale: la mutazione è troppo profonda. Occorre produrre uno salto di paradigma. Una impresa che, in concreto, dovrà riguardare le forze collettive e i soggetti politici e sociali – che non chiameremo progressiste, perché alcuni termini della tradizione sono ormai logori – disponibili alla costruzione di un’alternativa allo stato di cose presenti, alla governance liberista, all’a-democratica ”Europa reale”, non quella di Ventotene che così come il socialismo utopico non è mai esistita, perlomeno non separata dai rapporti di forza tra i paesi costituenti. Alternativa a “questa” Unione europea, altra cosa dall’Europa tout court, che non a torto è percepita come causa del disagio e dell’arretramento che hanno prodotto un vero shock sociale.

Ricostruire i presupposti per la ri-democratizzazione della società, per riconoscere sotto il tratto dell’uguaglianza tutti coloro che sono stati spogliati dai diritti e da questo sono accomunati. I “ senza-parte” di cui parla Jacques Ranciere, tra cui si possono riconoscere i lavoratori precari e ipersfruttati, i lavoratori esclusi o marginalmente impiegati, i migranti tenuti in una non-zona fatta di esclusione-espulsione-sfruttamento, i giovani qualificati e sottoimpiegati, le donne che si vuole ridisciplinare attraverso un vecchio-nuovo patriarcato, lo stesso ceto medio declassato e mortificato nelle sue aspettative e in cerca di protezione che si può sottrarre alla regressione antidemocratica della destre. Una vera coalizione sociale non nominalisticamente evocata ma creata dalla pratiche di solidarietà e di conflitto, fatta dall’alleanza dei corpi, mobilitata contro le categorie e le strutture che producono forme di esclusione e disuguaglianza(6). Una sinistra non solo dalla parte dei senza-parte ma dei senza-parte. Uno spazio politico e sociale unificato da punti nodali e dalla costruzione di identità relazionali: gramscianamente un blocco storico, una formazione egemonica(7).

Il nemico non è il popolo, accezione politicamente scivolosa ma scomponibile e riarticolabile in una aggiornate lettura di classe, ma il dispositivo politico agito dalle destra composto dalla triade nazionalismo-razzismo-sessismo. La rabbia sociale ridotta a fenomeno di sicurezza interna ha come effetti lo scivolamento di pezzi di società nell’acqua torbida da cui attinge la destra reazionaria. Non sarà però la demonizzazione del suo elettorato che riuscirà a dissolvere il consenso della destra politica, populista o sovranista come va di moda dire, che cresce in Italia e in Europa, ma le parole e le relazioni della politica.

Un obiettivo che richiede risposte controegemoniche e la costruzione di una frontiera politica su un terreno abbandonato per troppo tempo alla destra o a organizzazioni che si pretendono né di destra né di sinistra. Contro la postdemocrazia è legittimo assumere la logica dello scontro tra popolo ed élite, se il popolo è dato dall’articolazione di una serie di domande democratiche (e di uguaglianza)(8).

Infine, passi il paradosso, all’esito della deriva politico-culturale di un trentennio di una cosa dovremmo essere riconoscenti alla nuova destra che avanza: in un modo o nell’altro ci costringerà a riprendere in mano i vecchi attrezzi della sinistra politica che, aggiornati e rivisti, vanno tirati fuori e usati se non altro per legittima difesa. Cominciando dalla categoria del Politico, nella forma di una pratica vivente che si emancipa dalla subalternità alle forze del mercato. Sarà meglio però se a invocarli e usarli non siano quelli che li hanno seppelliti come anticaglia inutile.


Note
(1) Alex Honneth – L’idea di socialismo – Milano, 2016
(2) Giovanni Arrighi – Adam Smith a Pechino- Milano, 2008
(3) David Harvey – Marx e la follia del Capitale – Milano, 2018
(4) Wolfgang Streek – Tempo guadagnato – Milano 2013
(5) Roberto Esposito – Politica e negazione – Torino, 2018
(6) Judith Butler – L’alleanza dei corpi – Milano 2017
(7) Laclau, Mouffe – Egemonia e strategia socialista – Genova, 2011
(8) Chantal Mouffe – Per un populismo di sinistra – Bari, 2018

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