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Pasolini e le semiotiche dell’immanenza

Segni e macchine

di Maurizio Lazzarato

Anticipiamo un estratto del libro di Maurizio Lazzarato, Segni e macchine. Il capitalismo e la produzione di soggettività, dal 14 marzo in libreria per ombre corte. Il capitale è un operatore semiotico: questa affermazione di Félix Guattari è al centro del lavoro di Lazzarato che, chiedendoci di abbandonare il logocentrismo che informa ancora tante teorie critiche, cerca di costruire una nuova teoria in grado di spiegare come funzionano i segni (e non soltanto il linguaggio) nell’economia, negli apparati di potere e nella produzione di soggettività

22589316624Pasolini è sicuramente uno dei primi autori ad aver colto la natura e il funzionamento dei sistemi di segni del «neocapitalismo». Il suo modo di liberarsi dei limiti della linguistica e della semiotica, così come si sono costituite nel XIX e nel XX secolo, coincide, in molte parti, con il lavoro di Guattari. Il «neocapitalismo» è così definito perché, a differenza del capitalismo classico, non tollera nulla al di fuori dei suoi rapporti di sfruttamento e di dominio. Il neocapitalismo segna un cambiamento del «modo di produzione» che Pasolini chiama anche «seconda rivoluzione capitalista», che non produce solo nuove merci, ma anche una nuova umanità e una nuova cultura che, cinicamente, distrugge le culture contadine, sottoproletarie e operaie, operando il «più completo e totale genocidio»1 della storia italiana. Quello che prima poteva ancora rimanere «fuori» è completamente subordinato alla logica del capitale, poiché, come in Guattari, la produzione di soggettività (della cultura, dei valori, dei comportamenti, dei modi di esistenza) è tra le prime e più importanti forme di produzione.

Ma, prima di arrivare, negli anni Settanta, a una descrizione «sociologica», «antropologica» ed «economica» dell’impresa del capitalismo sull’insieme della società e delle sue modalità di espressione, Pasolini coglie, alla metà degli anni Sessanta, la natura della potenzialità della nuova «immanenza» attraverso la sua speciale semiotica. La «semiologia generale dell’azione» che vorrebbe elaborare, ritrova la continuità tra natura e cultura che la modernità aveva spezzato, concentrando tutta la soggettività sul soggetto e spogliando l’oggetto di ogni capacità di espressione. Mettendo a frutto la sua esperienza cinematografica Pasolini produce, come fa Charles Sanders Pierce, una nuova semiologia partendo dall’immagine. Non considerando quest’ultima una produzione del cervello, né un risultato del nostro sistema di percezione, supera il dualismo dell’immagine e della cosa, della coscienza e dell’oggetto.

I capelli di Jerry Malaga ripresi dalla telecamera e gli occhi «reali» di Umberto Eco fanno parte dello stesso continuum di immagini che costituiscono il mondo che è, quindi, un cinema in sé, un cinema in natura, un metacinema. Come nel primo capitolo di Materia e memoria di Bergson, l’occhio è nelle cose stesse, le cose sono luminose di per sé, senza che nessuna coscienza le illumini.

Mettendo l’occhio nelle cose, il cinema smantella la concezione antropomorfica dell’espressione e dell’azione. Le cose si esprimono da sole, costituiscono dei focolai di soggettivazione, hanno una potenza espressiva, una «luminosità», una propria capacità di proto-enunciazione e di azione, che non dipende assolutamente dall’uomo.

 

Le lingue della comunicazione-produzione

A partire da questa concezione, ciò che ci interessa nella «semiotica generale» di Pasolini è il funzionamento del linguaggio delle cose come «discorso non verbale», come potenza di proto-enunciazione della realtà e dunque come focolaio di soggettivazione. L’espressione, come in Guattari, non è riservata ai segni linguistici. Al contrario, nel capitalismo, l’espressione e l’enunciazione sono innanzitutto quelle delle semiotiche a-significanti e simboliche. La descrizione del funzionamento di queste ultime costituisce un complemento indispensabile al lavoro di Guattari sulle semiotiche a-significanti. La lingua, per Pasolini, non è «un sistema privilegiato a sé, […] uno dei tanti possibili sistemi di segni»2. «Azione, comportamento e presenza fisica» sono altrettanti campi semiotici di comunicazioni non linguistiche. La «presenza fisica» della periferia romana o della città di Bologna e le loro architetture, come in Guattari, «parlano», nel senso che funzionano come vettori di soggettivazione.

Le cose sono fonti discorsive «mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti», che agiscono come vettori di enunciazione3. Sono segni iconici, immagini che comunicano o esprimono qualcosa. Questa sensibilità al linguaggio delle cose si deve al suo lavoro di regista cinematografico, piuttosto che dalla sua attività di scrittore. Lo sguardo assistito dalla telecamera, lo obbliga a prendere coscienza e a compilare un elenco dettagliato di tutte le cose che contiene un piano cinematografico. Lo scrittore trasforma le cose in parole, ossia in simboli, in segni del sistema verbale che sono «simbolici e convenzionali», mentre i «segni» del sistema cinematografico sono le cose stesse, nella loro materialità. E come regista si è trovato ad affrontare l’immediatezza della «presenza espressiva» del non verbale. Il «discorso» non verbale è «fornito di una forza di persuasione che nessuna verbalità possiede»4. Si può dimenticare ciò che ci è stato insegnato con le parole, ma non si potrà mai dimenticare quello che abbiamo imparato attraverso le cose.

La prima immagine della vita di Pasolini è una tenda bianca, e questa immagine gli parlava «oggettivamente» e gli comunicava il mondo della sua infanzia borghese, l’universo nel quale viveva. Troviamo una tenda, ma rossa, anche in Guattari, che anche a lui parla, enuncia, esprime qualche cosa.

Il colore rosso scuro della mia tenda entra in costellazione esistenziale con la caduta della sera, tra cane e lupo, per creare uno strano effetto inquietante che svaluta le evidenze e le urgenze che mi si imponevano fino a qualche istante prima facendo cadere il mondo in un vuoto che sembra irrimediabili.

Guattari precisa le modalità di espressione del colore, vale a dire il modo con il quale una cosa può funzionare come focolaio o vettore di soggettivazione. Se non si può dire che il colore rosso «parla», esso costituisce, concatenando elementi umani (percezione, memoria) e non umani (la tenda, la sera), il fondamento esistenziale dell’espressione e della parola:

Quello che c’è nella tenda, quello che c’è nella sera che scende, quello che c’è nella memoria, si dà in un nodo enunciativo. Tuttavia non si può dire che questa sia una rappresentazione. Quest’ultima è lì solo come agente di una funzione esistenziale […]. Questa funzione esistenziale si organizza in modo del tutto diverso da quello della denotazione e della significazione5.

Il concatenamento particolare (colore, tenda, sera, memoria, percezione ecc.) opera un’agglomerazione, una condensazione degli elementi esistenziali che, pur essendo non discorsivi, sono a fondamento dell’enunciazione.

 

Il neocapitalismo e il non verbale

Come in Guattari, se il linguaggio delle cose non arriva a stabilire dei significati invarianti e stabili, può produrre dei modelli di comportamento, che hanno la forza degli esempi e l’evidenza della presenza fisica. Le semiotiche non verbali, le semiotiche a-significanti (i linguaggi operativi e tecno-scientifici dell’industria) e le semiologie simboliche agiscono trasformando in profondità la soggettività degli italiani degli anni Sessanta e Settanta.

Il neocapitalismo è la «seconda e definitiva rivoluzione borghese» la cui «cultura produce dei codici che generano dei comportamenti», vale a dire stili di vita, valori, soggettivazioni. I codici non agiscono principalmente attraverso il linguaggio verbale e le sue funzioni di rappresentazione, di denotazione e di significazione. La cultura neocapitalista mette in circolazione modelli di desiderio e impone modelli di assoggettamento (modelli di infanzia, di padre, di madre ecc.).

Come in Deleuze e Guattari, il neocapitalismo si caratterizza per l’univocità del concetto di produzione: produzione significa produzione di merci e di modi di soggettivazione. Il neocapitalismo «propone nuovi modelli (di soggettività) come l’industria automobilistica propone nuove serie di vetture». Il capitalismo fabbrica l’individuo modellando il suo corpo e la sua psiche, lo fornisce di modi di percezione, di semiotizzazione e di un inconscio che cercano di introdurre un «proprietario borghese in ogni lavoratore». A partire dagli anni Sessanta il capitalismo ha bisogno di un «lavoratore deterritorializzato, di qualcuno che non resti ancorato a una qualifica professionale, che segua il progresso della tecnologia, o addirittura sviluppi una certa creatività, una certa partecipazione. Inoltre c’è bisogno di un consumatore che si adatti all’evoluzione del mercato»6.

Pasolini dà una versione essenzialista di questa nuova figura del lavoratore tracciata da Guattari. Il «potere ha bisogno di un tipo di soggetto diverso» dotato di ciò che Pasolini chiama, come corrispondente alla flessibilità economica del mercato del lavoro, una «flessibilità esistenziale», una «assoluta elasticità formale nelle ‘esistenze’ poiché i singoli diventino buoni consumatori»7.

Il modello culturale proposto agli italiani, al quale devono conformarsi (nel loro modo di vestire, di calzarsi, nei loro atti e nei loro gesti), non è un modello che riguarda la rappresentazione, le dimensioni cognitive della soggettività, ma l’esistenza stessa. «La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento»8. L’efficacia semiotica del discorso non verbale è formidabile perché riguarda e ammaestra prima di tutto il corpo: «Ciò che viene educata, modellata, è la carne stessa, come forma dello spirito». Questi modelli di soggettivazione si impongono attraverso un «linguaggio fisico», un «linguaggio del comportamento» che, non essendo verbale, «non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico»9.

Il neocapitalismo afferma il primato delle lingue della chiarezza, della precisione, della funzionalità e dell’efficacia strumentale e pragmatica, prosciugando la dimensione espressiva delle lingue umaniste. In un periodo della storia in cui la lingua verbale è completamente convenzionale e vuota, poiché ha subito la traducibilità, la centralizzazione e l’equivalenza delle lingue delle infrastrutture e in particolare dell’impresa, questo linguaggio «(fisico e mimico) assume una decisiva importanza»10. Il neocapitalismo si esprime e agisce sempre attraverso «semiotiche miste», ma rovesciando le gerarchie che vedevano prevalere le lingue della sovrastruttura (scuola, legge, università ecc.).

«[L]a cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico, più un certo quantitativo – completamente convenzionalizzato e estremamente povero – di linguaggio verbale»11. Basta leggere i giornali, guardare la Tv, girare nei paesi devastati dalla volgarità della televisione, per rendersi conto di come il berlusconismo abbia tradotto questa profezia di Pasolini. Alla diffusione di un linguaggio non denotativo che agisce mediante il contagio mimetico, mediante l’affetto, si affianca una costruzione della lingua da parte della «tecnica». «Il fenomeno tecnologico investe come una ‘nuova spiritualità’, dalle radici, la lingua in tutte le sue estensioni, in tutti i suoi momenti e in tutti i suoi particolarismi»12.

Insieme all’imposizione di una lingua nazionale, di una sola e unica sostanza significante, soprattutto attraverso la scuola e la televisione, apparecchiature collettive dello Stato e della comunicazione operano un accentramento e uno svuotamento delle semiologie simboliche e corporali delle culture popolari attraverso una nuova cultura dell’immagine, che produce una nuova, paradossale e ignobile «espressività». La presa sulla soggettività, quindi, non è tanto dovuta alla parola, al linguaggio, alla rappresentazione, all’ideologia, alla coscienza, quanto alle lingue delle infrastrutture, alle lingue della produzione e del consumo (alle semiotiche a-significanti dell’economia e alle semiotiche simboliche del consumo).

 

L’intolleranza e il «genocidio culturale» degli italiani

Negli anni Settanta, l’immanenza di tutto il reale alla logica del capitalismo si tinge di colori alquanto cupi. La scomparsa del mondo dei contadini, dei sottoproletari e anche degli operai (della loro cultura, non della loro esistenza sociologica), non è sostituita da nessuna alterità. Al contrario, è l’edonismo e l’individualismo del consumo e della comunicazione di massa che occupa lo spazio pubblico e che conquista la soggettività. In mancanza di un concatenamento di enunciazione «rivoluzionario» che si dispieghi all’altezza della mutazione del neocapitalismo, gli effetti delle lingue delle infrastrutture (industriali, della comunicazione, burocratiche) sono catastrofici, poiché producono una trasformazione antropologica degli italiani. Come in Guattari, la produzione della soggettività, dei modi di vita e di espressione è il fatto strategico del capitalismo. Riprendendo il Marx dal Manifesto del partito comunista, Pasolini parlerà anche di «genocidio culturale».

I «nuovi poveri», espropriati della loro cultura popolare, vivono uno squilibrio tra la nuova cultura neocapitalista del consumo di massa e le loro condizioni economiche. Si trovano nell’impossibilità di realizzare ciò che il consumo di massa promette, a «causa della povertà che permane, dissimulata in un illusorio miglioramento del livello di vita». La scomparsa dei vecchi modelli culturali popolari e lo squilibrio socio-economico produrranno frustrazione, violenza, senso di colpa e aggressività, che Pasolini legge soprattutto nei gesti e nella presenza dei corpi dei giovani.

Prima che il neocapitalismo integrasse e subordinasse la società nel suo insieme, i poveri vivevano in una «segregazione e una marginalità» che permetteva loro di conservare, riprodurre e reinventare le loro culture e le loro modalità di espressione. I sottoproletari, negli anni Cinquanta, erano «neri» a tutti gli effetti, che la borghesia si limitava a dominare con la repressione poliziesca senza preoccuparsi di «evangelizzarli», ovvero senza preoccuparsi di imporre modelli culturali o di soggettivazione. Da questo punto di vista, il fascismo faceva ancora parte del mondo del primo capitalismo o, per dirlo in modo più preciso, si collocava all’incrocio, nel punto di passaggio tra il vecchio e il nuovo capitalismo. L’imposizione delle lingue della produzione e del consumo costituiscono una rivoluzione interiore più temibile della dittatura fascista.

Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole13.

Con le sue «lingue delle infrastrutture», il neocapitalismo non si limita a chiedere sottomissione e obbedienza, ma raggiunge le radici dell’esistenza. Modella e modula la soggettività e la vita degli individui. Il governo è un governo delle «anime», come dirà qualche anno più tardi Foucault.

Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio, nel fondo dell’anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irregimentazione superficiale, scenografica, ma di una irregimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima14.

Il fascismo storico sfruttava valori retorici come l’eroismo, il patriottismo, la famiglia, mentre il «nuovo fascismo è un pragmatismo che riguarda tutta la società, un tumore centrale, maggioritario»15. Il nuovo fascismo della cultura, della comunicazione e del consumo di massa sollecitando modi di vita e di sessualità familiaristi è «quasi razzista», e produce una «falsa tolleranza». La «nuova tolleranza» del consumo, della comunicazione e della cultura di massa rischia di trasformarsi in una nuova e più inquietante «intolleranza». La «nuova tolleranza», che oggi chiameremo il «politicamente corretto», ha degli effetti paradossali, perché se nel neocapitalismo «le élites sono molto più tolleranti verso le minoranze sessuali che un tempo […], [i]n compenso l’enorme maggioranza […] è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana»16.

Questa intolleranza, che si è diffusa come un cancro micro-fascista solo qualche tempo dopo la morte di Pasolini, ha trovato la sua espressione macro-politica nella Lega Nord, partito di tutte le intolleranze e di tutte le riterritorializzazioni reazionarie. Pasolini è stato sicuramente il primo a cogliere la potenza delle lingue della produzione e del consumo e soprattutto di quelle che si esprimono attraverso la televisione (di cui chiedeva la chiusura temporanea). Il potere ha distrutto le vecchie libertà, quelle «dei poveri», degli operai e dei proletari, e ne ha create altre che si impadroniscono «delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura»17.

La normalizzazione, la standardizzazione, il livellamento dei modi di vita e dei comportamenti non sono più unicamente imputabili alle discipline e alla detenzione (confinamento, isolamento…) (di cui le «borgate» romane sono una manifestazione), ma il prodotto di tecnologie di poteri «più sottili, abili e complessi»18, di cui le semiotiche fanno sicuramente parte. Esse esprimono e organizzano l’«edonismo di massa»19 della società dei consumi, un potere apparentemente più tollerante e più aperto, ma che, in realtà, per Pasolini, è più intollerante e più distruttivo del fascismo.

 

La scomparsa del Sacro e l’animismo macchinico

Pasolini è assolutamente consapevole della situazione paradossale che il capitalismo determina. Da un lato distrugge le culture popolari e la loro visione sacra e «animista» della natura, delle cose e del cosmo; dall’altra, attraverso i concatenamenti macchinici, crea le condizioni per tracciare nuove continuità tra soggetto/oggetto, tra natura/cultura, e dunque un nuovo animismo. Come Guattari, Pasolini coglie questo duplice movimento (contraddittorio): da un lato, l’oggettivismo e la completa razionalizzazione della natura e del cosmo che li rende sfruttabili, dall’altro, la possibilità di un animismo macchinico che potrebbe risacralizzarle (Pasolini) o «reincantarle» (Guattari).

Attraverso il cinema, Pasolini ha alcune intuizioni teoriche davvero geniali. La cultura «popolare», destinata a scomparire sotto l’azione invadente del capitalismo, detiene, paradossalmente, un sapere in sintonia con il macchinismo capitalista e in particolare con quello cinematografico. La «lingua della realtà», quando era ancora «naturale», quando non era ancora presa dal dispositivo cinematografico, era fuori dalla portata della nostra coscienza. Ora il cinema opera, come nella tradizione animista dell’umanità, un’attualizzazione, un’animazione20 e una «soggettivazione» della natura che è impossibile distinguerla dalla cultura.

Il capitalismo trasforma profondamente la soggettività distruggendo la cultura «orale» delle classi dominate. Le semiotiche simboliche che abbiamo visto operare nelle società arcaiche (una parte rilevante della quale si era riprodotta nelle comunità contadine e sottoproletarie dell’Italia moderna) e che all’epoca della prima rivoluzione industriale esprimevano mondi, valori e modi di vita eterogenei al capitalismo, sono destinati a scomparire21. La cultura e la lingua delle infrastrutture (lingua della produzione-consumo) si sovrappongono agli altri strati culturali e linguistici, trasformandoli in profondità, fino a distruggerli. «La cultura delle classi subalterne non esiste (quasi) più: esiste soltanto l’economia delle classi subalterne»22.

La cultura che scompare sotto gli occhi di Pasolini è la cultura contadina (e «sottoproletaria»), la cultura transazionale e transepocale, che viene dal fondo della storia (o meglio, da ciò che l’Occidente definisce come l’assenza di storia). Per avere un’idea di ciò che rappresenta la deterritorializzazione capitalista, basta sapere che il forte calo delle popolazioni rurali in Occidente23, che raggiungerà rapidamente anche le altre parti del mondo, segna la fine di un periodo che è iniziato con il neolitico. La scomparsa dei contadini porta con sé la scomparsa dei processi di soggettivazione e delle credenze animiste e politeiste sopravvissute nonostante la loro capitalizzazione e l’espropriazione operata dalla chiesa. Ciò che colpisce maggiormente il poeta è la cancellazione del «sacro» e la perdita dell’atteggiamento verso il mondo e verso l’altro che aveva la concezione animista della natura.

La caratteristica delle civiltà contadine è di non trovare la natura «naturale»24, ma «animata», soggettivata, sacralizzata. Se il capitalismo ha bisogno di desacralizzare le cose e le persone, di renderle oggetti per misurarle, scambiarle e capitalizzarle, Pasolini tende al contrario a «risacralizzarle il più possibile». Al processo capitalista che impone di vedere solo l’apparenza «inanimata, meccanica delle cose», alla concezione «oggettiva e scientifica della realtà» Pasolini oppone la consistenza «soggettiva» di questa stessa realtà25.

È un po’ di questa «religione» che è passata nella sua «semiotica», perché, come in Guattari, non c’è rottura, separazione tra il segno e la realtà, tra il contenuto e l’espressione, tra cultura e natura. L’animismo di Pasolini è un espressionismo, perché il segno è immanente al reale. In polemica con Umberto Eco, Pasolini afferma che la sua semiotica non naturalizza i codici della natura, ma, «al contrario, culturalizza la natura: facendo dell’intero vivente un parlante»26.

La natura culturalizzata è una natura espressiva che parla da sola, poiché c’è un «continuum senza nessuna soluzione di continuità» tra l’uomo che dice «quercia» e la quercia stessa. Quest’ultima non è il referente del segno «quercia» ma un segno essa stessa, un segno iconico, così come l’uomo vivente non è il referente del segno «uomo», ma un segno «iconico-vivente» esso stesso. L’uomo e la quercia sono degli «im-segni» della realtà che il cinema non fa che riprodurre.

La natura soggettiva, la cultura animata, è un Dio «veda-spinozista», dice Pasolini, che parla con se stesso. Tutto ciò che esiste, uomo, pianta o roccia esprime, canta la gloria di questo «Dio» immanente, come si vede nei piani indimenticabili di Uccellacci e uccellini, dove il monaco può parlare con gli uccelli, perché tanto l’uomo quanto l’animale sono «creature» del Dio veda-spinozista.

Se la pretesa «imperialista» dell’uomo di essere dotato di ciò che manca a ogni altro vivente, la potenza dell’enunciazione e della espressione, viene meno, «il non verbale non è altro che un’altra verbalità», così che i segni delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i segni delle lingue non verbali e in particolare dell’azione. Ciò che si è perso con la scomparsa di queste culture e di queste religioni non antropomorfiche, lo possiamo reinventare con i macchinismi altrettanto non antropomorfici del capitalismo.

Il cinema mostra che la realtà non è un insieme di «res», ma di «azioni». L’azione (quella di Lenin come quella di un umile impiegato della Fiat, dirà Pasolini), essendo il primo e principale linguaggio degli uomini e delle cose, è la fonte di tutti gli altri modi di espressione. L’immagine non si limita a rappresentare, ma agisce in modo pragmatico sul reale e sulla soggettività, in quanto essa mostra, interviene e agisce su ciò che l’«uomo» e la soggettività «umana» non possono vedere e agire. La scienza, l’industria, l’esercito e l’arte la utilizzano in modo «diagrammatico» da molto tempo.

Le immagini che guidano le bombe o i piloti, le immagini di video-sorveglianza, l’immagine medica, l’immagine satellitare ecc., non rappresentano, non raccontano storie, ma agiscono sul reale come semiotiche a-significanti. L’immagine assistita da un computer, per esempio, coglie, alla maniera di un diagramma dinamico, le articolazioni funzionali di una situazione o di un sistema e permette di anticipare, prevedere e intervenire. Essa contribuisce direttamente alla produzione del suo «oggetto». Questa funzione non rappresentativa dell’immagine, come cartografia iconica che contemporaneamente registra e crea possibili, è rivendicata anche da registi come Godard, che denuncia la naturalizzazione operata dall’industria cinematografica. La società potrebbe utilizzare il cinema e le sue immagini come la scienza utilizza i diagrammi e i microscopi per «vedere» l’infinitamente piccolo o per «vedere» l’infinitamente grande che sfuggono all’uomo e al suo linguaggio, per costruire delle «cartografie iconiche» che moltiplicano le possibilità di agire. Il cinema come un diagramma in movimento per vedere, decidere, scegliere e agire.

Alle prese con, e sollecitato dal macchinismo cinematografico e dal suo «animismo», Pasolini ci dà una lettura politica dell’azione «diagrammatica» e delle sue possibilità. L’azione dell’immagine è senza dubbio un’azione «macchinica» (o diagrammatica) che si allontana dagli ideali umanisti classici e si perde in ciò che Pasolini chiama «il pragma» delle lingue delle infrastrutture. Il cinema, con le altre tecniche audio-visuali, sembra essere il linguaggio di questo pragma, sembra essere completamente funzionale alla deterritorializzazione capitalista. Ma il cinema può anche costituire una opportunità di salvezza, una possibilità di orientamento, proprio perché esprime questo pragma – «e lo esprime dal suo interno: producendosi da esso e riproducendolo»27. La macchina cinematografica è completamente interna al reale. Ma ciò che la rende un dispositivo di assoggettamento e di asservimento può anche trasformarsi in nuovi processi di soggettivazione, a condizione di riconoscere la natura dei concatenamenti macchinici, di uscire dalla visione antropologica e umanistica che caratterizza gran parte del pensiero critico.

La potenza immanente degli «im-segni», prefigura la formidabile potenza politica delle macchine audio-visive come la televisione. I segni non esistono nel mondo delle sovrastrutture, ma costituiscono delle semiotiche operative, dei segni di potenza, che agiscono contemporaneamente sul reale e sulla soggettività. Le immagini-azione possono cantare la gloria del «Signore» quanto gli uccellini in Uccellacci e ucellini, ossia cantare l’emergere di una nuova soggettività o la gloria del capitale, ovvero la volgarità, l’arroganza e la potenza impotente di un potere dell’immagine macchinica come quella di Berlusconi, di cui, con sorprendente lucidità, Pasolini aveva anticipato l’evento.


Note
1.
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, 1976, p. 176.
2.
Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 1991, p. 267.
3.
Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 31. La periferia un tempo «mi diceva ‘in suo latino’ […]: qui abitano i poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli operai sono diversi da voi borghesi». Una periferia contemporanea dirà, «sempre in suo latino: Qui non c’è più spirito popolare. Contadini e operai sono altrove, anche se materialmente abitano ancora qui» (p. 46).
4.
Ivi, p. 49.
5.
Ibidem
6.
Ivi, p. 130.
7.
Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 255.
8.
Ivi, p. 63.
9.
Ivi, p. 59.
10.
Ivi, p. 55.
11.
Ivi, p. 56.
12.
Pasolini, Empirismo critico, cit., p. 19.
13.
Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 27.
14.
Ivi, pp. 285-286.
15.
Pier Paolo Pasolini, Entretiens avec Jean Duflot, Editions Gutenberg, 2007, p. 182.
16.
Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 121.
17.
Ivi, p. 120.
18.
Ivi, 278.
19.
Ivi, p. 28
20.
Sergej Ejsenštejn ha scritto un testo notevole a proposito dell’animismo nei cartoni animati: Walt Disney, trad. it. di M. Martignoni, Se, 2004.
21.
Bisogna ricordare che in Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, scritto da E.P. Thompson, queste stesse culture «orali» non giocano un ruolo fondamentale, cosa che i marxisti trascurano troppo facilmente.
22.
Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 176.
23.
All’inizio del XX secolo, in Occidente i contadini sono il 60-65 per cento; nell’anno 2000 sono l’1,8 per cento.
24.
Pasolini, Entretiens avec Jean Duflot, cit., p. 105.
25.
Ivi, p. 36.
26.
Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 284.
27.
Ivi, p. 207.

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Franco
Sunday, 17 March 2019 00:39
La storia come progresso non esiste. E' una visione trascendente. Il "progresso capitalistico" esiste di fatto. E' accumulazione di capitale. "Il progresso" come categoria universale a-storica e' un'invenzione dell'illuminismo per naturalizzare il nascente capitalismo. Renderlo oggettivo per sempre. Pasolini aveva forse capito che era l'industrializzazione con la sua espropriazione del controllo tecnico del singolo individuo sui prodotti del suo fare materiale, (unita' tra braccio e strumento) la radice dell'alienazione e della reificazione umana. La perversione dei "bisogni" indotti da siffatto modo tecnico di produrre ha universalizzato la forma di merce come mediazione assoluta dei rapporti sociali. Assorbendo, questo si progressivamente, ogni modo di vivere non mercificato. Che potrebbe e sarebbe potuto divenire la base naturale di rapporti sociali comunistizzati. E forse, Marx stesso ragiono' sulla possibilta' , interessandosi ai populisti russi, di inventare il "comunismo", saltando "l'industrializzazione", partendo dalla comunita' contadina russa. Dibattito aperto, ma per favore, niente "progresso industriale" positivo. Anzi. Si vede purtroppo come siamo ridotti. Inquinati e distrutti. Con "Scienza eTecnica" ancelle neutre ed oggettive dello sterminio umano. Saluti.
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Eros Barone
Saturday, 16 March 2019 22:02
Pier Paolo Pasolini è stato un tipico rappresentante, forse il maggiore, della cultura antimodernista che vigoreggia nel nostro paese sotto vari emblemi e diverse forme (quella qui proposta, quantunque addobbata di lustrini semiotici, è solo l'ultima in ordine di tempo), e che, non per caso, intorno a lui ha costruito un vero e proprio culto. Con le sue radici ben affondate negli anni Cinquanta, ‘età d’oro’ di quel mondo popolare premoderno puro e incorrotto pósto ai confini tra le borgate e la campagna, e da lui sempre vagheggiato, lo scrittore friulano elevò a paradigma antropologico e poetico un sogno personale che nasceva dalle sue «buie viscere», esprimendo, in nome di quel paradigma, una negazione tanto impietosa quanto disperata e tanto accusatoria quanto nostalgica di tutto ciò che sarebbe accaduto dopo, dai moti del Sessantotto, allorquando esaltò i poliziotti «figli del popolo» e denigrò gli studenti «figli di papà», al ‘doppio potere’ incarnato dal Palazzo, di cui còlse, con simpatetica intuizione, il volto demonìaco e perverso.
La sua opera di poeta, di romanziere, di critico e di regista cinematografico, tra le “Ceneri di Gramsci” e la “Religione del mio tempo”, tra “Ragazzi di vita” e una “Vita violenta”, tra la rivista “Officina” e il film “Accattone”, ebbe sempre come oggetto e come soggetto lo stesso mondo di esperienze e di memorie, un ‘tempo perduto’ trasfìgurato miticamente in elegia e in tragedia.
Uomo di successo, ‘compagno di strada’ del PCI in cui ve-deva, sospinto dalle illusioni di un populismo romantico e decadente, una sorta di ‘città di Dio’ operante su questa terra, intellettuale raffinato cui piaceva giocare a pallone con i ragazzini, sempre, come ìndicano i titoli delle sue stesse opere, alla ricerca della 'vita', diventò con il suo indimenticabile ‘j’accuse’ al gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, lui che ebbe a definire se stesso «riformista luterano», la coscienza critica del nostro paese nella prima metà degli anni Settanta. In questo paese che, dopo decenni di pesante arretratezza, di bolsa retorica imperiale e di sostanziale provincialismo, con la liberalizzazione degli scambi, l’avvìo dell’integrazione europea e il ‘boom economico’ cercava una via di sviluppo all’altezza dei tempi e si sforzava di coniugare modernizzazione e modernità, Pasolini assunse la parte del fustigatore dei peccati del mediocre consumismo italico. Marx, se avesse potuto conoscere la polemica pasoliniana contro la «nuova cultura» e contro i tratti criminali e criminogeni della «mutazione antropologica» indotta dal consumismo, avrebbe classificato il suo autore tra gli esponenti del ‘socialismo feudale’, categoria che annovera nel Novecento non pochi esemplari di alto livello: da Eliot a Pound, da Gide a Céline.
Riascoltando certe interviste rilasciate da Pasolini, è difficile non avvertire ancora una volta, in quella voce sottile e quasi in falsetto, un colore di morte, l’equivalente fonetico di una vicenda tragica, prodotto di una pianificata confusione tra arte e vita, tra letteratura ed esistenza. A quasi mezzo secolo di distanza dalla fine che concluse tale vicenda, se siamo in grado di comprendere molto meglio di allora che essere orfani è la condizione per diventare adulti è anche perché riteniamo di conoscere la risposta alla domanda che il testimone, il profeta e, da ultimo, la vittima di quel destino pose a se stesso e a tutti noi: «Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce?» ("Le ceneri di Gramsci").
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