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dialetticaefilosofia

Il populismo socialsciovinista bianco, l’Europa e la ricolonizzazione del mondo

L’emergere di una democrazia bonapartista postmoderna e plebiscitaria e la rivolta “sovranista” contro la Grande Convergenza

di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)

Presento qui la postfazione a un’antologia di testi di Domenico Losurdo dal titolo Imperialismo e questione europea, curata da Emiliano Alessandroni e in uscita presso La scuola di Pitagora. Ringrazio “Dialettica e Filosofia” per avermi consentito di anticiparlo e diffonderlo in Open Access

Il ratto di Europa Mosaico III sec. d.C BeirutAbstract

Il mito transpolitico di un superamento epocale delle categorie di destra e sinistra copre in realtà l’esito ultimo di un gigantesco processo decennale di concentrazione del potere che ha determinato la fine della democrazia moderna e l’avvio di una fase di sperimentazioni di forme postmoderne di democrazia. Analogamente, la rivolta populista dei ceti medi e della piccola borghesia, che risponde a una crisi di legittimazione delle “caste” politiche, economiche e culturali europee, è in primo luogo la copertura di una furibonda guerra interna alle classi tra élites stabilite liberoscambiste e élites outsider protezioniste, le quali ultime contestano il consensus universalista e liberaldemocratico imponendo un nuovo consensus particolarista e riconducendo il liberalismo alle proprie origini conservatrici. Questa rivolta è però anche la reazione alla Grande Convergenza del mondo ex coloniale e a quel catastrofico management della crisi (l’Austerity per i poveri) attraverso il quale il capitalismo in Occidente ha scaricato sulle classi subalterne i costi della redistribuzione globale del potere e della ricchezza, scatenando risposte xenofobe indotte e un socialsciovinismo di massa che sta finendo per erodere quanto rimaneva della sinistra novecentesca.

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1. Una gigantesca concentrazione di potere neoliberale nel solco del bonapartismo postmoderno

È stato notato come l’Italia abbia spesso svolto il ruolo di un laboratorio capace di anticipare tendenze che si sarebbero manifestate in seguito anche in altri paesi, segnando a volte un’intera epoca storica.

Lo è stata e forse lo è ancora sul piano intellettuale, come ha rivendicato Roberto Esposito già negli anni Ottanta e di nuovo più di recente, rinviando ai nomi di Machiavelli e Vico e a una costante spinta di mondanizzazione resasi infine esplicita nel concetto di biopolitica1. Ma possiamo dire che lo sia stata e lo sia anche sul piano politico in senso stretto e cioè su quello delle forme della governance e, ancor prima, delle forme del conflitto.

Senza dover risalire al periodo successivo alla Prima guerra mondiale, quando l’emergere improvviso del fascismo dopo il Biennio rosso 1919-1921 ha fatto da premessa alla guerra civile in Germania e all’affermazione del nazismo (è sempre opportuno anzi, a questo proposito, evitare analogie facili ma sbagliate perché anacronistiche), è sufficiente pensare alle complicate alchimie – degne di un manuale di politologia – che nella fase della Guerra Fredda, nella gabbia della divisione dell’Europa in blocchi contrapposti, hanno sancito la centralità inamovibile della Democrazia Cristiana e il contenimento del Partito Comunista Italiano. Oppure, più di recente, alla lunga stagione segnata da Silvio Berlusconi e cioè al primo esperimento di esercizio diretto del potere politico in un paese avanzato da parte di un esponente del grande capitale, in contrapposizione a quel “vecchio” sistema dei partiti che dell’ordine capitalistico era sì stato garante sino a quel momento ma che, con la fine della Guerra Fredda e dei suoi vincoli, si era rivelato troppo oneroso e del tutto incapace di governare la crisi di sistema del paese. Oppure ancora alle Grandi Coalizioni a geometria variabile tra pezzi di centrosinistra e di centrodestra che hanno gestito la fase del Governo Monti, una sorta di commissariamento da parte delle forze sociali egemoni nella UE che è in parte proseguito anche nell’ultima legislatura.

Visto nella sua continuità, siamo di fronte a un processo di lunga durata che si svolge da decenni sotto il segno di un inarrestabile logoramento in chiave bonapartista e neoliberale delle istituzioni parlamentari repubblicane; un processo che ha comportato via via un’alterazione de facto della Costituzione in vigore e un superamento a destra della democrazia moderna (e cioè a una revoca di quegli elementi che rendono moderna e non puramente formale la democrazia a partire da un riequilibrio conflittuale dei rapporti di forza tra le classi2). È una tendenza che Domenico Losurdo aveva cominciato ad analizzare già agli inizi degli anni Novanta3 ed è proprio all’interno della continuità di questo contesto che, nonostante i proclami di rottura e inversione di tendenza, va collocato il governo “giallo-verde” oggi in carica. E cioè il governo nato – dopo un rocambolesco ritorno al sistema elettorale proporzionale che, venuti meno da tempo i partiti di massa, non ha però modificato la persistenza di una mentalità ancora maggioritaria degli attori politici e dello stesso elettorato – dalla convergenza di due forze sinora considerate outsider e laterali nel gioco politico nazionale.

È un governo certamente estraneo agli schemi delle consuete combinazioni parlamentari e che dapprima può apparire indecifrabile nella sua natura ibrida. Mette infatti assieme ceti sociali e interessi anche molto diversi, perché attrae le simpatie di disoccupati e precari interessati al reddito di cittadinanza come di lavoratori autonomi titolari di partita Iva e di piccoli imprenditori in odore di evasione fiscale che aspettano la Flat Tax o la protezione della manifattura Made in Italy, senza però escludere il lavoro dipendente pubblico e privato esasperato da decenni di blocco del turnover, dei salari e delle pensioni. Ma è anche un governo che, proprio per questo, ha voluto sin dall’inizio delineare un’identità riconoscibile sul piano simbolico e tracciare un confine – in maniera grossolana ma inequivocabile nei suoi intenti –, marcando una netta discontinuità con il deludente establishment che lo aveva preceduto e con i suoi legami internazionali e rivendicando, al contrario, una stretta vicinanza ad esperienze affini ed esse stesse “nuove” e apparentemente fuori dagli schemi. Esperienze come i successi del “miliardario del popolo” Trump negli Stati Uniti (un altro caso di grande proprietario che, da esponente eccentrico rispetto all’establishment economico consolidato, è riuscito a scalare il vertice del potere e a impossessarsene direttamente) e poi di Bolsonaro in Brasile. Oppure il decisionismo putiniano, o le sempre più diffuse critiche che da diversi fronti sociali vengono mosse ai vincoli di Maastricht e al progetto europeista. O ancora il referendum esso stesso bipartisan sulla Brexit e, più di recente, l’ingrovigliatissima sollevazione dei Gilet Gialli in Francia.

Sono giustificati, allora, l’interesse e la curiosità che questo strano ircocervo suscita anche all’estero4, tanto più che, man mano che le forze di destra populista crescono, potrebbero presto affiancarglisi governi simili altrove, fino a coinvolgere la stessa governance europea. E cioè forse – vaticinano diversi analisti – sino a determinare una nuova maggioranza politica continentale, che con un inedito asse in Commissione tra i popolari e le forze emergenti sancirebbe la crisi terminale della socialdemocrazia. Proprio per questo, va spiegato che quello “giallo-verde” è un governo che non nasce dal nulla ma che, ferme restando le sue basi materiali e i suoi presupposti radicati nei mutamenti dei sistemi politici continentali, è stato preceduto da un intenso dibattito che ha attraversato in Italia tutti gli ultimi vent’anni.

Un dibattito che ha messo a tema la crisi nazionale e sovranazionale della democrazia rappresentativa in relazione alle trasformazioni sociali in corso ma che ha anche affrontato attraverso una gigantesca concentrazione di potere la crescente obsolescenza delle forme organizzative storiche (in primis i partiti politici e i sindacati) come strutture di indirizzo della partecipazione dei cittadini e di mediazione e composizione degli interessi sociali.

Un dibattito sulla post-democrazia e sulle sue forme possibili, insomma, del quale l’attuale compagine ministeriale sembra trarre oggi le conseguenze più estreme. E che lo fa proprio nel momento in cui identifica retoricamente se stessa con il ripristino di una sovranità popolare che, a lungo coartata da indefiniti centri di potere nazionali e sovranazionali, sarebbe stata finalmente riconquistata grazie al nuovo “Governo del Cambiamento”, dopo la sconfitta definitiva del Partito Democratico e il fallimento del progetto di modernizzazione proposto dal suo ex enfant prodige Matteo Renzi.

 

2. Destra e sinistra, alto e basso: il “populismo” europeo

La premessa teorica alla quale fanno riferimento i sostenitori di questa innovativa alleanza tra pezzi di società e “imprese politiche” in apparenza così distanti è dunque la discussione sul populismo. Lo è, però, a patto di intendere questo termine nel significato che esso ha assunto negli ultimi decenni in Europa e che è assai differente da quello, di ascendenza latinoamericana e con un retroterra del tutto peculiare alle spalle, al quale si sono richiamati Ernesto Laclau e Chantal Mouffe nella loro pur discutibile ipotesi “gramsciana” di una nuova forma di democrazia radicale (e al quale si sono ispirati movimenti ancora chiaramente di sinistra classica, come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna)5.

«Le vecchie ideologie proponevano una Weltanschauung, una visione del mondo, e il tramonto di questi sistemi ha portato ad un mutamento di prospettiva e all’inattualità di quelle antecedenti», spiegava il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte alla Scuola politica della Lega nello scorso ottobre, ragion per cui destra e sinistra «sono categorie politiche superate»6. Certo esse esprimono «due valori» che rimangono «basi per qualsiasi sistema democratico», il quale comunque «deve assicurare ad un tempo libertà e uguaglianza a tutti». E però, finito il tempo dei «vecchi sistemi ideologici», che «avevano la velleità di essere onnicomprensivi», oggi «tracciare un discrimine così netto non è indicativo» e libertà e uguaglianza diventano semmai «entrambi modi di restituire l’azione politica sia sul piano individuale che comunitario». «Far del bene per la nostra società» è infatti l’obiettivo semplicissimo della politica, un impegno che richiede «attenzione verso la res publica e la tensione verso il bene comune». In questo senso, certamente «si è creata una frattura tra le élite della politica e la società civile» ma per fortuna «le nuove forze politiche, che sono le fondamenta dell’esperienza di questo governo, hanno saputo interpretare fortemente il senso di cambiamento» e con il loro «nuovo modo di far politica» si sono dimostrate capaci di «comprendere i bisogni della gente». È per questo che «quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo» va ricordato che «sovranità e popolo sono richiamati dall'articolo 1 della Costituzione italiana»7, in ossequio alla quale «mi propongo di essere l'avvocato difensore del popolo italiano»8.

Secondo la tesi rivendicata in maniera esplicita e con orgoglio dal governo per voce dello stesso Premier, come si può vedere, il campo politico non sarebbe più orientato secondo il tradizionale asse sinistra/destra, ormai superato, ma a partire da una nuova linea di frattura che passa trasversalmente alle classi sociali e che si dispone per via orizzontale separando tutto ciò che sta in basso da tutto ciò che sta in alto, e cioè il “popolo” inteso nella sua interezza e indeterminatezza e le “élites” di ogni colore politico, anch’esse intese nel loro complesso.

Dopo circa due secoli di vigenza delle categorie politiche abituali, dalla Rivoluzione francese ad oggi, saremmo perciò improvvisamente di fronte a un evento di rilevanza epocale e cioè a un vero e proprio terremoto. Un mutamento che dopo aver cambiato in maniera drastica il corpo sociale impone ora, sul piano teorico e politico, nuovi strumenti interpretativi e nuove bussole di lettura dei conflitti che lo agitano ma anche nuovi meccanismi istituzionali all’insegna della disintermediazione e della democrazia diretta9, del quale l’esecutivo si farebbe portavoce. Una nuova “rivoluzione”, dunque, che segna la fine di un’intera epoca storica e dei protagonisti che l’avevano attraversata sia sul piano della configurazione oggettiva delle classi e del rapporto tra classi e individui, sia su quello delle loro forme di coscienza, della loro cerchia di identificazione e appartenenza e dei loro orientamenti, sia infine su quello del significato delle politiche pubbliche e dell’intervento (o del non intervento) da parte dello Stato.

In primo luogo, secondo questo discorso, il conflitto non avverrebbe più in maniera prevalente tra le classi sociali, le quali si sarebbero completamente disgregate nella loro consistenza abituale e rimescolate nei loro interessi dopo decenni di espansione del benessere prima e di processi di impauperimento dopo, e il cui contenzioso sarebbe comunque divenuto secondario. Esso avviene invece prevalentemente tra le nazioni. O meglio, tra le nazioni sottomesse e alcune nazioni dominanti, anzitutto la Germania, le quali sono in grado di utilizzare gli organismi sovranazionali per i loro interessi, ovvero per gli interessi di quelle centrali politiche ed economiche delle quali sarebbero a loro volta mandatarie. In secondo luogo, non ci sarebbe più corrispondenza tra le classi in disfacimento e le formazioni politiche storiche che le hanno tradizionalmente rappresentate, tanto che la sinistra, a lungo espressione della forza di auto-organizzazione dei ceti popolari e in particolare della loro lotta per il suffragio universale prima e per l’inclusione sociale poi, condurrebbe da tempo quando è al governo politiche di destra – e cioè politiche che redistribuiscono potere e reddito verso l’alto attraverso “riforme” all’insegna della privatizzazione dei servizi pubblici e della compressione del costo del lavoro –, mentre la destra si sarebbe dimostrata più attenta alla questione sociale (quantomeno in chiave caritatevole) e si sarebbe comunque fatta interprete di un discorso culturale più rassicurante in difesa dei valori tradizionali e dell’idea di comunità e di popolo, offrendo una protezione anche identitaria dalla paura dell’ignoto rappresentato dalla civiltà globale.

È un discorso che chiamo Mito Transpolitico e che è emerso in realtà diversi anni addietro in chiave prevalentemente tecnocratica. Già Clinton, ma anche Blair e Schroeder e altri esponenti di quello che un tempo in Italia era stato enfaticamente chiamato “L’Ulivo Mondiale”, ad esempio, sostenevano che “non esistono soluzioni politiche di destra o di sinistra ma solo soluzioni efficaci in grado di risolvere i problemi della gente”10. Affermando con ciò il primato della tecnica pura di governo rispetto agli orientamenti meramente ideologici, divenuti a loro avviso ineffettuali e immaginari in un mondo alla Fukuyama, nel quale erano ormai venute meno le contrapposizioni di sistema e i principi fondamentali erano condivisi da tutti gli attori in gioco (e cioè in un mondo nel quale, in realtà, si era imposta un’unica visione del mondo, quella liberale, ormai in grado, dopo una vittoria di sistema, di coprire tutti i bisogni ideologici: da quelli di estrema destra a quelli di estrema sinistra).

Tenuto conto di questo precedente, la tesi propagandistica del superamento di destra e sinistra che prelude al populismo odierno costituisce in prima battuta niente di più di una nuova versione di quella retorica neoliberale che, erettasi a consensus indiscutibile, ha legittimato in via preventiva la sempre più intensa adozione di politiche di destra da parte di tutte le forze politiche post Guerra Fredda: una mutazione che oggi possiamo vedere pienamente operante, ad esempio, in un leader come Emmanuel Macron, il quale in questo schema rappresenterebbe a pieno titolo secondo i populisti “la sinistra” globalista e ultra-illuminista. La sua odierna ricezione in sede teorica, perciò, sebbene manifesti un segno opposto a quello tecnocratico, è già per questa ragione completamente sbagliata, fuorviante e deleteria sul piano conoscitivo: perché, postulando il venir meno di queste categorie basilari, questa tesi impedisce di comprendere ciò che è effettivamente avvenuto negli ultimi decenni e cioè il gigantesco processo complessivo di slittamento e trascinamento a destra di tutto il quadro politico nelle democrazie avanzate dopo il 1989. Uno slittamento determinatosi, cioè, nel momento in cui proprio questa parte, la destra, ha vinto nell’ambito di un conflitto tra classi storico durato 150 anni, imponendo infine le proprie priorità alla parte in precedenza avversa e ai suoi referenti sociali dopo averne fatto niente di più che una propria appendice già sul terreno dei valori, mediante una lunga rivoluzione passiva.

Destra e sinistra, in questa prospettiva, non spariscono affatto, in realtà, ma si ridislocano e si ridefiniscono drasticamente, perché la destra vincente ha assorbito e ricondotto a sé pressoché tutto lo spettro politico e elettorale, lasciando alla sinistra – sconfitta e disorientata – un ruolo, uno spazio politico di proposta e una quota di consenso decisamente marginali. Il PD, per capirci, l’estremo erede del PCI, ha proposto e praticato nell’ultima legislatura una piattaforma programmatica pressoché identica al programma elettorale di Berlusconi di 10 anni prima: il PD va considerato in questa prospettiva come una forza di sinistra o come una forza che muovendo da sinistra si è ormai stabilmente spostata a destra e che dunque va ora classificata in quel campo? Al contrario, posizioni che ancora 20 anni fa sarebbero state considerate moderatissime o persino reazionarie, come quelle della Chiesa cattolica, sono oggi percepite come un estremismo di sinistra perché sono rimaste identiche a se stesse e sono rimaste ancorate alla tradizionale dottrina sociale in un mondo che nel frattempo è mutato ed è affamato di reazione: siamo di fronte al venir meno dell’alternativa tra destra e sinistra oppure al sintomo di uno spostamento complessivo a destra, ovvero di un’egemonia divenuta quasi totale della destra, che è risultato talmente prorompente da far apparire rivoluzionario persino il papa?

Non è difficile confutare il ragionamento transpolitico, dunque, già a partire da una considerazione elementare (tanto più che non è la prima volta che il marxismo si trova ad affrontare queste tematiche): esiste effettivamente il “popolo” come i populisti lo configurano e cioè come un’entità compatta, pur nelle sue articolazioni, e caratterizzata da un interesse comune prevalente? Oppure questo nome, “popolo”, è semmai anzitutto l’evocazione di un’assenza, di una mancanza del popolo, e cioè del venir meno di una configurazione storica della dimensione popolare – l’alleanza potenziale tra le classi subalterne (e cioè le classi popolari vere e proprie) e i ceti medi – e di una sua disgregazione talmente drammatica che è necessario esorcizzarla, per quanto laceranti sono divenuti i conflitti tra le membra ormai completamente disperse e irrelate della società dopo la vittoria capitalistica del conflitto di classe? Se anche le classi tradizionali fossero venute meno, del resto, non mancano comunque oggi in Italia le stratificazioni e le differenze sociali ed è dunque inevitabile che il presunto interesse del “popolo” nasconda in realtà l’interesse prevalente di una parte di questo popolo stesso. La quale riesce nel miracolo di elevare ad universali e di dare il nome di “popolare” alle proprie istanze, e cioè a istanze che rimangono tutte particolari e di classe, dopo aver mobilitato alla propria coda un’intera combinazione di segmenti sociali.

Tuttavia, da un lato questo discorso è assai diffuso e dunque non è possibile ignorarne la rilevanza ed è necessario riflettere sulle tendenze e persino sulle ragioni parziali che esso esprime. Dall’altro, anche le sue conseguenze sono potenzialmente assai estese, perché la tesi del superamento di destra e sinistra fa appello esplicito a una riconfigurazione integrale del campo politico nella quale le vecchie appartenenze sono chiamate a superare se stesse e le antiche conflittualità sono dichiarate ormai superate, al fine di dar vita a un nuovo fronte unitario. Un Fronte del Popolo, appunto, nel quale identità anche molto differenti combattono assieme, mettendo fianco a fianco i nemici di un tempo e restaurando l’unità corale delle singole nazioni contro un nuovo avversario comune (la UE, i migranti, l’ordoliberalismo tedesco…), fino a superare persino contrapposizioni considerate permanenti e costituenti, come quella – ad avviso di alcuni ormai fuori tempo massimo – tra fascisti e antifascisti. Il Popolo di ogni ceto e di ogni appartenenza contro le élites globaliste di ogni orientamento e in cerca di una nuova forma di rappresentazione, dunque: sono le tesi esposte già da tempo da Sapir, Michea e ancor prima da Alain de Benoist in Francia11 e oggi assai diffuse anche in Italia, persino all’interno di quella che una volta era la tradizionale area culturale e politica della sinistra ma che oggi è irresistibilmente attratta dalle priorità proposte da un governo che si presenta come il “Governo del Popolo” artefice di una “manovra economica del Popolo” (il filosofo Costanzo Preve ha offerto con le sue riflessioni a chi non aveva la sua stessa esperienza e consapevolezza politica il pretesto per avviare una tendenza trasformista, esplicitamente teorizzata più di recente da altri autori come il politologo Giorgio Galli12).

 

3. Una gigantesca crisi di legittimazione della frazione stabilita delle élites capitalistiche

In occasione dell’avvicinarsi alle coste maltesi di una nave carica di profughi proveniente dall’Africa settentrionale, il Ministro dell’Interno leghista Salvini, che della lotta senza quartiere all’immigrazione (soprattutto islamica) ha fatto da anni una bandiera “nazionale” di enorme successo presso tutti i ceti sociali, ha opposto un secco rifiuto ad ogni ipotesi di accoglienza, irridendo con arroganza ogni richiesta di salvataggio di 49 persone che erano di fatto disperse in alto mare. Alle proteste di molti sindaci, come quelli di Palermo e di Napoli, pronti alla disobbedienza civile, il Ministro del Lavoro pentastellato Di Maio – incalzato dalla competizione permanente con lo scomodo alleato – ha replicato a sua volta in maniera ironica, derubricando ogni critica in chiave umanitaria al governo come spot di propaganda elettorale da parte di politicanti che cercano di rifarsi un’immagine di sinistra ma che di sinistra non sono, perché se fossero veramente tali dovrebbero preoccuparsi delle condizioni dei lavoratori italiani, o dei terremotati italiani, e non certo di quelle dei migranti estranei alla comunità popolare. Qualche giorno dopo Di Maio cambierà però idea, dicendosi disponibile ad accogliere quantomeno donne e bambini ma non i naufraghi di sesso maschile. Improvvisamente, i suoi account sui social network vengono invasi dalle proteste di migliaia di persone, le quali lo aggrediscono imputandogli non di essere in ritardo di fronte al dramma che si stava consumando nel Mediterraneo ma, al contrario, di essere sin troppo sensibile. E cioè di aver ceduto per eccessivo spirito umanitario e “buonismo” ai Diktat della Chiesa e a quelli di una finanza globale che, secondo gli umori popolari orientati o alimentati tramite precise tecniche di manipolazione digitale del consenso, organizzerebbe il traffico di migranti dall’Africa in combutta con la sinistra e le ONG. Da quel momento, pressoché tutti gli interventi si sono immediatamente schierati con le posizioni intransigenti e “cattiviste” di Salvini, eletto a unico autentico rappresentante del Popolo e della sua volontà indefettibile.

Cosa ci insegna questo episodio, nel quale il salvataggio o l’abbandono dei migranti – che nulla ha di fatto a che vedere con le difficoltà economiche italiane – è divenuto il significante vuoto (ancora Laclau) di un conflitto egemonico e l’occasione per una possibile riconfigurazione in chiave reattiva del corpo sociale? Che natura ha questa ribellione corale contro i vecchi governanti e le vecchie pratiche politiche, che nella sua rabbia somiglia a volte tanto da vicino a una ribellione contro i sentimenti morali (il “buonismo” del politically correct, appunto) e contro la stessa più elementare umanità? «La crisi consiste… nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati», scriveva Antonio Gramsci nel 1930, in una circostanza che presenta evidenti analogie strutturali e il cui ricordo può esserci d’aiuto ma che non è assimilabile tout court all’oggi già per il fatto che non possiamo reiterare l’ottimismo rivoluzionario del grande intellettuale comunista (non è affatto detto che il «nuovo» al quale Gramsci si riferiva, e cioè la trasformazione sociale e il socialismo, possano avere un futuro in Europa; d’altro canto, è invece possibile che proprio la post-democrazia neoliberale rappresenti un inquietante «nuovo» con il quale avremo a che fare per molto tempo).

Siamo di fronte senza dubbio all’erompere di un gigantesco crollo di legittimazione dei gruppi dirigenti che hanno governato il paese – e l’Unione Europea – per una lunga fase. Per via di una crisi economica cronicizzata e della crescente competizione nell’ambiente capitalistico e geopolitico circostante, da tempo le élites stabilite, ovvero le frazioni sinora prevalenti delle classi dominanti, non sono più in grado di assicurare le condizioni di riproduzione della società italiana nel suo assetto dato. Non sono cioè più in grado di salvaguardare le gerarchie e i rapporti di proprietà vigenti, con i profitti che vi sono legati, operando però una ripartizione relativamente equilibrata che tenga insieme tutta la compagine sociale, impedendo che eccessivi conflitti la facciano esplodere. Da tempo questa sintesi non è più possibile già nell’ambito degli stessi strati superiori, ovvero tra le diverse frazioni delle classi dominanti, le quali sono perciò attraversate da una feroce conflittualità che contrappone alle élites stabilite le élites outsider sinora tagliate fuori dai circuiti più remunerativi, oppure danneggiate dall’introduzione dell’Euro e dall’apertura delle frontiere e comunque messe sotto stress. Ancora meno, però, questi gruppi sono in grado di ribadire il proprio primato garantendo al tempo stesso anche i ceti medi, e cioè quegli strati sociali che nel corso del dopoguerra erano stati saldamente inseriti nel blocco storico egemone e avevano goduto dei vantaggi che la società borghese assicura ai suoi supporter, assorbendone abbondantemente i valori individualistici e competitivi, ma che ad un certo punto – al restringersi delle risorse disponibili – sono stati inevitabilmente sacrificati e abbandonati nel pieno della crisi.

Sciogliete le righe! È questa la radice della nostra crisi storica e della sollevazione del “popolo” alla quale stiamo assistendo, in Italia ma anche altrove. Questi ceti subordinati prendono oggi atto dello sfaldamento del vecchio blocco storico operato dall’alto. Si ribellano ad ogni precedente disciplina, di fronte all’incapacità degli strati superiori di svolgere il loro ruolo dirigente e ne contestano con rabbia e frustrazione ogni legittimità rigettando su di essi la responsabilità diretta della crisi.

Lo fanno sul piano politico, in primo luogo: è la notoria rivolta contro la “casta” dei partiti (che hanno usurpato la sovranità popolare e rispondono soltanto alle esigenze della propria autoriproduzione separata dal resto della società) e contro l’Unione Europea (che drena risorse dalla gente comune verso le élites corrotte e impone gli interessi di pochi gruppi di potere). Lo fanno sul piano economico, non di meno: è la rivolta contro la “casta” delle banche, della finanza apolide che si riunisce nei grandi club come il Bilderberg, dei mercati internazionali senza volto – manipolati forse da qualche centrale massonica – i quali sono privi di vincoli e di riferimenti territoriali, generano denaro dal denaro e si contrappongono, espropriandoli, tanto al semplice cittadino (magari operaio), quanto al piccolo imprenditore e al capitalista produttivo legato alla nazione o alle singole realtà territoriali. Lo fanno sul piano culturale, infine13: è la lotta delle masse mediamente alfabetizzate e acculturate contro la “casta” delle università e contro quella dei mezzi di comunicazione di massa pre-digitali, i giornali e le televisioni generaliste, entrambe asservite ai poteri stabiliti della politica e dell’economia e dunque megafono postmoderno dei valori globalisti e umanitari (“sessantottini”) delle élites un tempo vincenti ma ormai scalzate; ma è anche la lotta contro la scienza “ufficiale”, ritenuta non democratica in quanto sopraelevata rispetto al senso comune, e i suoi intrecci con l’industria multinazionale (è il caso della diffusione dei movimenti No-Vax, e cioè ostili alle vaccinazioni obbligatorie dei bambini in età prescolare e scolare).

Main Street contro Wall Street, dunque, e in questa contrapposizione non c’è nessun patto da rompere perché il patto è stato già rotto proprio dai vertici dell’establishment e dal loro egoismo. La ribellione della piccola borghesia abbandonata a se stessa, tuttavia, è certamente l’aspetto più visibile e pittoresco di questa “rivoluzione” nata nel nome dell’uomo della strada, poiché è amplificata da un continuo processo di autorispecchiamento e incontra inevitabilmente l’interesse anche morboso dei media. Essa però è qui decisamente secondaria rispetto a un’altra ribellione, che è meno avvertita e studiata ma che costituisce in realtà la ribellione principale: quella della frazione outsider delle classi dominanti stesse, la quale è dunque a mio avviso la verità della sollevazione populista.

Spieghiamo meglio. Incapaci di procurarsi e di fornire una direzione politica e di farsi istituzione, i ceti medi e la piccola borghesia danno sì avvio alla protesta di massa, infatti, ma ad un certo punto devono necessariamente fare un passo indietro e rivolgersi ancora una volta alla grande borghesia, come sempre hanno fatto nella storia contemporanea. Orientandosi a quel punto – dopo una prima fase all’insegna della retorica movimentista e del protagonismo dell’”uomo comune”, chiaramente visibile agli esordi del Movimento 5 Stelle (“uno vale uno”) e ancora oggi nei Gilet Gialli francesi – verso quell’ala più arretrata dei ceti dirigenti che era stata sinora perdente o messa in ombra dall’avanguardia del capitale e dal suo profilo globalista e glamour; quell’ala che però oggi – apparendo “nuova” ai più e monda da ogni colpa nella sua devozione patriottica – si mostra in grado di cavalcare le opportunità della crisi. Di cavalcarla cioè al fine di contenere o scalzare i concorrenti economici più temibili e di ridisegnare a proprio vantaggio gli equilibri interni ai ceti egemoni, sia su scala nazionale che su scala globale, a partire dalla contrapposizione di valore – essa stessa “nuova” ma in realtà antichissima – tra capitale produttivo nazionale e capitale finanziario parassitario, usurario e sradicato. Anche sul terreno culturale, del resto, la rivolta populista non è per nulla un fenomeno puramente spontaneo ma porta semmai alla ribalta, concedendo loro una rivincita inattesa, segmenti di un ceto intellettuale minore che da tempo aveva seminato in tal senso. Un sotto-establishment che – legato com’è al tradizionalismo e all’integralismo cattolico, oppure alla destra sociale, o a tutta una serie di interessi esoterici e spiritualisti ai confini del bizzarro – era stato messo ai margini dell’Accademia, dell’editoria più in vista o delle grandi platee dei mezzi di comunicazione di massa generalisti in un’epoca che coniugava un relativismo diffuso con la retorica dell’illuminismo, e che a un certo punto ha potuto ostentare la propria natura “alternativa” anche come una forma di verginità e genuinità politica.

È questa la radice strutturale che spiega il successo di Trump in America, ovvero di un miliardario nemico della political correctness e della mentalità liberal che ha sfruttato la moltiplicazione dei Tea Parties per diventare, alla fine, icona di identificazione di larghi strati popolari. Ed è questo che spiega su basi strutturali la progressiva e inevitabile subordinazione dei 5 Stelle italiani, e cioè del cartello della piccola borghesia – benintenzionata ma priva di competenze tecniche e di esperienza politica – nei confronti della Lega. Un partito assai strutturato, invece (reazionario nei contenuti ma persino “leninista” nel suo funzionamento), che è stato a lungo al governo assieme a Berlusconi ma che ha soprattutto delle radici di classe assai profonde nei settori produttivi dell’industria media e piccola del Nord e nelle aziende a conduzione familiare. E che, con il suo atteggiamento comprensivo verso l’evasione fiscale ma feroce nei confronti dei migranti e dei marginali, incarna non una semplice ribellione ma un vero e proprio modello politico innovativo, sebbene esso stesso di stampo pienamente neoliberale. Un modello che prefigura un mutamento istituzionale duraturo all’insegna dello Stato forte ma minimo, e cioè di uno Stato di polizia come guardiano notturno di ciò che dell’accumulazione capitalistica è rimasto.

 

4. La Grande Convergenza e i suoi contraccolpi globali. La reazione dell’Occidente

Da dove nasce però questa crisi di legittimità, se vogliamo rintracciarne ancora più in profondità la genesi senza liquidarla in chiave inutilmente aristocraticistica come una «Grande Regressione»14? Da dove scaturiscono le difficoltà storiche sulle quali sono inciampate le élites stabilite? A guardar bene, è stato proprio il successo travolgente del loro stesso progetto politico ed economico, e cioè il successo di quel progetto delle classi dominanti che ha coinciso in larga parte con il progetto del Secolo Americano, ciò che ha costituito, paradossalmente, la premessa della loro attuale crisi: al trionfo della globalizzazione americana è seguita infatti, ad un certo punto, l’esplosione simultanea delle sue molteplici contraddizioni interne.

Non possono esserci dubbi sulla natura politica della cosiddetta globalizzazione e cioè della costruzione di un ambiente internazionale all’insegna del libero scambio imperniato per tutta una fase sugli accordi di Bretton Woods e sulle istituzioni che ne attuavano gli indirizzi, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale: si trattava per gli Stati Uniti di consolidare sul piano economico, ma indirettamente politico, un blocco sovranazionale compatto e cioè un’area atlantica di contenimento dell’Unione Sovietica, ribadendo al contempo la leadership della nazione americana come garante dell’architettura economico-politica internazionale15. È un progetto che non ha trascurato il proprio lato culturale e persino estetico e che è sembrato trovare pieno compimento dopo il 1991, quando la divisione bipolare del mondo ha ceduto il passo all’unipolarismo della potenza statunitense sancito con la Prima guerra del Golfo e con la simultanea diffusione dell’American Way of Life come stile di vita ora davvero globale, ma che proprio in quel momento si andava inavvertitamente rovesciando in qualcosa di completamente diverso.

Non sempre le ciambelle riescono con il buco, infatti, e spesso, in virtù dell’eterogenesi dei fini, le conseguenze delle azioni e dei progetti umani non sono completamente controllabili, con buona pace dei complottisti oggi sulla cresta dell’onda. E così quelle istituzioni e quelle procedure che avrebbero dovuto rendere perpetuo l’ordine mondiale occidentocentrico e americanocentrico, per tutta una serie di vie tortuose hanno finito per stimolare anche processi assai diversi. In particolare – oltre a favorire la fioritura di molteplici fondamentalismi religiosi reattivi – hanno offerto l’occasione ad alcuni paesi non occidentali, già protagonisti di un imponente processo di decolonizzazione, per dare avvio a un ancor più impetuoso sviluppo autonomo; uno sviluppo che nelle nuove condizioni di crescente apertura dei mercati internazionali ha fatto leva su importanti vantaggi competitivi contingenti, come il basso costo del lavoro o il tasso demografico, per acquisire un vantaggio competitivo duraturo16.

Da qui, alla fine di una fase assai travagliata, un esito molto diverso da quello preventivato dai Think Thank americani di entrambi gli orientamenti politici: alla fine del 2018 gli equilibri mondiali sono molto diversi da quelli dei primi anni Novanta e una parte considerevole del mondo che un tempo era succube del colonialismo e dell’egemonia occidentale, la Cina in primis, è oggi padrona di sé e protagonista di una crescita senza precedenti. E, pretendendo ciò che le spetta, questa avanguardia si fa battistrada di un mondo multipolare e all’interno dell’architettura globale costruisce strutture che anticipano gli equilibri possibili del futuro (pensiamo alla Belt and Road Initiative e al suo ruolo in quello che Parag Khanna definisce un po’ ottimisticamente come l’incipiente «secolo asiatico»17): «Il modello occidentale si è rotto», commentava Pankaj Mishra18. Ebbene, tutto questo non poteva lasciare inalterato l’ambiente circostante ma doveva inevitabilmente ridurre la quota di ricchezza e di potere globale a disposizione dell’Occidente 19. Pensiamo a questioni dirimenti come il consumo energetico e i problemi ambientali, oltre che all’approvvigionamento delle materie prime o dell’acqua e alle quote di mercato: non abbiamo più oggi una coppia di players che agiscono secondo precise gerarchie, gli USA e l’Europa, ma numerosi players che mettono in discussione gli equilibri consolidati e che spezzano o possono spezzare l’asse sinora dominante. Con tutti i contraccolpi negativi che ne derivano per le nostre società, abituate a lungo ad altissimi livelli di consumo a spese altrui ma costrette, ad un certo punto, a prendere atto che le risorse a disposizione non sono più illimitate come erano state un tempo, dato che altri e nuovi protagonisti hanno ormai conseguito un peso che non può più essere trascurato e pretendono anch’essi di accedere alla modernità e al benessere.

Ecco perciò, come spesso accade, un’inattesa sorpresa dialettica della storia umana20: una controrivoluzione atlantica che, mascherata da globalizzazione, avrebbe dovuto contenere l’espansione di ogni alternativa di sistema al modo di produzione capitalistico, rendendo più efficiente la divisione internazionale del lavoro ma perpetuando o accrescendo il gap tra le economie tecnologicamente avanzate e il resto del mondo, ha condotto in realtà a un esito diametralmente opposto. Ad un vero e proprio cataclisma geopolitico che, come Domenico Losurdo sottolineava spesso, ha rovesciato contro le intenzioni dei suoi fautori la «Grande Divergenza» che Pomeranz aveva mostrato essersi approfondita fino al Novecento inoltrato21, e che aveva a lungo «riservato all’Occidente una posizione di assoluta superiorità», in un processo inverso grazie al quale «il resto del mondo»22 ha recuperato significativamente terreno rispetto alle ex potenze coloniali. Dando vita, in ultima istanza, a una nuova e inavvertita grande rivoluzione internazionale, la quale prosegue con mezzi diversi e prevalentemente economici e tecnologici quella precedente rivoluzione democratica che, abbattendo sul piano militare e politico il colonialismo, era stata la premessa dell’autodeterminazione di popoli di grande civiltà storica ma a lungo considerati subumani dai bianchi23.

Come ha reagito l’Occidente di fronte a questa inattesa e indesiderata conseguenza delle proprie stesse azioni? Non c’è dubbio che ciò che dal punto di vista della Cina e dei paesi emergenti si presenta come una grande opportunità, per quelle potenze che pensavano di avere ormai campo libero rappresenta un problema e un’amara delusione, perché ne restringe enormemente il raggio d’azione rendendo decisamente più ridotte le risorse alle quali attingere.

Da qui la risposta occidentale a quella dinamica che Richard Baldwin ha chiamato «Grande Convergenza»24. Una risposta che si è tradotta nel tentativo di avviare immediatamente un nuovo processo di ricolonizzazione del mondo25 che, a partire dall’impiego e dal controllo della tecnologia più avanzata, fosse in grado di contenere sin dall’inizio la rivolta delle ex colonie attraverso una serie di interventi militari strategici che, soprattutto in Medio Oriente, ribadissero i rapporti di forza che erano stati alterati e stringessero un cerchio militare attorno ai rivali di domani. Da qui, poi, il soffocamento impietoso del ciclo progressista in America Latina, un altro contintente in odore di sganciamento dalle gerarchie imperialistiche, attraverso il ricorso a tecniche classiche di “rivoluzione colorata”, come in Brasile. Da qui l’inasprirsi delle conflittualità diretta con le potenze emergenti, fino a far parlare di recente studiosi come Allison di una vera e propria «sindrome di Tucidide» foriera di nuove catastrofi26. Da qui, però, anche una nuova scoperta rivalità tra gli stessi partner occidentali di un tempo, gli USA e la “vecchia” UE, due poli che di fronte a un’improvvisa riduzione delle risorse a disposizione vedono accrescere i loro conflitti di interesse rispetto al pur notevole interesse comune. Da qui, infine – e questo è l’aspetto che più ci interessa per comprendere il fenomeno del populismo in Italia e in Europa – il ricorso a un management della crisi che, all’interno dell’Occidente stesso, scaricherà in primo luogo proprio sulle classi subalterne e sui ceti medi i costi dell’improvvisa decurtazione dei dividendi imperiali.

Un management che, oltretutto, avrà gioco facile nel ricondurre la colpa di questo improvviso impoverimento e di questa drastica riduzione delle prospettive di vita sulle spalle di una minacciosa rivolta dei barbari.

Una rivolta che si affaccia nell’ascesa dell’ex Terzo Mondo e nella concorrenza industriale e commerciale delle ex colonie, certamente. Ma che si manifesta soprattutto, in forme ancora più concrete, nell’invasione fisica che da questo stesso Terzo Mondo prorompe nelle nostre città attraverso le migrazioni dei popoli, orchestrate da chissà quali Quinte Colonne ma destinate comunque a concludersi con la fine della nostra civiltà e delle nostre tradizioni culturali e persino con una possibile sostituzione genocida dei popoli bianchi da parte di quelli di colore (la leggenda del Piano Kalergi)27. Una nuova «marea montante dei popoli di colore» postmoderna, si potrebbe dire.

«La giungla è tornata a crescere»28, avverte minaccioso Robert Kagan. La ricolonizzazione del mondo in risposta alla Grande Convergenza è dunque la cornice strutturale che sollecita e incanala il revival populista della xenofobia e della discriminazione razziale in un Occidente che si vede oggi assediato da un mondo divenuto improvvisamente pericoloso e ribelle al suo guinzaglio e che si asserraglia perciò a difesa della propria fortezza. Ma la ricolonizzazione – che pure è indispensabile alla negazione del riconoscimento dell’Altro, e cioè alla ri-despecificazione di quella parte di umanità che non abita lo Spazio Sacro della Libertà – non sarebbe sufficiente se non agisse di concerto all’adozione di una serie di politiche neoliberali che possono ribadire le gerarchie sociali all’interno di ogni paese e del mondo capitalistico nel suo complesso solo a rischio di indebolire la coesione dei sistemi sociali e di minarne nel lungo periodo la stabilità: la coperta si è fatta improvvisamente corta e, di fronte a questo cataclisma, le classi dominanti salvaguardano infatti senz’altro le proprie posizioni tagliando tutto ciò che per loro sono costi superflui. Dopo aver irrigidito il proprio potere politico nei confronti di un movimento dei lavoratori che ormai da tempo è stato sconfitto e decapitato delle proprie organizzazioni autonome, rimuovono perciò qualsiasi accenno di redistribuzione della ricchezza, attraverso lo smantellamento del Welfare e attraverso una molteplicità di forme di compressione del costo del lavoro e di obliterazione dei diritti sociali che passano per quei processi di scomposizione del ciclo produttivo, di esternalizzazione e di delocalizzazione che la globalizzazione ha facilitato.

Chiaramente, questa massiccia operazione di ingegneria sociale ma anche di colpevolizzazione di massa che ha preso il nome di Austerity (l’austerità per chi ha già poco decisa da chi ha e continuerà ad avere e consumare molto…)29 finisce alla lunga per trascinare nella crisi gli stessi ceti medi. I quali si vedono a loro volta soggetti a un processo di impauperimento che li porta alle soglie della proletarizzazione in un momento nel quale la condizione proletaria torna paurosamente ad assomigliare a quella, parcellizzata e sempre precaria, tipica dell’Ottocento, e reagiscono perciò in maniera rabbiosa rompendo ogni disciplina verso l’egemonia borghese. Da qui, però, anche una grave frattura in seno alle classi dominanti stesse, le quali si trovano collocate in situazioni diverse di fronte alla crisi: la frazione sinora vincente e legata al capitale finanziario globalizzato, che ha cercato di salvarsi a discapito della frazione subordinata, quella legata ai distretti territoriali e molto più in difficoltà di fronte alla crescente competizione internazionale, vede oggi messo radicalmente in discussione il proprio primato, incalzata da outsider divenuti non meno inferociti della piccola borghesia in rivolta al loro seguito.

Un comportamento suicida, si potrebbe dire, che proprio in Occidente ha paradossalmente provocato una nuova forma di «”grande divergenza” che separa dal resto della popolazione una élite opulenta sempre più esclusiva»30. Portando a una divaricazione «sempre più stridente tra l’esigua minoranza di privilegiati e la stragrande maggioranza della popolazione, condannata all’insicurezza, alla precarietà, alla miseria, persino alla fame», e nel cui decorso nessuna forma di razionalità strategica è riuscita a temperare la coazione competitiva che il capitalismo impone ai propri attori. Ancora una volta: è questa la radice dei fenomeni di scomposizione e ricomposizione del quadro politico di fronte ai quali ci troviamo oggi in Italia. Ed è questa la radice di un nuovo possibile blocco storico reazionario tra i ceti medi e la frazione outsider del capitale e delle professioni intellettuali che nel governo grillo-leghista muove i primi passi. Un blocco che costituisce il vero significato del Mito Transpolitico, e cioè della tesi del superamento di destra e sinistra contro il nemico comune, con tutta la nuova egemonia che questo mito potentissimo riesce a esercitare sulle classi subalterne, disperse e in cerca di nuovi riferimenti a 30 anni dalla sconfitta del movimento operaio.

Inevitabilmente, si tratta però anche di un gigantesco mutamento sul piano culturale e cioè sul piano delle forme di coscienza e delle visioni del mondo e dei valori. Se fino a questo momento nel dibattito pubblico avevano prevalso infatti i valori della frazione globalista del grande capitale, e cioè i valori della «società aperta» e di un illuminismo astratto che nel suo univeralismo immediato pensava il mondo in chiave cosmopolitica – oppure quelli di un relativismo postmoderno espressione di un benessere diffuso che facilitava la futilità di massa (il già citato “sessantottismo”) – adesso, invece, tutto cambia sotto i nostri occhi. E all’idea di un mondo senza confini e senza attriti, come senza confini e senza attriti sono i mercati finanziari che vivono nelle reti digitali, segue il riemergere di nuovi e più pesanti valori. Ovvero di valori altrettanto antichi ma sempre tenuti a freno dopo la Seconda guerra mondiale: valori particolaristici ed egoistici che sollecitano un ripiegamento “sovranista” delle forme di coscienza al fine di favorire un’alleanza tra i ceti medi e la vecchia ma apparentemente nuova borghesia “nazionale” e “produttiva” di ogni singolo paese, e che non esitano nemmeno a evocare il mito della razza – sebbene per lo più declinato in termini di differenzialismo culturale – in contrapposizione a tutto ciò che appare straniero e minaccioso.

 

5. Stato nazionale, ridefinizione della Comunità dei Liberi e “sovranismo”

La rivolta populista in Italia e nel continente europeo31 mette dunque in discussione la globalizzazione e le istituzioni globali in seguito alla crisi che queste stesse istituzioni hanno determinato con il loro comportamento irrazionale e cioè in conseguenza della gestione miope e puramente di classe che di questa crisi le élites stabilite, retrocesse a uno stadio corporativo e incapaci di allargare i propri orizzonti, hanno messo in pratica. Questa rivolta, inoltre, assume un volto “sovranista” perché individua nel presunto ripristino della sovranità nazionale e nella fuoriuscita dalla UE e dall’Euro e in generale nell’inversione del cosiddetto mondialismo le premesse per una piena riappropriazione di risorse e di potere politico da parte del popolo: per sconfiggere le élites bisogna rompere la gabbia europea e il suo involucro cosmopolita. Si tratta di una rivolta per la giustizia sociale, intenzionata a ripristinare la democrazia nazionale moderna e forme più eque di redistribuzione tra le classi, allora? Sappiamo che lo Stato-nazione è il luogo storico di massima accumulazione di potere da parte delle classi subalterne: quella che fa spesso appello anche alla sacralità socialisteggiante delle Costituzioni nazionali è quindi una rivolta oggettivamente “di sinistra”, nonostante la sua retorica transpolitica? Una rivolta che guarda alle difficoltà dei ceti popolari nella prospettiva di favorirne la riscossa mediante un miglioramento dei rapporti di forza e che i progressisti dovrebbero senz’altro sostenere, tanto più che prefigura una riscoperta del ruolo dell’intervento pubblico?

Non è così, a mio avviso. Si tratta certamente della reazione rabbiosa a una crisi prodotta in tutto e per tutto dal capitale, come abbiamo visto, che è in gran parte legittima e che coinvolge anche larghi strati popolari. Ma si tratta di una reazione che non mette e non potrà mai mettere in discussione la società capitalistica stessa e la sua natura strutturalmente critica – magari cercando un collegamento “leninista” con le istanze dei popoli coloniali che si risvegliano, al fine di far saltare le gerarchie imperialistiche complessive che sono alla base degli scompensi commerciali e dello sfruttamento del Terzo Mondo e che innescano le migrazioni –, bensì contesta la redistribuzione nettamente più sfavorevole che il capitalismo occidentale, dopo questo risveglio, ha generato oggi al proprio interno per chi già possedeva di meno. Una reazione che, dopo decenni di diffusione dell’ideologia del consumo illimitato delle merci e delle risorse che hanno eretto una precisa visione del mondo, cerca disperatamente di tenersi aggrappata ai livelli di benessere della fase precedente, insomma. Una reazione che, a tal fine, fiancheggia apertamente il ripristino degli assetti neocoloniali e respinge a priori qualsiasi ipotesi di ripartizione della ricchezza globale con i “barbari” che premono alle porte.

Si tratta, in questo senso, di una reazione esplicita alla Grande Convergenza. Una reazione che invoca ad alta voce la costruzione di una vera e propria Herrenvolk Democracy planetaria, e cioè di un nuovo ordine mondiale che, nel rinnovare il primato occidentale, sappia continuare a proteggere anche i ceti medi e quelli subalterni garantendone i diritti “naturali” in quanto membri riconosciuti dei Popoli Liberi. In questo senso, più che come razzismo classico, i fenomeni di discriminazione oggi così diffusi in Italia e altrove vanno letti proprio come il tentativo di una ridefinizione della Comunità dei Liberi in tempi di crisi permanente. Una riscrittura dei codici scritti e non scritti della società, allo scopo di distinguere gli esclusi che possono essere in parte cooptati nello Spazio Sacro della Libertà perché le sono utili, da quelli che, essendole inutili o meno utili, possono esserne estromessi32. E che dovranno andare a formare una sottocasta fuorilegge, priva di diritti perché in clandestinità o sottoposta a una legislazione parallela e ad apartheid, e sempre potenzialmente a rischio di arresto o espulsione perché causa di disagio sociale e destinata in sostanza al lavoro servile.

Assieme ai migranti (e alla sinistra politica, che ne favorirebbe l’ingresso per compensare la perdita di consensi scontata presso i ceti popolari), è però anzitutto l’Unione Europa l’entità esterna che viene individuata dalla rivolta populista-sovranista in Italia come il nemico principale, perché è ad essa che viene attribuita la responsabilità prevalente della crisi sociale. È realistica questa diagnosi? Non c’è dubbio che anche l’Unione sconti un marcato carattere di classe: sarebbe del resto strano se fosse il contrario, visto che – a differenza delle grandi Costituzioni nazionali, nate dopo il 1945 al termine di una fase rivoluzionaria su scala planetaria – l’UE e i suoi Trattati si sono formati all’esordio di un periodo di restaurazione seguito alla caduta dell’URSS. Dal punto di vista delle classi subalterne dei paesi occidentali, però, se il globalismo e in questo quadro la costruzione europea rispondono chiaramente a tali coordinate di classe, e cioè si muovono sotto il segno dell’egemonia borghese e dunque non possono che operare per una compressione del costo del lavoro e dei suoi diritti, l’alternativa non è affatto migliore. Il ritorno ad un quadro puramente nazionale, alla coda oltretutto del nuovo blocco storico in formazione tra élites outsider e piccola borghesia, se anche fosse praticabile non comporterebbe in nessun modo un terreno più avanzato di conflitto, infatti, perché non rappresenterebbe nessuna garanzia di equilibri migliori nei rapporti di forza tra le classi stesse.

Anche alla luce di quanto spiegato prima, nessuno può negare che la globalizzazione e la convergenza europea abbiano funzionato in Occidente come un meccanismo di sottomissione delle classi popolari, aggravando il divario nei rapporti di forza tra dominanti e dominati. Ma questo significa – in parole povere – che prima dell’avvio di questi processi tali rapporti fossero invece favorevoli alle classi popolari, oppure che lo sarebbero se venisse distrutta la UE? Non è affatto così: questi rapporti rimarrebbero altrettanto sfavorevoli o peggiorerebbero ulteriormente e lo farebbero in un quadro di forme di coscienza ormai saldamente rinselvatichite.

Sappiamo che dopo il picco delle lotte sociali negli anni Settanta – lotte che avevano costituito l’apice della democrazia moderna sancita in Italia dallo Statuto dei lavoratori e che avevano determinato un riequilibrio mostruoso nei rapporti di forza tra le classi in favore di quelle subalterne – il capitale ha risposto in maniera estremamente efficace, mettendo in atto molteplici processi che hanno invertito la tendenza. Altrettanto immani trasformazioni sul terreno politico, su quello economico e su quello culturale hanno trovato un culmine negli anni Ottanta, quando la lotta di classe nel paese si è decisa con una vittoria netta di sistema da parte del capitale. Anche attraverso il recupero e il detournement delle tematiche emancipazioniste del ciclo 1968-‘77 nel contesto di una rivoluzione passiva33, la sconfitta epocale delle classi subalterne ha coinciso da quel momento con lo smantellamento degli elementi di modernità della democrazia, fino a sancire un nuovo crescente squilibrio dei rapporti di forza e il ripristino pressoché totale di un gap sociale che solo in 100 anni di storia e di lotte operaie era stato colmato. Ebbene, proprio questo esito indiscutibile del conflitto di classe, con la disgregazione dell’antagonista sociale, delle sue organizzazioni politiche e sindacali e delle sue forme di coscienza solidali e cooperative, ha consentito alle classi dominanti italiane – ma il discorso non è diverso per gli altri paesi – di dotarsi, nelle loro frazioni più avanzate, di strutture internazionali in grado di spostare su un altro e più elevato livello il terreno della competizione. Proprio la grande vittoria borghese all’interno di ciascun paese è l’evento decisivo che accompagna la costruzione delle istituzioni continentali. Non si capisce perciò perché il ritorno a una dimensione tutta nazionale – che nei grotteschi termini autarchici in cui viene pensata dall’odierno “sovranismo” era comunque improbabile già nel XIX secolo – dovrebbe procurare automaticamente rapporti di forza più favorevoli, visto che questi rapporti erano nettamente perdenti già prima che, con la globalizzazione e la UE, si aprisse una nuova fase. Non si capisce poi perché ponendosi alla coda della frazione nazionale arretrata e outsider del capitale e dei suoi ceti politici e intellettuali dovrebbe essere più facile risvegliare la lotta di classe dal basso e dovrebbe essere più agevole ottenere risultati migliori di quelli che i ceti popolari hanno ottenuto in passato, nel loro conflitto – ormai perduto – con quella frazione capitalistica avanzata ed egemone che della globalizzazione si era posta a capo.

Sorvoliamo allora sulla catastrofe culturale che rende oggi possibile in Italia la drammatica diffusione di un pensiero magico che induce i più a credere che riconquistando una presunta sovranità monetaria si potrebbe agevolmente creare ricchezza per tutti mediante la stampa di cartamoneta o l’indebi tamento ad libitum , e poniamoci invece un’altra domanda più seria: chi dovrebbe guidare oggi un eventuale processo di fuoriuscita dell’Italia dall’Unione Europea e dall’Euro? È più probabile, nelle condizioni date, che questo processo venga guidato dalle forze progressiste al fine di un rinnovamento inclusivo della democrazia e per il benessere dei lavoratori, oppure che a porsi alla sua testa siano le forze più reazionarie, che da tempo agitano strumentalmente questo tema e riscuotono un consenso decisamente maggiore? Come dicevo all’inizio, la fine della democrazia moderna in Italia è avvenuta prevalentemente a partire da una serie impressionante di processi di concentrazione del potere. Non si tratta soltanto del crescente squilibrio nel rapporto tra parlamento e governo. L’introduzione della legge elettorale maggioritaria all’inizio degli anni Novanta ha comportato la fine dei partiti di massa tradizionali e la progressiva identificazione tra politica e ricchezza, con la costruzione di cartelli elettorali imperniati sulla leadership carismatica personalistica di questo o quel capo politico e sulla capacità di manipolazione propagandistica e pubblicitaria delle forme di coscienza. Il populismo odierno non è una risposta democratica a questa degenerazione che impedisce una reale rappresentazione del corpo sociale, ma ne è soltanto una variante. Un nuovo e diverso aspetto della medesima concentrazione del potere in condizioni nuove e dunque l’ennesimo volto postmoderno del neoliberalismo34.

La mitica democrazia diretta consentita dalla diffusione delle reti digitali e spacciata come una ricucitura del rapporto tra cittadini e istituzioni, ad esempio, è in realtà una forma di investitura plebiscitaria di contro-élites che è perfettamente coerente con quei processi di disintermediazione che prevedono la fine dei corpi intermedi e di ogni capacità di organizzazione autonoma degli interessi di classe. E si presenta perciò essa stessa come un pezzo importante di una forma postmoderna di bonapartismo: il progetto di introdurre l’istituto del referendum propositivo senza quorum recentemente ipotizzato dai 5 Stelle35, e cioè l’idea grottesca di una sorta di misurazione in tempo reale della sovranità popolare tramite sondaggi demoscopici, ne è conferma; così come ne è conferma la suggestione, sempre di ambienti consimili ma ispirata probabilmente da Reybrouck, di sostituire il suffragio universale elettorale con una procedura di sorteggio36. Alla medesima dinamica di bonapartizzazione postmoderna risponde del resto la sempreverde tendenza all’esternalizzazione del conflitto sociale, le cui contraddizioni vengono scaricate oggi sulle istituzioni internazionali ma soprattutto sui migranti, ovvero sulle vittime del processo di ricolonizzazione del mondo piuttosto che sui loro carnefici.

È probabile che in queste condizioni non ci sarebbe nessuna chance di piegare a sinistra una eventuale Exit italiana e che queste tendenze avrebbero senz’altro la meglio. Che dire poi di un “sovranismo” che individua il nemico principale nella UE ma nulla dice a proposito della presenza militare degli Stati Uniti nel paese e in Europa? Sarebbe più libera e sovrana l’Italia fuori dalla UE, con quasi un centinaio di testate nucleari americane e presto nuovi temibili marchingegni sul proprio territorio37? Fortissimo è inoltre il rischio che il recente progetto di devoluzione delle competenze statali alle autonomie locali regionali, fortemente sponsorizzato da una Lega sempre attenta alle proprie radici territoriali, possa mettere in crisi la stessa unità nazionale del paese, stimolando la secessione fiscale delle zone più ricche secondo il modello catalano. Bel risultato per i presunti difensori dello Stato-nazione!

 

6. Populismo o marxismo?

Nel 1923, anche guardando a quanto era da poco avvenuto in Italia, Clara Zetkin spiegava all’Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista riunito a Mosca che la diffusione dei Freikorps e dei movimenti fascistizzanti in Germania era stata conseguenza diretta della guerra, la quale aveva provocato una crisi talmente profonda da precipitare i ceti medi e i lavoratori intellettuali nella miseria più nera e in una acuta depressione spirituale38. Ma una grande responsabilità gravava a suo avviso anche sulla socialdemocrazia, la quale aveva contribuito a portare il paese nel macello europeo e con il suo atteggiamento compromissorio aveva screditato il nome stesso del socialismo di fronte alle masse piccolo-borghesi, spingendole – soprattutto dopo Versailles – a rivolgersi non al proletariato e al socialismo ma alle correnti völkisch e neonazionaliste. Ribadito che l’epoca attuale non può essere assimilata a quella del fascismo (non c’è nessuna spinta rivoluzionaria da sventare), bisogna dire però che anche nella nostra crisi – la crisi che ha portato all’emergere del populismo odierno – la sinistra ha enormi responsabilità, in Italia ma non solo. La sconfitta di sistema subita alla fine della Guerra Fredda è stata infatti di natura politica ma ha avuto un non meno importante risvolto culturale: da quel passaggio, la sinistra è uscita priva di qualunque autonomia sul piano delle idee e delle visioni del mondo e ha finito per collocarsi alla coda del liberalismo trionfante e delle sue diverse correnti, assecondandone le oscillazioni e dunque il prevalere ora dell’una, ora dell’altra ala.

Per tutta una fase la sinistra italiana ha fatto propria l’ideologia “illuminista” della frazione vincente del capitale internazionale e cioè la visione del mondo della frazione globalista. Di essa, ha finito per assorbire tutte le posizioni e in particolare l’idea liberal, di marca statunitense e wilsoniana, di un cosmopolitismo astratto che identifica la globalizzazione con la realizzazione del concetto universale di uomo, a partire dalla fiducia in un affratellamento immediato dei popoli che, quando non avviene per via spontanea, può essere sollecitato attraverso l’esportazione militare della democrazia. La sinistra moderata si è perciò fatta fautrice di un processo di modernizzazione capitalistica, di apertura dei mercati e di liberalizzazione incontrollata che ha messo fuori gioco il ruolo degli Stati nazionali (degli Stati nazionali più deboli) e la loro capacità di protezione sociale. Essa si è proposta, anzi, di governare questo processo in prima persona. E, fiduciosa nelle magiche capacità produttive e redistributive di un mercato privo di regole, lo ha fatto senza curarsi minimamente delle drammatiche contraddizioni che ne scaturivano e delle vaste sofferenze che i ceti popolari avrebbero subito per via di questo incremento esponenziale della competizione economica e sociale e per via dell’Austerity necessaria a far tornare i conti pubblici senza ricorrere a una patrimoniale sulle ricchezze reali.

La trasformazione terminale dell’organizzazione politica erede del PCI, il socialdemocratic o PDS, in un’organizzazione liberale orientata a sinistra sul piano dei valori culturali, il PD, è la rappresentazione plastica di questa deriva, rispetto alla quale la sinistra radicale e i anche i partiti che si dicevano comunisti – che del PD sono stati alleati strutturali e subalterni nel contesto di un sistema elettorale maggioritario – non hanno saputo rappresentare un’alternativa.

Quando poi la crisi economica ha messo alle corde questa ideologia, facendo emergere i profondi conflitti tra centri di potere geo-economico che agitavano la superficie della globalizzazione e che mettevano in luce il ruolo persistente della statualità e della politica di potenza, la sinistra di tutti gli orientamenti – quella più moderata come quella che sulla carta avrebbe dovuto essere più intransigente – non è riuscita a ritrovare la propria autonomia, pur avendo a volte intuito anticipato molte di queste problematiche. E dopo aver governato all’insegna delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni è rimasta perciò nuda con le sue responsabilità e con il cerino in mano, di fronte a strati crescenti di popolazione impoverita – ma anche trasmutata sul piano delle forme di coscienza e incattivita – che la identificavano come la principale colpevole della crisi.

Negli ultimi anni, di fronte al mondo in corso di cambiamento, il liberalismo ha saputo a propria volta cambiare attitudine in maniera flessibile e pragmatica. E, approfittando dei nuovi favorevolissimi rapporti di forza conseguiti dopo aver schiantato il movimento operaio nella lotta di classe, ha dismesso ogni apparenza democratica per riscoprire le proprie radici. Il liberalismo, cioè, è tornato per tanti aspetti al proto-liberalismo dell’accumulazione originaria ed è rinato in chiave ferocemente conservatrice: è esattamente quel mutamento politico e culturale che ha accompagnato l’ascesa della frazione outsider del capitale, la quale – come abbiamo visto – ha scalzato la frazione un tempo vincente anche agitando la bandiera del capitalismo “produttivo”, del “sovranismo”, del mercantilismo, del protezionismo economico, ma anche dell’anticonformismo nei confronti delle sdolcinatezze dell’umanitarismo morale e della civiltà delle buone maniere. La sinistra, invece, abbandonato da tempo ogni strumento di analisi della società capitalistica, è rimasta immobile e ancora priva di idee, è rimasta «assente» o appiattita sull’esistente di un neoliberalismo democratizzante. E in questo senso la sua attuale e improvvisa riscoperta del patriottismo, in opposizione a un fantomatico “nazismo” euro-burocratico oppressore dei popoli, è oggi non certo la riscoperta delle proprie radici popolari autentiche e nemmeno la riscoperta della questione nazionale a lungo negletta, ma solo un’ulteriore dimostrazione di codismo e opportunismo. E cioè un’ulteriore forma di subalternità al liberalismo, il quale – anche questo già lo sappiamo – , venuto meno il per sé delle classi, è oggi in grado di soddisfare i bisogni ideologici dei cittadini privi di orientamento politico come degli ex comunisti o degli ex fascisti.

A prescindere dal clamoroso errore di identificazione del nemico principale – non gli USA ma la UE –, anche a sinistra la questione nazionale, infatti, non viene declinata nel senso di un universalismo più concreto e più attento alle storicità particolari, e dunque nel senso di un anticolonialismo e anti-imperialismo intenzionato a unire le classi subalterne nazionali a quei popoli che premono per un diverso ordine mondiale, bensì per lo più secondo il medesimo particolarismo egoistico e Herrenvolk delle destre. Lo confermano i tanti discorsi “sovranisti” oggi assai diffusi nella sinistra italiana ed europea, discorsi nei quali, per inseguire la narrazione delle destre, le migrazioni dei popoli vengono descritte – “marxianamente” o meno – come un complotto per la costruzione di un esercito industriale di riserva funzionale all’abbassamento del costo del lavoro del proletariato bianco e occidentale39. Questa deriva socialsciovinista – nella quale il materialismo storico degenera in cospirazionismo astorico e economicistico e la libertas presunta maior dei diritti economici e sociali viene messa in contrapposizione alla libertas presunta minor dei diritti umani e di quelli civili smentendo una tradizione culturale che risaliva a Togliatti – conferma così che quello del populismo sia un terreno che, per la sua stessa struttura legata all’immediatezza, è già sin dall’inizio orientato a destra. Esso può essere certamente conteso, in teoria, come aveva cercato di fare Karl Radek negli anni Venti di fronte al crescente consenso dei neonazionalisti tra le masse tedesche40. Chi dovrebbe farlo, però, e a partire da quale proposta politica? Nelle condizioni date, vista la drammatica inesistenza organizzativa e la confusione politico-culturale dilaganti oggi nel campo progressista in Italia, è assai più probabile che chi cerchi di avvicinare il “popolo” da sinistra venga a sua volta egemonizzato a destra piuttosto che sia lui a egemonizzare a sinistra le altre forze che si contendono il campo. Come tanti repentini e sconcertanti esempi di trasformismo – con la recente nascita delle più improbabili sigle social-patriottiche – sembrano confermare.

In Italia e in Europa siamo per tanti aspetti in una situazione molto simile a quella dei Befreiungskriege tedeschi, quando – come Domenico Losurdo ha ricostruito in un affresco storico magistrale41 – in seguito all’invasione napoleonica interi pezzi di ceti intellettuali e classi dirigenti, in un primo momento entusiasti verso la Rivoluzione francese e interessati a una modernizzazione che portasse la Germania fuori dal feudalesimo, hanno finito per ripudiare tout court le idee del 1789, con la loro carica universalistica, egualitaria e emancipazionista e, delusi da questa dialettica dell’Illuminismo ante litteram, sono approdati a quelle posizioni particolaristiche di stampo teutomane e francofobo che decenni più avanti saranno all’origine dell’ideologia völkisch. Non si capisce perché i progressisti dovrebbero oggi ripetere lo stesso errore e assecondare le tendenze politiche populiste eurofobe, chiaramente reazionarie, cedendo al mito del superamento di destra e sinistra e infilando la testa nel cappio della sola dimensione nazionale, sul cui terreno sono già stati sconfitti. Non si capisce perché, piuttosto, non debbano tenere ferma la centralità del conflitto di classe e cercare di rispondere al capitale al suo stesso livello: rianimando sì il conflitto all’interno dello Stato nazionale, se ne sono capaci; ma, al contempo, unificando finalmente le lotte al livello continentale. E – cosa mai avvenuta sino a questo momento – costruendo alla buon’ora un movimento dei lavoratori e delle classi subalterne che abbia una dimensione europea.


Note
1 La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Liguori, Napoli 1980; Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010. Cfr. Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna 2012.
2 Cfr. S.G. Azzarà, Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.
3 Domenico Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino 1993; La Seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
4 Si veda il n° 117, März 2019, di “Z. Zeitschrift Marxistische Erneuerung”, dal titolo Kontrollverlust? Krise der Parteien und sozialer Protest, nel quale viene dibattuto attraverso diversi contributi il carattere delle proteste “populiste” e “sovraniste” in tutta Europa. Sull’emergere delle nuove destre in Germania è esemplare delle letture liberaldemocratiche, e della autocritica fuori tempo massimo delle élites stabilite, il recente libro di Gian Enrico Rusconi, secondo il quale questa tendenza «ha portato alla luce, esasperandoli, aspetti critici e problematici del sistema che erano stati rimossi o erano rimasti latenti» (Dove va la Germania? La sfida della nuova destra populista, il Mulino, Bologna 2019, p. 14).
5 Su Laclau-Mouffe rinvio al mio Nonostante Laclau. Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna, Mimesis, Milano 2017.
6 Alessandro Soldà, Giuseppe Conte alla Scuola della Lega: “Destra e sinistra sono categorie superate”, “Secolo Trentino”, 19.10.2018, disponibile a https://secolo-trentino.com/politica/giuseppe-conte-alla-scuola-della-lega-destra-e-sinistra-sono-categorie-superate/.
7 Governo, Conte: “Sovranismo e populismo sono nella Costituzione” (dichiarazione all’Assemblea generale dell’ONU, “Repubblica”, 26.11.2018, disponibile a https://www.repubblica.it/politica/2018/09/26/news/governo_conte_sovranismo _e_populismo _sono_nella_costituzione_-207445240/.
8 Nicola Barone e Alessia Tripodi, Conte riceve l’incarico da Mattarella: «Governo del cambiamento, confermata collocazione europea dell’Italia», “Il Sole 24 ore”, 23.05.2018, disponibile a https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ 2018-05-23/m5s-lega-maio-conte-e-e-resta-candidato-premier-085531.shtml? uuid=AEzB17sE.
9 Cfr. Massimiliano Panarari, Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi, Marsilio, Venezia 2018.
10 Tony Blair: «destra e sinistra non esistono più», “Il Sole 24 ore”, 1.12.2007, disponibile a https://www. ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2007/12/blair-montezemolo.shtml?uuid=20b48b3e-a029-11dc-adb7-00000e251029& DocRulesView=Libero; Francesca Paci, Cacciari: «Basta con il mondo di ieri, nessuna sinistra oggi può vincere in Europa», “La Stampa”, 31.01.2017, disponibile a https://www.lastampa.it/ 2017/01/31/esteri/ cacciari-nessuna-sinistra-oggi-pu-vincere-in-europa-XjpZFNtE6UsNwaUCay6rNI/ pagina.html ; Tommaso Albertini, Rassegnatevi, destra e sinistra in Europa non esistono più, “Il Foglio”, 11.05.2017, disponibile a https://www.ilfoglio.it/esteri/ 2017/05/11/news/ rassegnatevi-destra-e-sinistra-in-europa-non-esistono-piu-134072/.
11 Jacques Sapir, La Démondialisation, Points, Paris 2012; Jean-Claude Michéa, I misteri della Sinistra. Dall'ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza, Milano 205 e Il nostro comune nemico. Considerazioni sulla fine dei giorni tranquilli, Neri Pozza, Milano 2018; Alain de Benoist, Pensiero ribelle. Interviste, testimonianze, spiegazioni al di là della destra e della sinistra, vol. 1, Arianna Controcorrente, Napoli 2008; Populismo. La fine della destra e della sinistra, Arianna Editrice, Bologna 2017.
12 Costanzo Preve, Destra e sinistra: la natura inservibile di due categorie tradizionali, CRT, Pistoia 1998; Giorgio Galli, “Convergenza tra i due anticapitalismi”, in G. Galli e F. Bochicchi, Oltre l’antifascismo? Come rinnovare la sinistra non moderata. Due voci per un confronto critico, Biblion, Milano 2016.
13 Cfr. Vincenzo Costa, Élites e populismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.
14 Heinrich Geiselberger (a cura di), La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017.
15 Mi sono occupato ormai diverso tempo fa di questa dinamica in Globalizzazione e imperialismo, La Città del Sole, Napoli 1999.
16 Sul risveglio dell’Asia nel XIX e XX secolo e sul concomitante declino dell’Occidente coloniale fondamentale è Pankaj Mishra: Le rovine dell'Impero, Guanda Parma 2013.
17 Parag Khanna, Il secolo asiatico?, Fazi, Roma 2019.
18 The Western Model is Broken, “Guardian”, 14.10.2014, disponibile a https://www.theguardian.com/world/2014/oct/14/-sp-western-model-broken-pankaj-mishra. V. Gian Paolo Calchi Novati, L’alternativa Sud-Sud, chi vince e chi perde. Economia, politica, modelli culturali, a cura di Giampaolo Calchi Novati, Carocci 2011.
19 Cfr. Stephen D. King, La fine della prosperità occidentale. Come affrontare il declino, Armando Editore, Roma 2016.
20 Per l’ex ministro Giulio Tremonti, la globalizzazione, frutto di una «mente collettiva» e degli interessi e progetti di «uomini potenti e pensanti, anglosassoni ed europei, politici e illuminati, accademici e finanzieri, affaristi, tecnici e visionari» è stata certamente un errore per l’Occidente (Le tre profezie. Appunti per il futuro, Solferino, Milano 2019, p. 27).
21 Kenneth Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino, Bologna 2004. 
22 Domenico Losurdo, La Sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014, pp. 13 e 252.
23 Cfr. Pierre Grosser, Dall’Asia al mondo. Un’altra visione del XX secolo, Einaudi, Torino 2019.
24 Richard Baldwin, La grande convergenza. Tecnologia informatica, web e nuova globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2018.
25 Domenico Losurdo, La Sinistra assente, cit., p. 13. «L’Africa è a portata di mano e sarebbe una preziosa risorsa per tutti i Paesi europei che vi hanno lasciato tracce del loro passaggio», lamenta Sergio Romano, ma purtroppo «è stata abbandonata alla Cina» (L’Occidente tramonta, “Corriere della sera”, 14.04.2019).
26 Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Fazi, Roma 2019-
27 V. Renaud Camus, Le Grand Remplacement, David Reinharc, Paris 2011.
28 Robert Kagan, The Jungle Grows Back. America and our Imperiled World, Knopf, New York 2019.
29 V. Marco Bersani, Dacci oggi il nostro debito quotidiano. Strategie dell’impoverimento di massa, DeriveApprodi, Roma, 2017; Andrea Terzi, Salviamo l’Europa dall’austerità, Vita e Pensiero, Milano 2014; Elettra Stimilli, Debito e colpa, Ediesse,Roma 2015. Provocatoria quanto crudele e irridente già nel titolo, invece, è l’analisi di Veronica De Romanis: L’austerità fa crescere. Quando il rigore è la soluzione, Marsilio, Venezia 2017. Su questa falsariga anche Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi in Austerità. Quando funziona e quando no, Rizzoli, Milano 2019.
30 Domenico Losurdo, La Sinistra assente, cit., pp. 12-13 e 19. Cfr. Timothy Noah, The Great Divergence: America's Growing Inequality Crisis and What We Can Do about It, Bloomsbury, London 2013; Joseph Stiglitz, La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla, Einaudi, Torino 2015.
31 È una rivolta alla quale fa da contraltare - va detto - l’esplosione di tendenze fondamentalistiche, particolaristiche e anti-occidentaliste nel mondo ex coloniale in ascesa, tanto che Pankaj Mishra parla di una sorta di «guerra civile globale»: L’età della rabbia. Una storia del presente, Mondadori, Milano 2018.
32 Sono meccanismi che Domenico Losurdo aveva spiegato in Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, soprattutto i cap. 2 par. 8 e cap. 9.
33 Cfr. Stefano G. Azzarà, An Intellectual Mass-Transformism: Restoration and Postmodern Passive Revolution in the Neo-liberal Cycle, “International Critical Thought”, vol. 8, 2018, pp. 66-78.
34 Cfr. Yascha Mounk, Popolo vs. Democrazia, Feltrinelli, Milano 2018.
35 Elisa Patta, Referendum propositivo, esperti a confronto: «Così la democrazia diretta diventa più digeribile», “Il Sole 24 ore”, 22.01.2019, disponibile a https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-01-21/referendum-propositivo-esperti-confronto-cosi-democrazia-diretta-diventa-piu-digeribile-191055.shtml?uuid=AEAZiSJH.
36 David van Reybrouck: Contro le elezioni, Feltrinelli, Milano 2015.
37 In Italia 90 bombe atomiche USA, “La Stampa”, 15-9.2007; cfr. Manlio Dinucci, L’italia nel piano nucleare del Pentagono, “il Manifesto”, 23.1.2018; Oltre alle bombe, missili USA in Italia?, “il Manifesto”, 16.10.2018. Per una contestualizzazione più generale v. sempre di M. Dinucci il libro Guerra nucleare. Il giorno prima. Da Hiroshima a oggi: chi e come ci porta alla catastrofe, Zambon, Milano 2017.
38 Clara Zetkin, “Der Kampf gegen den Faszismus”, in Protokoll der Konferenz der erweiterten Exekutive der kommunistischen Internationale, Moskau, vom 19 bis 23 Juni 1923, Verlag der Kommunistischen Internationale/Hoym, Hamburg.Komintern 1923, pp. 204-32.
39 È un discorso che traspare ad esempio, per fortuna senza impropri rinvii a Marx, nel libro del filosofo tedesco (ed ex ministro della cultura del governo Schröder) Julian Nida-Rümelin, Pensare oltre i confini. Un’etica della migrazione, FrancoAngeli, Milano 2018.
40 Cfr. Stefano G. Azzarà, Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia?, Mimesis, Milano 2018.
41 Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini, Milano 1997, pp. 25-37.

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Federico
Wednesday, 24 July 2019 23:13
Quoting Federico:
nel senso di alleanza o sostenimento di lungo termine. .


SOSTEGNO ovviamente, non sostenimento (errata corrige)
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Federico
Wednesday, 24 July 2019 23:11
Ringrazio innanzitutto per le risposte. Vengo all’ultima questione, quella di con chi, contro chi, e se schierarsi. A me sembra che debba essere rigorosamente distinto il concetto di appoggio tattico da quello di appoggio nel senso di alleanza o sostenimento di lungo termine. Concordo con Eros Barone sulla natura in fondo imperialistica dei BRICS, ma ritengo che sia perlomeno da auspicare che questi, e in particolare la Cina, riescano a rafforzarsi a scapito degli USA e dell’area atlantica. Certamente, occorre ricostituirsi in soggetto (di classe) e farlo avendo bene in mente la necessità vitale e imprescindibile di connettere insieme i lavoratori in senso inter-nazionale (cosa difficilissima dati i successi purtroppo clamorosi del neocorporativismo e della strategia borghese di frammentazione addirittura regionale dei lavoratori — si veda l’Italia fra nord e sud per es.). Un soggetto operaio ovviamente dovrebbe ricercare la solidarietà di classe e non schierarsi con uno degli imperialismi, come la storia dovrebbe insegnare. Però è a mio avviso nel rischio immenso di un conflitto mondiale che si cela anche la opportunità di incunearsi fra gli imperialismi in lotta; mentre una nuova fase di intesa (pur temporanea) multilaterale a guida USA sarebbe peggiore. Per tale motivo mi sembra che sia da auspicare una ulteriore crescita cinese, e quindi da appoggiare, per esempio, la BRI e l’Unione euroasiatica russo-centrica, contro l’asse NATO-UE. Tutto questo, sia chiaro, a patto di esistere come soggetto in grado di lottare a tutto campo, altrimenti è inutile anche solo parlare di “schierarsi” (resterebbe solo il mero “tifo” individuale....).
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Mario Galati
Thursday, 11 July 2019 14:55
Cade a puntino una nota recente di Michele Basso su Sinistra in rete ("Davvero l'autodeterminazione dei popoli di Lenin è da mettere in soffitta?"), che riporta l'idea maturata da Marx che la classe operaia inglese non farà la rivoluzione sino a che l'Inghilterra possiederà la colonia irlandese. L'indipendenza dell'Irlanda come condizione per la rivoluzione in Inghilterra. Il nucleo della mia convinzione è proprio questo: non vi sarà alcuna rivoluzione senza la "Grande Convergenza" (sintetizzo così per non dilungarmi e ripetermi). Se non tramonta il mondo coloniale, non necessariamente con sbocco immediato socialista, non avremo possibilità rivoluzionarie.
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Eros Barone
Wednesday, 10 July 2019 22:44
Ancora una volta, le questioni che dominano questo dibattito sono quelle che si riassumono: a) nella corretta definizione dell’imperialismo, b) nella corretta comprensione della sua dinamica attuale, c) negli obiettivi e nei compiti del movimento di classe. Partiamo quindi dalla questione (a) e distinguiamo, innanzitutto, la forma (guerra, espansionismo, politiche neocoloniali) dalla sostanza (concentrazione monopolistica). La concentrazione e la centralizzazione sono una legge oggettiva generale dello sviluppo capitalistico nella sua fase imperialista (che altro è la cosiddetta “globalizzazione” capitalistica, termine orrendo come la classe che l’ha creato, se non la riaffermazione del dominio mondiale da parte del capitale monopolistico dopo la dissoluzione del blocco socialista?). Ergo, è falsa e deviante la teoria del ‘superimperialismo’ statunitense che imporrebbe la sua egemonia ai ‘subimperialismi’ degli altri paesi capitalisti all’interno di un blocco omogeneo. La realtà ci dimostra invece il contrario: esistono, in una gerarchia a più livelli, diversi poli imperialisti in aspra competizione tra di loro per il controllo delle rotte commerciali, delle vie di comunicazione e dell’informazione, e per la spartizione delle risorse umane e materiali del pianeta (dalle vaste masse di diseredati che alimentano l’esercito di riserva del capitalismo alle fonti d’energia, alle materie prime e all’acqua). La dialettica di competizione/accordo/competizione, estendendo il fronte delle contraddizioni sia verticali che orizzontali, è destinata quindi a sfociare nella guerra. Conclusione: non esiste, secondo un’illusione ricorrente della sinistra opportunista, un “imperialismo buono” (ad es., i BRICS) da contrapporre ad un “imperialismo cattivo” (USA, UE, Giappone). Proseguiamo con la questione (b). Certo, l’accumulazione dei capitali in questi paesi non ha ancora raggiunto i livelli degli USA e della UE, e il loro ‘modus operandi’ nelle relazioni internazionali è diverso, ma la loro natura economica è sostanzialmente la stessa. I BRICS sono quindi in grado di contestare il predominio dell’Occidente (cfr. l’alleanza russo-cinese, formidabile fattore di riequilibrio/squilibrio delle attuali relazioni internazionali), ma da una posizione imperialista e attraverso i meccanismi della concorrenza interimperialistica. Non si capirebbe altrimenti la differenza di comportamento della Russia e della Cina nella vicenda libica e in quella siriana. Il conflitto tra i BRICS e gli imperialismi tradizionali si svolge per ora sul terreno mercantilistico (dazi, limitazioni commerciali ecc.), ma pur sempre nel quadro della OMC a cui entrambi appartengono. Sennonché non è difficile prevedere che, a mano a mano che il cappio della legge della caduta del saggio medio di profitto, che determina i tempi della crisi economica mondiale (crisi per sovrapproduzione di merci e sovraccumulazione e sovrapproduzione di capitali), si stringerà sempre più attorno al collo degli uni e degli altri, la necessità di assicurarsi il controllo delle risorse strategiche e dei mercati di sbocco sfocerà in uno scontro militare diretto, non più vicariabile attraverso la moltiplicazione dei conflitti militari locali condotti a spese dei popoli di paesi terzi. (c) Conclusione: i comunisti e il movimento operaio non hanno oggi che un’arma da contrapporre all’imperialismo: la solidarietà proletaria internazionalista, il cui oggetto è la cooperazione tra i partiti comunisti e operai, a livello operaio e mondiale, e il cui obiettivo è la rottura con la UE e con la NATO. Nel caso di una guerra imperialista di grandi proporzioni, chi ragiona in termini di alleanza con uno degli imperialismi esistenti sarebbe inevitabilmente indotto a schierarsi con esso, replicando il tragico errore della socialdemocrazia tedesca di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale. Certo, se il problema è quello della cattura del topo, il colore del gatto non interessa; sarebbe però spiacevole se il vero problema di chi auspica la Grande Convergenza fosse quello (causa l’eterogenesi dei fini o l’astuzia della storia...) di scambiare ruoli e rapporti, facendo la fine del topo.
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Mario Galati
Wednesday, 10 July 2019 17:22
Mi sembra che la lettura di Eros Barone diverga da quella di Azzará in un punto centrale.
Credo che il nodo centrale del discorso di Azzará sia la nuova situazione mondiale esitata dalla globalizzazione come conseguenza non prevista dalle élites capitalistiche, alla quale un genuino movimento socialista non può non riferirsi in termini corretti. E qui trovo la divergenza tra la lettura di Barone e quella di Azzará (e la mia, visto che condivido la lettura di Azzará).
Non penso che la situazione attuale sia quella di un capitalismo mondiale diviso in poli imperialisti concorrenti, USA ed UE da una parte, Cina Russia e Brics dall'altra, in linea con i quali si collocano da una parte o dall'altra i settori delle varie borghesie nazionali, a seconda degli interessi, e in opposizione ai quali dovrebbe collocarsi il proletariato mondiale.
Infatti, se la globalizzazione capitalistica e l'ondata neoliberale reazionaria (seppure sotto il segno di un illuminismo "progressista", universalista astratto e cosmopolita) seguita alla sconfitta dell'URSS e del movimento dei lavoratori, avrebbe dovuto rappresentare il colpo definitivo e la fine della storia in un mondo unipolare e dal pensiero unico, per una eterogenesi dei fini, o per una astuzia della ragione, ha provocato una crisi di egemonia dei settori dominanti di borghesia che l'ha diretta e, soprattutto, ha realizzato la "Grande Convergenza", ossia, un ulteriore e deciso passo del processo di decolonizzazione iniziato nel '900. Il riferimento è alla Cina, innanzitutto, ma non solo. Finisce il monopolio occidentale sulle risorse mondiali e il mondo unipolare degli anni '90 tramonta, al di là e contro l'intenzione del capitalismo "globalista".
In tutto questo si inserisce anche la epocale crisi economica del 2007/2008.
Ebbene, la revoca dei diritti dei lavoratori e la postdemocrazia, come dice Azzará, o la fascistizzazione, come dice Barone, sono il tentativo, sinora riuscito, di far pagare ai lavoratori, annichilendoli, e anche alla piccola borghesia ed ai ceti medi i costi della crisi. Ma non solo i costi della crisi in sé, e questo è il punto fondamentale, ma anche la riduzione della quota di risorse mondiali passata ai paesi emergenti ex coloniali.
Al processo di decolonizzazione, nella sua attuale fase di costruzione economica e di riduzione del gap con i paesi capitalistici avanzati, (e alla crisi da caduta del saggio di profitto, aggiungo io), il capitalismo risponde con tentativi di ricolonizzazione (interventi militari in Afghanistan, Iraq, Libia, ecc.). Vari interventi militari che hanno come obiettivo la Cina più che la Russia (che Trump vorrebbe piuttosto riguadagnare come alleato subalterno in funzione anticinese).
In questa situazione, i movimenti "populisti" a base piccolo-borghese e diretti da frazioni del capitalismo recessivo o perdente nella globalizzazione, reagiscono offrendo come soluzione il ritorno alla "Grande Divergenza", il ritorno al mondo coloniale, o, in ogni caso, l'esclusione dalla ricchezza di immense masse mondiali, proponendo di respingere i nuovi commensali dal banchetto delle risorse mondiali. Tutto questo con modalità diverse rispetto ai dirittumanisti imperiali dei bombardamenti etici e democratici, che rappresentano l'altra faccia dell'ideologia coloniale e razziale, complementare e concorrente nel contempo.
Nel fare ciò offrono ai lavoratori e a tutti un nuovo patto corporativo di stampo colonial-razziale (non sempre esplicito e sempre sottotraccia); cioè, la prospettiva di un benessere relativo fondato sull'esclusione di interi popoli (non mi sembra smentire questa lettura il rilievo di Eros Barone sui settori di borghesia che vogliono intrecciare rapporti di affari con la Cina o la Russia. Gli affari sono affari e si possono fare anche con un nemico che si disprezza).
Azzará sostiene invece che un rinnovato movimento di classe socialista deve necessariamente saldare la lotta di classe alla solidarietà col mondo ex coloniale emergente (in sostanza, soprattutto con la Cina) e con quello ancora sottomesso e sfruttato, ancora "divergente", del quale gli immigrati sono l'espressione.
Cioè, un vero movimento socialista dei lavoratori autonomo deve scrollarsi di dosso l'ideologia coloniale herrenvolk che interessa tutto il mondo capitalistico occidentale nel suo complesso. Nessuna equidistanza tra Cina e USA è possibile. L'autonomia dei lavoratori non è possibile nell'equidistanza, perché ciò significherebbe l'incomprensione del processo storico di decolonizzazione e qual è il proprio posto in esso. Significherebbe non essere usciti completamente dalla particolaristica centralità occidentale e non aver compreso il carattere universalistico concreto del processo in atto.
Una lotta di classe che pretenda di "fare da sé" partendo dall'immediatezza del rapporto capitale-lavoro, e che ignori le vie traverse e raggrumate nei rapporti mondiali che esprimono i rapporti di classe a livelli più astratti, porta con sé i cascami di quel corporativismo coloniale che tutti vogliamo combattere.
È in corso una dialettica storica che vede la fine del mondo coloniale. Una dialettica che procede per vie tortuose, secondo la logica oggettiva (ma neppure tanto, se si pensa alla guida strategica cinese) dell'eterogenenesi dei fini e dell'astuzia della ragione. Questa dialettica produce il tramonto del mondo coloniale, probabilmente il principale ostacolo alla rivoluzione o, comunque, alla trasformazione socialista nell'occidente capitalistico avanzato (la saldezza della "società civile" liberal-borghese mi sembra una conseguenza della ricchezza).
O i lavoratori, con un rinnovato internazionalismo, si legano a questo processo di decolonizzazione e fanno la loro lotta di classe favorendolo (ossia, favorendo la Grande Convergenza che elimina i dislivelli e le gerarchie di ricchezza e di potere tra i popoli e le aree del pianeta, seppure in forma capitalistica), perché ciò elimina un forte ostacolo alla lotta per il socialismo e favorisce l'internazionalismo, oppure saranno preda del corporativismo nazionalista conservatore, magari ammantato di socialismo.
Questa fase di riequilibrio mondiale avviene sotto il segno di meccanismi di mercato e capitalistici come in Cina? Sia pure. Ciò non esclude il suo carattere storicamente progressivo.
La Grande Convergenza è, oltre che giusta in se stessa per la rottura delle gerarchie che comporta, la condizione necessaria per poter parlare di socialismo. E ricordiamo che l'alfiere di questo processo è sempre un partito comunista, il quale sta portando a termine un compito storico fondamentale. D'altronde, se il capitalismo ha svolto un ruolo progressivo nel passato, per quale motivo, in certe condizioni storiche determinate e particolari non può tornare a svolgerlo? È ciò che sta accadendo, suo malgrado, nella Cina socialista (contraddittoriamente e problematicamente socialista) e, nella seconda fase del processo di decolonizzazione, in una vasta area del mondo.
Sembra paradossale che i meccanismi capitalistici, matrice del colonialismo, abbiano aiutato il processo di decolonizzazione nella fase della riduzione del gap economico, ma è così.
L'analisi concreta della situazione concreta deve prevalere sugli schemi. Una tendenza storica è la risultante di elementi contraddittori. Si possono anche avere preferenze sul colore del gatto che ha acchiappato il topo (ed io ce l'ho. Avrei preferito una strada più diretta, "sovietica". Ma i nostri desideri devono aprire gli occhi sulla realtà effettuale), ma l'importante è che l'abbia fatto.
Non vedo il tradimento del comunismo, ma la problematica realizzazione di un suo compito storico, leninista.
La lotta per il socialismo ripartirà, anche nella stessa Cina, sulla base della Grande Convergenza.
Federico chiede da dove cominciare. Intanto, dal lavoro ideologico e dalla ricostruzione di un partito comunista. Poi, come dicono Azzará e Barone dalla lotta di classe epurata dagli inquinamenti corporativi. Per es., seguendo il ragionamento di Azzará, invece di farci totalizzare dalla retorica antieuropea, che, seppur giusta, finisce per essere capitalizzata dalla destra, cominciamo a porre in termini di classe la questione fiscale. La UE vuole la riduzione del debito pubblico? Bene. Facciamolo ripianare ai ricchi con una tassazione fortemente progressiva. Altro che flat tax e alti lai sui vincoli di spesa. Facciamo pagare i servizi pubblici ai ricchi. Vogliono che rispettiamo i vincoli di bilancio? Facciamolo facendo pagare i ricchi. Se è possibile coordinare la lotta a livello europeo, come dice Azzará, non lo so. Sinora non ci siamo riusciti.
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Eros Barone
Tuesday, 09 July 2019 23:09
Concordo con l'osservazione di Federico, secondo cui "l'analisi (storico-materialistica) del conflitto tra frazioni di classe dominante sia il punto cruciale per comprendere la crisi". Del resto, considerando anche il modo con cui vengono affrontate le questioni della casa, della scuola, delle pensioni e dell’unità nazionale, non vi è dubbio che al centro dell’azione del cosiddetto “governo del cambiamento” vi siano, conformemente agli interessi di classe che costituiscono la sua base sociale, la riduzione del costo del lavoro e la creazione di margini sempre più ampi per la ricerca del massimo profitto ad opera delle imprese di qualsiasi dimensione. Se l’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro e la continuazione di una politica di bassi salari, a cui è funzionale lo stesso reddito di cittadinanza, è l’obiettivo principale di tale governo, il corollario che ne deriva necessariamente è la duplice volontà di impedire, per un verso, la saldatura tra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati e di isolare, per un altro verso, le comunità degli immigrati con una politica di discriminazione etnica e sociale basata su un ‘mix’ di militarizzazione del territorio, gerarchia razziale, vessazioni amministrative, isteria gingoista e ideologia securitaria. Come sempre, il massimo sfruttamento della forza-lavoro è indissociabile dal processo galoppante di fascistizzazione, lo richiede e ne è sostenuto, come dimostra lo stesso slogan “prima gli italiani”, che viene utilizzato quale maschera grossolana della vera parola d’ordine: “prima i profitti” (laddove la funzione svolta dai dirigenti del M5S, ‘partito liquido’, rispetto alla Lega, partito pesante, è quella di ‘utili idioti’ del processo di fascistizzazione). In questo senso, da tempo segnalo nei miei interventi, per usare una famosa metafora, la maturazione dell’uovo nel ventre del serpente, ossia il galoppante processo di fascistizzazione dell’Europa, che si sta compiendo sotto l’apparente involucro democratico. D’altronde, i coefficienti e gli ingredienti della fascistizzazione ci sono tutti: dissolta l’ URSS, nel mondo ormai c’è solo una potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, che accentuano sempre più il loro dominio politico-militare; l’oggettiva debolezza della classe operaia, connessa alla disoccupazione, al precariato diffuso e ora anche al reddito di cittadinanza, smorza qualsiasi tentativo di opporsi ai disegni padronali (solo in Italia i lavoratori precari sono quasi tre milioni, senza contare il ‘continente sommerso’ del lavoro nero); la marginalità della sinistra di classe; la mobilitazione reazionaria della piccola borghesia e del sottoproletariato; il dispositivo ideologico sul superamento della dicotomia 'destra-sinistra / capitale-lavoro salariato', classico strumento di organizzazione del consenso e di corporativizzazione dei conflitti sociali, del tutto organico al processo di fascistizzazione (cfr. sulle origini storiche di tale dispositivo il classico saggio di Zeev Sternhell, "Né destra né sinistra", 1985). È cosa nota che, quando i lavoratori sono deboli nei luoghi di lavoro, è più facile l’affermarsi di un 'movimento / regime' apertamente autoritario, la cui sostanza è simil-fascista, anche se non si fregia di svastiche e di gagliardetti. Il fascismo non è un incidente di percorso della storia, esauritosi con la fine di Hitler e di Mussolini, né un semplice strumento delle classi dominanti, ma è un dèmone ìnsito nella natura stessa del capitalismo, e quando e dove ci sono le condizioni si ripresenta puntualmente. Diversamente, i colonnelli della Grecia del 1967, la dittatura di Videla nell’Argentina del 1972 e il Cile di Pinochet del 1973, oltre agli altri regimi sanguinari del Sudamerica di quegli anni, non ci hanno insegnato nulla. E nulla ci ha insegnato il colpo di Stato nazifascista avvenuto in Ucraina nel 2014. Ma veniamo alle vere determinanti dell’avvento e dell’azione del governo Lega-M5S, determinanti che sono di natura internazionale. Da questo punto di vista, occorre innanzitutto osservare che le contraddizioni, di cui Lega e Cinque Stelle sono espressione, non traggono origine solo dai contrasti della piccola e media impresa con i monopoli internazionali, ma anche da una divisione interna alle principali frazioni del grande capitale stesso, che si riflette nella scelta delle alleanze internazionali. In effetti, oltre ai gruppi dominanti che sono saldamente agganciati alla duplice prospettiva del mercato comune europeo e della fedeltà alla NATO vi sono settori che guardano con crescente interesse ad una prospettiva di cooperazione dell’Italia con la Russia, con la Cina e, più in generale, con l’area dei cosiddetti paesi BRICS. D’altra parte, la strategia di attacco frontale contro la Russia e l’Iran, praticata dal presidente nord-americano Trump, incide soprattutto sugli interessi di una parte del capitale europeo, che a causa delle sanzioni contro questi paesi vede posta a repentaglio la possibilità di ingenti profitti. Si tratta di un conflitto di interessi tra i grandi monopoli statunitensi e il capitale italiano ed europeo, che ha per oggetto l’interscambio commerciale e tecnologico con paesi importanti come la Russia, la Cina e l’Iran, e come vincolo costrittivo il “sistema delle sanzioni”. Ciò spiega l’orientamento sempre più deciso di alcuni settori della grande impresa italiana in direzione di mercati diversi da quello statunitense (si pensi al peso assai rilevante dell’interscambio tra Italia e Iran). Fermo restando che l’alleato politico-militare privilegiato del nostro paese sono gli USA, va comunque rilevato che la scelta di una differente dislocazione sul piano politico-economico rispetto al sistema delle alleanze tradizionali è ancora minoritaria fra i settori dominanti del capitale italiano, ma ha guadagnato molto terreno fra la media e la piccola borghesia le quali, sotto la sferza della crisi e a causa dell’assenza di un movimento operaio capace di esprimere una posizione autonoma, polarizzano e inglobano in questo orientamento anche ampi settori del proletariato. Indico infine quella che, secondo me, è l'unica risposta giusta alle due cruciali domande poste da Federico: quale che sia l’esito dello scontro intercapitalistico ed interimperialistico che è in corso, resta, comunque, fondamentale e vitale per il movimento di classe l’esigenza di preservare la propria autonomia rispetto alle diverse frazioni della borghesia capitalistica, rifiutando di accodarsi all’una o all’altra di esse e perseguendo l’unica politica che meriti di essere perseguita: l’unità di tutti gli sfruttati nella lotta contro il capitalismo, per il socialismo.
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Federico
Tuesday, 09 July 2019 20:57
Personalmente, da molti anni, ritengo che l'analisi (storico-materialistica) del conflitto tra frazioni di classe dominante sia il punto cruciale per comprendere la crisi. Considero corretta l'impostazione del testo di Azzarà, e in effetti la contrapposizione fra una "oligarchia mondializzata" e le piccolo-medie borghesie "reazionarie" la si vede in Italia come in Francia (vedi FN), in Olanda, in Gran Bretagna. La Lega tende a rappresentare meglio di altre formazioni i "perdenti della globalizzazione" che, pur situati in posizioni semi-dominanti (comandando quindi parti di classe lavoratrice), non hanno i mezzi (nemmeno culturali a dire il vero) per competere in un mercato allargato, ormai non solo all'Europa e al mondo transatlantico, ma al globo. In tutto questo, da un lato la classe lavoratrice, spezzettata abilmente da un quarantennio a questa parte proprio dagli strateghi della produzione transnazionale, manca di coscienza in modo disperante, dall'altro i "ceti medi riflessivi" sono egemonizzati dalle frazioni borghesi più potenti in modo talmente evidente da rendere impossibile, al momento, la formazione di un blocco storico contro-egemonico basato su quadri competenti e in grado di guidare le masse. Il punto secondo me è: da dove iniziare ad agire per ricreare un soggetto? Come inserirsi nel conflitto di cui parla Azzarà in modo da indebolire la frazione dominante senza farsi fagocitare dai nazionalpopulisti?
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