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voxpopuli

I compiti di questa fase storica di transizione

di Gianfranco La Grassa

us democracy1. In effetti, non sono uno storico anche se a volte affronto determinati momenti della nostra storia, in specie del secolo scorso, e mi piacerebbe molto che altri, ben più preparati al riguardo, approfondissero le questioni da me sollevate con tanta imperizia. Desidero qui punteggiare alcuni problemi, prendendo avvio da quanto avvenne in Germania negli anni ’30, quando venne a termine la Repubblica di Weimar, frutto della sconfitta subita dal paese nella prima guerra mondiale. Se la memoria non m’inganna, alcuni dei problemi cui accennerò sono affrontati secondo la direzione da me scelta quasi soltanto nel Behemoth di Franz Neumann, autore socialdemocratico di indubbio valore.

La suddetta Repubblica di Weimar era in quegli anni (caratterizzati dalla Grande Crisi del ’29) ormai corrotta e marcescente; e appariva preda delle manovre del grande capitale finanziario. Il 1933 è indicato “ufficialmente” come l’anno di uscita dalla crisi in questione; negli Stati Uniti la situazione sarebbe stata risolta – è quanto si sostiene pressoché unanimemente e senza ulteriori approfondimenti critici – dal New Deal di Roosevelt (eletto a fine ’32 e insediatosi appunto nel gennaio di quell’anno), una serie di misure di politica economica attuate tramite forte spesa statale (in deficit di bilancio) e costruzione di infrastrutture di notevole importanza; politica che è stata di fatto sistematizzata teoricamente da Keynes nel suo testo più famoso (1936). Il New Deal prese termine nel ’37, ottenne successi iniziali ragguardevoli in termini di occupazione e crescita economica. Tuttavia, ci si scorda che, già nel ’35 e soprattutto ’36 e ’37, si ha una fase di sostanziale stagnazione che perdura fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Quest’ultima fu la vera causa della risoluzione della crisi; e l’alta spesa legata ai bisogni bellici ne sarebbe stata solo motivo occasionale e risolutivo per pochi anni dopo la guerra, se da questa non si fosse usciti con un mondo bipolare e, nel cosiddetto campo capitalistico, con un predominio pressoché assoluto degli Stati Uniti, che faranno da regolatori di un ampio sistema di relazioni tra paesi ad alto stato di avanzamento economico e tecnico, tutti però nettamente subordinati (anche attraverso la Nato, che nasce nel ’49) alla superpotenza d’oltreatlantico. Torniamo però al 1933 e alla Germania che in quell’anno attraversò uno dei peggiori momenti della crisi. Non scordiamoci del resto che il paese fu in grave situazione nel dopoguerra fino al ’23; poi si ebbe un periodo di relativa stabilizzazione (ma non certo di adeguata crescita economica) e infine sopraggiunse lo choc del ’29 che non fu ben sopportato.

Da parte marxista, ma non solo, l’instabilità della Germania di Weimar fu quasi sempre attribuita al predominio pervasivo del capitale finanziario; soprattutto sotto l’influenza di un testo di Hilferding del 1910 (Il capitale finanziario), di indiscussa rilevanza in molti ambiti e a mio avviso assai sopravvalutato (ancora oggi). L’autore socialdemocratico austriaco si rifaceva al predominio del capitale bancario, poiché per lui finanziario significava in sostanza bancario. Si sostiene che il suo testo abbia influenzato decisamente il Lenin degli studi sull’imperialismo, scordandosi che quest’ultimo parlava almeno del capitale finanziario quale “simbiosi” di bancario e industriale pur dando molta importanza, ma non certo esclusiva, al primo. Detto per inciso, le tesi hilferdinghiane sembrano molto in voga anche oggi, e non certo solo presso i pochi marxisti rimasti. Soprassediamo tuttavia sulla discussione di questo errore di prima grandezza.

Credo si possa dire che la crisi del ’29, pur non essendone affatto la causa primaria (questa fu essenzialmente politica), ebbe influssi negativi sul definitivo sfacelo della Repubblica tedesca e sulla presa del potere da parte nazista. È qui che però non mi sembra ci siano analisi sufficientemente obiettive del successo hitleriano. Neumann, se ricordo bene, prese atto che certi teorici nazisti ripresero perfino le tesi di Hilferding di vent’anni prima, critiche verso il capitale finanziario e la corruzione che questo avrebbe indotto; mentre invece i socialdemocratici degli anni ’20 e ’30 erano ben coinvolti nel marciume di quella forma politica e sociale giunta allo sfascio nel ’33. Bisogna dire con estrema franchezza che i nazisti non rappresentavano la finanza, bensì l’industria (i Krupp, i von Thyssen, ecc.); e che fra la presa del potere all’inizio del ’33 e il Congresso di Norimberga dell’autunno ’34 (un anno e mezzo o poco più) si esercitò un forte impulso all’uscita dalla crisi. E non semplicemente incrementando l’industria bellica, anche questa è una semplificazione “di parte”. Inutile raccontarsi frottole. Non si vince con la semplice ideologia o il solo uso della violenza; è necessario individuare correttamente le contraddizioni (in specie quelle tra gruppi di élite dominanti) presenti nella società, contraddizioni che coinvolgono pesantemente, in date congiunture storiche, le più larghe masse popolari.

Nel mentre i nazisti davano forte impulso allo sviluppo germanico, in Francia si ebbe il fin troppo glorificato Fronte Popolare, che mise in luce tutte le debolezze delle strutture sociali e politiche del paese. Perfino sul piano della tanto decantata “unità antifascista” ci si accorge facilmente di quanta retorica si sia usata a tal proposito, tenuto conto che quel governo francese (durato dal ’36 al ’38, quindi assai poco), e le forze che quell’“unità” avrebbe dovuto mobilitare, portarono alla “propria” parte nella guerra civile spagnola di quegli anni un aiuto di ben scarsa rilevanza. Tanta superficiale e perfino infantile esaltazione in film, in scritti letterari, ecc., ma poco di effettivamente utile ed efficace nella concreta guerra civile spagnola.

Il vero fatto è che non ci fu quel prorompente entusiasmo popolare di cui si favoleggiò a lungo (per l’impegno fantasioso di gran parte del ceto artistico e intellettuale); e le forze antifasciste alleate si dedicarono, come al solito, a quella micragnosa alchimia politicante interessata alla suddivisione degli spazi di potere. In realtà, quella impropria alleanza (una pagina da scordare proprio per i comunisti) preparò la debolezza francese, manifestatasi sia al momento delle Conferenze di Monaco (del ’38) sia, ancor più, poco dopo con la subitanea sconfitta subita ad opera della Wehrmacht. Non parliamo poi del successivo non indifferente appoggio fornito da larghi settori sociali medi francesi (anche piccolissimo-borghesi) alla Repubblica di Vichy, come messo lucidamente in scena nel notevole film documentario di Marcel Ophüls, Le chagrin et la pitié (1969), duecentocinquanta minuti di impietosa demistificazione della retorica antifascista (e gollista) di una Francia tutta “resistente” di fronte al nazismo.

È appunto ora di riscrivere un po’ la storia per afferrare meglio la futilità degli appelli antifascisti, “antirazzisti” (il buonismo dell’integrazione con chiunque) e di tutte le altre demagogiche operazioni della “sinistra” odierna, che nemmeno protesta più, come faceva debolmente un tempo, contro il parassitismo finanziario, cioè bancario, portando nel contempo a fondo la privatizzazione dell’industria di Stato e mantenendone solo ancora alcuni brandelli in quanto canale di possibili finanziamenti. Il tutto accompagnato da fenomeni di corruzione assai più gravi e meschini di quelli della prima Repubblica.

 

2. Non insisto oltre perché quanto scritto fin qui mi serviva soprattutto a far meglio comprendere le conclusioni cui sono ormai giunto, e non senza molti pensamenti e ripensamenti. Conclusioni, d’altronde, che mancano ancora di molti tasselli, appunto di riconsiderazione storica, in grado di meglio guidare nelle prese di posizione future quando, si spera, quest’epoca – a mio avviso di vera transizione verso qualcosa di non ancora definito – sarà giunta alla decantazione di nuove forme dei rapporti: sia tra paesi vari sia tra raggruppamenti sociali e forze politiche all’interno di questi.

Dell’epoca ormai passata da tempo, anche se ancora non se ne prende atto in modo adeguato, tengo ben fermo il giudizio positivo sulla Rivoluzione d’Ottobre e dunque su una serie di effetti e risultati che ne sono conseguiti. Tuttavia, non la considero più una rivoluzione “proletaria”, una sorta di avvio in direzione della società “socialista”, primo gradino di quella “comunista”. Tale convinzione è stata un vero abbaglio legato alla crescita del cosiddetto movimento operaio, alla fine dimostratosi solo capace di lotta sindacale per migliori condizioni di vita e di lavoro, non certo di realizzare la rivoluzione, pensata da Marx e dai suoi seguaci, dei rapporti sociali (di produzione, cioè di proprietà dei mezzi di produzione). Ho già spiegato più volte i motivi, per null’affatto utopistici, per cui Marx aveva pensato alla classe operaia («dal dirigente all’ultimo giornaliero», cioè dalle alte funzioni direttive a quelle soltanto esecutive nell’ambito dei processi di produzione) quale motore di una grandiosa e definitiva trasformazione sociale. I dirigenti del successivo movimento operaio, divisosi assai presto in correnti riformiste e rivoluzionarie, avevano di fatto trasformato la concezione marxiana di classe operaia riducendo quest’ultima al lavoro più che altro esecutivo nelle fabbriche. Al massimo con qualche specializzazione, ma insomma ben lontana da ruoli direttivi.

Lenin ebbe chiara visione che tale classe, “in sé”, non aveva coscienza dei suoi compiti rivoluzionari. Si prendano questi passi del suo Che fare? (1902), assai netti in proposito:

La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia con le sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai. La dottrina del socialismo [il marxismo; ndr] è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi [………] La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi.

Questa lucida considerazione della classe operaia, non più pensata nei termini dell’«associazione dei produttori» di cui aveva trattato Marx (ad es. nel cap. XVII del III libro de Il Capitale), impediva di crederla capace di una qualsiasi egemonia (anche culturale) nel corso di un autentico rivoluzionamento dei rapporti sociali; egemonia di cui era invece stata protagonista la borghesia (con una sua costellazione di intellettuali) nella trasformazione del sistema feudale dei rapporti sociali. Per cui, nella rivoluzione definita “proletaria”, era necessaria la formazione di una élite dirigente – in grado di attuare le strategie più adeguate alla transizione da una forma di società all’altra – che era facile diventasse, com’è diventata, un nuovo gruppo sociale dominante.

In Marx le classi antagoniste (e protagoniste di una gigantesca lotta durante la preparazione della transizione alla formazione sociale prima socialista e poi comunista) erano solo due, fondate sulla proprietà (potere di disposizione) o non proprietà dei mezzi indispensabili al processo di produzione: appunto la borghesia (classe capitalistica) e il proletariato (classe operaia, considerata nel suo aspetto di complesso dei produttori, direttivi ed esecutivi, che hanno da vendere come merce soltanto la propria capacità lavorativa, cioè la forza lavoro). Lenin ha in pratica ragione in quanto scrive, ma non si accorge (e non ce ne siamo accorti nemmeno noi per un secolo) che il partito – innalzato al ruolo di semplice “avanguardia” della classe “in sé” rivoluzionaria e tuttavia del tutto inconsapevole di esserlo – è soltanto una bella invenzione, utile nel processo rivoluzionario ma non certo a conseguire le finalità dell’agognato “socialismo” quale fase di transizione al comunismo. In ogni caso, nessun comunista e marxista serio dei tempi che furono ha mai sostenuto che il comunismo fosse stato realizzato in una qualsiasi parte del mondo; si parlava al massimo di «costruzione del socialismo». Solo anticomunisti, faziosi e perfettamente ignoranti, possono ancor oggi definire la Cina “regime comunista”.

La rivoluzione bolscevica del 1917 ha avuto un seguito sociale essenzialmente contadino; e ha conosciuto poi altri successi in paesi con struttura sociale ancor più di questo tipo e soggetti ad una subordinazione coloniale o comunque con forti aspetti di dipendenza dai paesi arrivati ad una più avanzata fase capitalistica. In questi ultimi esisteva effettivamente la classe operaia (non i «produttori associati dall’ingegnere all’ultimo giornaliero») del tutto inconsapevole, appunto, d’essere caricata di compiti di transizione a socialismo e comunismo. La Rivoluzione d’Ottobre corrispose nei fatti alla concezione leniniana d’imperialismo, critica di quella kautskiana che lo faceva coincidere con il mero colonialismo. Per Lenin, l’imperialismo era invece la catena che legava i paesi capitalistici spingendoli ad una reciproca lotta per le sfere d’influenza; catena che poteva essere rotta rivoluzionariamente nell’«anello debole», in cui si fosse verificata una grave crisi della classe dominante e il crollo delle sue istituzioni. Tale situazione si verificò, nel corso della prima guerra mondiale con i suoi eventi traumatici, nella Russia zarista (tutt’altro che capitalisticamente “avanzata”); ed è qui che, a mio avviso del tutto giustamente, Lenin avviò la rivoluzione cogliendo il momento favorevole. Solo che pensò nei termini di semplice detonatore della rivoluzione proletaria nei paesi in cui ancora la classe operaia si manteneva largamente su posizioni tradunioniste (si legga il finale de La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky del novembre 1918). Quella rivoluzione dilagò invece – ma dopo la seconda guerra mondiale, che chiuse veramente il periodo di crescente multipolarismo (tra 1870 e prima guerra mondiale) e di policentrismo conflittuale acuto (da quest’ultima al 1945 appunto) – nei paesi a dipendenza coloniale o simil-tale.

Ne è derivato comunque un autentico mutamento del mondo, un completo rivolgimento nei rapporti internazionali tra paesi vari con nuove forme di dipendenza (si pensi a quella europea, e italiana, dagli USA) e con nascita di nuove potenze (tipo URSS) poi crollate miseramente proprio perché inseguivano impropriamente finalità impossibili da raggiungere. E via dicendo; non insisto qui perché c’è un’analisi quasi tutta da fare. Ne derivano tuttavia già oggi alcuni insegnamenti, pur ancora in forma rozza e di primo approccio, onde non incorrere in ulteriori errori del tipo dell’alleanza “antinazifascista” degli anni ’30 del secolo scorso, dove i pretesi comunisti – in gran parte legati sinceramente alla credenza di poter rivoluzionare il mondo nel senso di allargare l’area della «costruzione del socialismo» – si allearono con l’espressione politica (socialdemocratica) di quella classe operaia, di cui Lenin aveva compreso l’incapacità di andare oltre la lotta per una diversa distribuzione del reddito prodotto capitalisticamente. L’unico effettivo risultato di quell’alleanza, pur favorita dai simmetricamente contrapposti madornali errori compiuti da fascisti e nazisti, è stato di aver offerto su un piatto d’oro alla formazione sociale di tipologia statunitense – da me definita degli «strateghi del capitale»; non più della borghesia «proprietaria dei mezzi produttivi» secondo l’analisi marxiana con riferimento alla società inglese – l’occasione di una netta vittoria storica che peserà ancora per un certo periodo di tempo pur essendo, a mio avviso, in fase di trasformazione nella nuova epoca che avanza.

 

3. Venendo ai giorni nostri, non si commetta più l’errore di dar qualsiasi credito a organizzazioni politiche che si dichiarano di “sinistra”, progressiste, antifasciste, ecc. attaccando gli avversari dichiarati di “destra” e per ciò stesso automaticamente fascisti o quasi tali. Oggi l’antifascismo è la via maestra di tutti i migliori servi della predominanza statunitense in Europa e, in modo del tutto particolare, in Italia. Di conseguenza tale antifascismo – e il progressismo, il continuo cedimento ad ipocrisie “buoniste”, ecc. – è del tutto negativo e va combattuto con decisa radicalità. Fino a quando non lo si farà, non si supererà l’impasse venutasi a creare dopo il crollo del mondo bipolare (con la dimostrata impossibilità di una effettiva costruzione socialistica), che ha condotto quelle forze, un tempo legate o vicine all’URSS, su posizioni particolarmente piegate al servilismo verso la superpotenza USA; e dopo un lungo periodo di gestazione del “tradimento”, iniziato ben prima dell’implosione “socialistica” (per il PCI, alla testa del sedicente eurocomunismo, ho parlato più volte di fine anni ’60, inizio ’70).

Va detto, senza mezzi termini che oggi “sinistra” e “destra” (definizioni ormai improprie) sono al servizio dei due schieramenti che si trovano oggi in acuto conflitto negli USA in merito alla strategia da seguire nel tentativo di mantenere la loro supremazia, messa in netta discussione (ma non dai paesi della UE e nemmeno dall’Inghilterra). Di conseguenza, anche le forze politiche dette di “destra” sono fortemente invischiate nella ricerca di supremazie elettorali sulla base dell’accettazione di una “democrazia” simile a quella in uso negli Stati Uniti, che funziona per una serie di condizioni particolari su cui qui non mi soffermo; e che comunque non garantiscono al momento null’altro che il predominio, pur se al momento in una certa crisi, di tale paese. Vorrei anche ricordare che esso “esporta” una simile democrazia con metodi fondati sulla sua potenza d’insieme e su aggressioni portatrici di distruzione e di vasti massacri; da sommare a quelli, a decine di milioni, dei nativi americani, da cui è nata questa nazione.

In conclusione, allora, non si prendano più in considerazione quelle forze, ormai ridotte all’osso, che ancora continuino con la tiritera della lotta di classe, del socialismo e comunismo. Non esiste la «Classe Operaia»; mai esistita, solo operai di fabbrica, capaci un tempo di difendere e migliorare – e giustamente, sia chiaro – le loro condizioni di lavoro e di reddito, senza intenti rivoluzionari, nemmeno nelle condizioni di una certa intensità della lotta durante i primi periodi di trasformazione del sistema socio-economico dall’agricoltura all’industria e quindi della condizione sociale di contadino in quella di operaio. Nella presente fase storica neppure questa lotta tradunionistica (di cui parlò Lenin) ha più grande impulso e vigore. La situazione complessiva è tale da rendere necessaria – per l’attuale periodo storico; dunque in attesa che l’epoca di transizione volga verso forme sociali meno fluide e opache di quelle odierne – una speciale attenzione alla situazione internazionale, cioè alle relazioni intercorrenti tra l’unica superpotenza rimasta e altre che sono comunque in crescita, pur con varie difficoltà.

Indubbiamente, si notano nei vari paesi gruppi sociali e organismi politici con differenti obiettivi perseguiti. In genere, si tratta però di differenze interne a quelle che potremmo definire forze dominanti. Nella (super)potenza ancora preminente – e, in un certo grado, in quelle che si stanno progressivamente rafforzando in senso ad essa antagonistico – le divergenze tattiche o anche strategiche vertono soltanto sui metodi e forme da impiegare per conseguire scopi comunque simili fra loro. Negli USA, ad es., nessuno mette in discussione il tentativo di restare il primo paese in termini di forte influenza mondiale complessiva. E così pure avviene, mi sembra almeno, in Russia e in Cina; e forse anche in altri paesi che mirano ad una reale autonomia e potenza propulsiva propria. Nei paesi da definirsi subpotenze (regionali in definitiva), e ancor più (e peggio) in quelli incapaci di vera autonomia (soprattutto rispetto agli Stati Uniti; penso alla UE e all’Italia in specie), vi è soltanto conflitto per attribuirsi la migliore considerazione possibile e il massimo aiuto da parte del paese predominante.

In ogni caso, dunque, sia che ci si batta per una maggiore autonomia e crescita della propria forza sia che si cerchi semplicemente di essere i “migliori servi” (i più graditi ai “padroni”), la politica interna ai vari Stati è sempre influenzata nettamente da quella esterna, “internazionale”. Per questo, ha oggi una notevole vitalità la geopolitica. Non sono un patito di tale disciplina, anzi mantengo un attaccamento al marxismo precisamente sul punto dell’importanza maggiore da attribuire alla struttura dei rapporti sociali nei vari paesi. Tuttavia, devo prendere atto che è ormai obsoleta – e per molti versi era una grave semplificazione fin dall’inizio – la divisione dicotomica stabilita da Marx (e peggiorata dai suoi successori) in borghesia e proletariato, con riferimento decisivo alla sfera sociale produttiva. Oggi, e anzi già da lungo tempo, tale divisione in “classi” non ha più molto senso. Nell’epoca di transizione in cui ci troviamo, è sciocco voler scimmiottare quella teoria con nuove dicotomie, al momento non visibili. Non c’è ancora alcuna effettiva decantazione sociale che ci consenta un minimo di orientamento non dipendente da categorie teoriche ormai superate. Per questo ci si deve limitare, certo provvisoriamente, al contrasto tra Stati, alle loro relazioni complesse e in fase di complicazione a causa del tendenziale (lento e tortuoso) avviarsi del “multipolarismo”; e si deve prestare la massima attenzione alle forze dominanti interne ai vari paesi (autonomi e non, con diversi gradi di dipendenza fra loro) e ai loro obiettivi, spesso confusi più o meno come le nostre idee in merito.

 

4. Venendo più specificamente al nostro povero paesello, bisogna ben dire che, pur non essendo mai stato (per ragioni oggettive) una vera potenza, ha avuto una sua notevole forza economica – è arrivato ad acquisire la quinta o sesta posizione industriale nel mondo – ed anche una qualche dignità, pur spesso vacillante, durante la prima Repubblica. È inutile pensare che, dopo la guerra e tenuto conto dei patti di Jalta, l’Italia potesse avere reale autonomia o passare sotto l’influenza dell’URSS o anche soltanto mantenere la posizione della Jugoslavia dopo la sua rottura con il Cominform (istituito nel 1947, come sostituto del Comintern cessato nel ’43, e sciolto esso stesso nel 1956), da cui quel paese uscì nel ’48. Eravamo destinati all’atlantismo e nel ’47 il PCI fu buttato fuori dal governo di unità nazionale, dopo il viaggio di De Gasperi negli USA il gennaio di quell’anno. Con la creazione della NATO è indubbio che la presa statunitense sull’Europa occidentale si accrebbe. Ciononostante, pur servili come sempre, i governanti italiani della prima Repubblica non raggiunsero lo sconcio dei successivi (dopo la “sporca” operazione detta “mani pulite”) con in testa proprio gli eredi del vecchio PCI, già in fase di voltafaccia (pur segreto) a partire dalla fine degli anni ’60-inizio ’70; tuttavia con forti settori ancora filo-sovietici per tutti gli anni ’70, malgrado le critiche rivolte a questo paese per l’assenza di “democrazia”.

Con il governo di pochi anni fa, quello del “bamboccio fiorentino”, abbiamo invece raggiunto un alto livello di vergognosa dipendenza dai “padroni” americani, che si accentua pur con l’attuale conflitto tra gruppi dominanti in quel paese. Uno dei sintomi dell’italico degrado servile è stato lo smantellamento di gran parte del settore pubblico dell’economia. Non ci s’illuda con l’affidamento di certe imprese pubbliche al controllo della Cassa Depositi e Prestiti. Imprese come Eni e Finmeccanica non hanno più quella forza e autonomia d’un tempo. Ho chiarito in altra occasione che non deve intendersi il “pubblico” come destinato a curare gli interessi generali d’una società nazionale. Un’impresa pubblica deve agire da impresa proprio come quella privata. Bisogna però riandare alla storia della costituzione del settore economico “pubblico” italiano, con il salvataggio statale delle grandi banche di interesse nazionale nel ’33 e la costituzione dell’IRI, che salvò pure numerose imprese industriali. Tale importante Istituto fu mantenuto dopo la guerra, preso in mano dalla DC e rafforzato proprio con Finmeccanica (’48), Eni (’53) e infine l’Enel (nazionalizzazione di tutte le imprese produttrici d’energia elettrica alla fine del 1962), che rappresentò la fase d’avvio dell’alleanza di centro-sinistra, che porterà al suo primo governo, premier Aldo Moro, nel dicembre nell’anno successivo.

Di fatto, per queste ragioni storiche il settore “pubblico” è stato fortemente legato all’andamento delle vicende governative democristiane (e poi pure socialiste), che hanno svolto certe politiche (ad es. mediorientali) non del tutto ortodosse in termini atlantici. Al contrario, l’industria privata italiana è stata sempre il nucleo forte del “disinteresse nazionale”; già a partire dalla seconda guerra mondiale, in cui l’8 settembre ’43 fu largamente preparato dai contatti di questi settori industriali con il “nemico” (soprattutto a partire dalla fine del 1942). Negli anni ’70, i settori industriali in questione strinsero patti con la DC di “sinistra” e settori del PCI (quelli divenuti dirigenti nel partito). Come momenti significativi di detta “svolta” ricordo il patto Agnelli-Lama sulla scala mobile (gennaio 1975) e il lancio di Repubblica (14 gennaio 1976) – organo degli interessi di tali ambienti industriali – che divenne giornale assai influente; mentre in precedenza aveva notevole rilevanza Il Giorno (lanciato nell’aprile 1956: 51% dell’ENI di Mattei e 49% di Cino Del Duca), che fu di fatto “voce” del settore pubblico. Potrei anche ricordare, come fatto altre volte, il rapimento e uccisione di Moro e il concomitante viaggio di Napolitano negli Usa (1978). Comunque, l’essenziale è che negli anni ’70 inizia il declino dell’industria pubblica, in continua perdita di forza rispetto a quella privata; e, guarda caso, si accelera quel voltafaccia del PCI che, certamente, dovette attendere il crollo del “campo socialista” europeo per perfezionarsi.

Ricordiamo i passi salienti della svolta piciista finale: nel 1989 si dissolve il sedicente socialismo in tutta l’Europa orientale e nel 1991 cessa di esistere l’URSS; e la successiva Russia perde buona parte delle sue Repubbliche e non è più la «sesta parte del mondo». Nel ’92 può così partire in Italia “mani pulite”, mossa ben aiutata dal paese “padrone” d’oltreatlantico, che tenta il cambio di regime annientando la DC – salvo la cosiddetta “sinistra”, che diverrà serva fedele in quanto appendice del post-PCI, divenuto PDS e il migliore punto d’appoggio italiano degli USA come ben si vedrà nell’aggressione alla Serbia del 1999 con il governo D’Alema – e il PSI di Craxi, costretto all’esilio. Tale cambio di “servitori” (i “fu piciisti” diverranno da allora i più proni ai voleri statunitensi) non riuscì bene a causa dell’improntitudine di costoro, che spinsero ad entrare in campo Berlusconi – raccoglitore dei voti di diccì e socialisti infuriati per la distruzione giudiziaria dei loro partiti mentre il PCI veniva di fatto quasi ignorato – con la lunga storia che, tramite ulteriori peggioramenti, dura tuttora.

Proprio per le ragioni storiche appena ricordate, un’inversione di tale ignobile processo della nostra avvilente sudditanza richiederebbe un forte interessamento dello Stato alle vicende anche economiche; tuttavia, come semplice supporto di politiche assai vigorose in senso indipendentistico. Un nuovo rafforzamento, e allargamento, del settore imprenditoriale pubblico sarebbe rilevante anche perché, appunto per le suddette ragioni storiche, è in esso che si sono sviluppate importanti iniziative in settori strategici. Queste ultime dovrebbero quindi essere rilanciate e ampliate, tenuto proprio conto della tradizionale arrendevolezza del mondo imprenditoriale privato ad interessi stranieri, alla sua quasi vocazione di “tradire” continuamente quelli nazionali.

Fra le condizioni senza dubbio necessarie ad un nuovo slancio impresso al suddetto settore pubblico – ma in vista di una politica internazionale del tutto opposta a quella seguita più o meno sempre dall’Italia, e ancor più dopo la fine della prima Repubblica – vi dovrebbe essere una forte spinta impressa alla ricerca scientifico-tecnica (fra l’altro trattenendo fior di giovani scienziati che fuggono in altri paesi) e alle principali e moderne innovazioni, soprattutto di prodotto. Occorrerebbe un management industriale di prima qualità e coraggioso (diciamo pure sul tipo di Mattei); non solo quindi aziendalmente capace ma soprattutto aduso a seguire direzioni strategiche adeguate allo scopo competitivo con i settori avanzati di altri paesi sviluppati, ivi compresi gli USA. Un management inoltre ben collegato con gruppi di agenti politici decisi a rafforzare quel sistema di apparati cui si dà il nome di Stato. Bisognerebbe arrivare all’indebolimento dei settori privati, del tutto infidi; meno tramite aperte e ulteriori nazionalizzazioni (da riservare appunto ai settori strategici) quanto invece attraverso misure combinate di facilitazioni e ostacoli frapposti alle loro iniziative imprenditoriali in modo tale da spostare il centro di gravità degli sbocchi commerciali (e anche degli investimenti) verso le aree meno soggette all’influenza USA.

Non meno rilevante diventa l’obiettivo decisivo della spesa pubblica. Non va lesa quella diretta a fini sociali con la scusa di diminuire la fiscalizzazione; che deve certamente essere ridotta, lasciando però perdere gli obblighi europei in tema di debito pubblico, deficit di bilancio, ecc. Nemmeno, tuttavia, va esaltata la spesa pubblica in sé. Vanno comunque almeno ricordati il New Deal e la successiva opera teorica keynesiana – di cui oggi c’è una ignoranza del tutto incredibile – ma non si deve credere che tale politica economica risolse del tutto la crisi del ’29-’33; essa fu senz’altro alleviata ma, come già rilevato più volte, solo la guerra ottenne simile risultato definitivo. Lo sviluppo può essere trainato dalla domanda – quella pubblica nella crisi economica poiché la privata diventa carente – ma ciò non è sufficiente a dare stabilità allo stesso. Le maggiori difficoltà economiche, di cui è segnale la scarsa crescita (e poi la diminuzione) del tanto nominato Pil, dipendono essenzialmente dall’acutizzarsi del multipolarismo, con la progressiva fine di ogni centro in grado di regolare almeno parzialmente e temporaneamente la dinamica complessiva del “mercato”, di cui gli invecchiati e ritardati neoliberisti predicano ancora nella sostanza le virtù taumaturgiche della smithiana “mano invisibile”. Come detto più volte, l’attuale crisi (iniziata nel 2008 e per null’affatto finita, anche indipendentemente dall’attuale pandemia) assomiglia alla lunga stagnazione del 1873-96; non scevra da crescite contenute e differenziate da area ad area, da paese a paese.

Il compito assillante non è la crescita (del Pil appunto) quanto invece lo sviluppo, nel senso del mutamento strutturale del paese secondo la finalità strategica di una superiore capacità competitiva, in grado di conseguire in tempi non lontani ottimi successi sul piano internazionale, inserendosi a pieno titolo nell’accentuarsi del multipolarismo. Quindi, non soltanto “la spesa per la spesa” al fine di aumentare la domanda; bensì una spesa ben qualificata nella direzione della forte spinta (precisamente “pubblica”) al rafforzamento dei settori d’avanguardia, quelli appunto strategici. Sarebbe però necessario spazzare via l’attuale mediocrissimo e servile personale definito (impropriamente) politico. Al potere dovrebbe andare – e senza tanti complimenti e perdite di tempo “democratiche”, cioè sempre alla ricerca di voti d’opinione da coloro che di opinioni ne hanno poche e non sanno nemmeno organizzare la propria vita privata – un solido gruppo assai deciso ad incrementare la politica proiettata verso l’estero, la potenza diretta al conflitto per le sfere d’influenza, che fa da battistrada alla competizione di tipo detto economico; quella predicata da perfetti sciocchi (e anzi dementi) neoliberisti, che non sanno quanta politica occorra per vincere nel “mercato”.

È evidente la necessità di risanare completamente una serie di apparati di Stato: in primo luogo i “Servizi” e subito dopo quelli militari e polizieschi, che non devono più dipendere così strettamente da organismi legati alla supremazia mondiale degli Stati Uniti. Bisogna poi avere le idee chiare sul problema degli istituti finanziari. Non so se in buona o cattiva fede, mediocri economisti si affannano a descriverci la loro negatività, cercando di convincerci che siamo comandati da una “cattiva” massoneria internazionale di finanzieri. La finanza è puro strumento in un sistema fondato sulla generalizzazione degli scambi mercantili che esigono il loro duplicato nella circolazione del denaro. Tuttavia, laddove il governo e gli apparati statali sono in mano a gruppi politici scadenti e puramente dipendenti da altri Stati (in Italia, dagli Usa), è evidente che la finanza – sia nazionale che internazionale, tipo FMI o BCE e via dicendo – viene lasciata con le mani libere purché assicuri, tramite vari giri e rigiri estremamente difficili da seguire, la disponibilità di mezzi al fine di dare mance e mancette a dati settori sociali (cercando di dividerli e metterli in contrasto fra loro) e di corrompere alcuni gruppi di faccendieri (interni ed esteri) sempre al fine di galleggiare al potere. Quest’ultimo è solo un potere derivato, in ultima analisi, da quello dei “padroni” d’oltreoceano; oggi divisi in due anche nell’appoggio a settori diversi dei loro servitori europei. Ovviamente, va da sé, le disponibilità finanziarie servono inoltre ad ottenere qualche successo nella questua dei voti.

 

5. Credo sia inutile continuare a lungo con l’elenco di queste necessità; e dei falsi obiettivi che si pongono invece i pessimi governi di paesi dipendenti come il nostro. Le conclusioni sono facili da trarre per qualsiasi lettore attento. Sarebbe urgente imboccare una strada del tutto diversa da quella seguita in Italia (e in Europa) dalla fine della seconda guerra mondiale. Non esiste più il mondo bipolare, dove comunque il polo detto socialista non era aperto a nessuna prospettiva futura di nuova “formazione sociale” adatta ad una diversa epoca. Eppure si continua con tutti i vecchi ideologismi e le sclerotizzate impostazioni della cosiddetta scienza sociale come se nulla fosse accaduto. Certe tesi sono ormai logore e producono solo effetti negativi. Inoltre, la storia non ci viene raccontata con un minimo di rimozione di reiterate menzogne o magari anche di oneste speranze deluse. Abbiamo una lunga strada davanti a noi per rinnovarci almeno un po’.

Due sono comunque gli ostacoli maggiori, dal punto di vista politico e ideologico. Innanzitutto, la credenza del governo voluto dal popolo, che viene chiamato ogni tanto – e senza sapere nulla della strategia politica vera e propria che si sta sviluppando nel mondo e nel proprio paese – ad esprimere dei giudizi su forze politiche che, logicamente in una simile situazione, sono andate deteriorandosi sempre più, giungendo oggi ad un livello di disfacimento tale da distruggere l’organizzazione sociale (e la stessa cultura e forse perfino la civiltà) della nostra area europea. Gli Stati Uniti, a partire dal regolamento dei conti interno del 1861-65, sono via via divenuti la prima potenza mondiale. Inoltre, sono una nazione da considerarsi di recente formazione; e fin dall’inizio è stata un coacervo di nazionalità, etnie, culture, diverse e spesso in feroce contrasto fra loro (ancora adesso non mi sembra ci sia un vero amalgama). In tale situazione (di potenza e di miscuglio), quel tipo di (falsa) democrazia non danneggia la politica; non sempre svolta da personale eccelso, ma pur sempre supportata da una forza, in specie militare, di notevole livello. Tanto più che una buona parte dell’elettorato non vota e vi sono due partiti non molto differenti e che hanno visioni strategico-tattiche non troppo diversificate e con un obiettivo comune: mantenere la preminenza mondiale del proprio paese. Il conflitto tra due establishment, che si è fatto oggi più acuto, segnala semmai un certo declino di quel paese e quindi una maggior difficoltà nell’individuare le strategie adatte alla nuova situazione internazionale.

Qui – in un’Europa succube appunto degli Stati Uniti; in particolare nel nostro paese ridotto a loro base geografica operativa – voler scimmiottare la “democrazia” americana ha condotto ad un degrado e ad una insipienza politica di cui si ha difficilmente ricordo in altre epoche. Si possono anche mantenere le votazioni, ma bisognerebbe trovare una formulazione istituzionale adeguata; per cui si tratterebbe effettivamente di semplici sondaggi d’opinione, nel mentre si metterebbe in funzione un organismo governativo capace di compattezza e di visione più ampia dei problemi sorti qualora mutasse il nostro atteggiamento di subordinazione e ci si aprisse a contatti (mantenendo piena autonomia) verso altre potenze in crescita, con accentuazione del multipolarismo.

Il secondo ostacolo che deve essere superato riguarda la politica interna, soprattutto con riferimento al conflitto cosiddetto sociale. Secondo me, va mantenuto un accettabile livello di svolgimento di quest’ultimo, senza troppo ledere l’intenzione dei maggioritari gruppi sociali – potremmo definirli “non decisori” invece che dominati e tanto meno oppressi o sfruttati, definizioni oggi da abbandonare – di difendere e migliorare, ai limiti del possibile, la loro situazione di reddito, di lavoro, ecc. Deve tuttavia essere superata senza più deleterie nostalgie – in questa fase di transizione ad una ormai sicura nuova epoca della società, dai connotati ancora poco conosciuti – la vecchia vocazione ad una lotta per la trasformazione radicale della società. Non è per nulla chiaro a quali decantazioni arriveremo in tema di strutturazione di nuovi strati sociali, quelli che un tempo si definivano “classi”. In modo fra l’altro improprio perché in quella definizione ci si rifaceva, piaccia o meno, al marxismo; e in tale teoria le classi erano precisamente stabilite in base alla proprietà o non proprietà dei mezzi di produzione ed erano quindi fondamentalmente due, entrambe situate nella sfera economica (produttiva) della società e nettamente, irriducibilmente, antagoniste fra loro (anche magari solo “in potenza”).

Quell’epoca è tramontata da un bel po’ e mantenerne, sia pure in forma edulcorata (e chiaramente peggiorata) gli sfizi ideologici, è esiziale. Per alcuni decenni – finché durerà la transizione – dovremo abituarci a dare la massima importanza alla politica internazionale, in cui la si smetta con le balle delle massonerie transnazionali che tutto comanderebbero. Gli Stati nazionali esistono pienamente; solo che alcuni mantengono un grado sufficiente di autonomia e altri sono in mano a governi soggetti al predominio altrui; con una vera filiera di livelli di subordinazione e con un principale paese predominante, gli Stati Uniti. In questa fase storica è stolto (e reazionario) continuare a parlare di lotta anticapitalistica, anche perché in questa dizione diventiamo tutti dei volgari economicisti. Non esiste IL CAPITALISMO, ma solo le forme generali dell’impresa e del mercato (assai diversamente organizzate nei differenti paesi e aree mondiali), che sono quelle enucleatesi nella fase di transizione dalla società feudale a quella borghese e che hanno poi conosciuto, nel secolo XX, molteplici modificazioni nelle varie formazioni sociali da esse caratterizzate.

Ci si rassegni oggi – provvisoriamente ma “essenzialmente” – a tener conto del formarsi delle diverse articolazioni internazionali tra i vari Stati, con differenti livelli di maggiore o minore autonomia o invece di subordinazione rispetto ad uno Stato centrale. E si lotti essenzialmente per il multipolarismo. Si tenga ben conto della legittimità della lotta dei “non decisori” per migliori condizioni di vita. Tuttavia, e diciamo purtroppo, tale legittimità ha limiti ben precisi posti dall’obiettivo principale che si pone sul piano internazionale. E anche all’interno dei vari paesi – differenziati in base a gradi diversi di autonomia o subordinazione – diventa decisiva la lotta tra gruppi politici più o meno indipendentisti o invece servili nei confronti di quella potenza, gli USA, che è oggi il punto di riferimento obbligato per l’azione degli altri Stati: sia di quelli guidati da gruppi servili alla suddetta potenza e sia di quelli che si pongono l’obiettivo dell’autonomia e del conflitto via via più acuto con questo paese preminente e terribilmente prepotente.

Chiunque voglia oggi porre in primo piano la lotta tra strati sociali (non classi, basta inganni) o qualsiasi altra lotta sociale – solo però se e quando con ciò si ostacoli l’azione di rafforzamento di dati Stati in direzione della propria autonomia, con conseguente accentuarsi del multipolarismo – va contrastato senza esitazioni, non tenendo in gran conto l’“opinione pubblica” più o meno frastornata da gruppi politici succubi del paese “centrale”. È necessario si capisca qual è la scelta cruciale nella presente fase storica, che non è certo eterna bensì di transizione; tuttavia non breve.

Comments

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Francesco Zucconi
Thursday, 30 April 2020 00:54
Perfetto! Finalmente qualcuno
che capisce veramente
ciò che sta succedendo. La necessità
di rafforzare le strutture e la qualità degli
apparati dello Stato degli italiani,
per promuoverne maggiore,
totale, autonomia è una guerra che
oggi si potrebbe vincere facilmente,
se non si fosse ancora in preda a
retoriche resistenzali antifasciste, di fatto,
quindi filo-atlantiche e anti-italiane...
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