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Lenin e l'imperialismo come categoria economico-politica

di Guido Ricci

Lenin legge Pravda 400x267«Non abbiamo bisogno di infarcire le menti, ma dobbiamo sviluppare e perfezionare la memoria … con la conoscenza dei fatti fondamentali, perché altrimenti il comunismo si trasformerà in una parola vuota, in una semplice insegna e il comunista non sarà che un millantatore se nella sua coscienza non saranno elaborate tutte le nozioni che gli sono state date. Queste nozioni non soltanto dovete impararle, ma impararle e al tempo stesso criticarle al fine di non ingombrare la nostra mente di un ciarpame assolutamente inutile, ma di arricchirla con la conoscenza di tutti quei fatti che un uomo moderno colto non può in nessun modo ignorare». V.I. Lenin, Discorso al Congresso Panrusso della Gioventù Comunista, 2 ottobre 1920.

 

1. Premessa

La nozione di imperialismo, delineata già da Marx ed Engels ed analizzata scientificamente da Lenin, è di grande importanza per la corretta comprensione della realtà, cioè delle contraddizioni insanabili del modo di produzione capitalistico nella sua fase suprema, che stanno alla base del conflitto tra classi e tra paesi e determinano l’ineluttabilità della violenza imperialista.

La corretta comprensione della nozione di imperialismo è fondamentale anche per contrastare l’influenza diretta che esso ha sul movimento operaio e, quindi, sulla lotta di classe e sulla strategia per la trasformazione rivoluzionaria della società.

La sinistra borghese e buona parte della cosiddetta “sinistra radicale”, abbandonato da tempo il leninismo, hanno una visione non scientifica dell’imperialismo, non ne comprendono sostanza e scopi, ma si limitano a rilevarne, neppure sempre, i soli aspetti esteriori, politici, sovrastrutturali, portando la prima ad un’apologia aperta dell’imperialismo e la seconda ad una linea opportunistica con un ruolo simile a quello della socialdemocrazia tradizionale che, di fatto, serve solo a distogliere la classe operaia da quelli che dovrebbero essere i suoi obiettivi rivoluzionari con l’illusione della riformabilità dell’imperialismo e di un social-pacifismo irrealistico quanto impotente nelle condizioni date. Altre volte, identificando l’imperialismo con un solo paese (gli USA) o con una sola alleanza internazionale (l’Unione Europea), pretende di difendere “l’Italia” (cioè gli interessi del capitalismo monopolistico italiano) e la “sovranità nazionale”, nascondendo la vera natura dello scontro interimperialista in atto e, con sfoggio di fraseologia rivoluzionaria, di fatto assume posizioni social-patriottiche, analoghe a quelle della destra, finendo per sostenere la borghesia imperialista nazionale nella sua competizione con le altre borghesie.

Il richiamo alla poderosa analisi leniniana dell’imperialismo[1], quindi, non è solo opportuno, ma è per noi doveroso, essendo oggi di estrema attualità per la lotta del proletariato.

L’imperialismo, per Lenin, è una nuova fase dello sviluppo del capitalismo, quella suprema, nella quale giunge a definitiva maturazione la contraddizione tra carattere sociale della produzione e appropriazione privata del prodotto e il rapporto di produzione capitalistico diventa un ostacolo all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. L’imperialismo è, quindi, nella sostanza una struttura economica, caratterizzata da cinque elementi che la distinguono dalle precedenti forme di capitalismo e che, a loro volta, determinano precisi risvolti politici nella sua sovrastruttura: 1) la comparsa del monopolio, 2) la formazione del capitale finanziario; 3) l’esportazione del capitale; 4) la formazione di associazioni monopolistiche internazionali per la divisione del mondo; 5) la compiuta divisione del mondo tra le principali potenze capitalistiche.

 

2. La concentrazione della produzione e la nascita del monopolio

Le leggi oggettive dell’accumulazione capitalistica in regime di libera concorrenza favoriscono la concentrazione e la centralizzazione del capitale, che costituiscono la base materiale del dominio del monopolio e determinano la comparsa della grande impresa capitalistica, in un primo momento soprattutto nell’industria pesante, che ha evidenti vantaggi competitivi rispetto alle imprese più piccole: superiorità tecnologica, migliore organizzazione di processo e più alta produttività del lavoro, più facile accesso al credito, minori costi per unità di prodotto, maggiore produzione e maggiore capacità di rispondere alle sollecitazioni del mercato. « … la generazione del monopolio da parte della concentrazione della produzione è una legge generale e fondamentale dello sviluppo del capitalismo»[2].

Il processo di concentrazione della produzione, è determinato strutturalmente dal carattere dell’accumulazione del capitale, ma è accelerato congiunturalmente dalle grandi crisi cicliche del capitalismo, come quelle del 1873 e del 1900, che falcidiano una moltitudine di piccole imprese capitalistiche. È, appunto, in questo periodo che il monopolio nasce e afferma il suo dominio sull’economia e sulla società. Nato dalla e a causa della libera concorrenza, il monopolio ne è la negazione dialettica e ne decreta la fine.

Indicatori oggettivi della monopolizzazione dell’economia, secondo Lenin, sono le elevate quote di produzione industriale, di forza lavoro impiegata, di consumi energetici e di capitale fisso delle grandi imprese in rapporto ai volumi totali di queste variabili in un dato settore o paese.

La posizione dominante e il controllo di gran parte della produzione di determinate merci consentono al monopolio, in assenza di motivazioni di competitività, di venderle a prezzi più alti oppure, agendo come monopsonista, di approvvigionarsi di materie prime a prezzi più bassi. Più la quota non monopolizzata dei mercati di sbocco o di approvvigionamento è puntiforme e dispersa tra piccoli produttori, minore è la quota di produzione necessaria alla formazione del monopolio.

Ciò che caratterizza il monopolio non è la forma giuridica che esso può assumere, ma la posizione di dominio sul mercato, che esercita per perseguire il fine della massimizzazione del profitto monopolistico. Anche in regime di libera concorrenza il capitalista cercava di massimizzare il profitto, attraverso la riduzione dei costi di produzione, l’aumento dello sfruttamento, del volume della produzione e della sua qualità, ma il capitale monopolistico ricorre anche ad altri metodi di massimizzazione, oltre a quelli tradizionali: dall’imposizione di prezzi elevati grazie alla posizione dominante, all’utilizzo dell’influenza politica, fino alla diretta eliminazione dei concorrenti anche con mezzi illegali.

Il fatto che il saggio di profitto dei monopoli sia stabilmente di 4-5 volte superiore a quello delle imprese capitalistiche non monopolistiche non rende ancora l’idea di ciò che realmente è il superprofitto monopolistico, che, semplificando, possiamo definire come differenza tra il prezzo di vendita, superiore alla media grazie alla posizione dominante e il prezzo di produzione, dato dalla somma dei costi di produzione e del profitto medio.

Il capitale delle grandi imprese, di regola, è formato da tre componenti: 1) il capitale effettivamente anticipato da chi detiene il pacchetto di controllo; 2) le somme ottenute dall’azionariato diffuso, cioè da una parte del risparmio privato, che normalmente si accontenta di un dividendo non distante dal tasso d’interesse attivo medio di mercato; 3) le somme derivanti dal ricorso al credito. Il profitto monopolistico deriva dal capitale complessivo della società, ma solo la sua componente sub 1) è effettivamente anticipata da chi la controlla, cioè dal suo vero soggetto economico, che si appropria, dunque, della maggior parte del profitto.

Alcuni economisti borghesi, ad esempio l’americano Paul Samuelson, hanno cercato di confutare la teoria leninista dell’imperialismo, sostenendo che nell’economia capitalistica contemporanea non vi sia concentrazione del capitale, dato il grande numero di PMI e il loro peso rilevante nell’economia di diversi paesi e che, pertanto, la concentrazione non determini la nascita e la diffusione del monopolio.

In realtà, il processo di concentrazione della produzione continua in forme diverse. Se prima era la concentrazione a produrre il monopolio, oggi è il monopolio che determina la concentrazione secondo i propri concreti interessi. Intanto, dobbiamo dire che la concentrazione non può non avere limiti di convenienza economica, oltre i quali subentrano, ad esempio, diseconomie di scala. Perciò, in condizioni di dominio del monopolio, a seconda della congiuntura, vi possono essere periodi di espansione della concentrazione, periodi di stabilità e, addirittura, periodi di una sua limitazione. Inoltre, nelle condizioni attuali e sempre per sua convenienza, il monopolio ha creato una quantità di piccole e medie imprese, giuridicamente autonome, ma totalmente dipendenti economicamente da esso, come ad esempio i cosiddetti “contoterzisti”, specializzate nella produzione di semilavorati, totalmente prive di peso sul mercato e di contatto con il consumatore. In altre parole, una parte della produzione di fatto concentrata nel monopolio viene da questo volutamente esternalizzata e diffusa tra PMI, formalmente autonome, ma da esso dipendenti. Si tratta, quindi, di una nuova forma di concentrazione della produzione che non intacca il dominio del monopolio, ma, al contrario, è ad esso funzionale. Se prima il processo di concentrazione si realizzava attraverso il passaggio dalla piccola alla grande impresa, oggi è possibile anche la forma opposta, cioè la creazione di PMI da parte della grande impresa monopolistica.

Oltre alla concentrazione, anche la centralizzazione è un elemento fondamentale della trasformazione monopolistica del capitalismo. Un’unica direzione centralizzata di organismi complessi e ramificati, quali sono gli odierni grandi gruppi, con bilanci spesso superiori a quelli di interi stati, favorisce, dal punto di vista politico e gestionale, l’estrazione del superprofitto monopolistico. Un indicatore indiretto dell’intensità di questo processo è dato dal peso specifico dei monopoli nell’industria di trasformazione di un dato paese. L’onnipotenza dei monopoli è la sostanza economica dell’imperialismo e la monopolizzazione della produzione è la sua base e punto di partenza.

Il fatto che il monopolio sia la negazione dialettica della libera concorrenza ha portato molti economisti borghesi a concludere, erroneamente, che la concorrenza scompaia nelle condizioni di capitalismo monopolistico. Queste considerazioni, riprese dal socialdemocratico di destra Rudolf Hilferding con la sua teoria del “capitalismo organizzato“, secondo la quale il monopolio gradualmente eliminerebbe, ancora in condizioni capitalistiche, l’anarchia della produzione e la concorrenza, hanno avuto un’influenza deleteria sulle lotte del movimento operaio.

In realtà, il monopolio supera dialetticamente la “libera” concorrenza, non elimina la concorrenza in quanto tale, ne cambia le forme e, al contrario, la inasprisce. Una verità già spiegata da Marx: «Nella vita pratica, troviamo non solo la concorrenza, il monopolio e la sua antitesi, ma anche la loro sintesi, che non è formula, ma movimento. Il monopolio produce concorrenza, la concorrenza produce il monopolio. I monopolisti concorrono tra loro, i concorrenti diventano monopolisti … La sintesi è che il monopolio può reggersi solo grazie al fatto che entra continuamente nella lotta competitiva»[3]. Lenin riprende e sviluppa il pensiero marxiano, mostrando la molteplicità delle forme di concorrenza in regime di capitalismo monopolistico: «… I monopoli, scaturendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma esistono al di sopra di essa e accanto ad essa, generando con questo una serie di contraddizioni, attriti e conflitti particolarmente acuti e aspri»[4].

La realtà dimostra che la monopolizzazione della produzione, salvo rarissime eccezioni, non porta mai alla concentrazione della produzione di questa o quella merce nelle mani di un unico monopolio o di soli monopoli. Oltre alla concorrenza intrasettoriale, intersettoriale[5] e internazionale tra i monopoli stessi, esiste anche la concorrenza tra monopoli e imprese outsider non monopolistiche. A questo si aggiunge la concorrenza all’interno di uno stesso monopolio tra i proprietari delle diverse quote di capitale. Poiché le imprese di minori dimensioni non sono in grado di prevalere le une sulle altre e tra loro è possibile solo la libera concorrenza, occorre considerare ancora questa forma di competizione tra imprese non monopolistiche. Il capitalismo monopolistico, dunque, non elimina, ma accresce la concorrenza, le sue forme e i suoi metodi: «Il monopolio si apre la strada ovunque e con ogni mezzo, dal “modesto” pagamento di una buonuscita fino all’uso americano della dinamite contro il concorrente»[6].

 

3. La concentrazione del capitale bancario e la formazione del capitale finanziario

La funzione tradizionale delle banche è sempre consistita nell’intermediazione creditizia, nell’esecuzione dei pagamenti, nella trasformazione del risparmio e dei mezzi disponibili in capitale e nella creazione di strumenti di circolazione del credito.

All’inizio del XX secolo, i monopoli della produzione avevano bisogno di ingenti crediti a lungo termine, che le banche minori non erano in grado di fornire. La concentrazione e la centralizzazione della produzione industriale furono la base materiale che determinò la concentrazione e la centralizzazione del capitale bancario e la conseguente comparsa dei monopoli bancari, gigantesche unioni di banche con posizione dominante nella sfera del credito, con superprofitti monopolistici, in grado di concentrare nelle proprie mani la massa fondamentale dei mezzi disponibili dell’intera società.

Da una tale posizione deriva un enorme potere, in grado di determinare il destino degli stessi monopoli della produzione attraverso la concessione o la restrizione del credito. La grande disponibilità di capitale consente al monopolio bancario di investire facilmente nel settore dell’industria e, attraverso il sistema delle partecipazioni azionarie, di divenire comproprietario di imprese industriali e di crearne di nuove. Al tempo stesso, il capitale monopolistico industriale è costretto a rafforzare i legami con i monopoli bancari attraverso l’acquisizione di loro azioni e la nomina di propri rappresentanti nei consigli d’amministrazione delle grandi banche. Grazie a queste partecipazioni incrociate, i monopolisti industriali diventano comproprietari del monopolio bancario e questo diventa comproprietario del monopolio industriale.

Da questa interazione biunivoca, da questo intreccio di interessi, nasce un nuovo tipo di capitale, il capitale finanziario.

«La concentrazione della produzione, i monopoli che ne derivano, la confluenza o la fusione delle banche con l’industria: questa è la storia della nascita del capitale finanziario e il contenuto di questo concetto»[7]. Per Lenin, dunque, il capitale finanziario è il capitale monopolistico industriale che si è fuso con il capitale monopolistico bancario.

In condizioni di imperialismo continuano ad esistere tutte le forme funzionali del capitale, sviluppatesi in regime di libera concorrenza: il capitale industriale nella sfera della produzione, il capitale commerciale in quella dello scambio, il capitale di prestito in quella del credito. Tuttavia, non esiste più la loro precedente separazione. Nella fase imperialista, i monopoli industriali, quelli bancari e gli altri ancora rappresentano solo forme diverse di funzionamento del capitale finanziario.

Questi concetti, che stanno alla base della critica leniniana alla teoria opportunista di Hilferding sul capitale finanziario, sono oggi di estrema attualità. La sinistra borghese, più o meno radicale, ripropone oggi argomenti simili a quelli che usava allora il socialdemocratico di destra, teorizzando una contrapposizione d’interessi tra un presunto “capitale produttivo”, che svolgerebbe un ruolo positivo perché attinente alla sfera della produzione e un “capitale finanziario” attinente alla sfera della circolazione, con un ruolo negativo perché sottrarrebbe risorse all’investimento per fini puramente speculativi. La conclusione di questa teoria opportunista è il sostegno al capitale monopolistico industriale, ritenuto “buono e progressivo”, dimenticando che proprio la concentrazione e la monopolizzazione della produzione costituiscono la base materiale del capitale finanziario nella sua unitarietà e unicità.

Il capitale finanziario è concentrato nelle mani di un’oligarchia finanziaria, cioè di un gruppo ristretto di borghesia elitaria che detiene i pacchetti di controllo dei principali monopoli e, di fatto, ne è il soggetto economico ultimo.

La forma organizzata odierna del dominio del capitale finanziario è il gruppo monopolistico finanziario, costituito da un insieme complesso di monopoli di settori diversi, dall’industria, alle banche, alle assicurazioni, ai trasporti, al commercio, ecc., spesso non limitato all’ambito nazionale, controllato da un singolo, o da una famiglia, o da un piccolo gruppo di magnati tra loro interconnessi per mezzo di un’entità capogruppo che può essere una banca, una fondazione, una società industriale o commerciale, oppure una holding appositamente costituita per detenere i pacchetti azionari di controllo.

La società capogruppo, di norma, si limita a determinare gli indirizzi generali della politica del gruppo attraverso il consiglio d’amministrazione, non ingerendosi nella gestione ordinaria delle controllate, affidata a manager assunti come dipendenti. Vi è, quindi, una separazione netta tra proprietà e gestione operativa.

La struttura piramidale del gruppo, il meccanismo delle partecipazioni azionarie e l’azionariato diffuso consentono ai suoi veri soggetti economici di ridurre il rischio d’impresa e moltiplicare più che proporzionalmente la massa di capitale controllato e, quindi, i profitti con un basso impegno del proprio capitale. Un sistema che aumenta anche il potere economico e politico dell’oligarchia finanziaria, ultima ispiratrice della politica dello stato borghese, permettendole di rapinare in vario modo tutti gli strati della società.

«Il capitale finanziario, concentrato in poche mani, servendosi di un monopolio di fatto, trae un enorme e sempre crescente profitto dalla fondazione [di nuove società], dall’emissione di titoli azionari, dai prestiti statali, ecc., rafforzando il dominio dell’oligarchia finanziaria, imponendo a tutta la società il tributo ai monopolisti»[8].

L’oligarchia finanziaria si arricchisce non solo con i dividendi azionari, ma anche con le retribuzioni stratosferiche percepite come direttori dei gruppi, con i premi e le tantièmes che si autoattribuisce, con i cosiddetti fringe benefits, spese personali, quali auto, viaggi, personale di servizio, ecc., imputati come costi a carico del gruppo.

Attraverso il sistema bancario e una varietà di istituti, quali banche d’investimento, casse di deposito e prestito, assicurazioni, fondi pensionistici pubblici e privati, ecc., l’oligarchia finanziaria è in grado di rastrellare la maggior parte del capitale accumulato disponibile e di trasformarlo in capitale operativo.

 

4. L’esportazione del capitale

Lo sviluppo del monopolio e la possibilità che ne deriva per l’oligarchia finanziaria di accumulare superprofitti producono una massa di capitale disponibile in relativo “eccesso”, che non riesce ad essere impiegata in modo sufficientemente profittevole all’interno di un solo paese, dati il tasso medio di profitto e le barriere, create dagli stessi monopoli, alla diversificazione settoriale[9]. L’esportazione del capitale in eccesso diviene, quindi, una necessità per aumentare il profitto monopolistico, rafforzare le posizioni economiche e politiche dei monopoli nella competizione per il controllo dei mercati esteri e ampliare la sfera dello sfruttamento imperialistico, ma non sostituisce, anzi accresce, l’esportazione delle merci.

L’impiego del capitale in eccesso nello stesso paese dove si è formato comporterebbe un inasprimento della concorrenza e una diminuzione del saggio medio di profitto di tutti i capitali. L’esportazione di capitale diventa quindi necessaria per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto. La massa del capitale impiegato all’estero può crescere non solo per effetto della sua esportazione, ma anche in conseguenza del suo reinvestimento, cioè della capitalizzazione di una parte del plusvalore estratto nel paese estero. Tuttavia, a causa delle contraddizioni dell’economia capitalistica, possono verificarsi situazioni in cui all’eccesso di capitale si accompagna l’esigenza di una sua importazione. Si considerino, ad esempio, le politiche per attrarre gli investimenti esteri, oggi portate avanti da molti stati a capitalismo monopolistico avanzato, tra cui la stessa Italia.

L’esportazione del capitale si realizza o in forma d’impresa o in forma di prestito. Nel primo caso, il monopolio crea direttamente proprie filiali, oppure società controllate, o anche società miste con la partecipazione di capitale locale pubblico e privato, con investimenti “diretti” (che garantiscono il controllo dell’azienda estera) o “di portafoglio” (che formalmente costituiscono solo una partecipazione agli utili), traendone un profitto d’impresa. Nel secondo caso, il monopolio presta il capitale ad aziende o governi esteri in forma di prestiti onerosi, credito sugli ordinativi, acquisto di obbligazioni, depositi in banche locali, traendone un interesse di prestito.

L’esportazione di capitale non deve essere confusa con la cosiddetta “fuga di capitale“. La prima costituisce un investimento finalizzato alla massimizzazione del profitto monopolistico, mentre la seconda ha lo scopo di sottrarre, non di aumentare, il patrimonio mobiliare da condizioni che ne minacciano l’integrità nel paese d’origine, ad esempio dal prelievo fiscale. Questo tipo di trasferimento estero, in senso economico-politico, non rientra nella categoria dell’esportazione di capitale.

Particolare è il caso dei depositi di paesi economicamente deboli nelle banche dei paesi imperialisti più forti. La contraddizione con quanto sopra è solo apparente, poiché ciò accade in conseguenza di prestiti o contratti di fornitura che vincolano il paese debitore all’acquisto da monopoli del paese creditore. Si tratta, quindi, di un’ulteriore manifestazione dell’esportazione di capitale dal paese creditore, più forte, a quello debitore, più debole e non viceversa.

Le forme d’esportazione del capitale hanno grande importanza economica e politica per il paese importatore, a seconda che il capitale generi una proprietà privata del monopolio estero o che la disponibilità del capitale sia affidata allo stato o a imprenditori locali.

Quando l’esportazione avviene in forma d’impresa, il paese importatore è costretto a pagare il profitto d’impresa senza poter influire sulle scelte d’investimento, decise dal monopolio che detiene la proprietà privata. Questa forma, inoltre, favorisce il controllo del monopolio sulla politica e i suoi legami con le forze locali più reazionarie.

Quando l’esportazione di capitale avviene in forma di prestito, il paese importatore paga un interesse, ma può esercitare una limitata influenza sugli indirizzi dell’investimento, fatti salvi gli accordi contrattuali in merito alla concessione del prestito. Nella realtà, queste due forme di esportazione del capitale si verificano oggi congiuntamente e, in entrambi i casi, rappresentano armi di sfruttamento e di rapina dei popoli.

Differentemente dall’imperialismo dell’inizio del XX secolo, oggi l’esportazione del capitale viene attuata non solo dai monopoli privati, ma anche dai governi dei paesi imperialisti e da organizzazioni internazionali intergovernative, dando origine al fenomeno dell’esportazione monopolistico-statale del capitale.

Mentre all’inizio del XX secolo l’esportazione di capitale era diretta principalmente verso le colonie e i paesi meno sviluppati, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale si è accentuata la tendenza all’esportazione del capitale anche, talvolta soprattutto, verso i paesi capitalisticamente più sviluppati, in parte in ragione del crollo del sistema coloniale, in parte come conseguenza dello sviluppo scientifico e tecnologico, concentrato in questi ultimi paesi.

Tra i principali fattori che hanno favorito questo fenomeno possiamo annoverare: 1) differenze nazionali nel saggio di profitto medio, per cui i capitali si spostano là, dove minore è la composizione organica del capitale e, quindi, è più alto il tasso di profitto, particolarmente in relazione ai livelli salariali e, in generale, al costo del lavoro; 2) lo sviluppo diseguale delle forze produttive, per cui il vantaggio tecnologico o organizzativo rispetto ai potenziali concorrenti può rendere profittevole l’investimento in un paese capitalisticamente avanzato; 3) trattamenti fiscali più favorevoli e agevolazioni doganali. Ad esempio, una merce, prodotta in Italia da un’azienda di proprietà cinese, evita i dazi d’importazione e può vendere liberamente sul mercato italiano e europeo.

L’esportazione di capitale determina diverse conseguenze:

1) nuovi rapporti tra le grandi potenze imperialiste e i paesi economicamente meno sviluppati, dove l’esportazione del capitale diventa il mezzo della borghesia monopolistica per instaurare e conservare la produzione capitalistica e i rapporti di produzione capitalistici;

2) l’allargamento della sfera di sfruttamento dei lavoratori da parte dei monopoli, resa possibile dall’affermazione dell’imperialismo, cioè del capitalismo monopolistico, come forma di rapporti di produzione dominante a livello mondiale, con un conseguente aumento della massa di plusvalore complessivamente prodotta e del profitto monopolistico;

3) l’aumento delle diseguaglianze di sviluppo e della dipendenza dei paesi capitalisticamente meno avanzati da quelli più sviluppati;

4) la creazione nei paesi meno sviluppati di mercati di sbocco per le merci “in eccesso” dei paesi più avanzati, anche con una funzione di ammortizzazione delle crisi di sovrapproduzione, a partire dai beni strumentali fino ai generi di largo consumo;

5) il saccheggio delle risorse naturali, reso possibile dalla disponibilità di capitali e dalla superiorità tecnologica.

L’esportazione di capitale produce in molti casi effetti negativi anche nel paese esportatore, poiché aumenta lo squilibrio del suo sviluppo economico, sottrae risorse al soddisfacimento dei bisogni reali della popolazione e accresce le contraddizioni del processo di riproduzione del capitale.

La capacità di esportare capitale ha portato ad un cambiamento di rapporti di forza e ad un’acutizzazione delle contraddizioni e della concorrenza tra monopoli e tra paesi imperialisti per l’egemonia economica e il controllo dei mercati più vantaggiosi in cui impiegarlo.

Un ruolo importantissimo ha assunto l’esportazione di capitale statale, che ha una natura principalmente politica e non è legata ad una “eccedenza” di risorse di bilancio, al contrario generalmente in deficit. Attraverso sussidi slegati dalla percezione di un utile, talvolta senza interessi, altre volte a fondo perduto, essa ha per scopo la conservazione del sistema capitalistico, il rafforzamento delle alleanze politico-militari e la creazione di condizioni più favorevoli all’esportazione del capitale monopolistico privato e alla massimizzazione del suo profitto. Soprattutto dopo il crollo del sistema coloniale, questo è il senso dei programmi di “cooperazione” o di “aiuto” internazionali che, insieme al debito estero, contribuiscono ad accrescere la dipendenza economica dei paesi che dovrebbero beneficiarne, imponendo facilitazioni e privilegi a favore dei monopoli del paese erogante. Lo stato assume in questo caso il nuovo ruolo di garante dell’esportazione del capitale privato, anche attraverso la creazione, oggi generalizzata, di enti specializzati nell’assicurazione e nel credito all’esportazione[10].

Nell’imperialismo contemporaneo ha assunto grande peso anche l’esportazione di capitale da parte di organizzazioni internazionali imperialiste, quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, la Banca Interamericana di Sviluppo, la Banca d’Investimento Europea, la Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo (operante soprattutto nei confronti degli ex-paesi socialisti dell’Europa Orientale), la New Development Bank BRICS, ecc., i cui mezzi sono costituiti per lo più da stanziamenti di bilancio degli stati partecipanti, quindi slegati dalla “eccedenza” di capitale e operanti su basi commerciali con prestiti a titolo oneroso.

La nuova situazione storica, determinata dalla fine del sistema coloniale grazie alla Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre e alla nascita dell’Unione Sovietica e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, del blocco dei paesi socialisti ha comportato importanti mutamenti anche nell’esportazione del capitale privato.

Un’importante forma di esportazione “nascosta” del capitale privato è costituita dalla vendita all’estero di patenti e licenze o di conoscenze tecniche in forma di “know-how” o “engineering” con la diffusa clausola dell’ingresso del venditore in partecipazione al capitale del monopolio acquirente, con cui il primo acquisisce una quota di proprietà e di utili nel paese estero.

Se all’inizio della fase imperialista l’oligarchia finanziaria esportava capitali quasi esclusivamente nel settore minerario e agricolo delle colonie, dopo il crollo del sistema coloniale è stata costretta ad avviare investimenti anche nei settori strategici per lo sviluppo dell’economia nazionale dei paesi di nuova indipendenza a causa della necessità di controbilanciare gli aiuti dell’URSS e del sistema socialista mondiale e mantenere più economie possibili nell’alveo dello sviluppo capitalistico, con un mutamento della composizione settoriale dell’esportazione del capitale, una tendenza che neppure la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha cancellato. Ciò ha determinato profondi cambiamenti nell’economia dei paesi ex-coloniali, dove, soprattutto dopo la dissoluzione dell’URSS e del blocco socialista, si è intensificato lo sviluppo capitalistico fino all’ingresso nella fase imperialista, con la comparsa di monopoli industriali e bancari nazionali. Al di là del peso specifico nell’economia mondiale, del grado maggiore o minore di sviluppo, di accumulazione, concentrazione e centralizzazione del capitale, i paesi di recente indipendenza attualmente presentano tutti, sia pure in misura diversa, le caratteristiche che contraddistinguono l’imperialismo nel senso economico-politico del termine. Alcuni di essi sono diventati temibili concorrenti delle potenze imperialiste tradizionali ed esportatori di capitali a loro volta fin dall’inizio degli anni ’70, trasformando la precedente dipendenza economica dai monopoli stranieri in un’interdipendenza tra questi e i monopoli nazionali, internazionalizzatisi a livello continentale o addirittura intercontinentale. I paesi industrialmente più avanzati sono diventati oggi importantissimi luoghi di impiego del capitale straniero, anche proveniente da paesi ex-coloniali o semi-coloniali, dai paesi produttori di petrolio, alla Cina, all’India, al Brasile, al Messico, alle Filippine, per citarne solo alcuni. Ne deriva un quadro generale di reciproche interdipendenze, di intensificazione dell’internazionalizzazione del capitale finanziario, di inasprimento della concorrenza tra monopoli e tra paesi.

In generale, l’esportazione di capitale approfondisce le contraddizioni dell’imperialismo in diverse situazioni, sia nei paesi esportatori, che in quelli importatori. Ad esempio, quando una parte significativa del capitale di un dato paese viene esportata, ciò può rallentare temporaneamente lo sviluppo delle forze produttive di quel paese relativamente agli altri. Oppure, quando l’afflusso di ritorno del profitto nel paese esportatore aumenta la massa di capitale “eccedente”, rendendone più difficile l’impiego e riducendo il saggio medio di profitto sul mercato interno, con la conseguenza di un ulteriore inasprimento della concorrenza. Nei paesi importatori, invece, l’afflusso di capitali esteri ha determinato la specializzazione della produzione nazionale in base alle esigenze dei monopoli esportatori di capitale, determinando una duratura dipendenza da questi e dalle maggiori potenze imperialiste e la perdita di una parte sostanziale del reddito nazionale, finita all’estero sotto forma di profitto dei monopoli imperialistici. Per contro, con lo sviluppo di rapporti di produzione capitalistici nei paesi importatori, l’esportazione di capitali ha prodotto la crescita del proletariato locale.

 

5. La divisione del mondo tra associazioni di capitalisti

I monopoli che operano internazionalmente possono essere suddivisi in due categorie: 1) monopoli appartenenti al capitale di un solo paese; 2) monopoli appartenenti al capitale di due o più paesi, cioè associazioni monopolistiche internazionali.

L’inasprimento inevitabile della concorrenza tra monopoli internazionali per il controllo dei mercati di approvvigionamento e di sbocco e la finalità di massimizzazione del profitto spinge i monopoli a concludere accordi per la spartizione dei mercati mondiali. La divisione economica del mondo diventa un tratto distintivo fondamentale dell’imperialismo.

Le associazioni internazionali di capitalisti esistevano anche prima dell’imperialismo. «… qualsiasi società per azioni con la partecipazione di capitalisti di diversi paesi è “un’associazione monopolistica organizzata di capitalisti”. Per l’imperialismo è caratterizzante un altro aspetto, che non esisteva prima del XX secolo e precisamente la spartizione economica del mondo tra trust internazionali, una spartizione, su base di accordi tra questi ultimi, dei paesi come aree di sbocco»[11]. L’accordo tra monopoli internazionali per la spartizione dei mercati mondiali, in generale in forma di cartellizzazione, determina un nuovo tipo di monopolio, ancora più potente, che Lenin definisce supermonopolio. La massimizzazione del profitto viene perseguita, sul lato dell’offerta, attraverso la regolazione del volume di produzione e della concorrenza a livello mondiale per mantenere prezzi monopolisticamente alti. Sul lato della domanda di materie prime e forza lavoro, agisce in modo opposto, aumentando la concorrenza tra fornitori e spingendo per un aumento della loro produzione per far scendere i prezzi.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la formazione e lo sviluppo del sistema socialista mondiale, che di fatto riduce i mercati di sbocco dei monopoli imperialistici, determinano la nascita di una forma particolare di supermonopoli per la spartizione dei mercati mondiali in base ad accordi tra stati imperialisti, nel tentativo di risolvere la contraddizione tra il crescente carattere internazionale dello sviluppo delle forze produttive e le ristrette frontiere nazionali del capitale monopolistico. Ne sono esempi in Europa la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), l’Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA), la Comunità Economica Europea (CEE), l’EURATOM (1957) e la stessa Unione Europea (UE), in America l’Accordo Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA), il Mercato Comune dell’America Meridionale (MERCOSUR), l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), ecc.. Analoga funzione di supermonopolio imperialista ha l’associazione di Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, con possibile allargamento all’Iran e alla Turchia, denominata BRICS, formata da paesi con forti “eccedenze” di capitale esportabile. Un altro esempio di supermonopolio è costituito dall’OPEC, un’associazione di paesi produttori di petrolio in posizione monopolista, tra loro cartellizzati.

Il ritmo elevato dell’accumulazione capitalistica dopo la fine dell’ultima guerra mondiale portò alla disponibilità per i monopoli di enormi masse di capitale da impiegare all’interno e all’esterno dei paesi imperialisti. La comparsa di nuovi tipi di settori, prodotti e servizi per effetto del progresso tecnico-scientifico, la ricostruzione post-bellica e l’esigenza di una riconversione e modernizzazione degli impianti obsoleti richiedevano grandi investimenti di capitale. Riflettendo l’oggettivo processo di internazionalizzazione della produzione e dell’economia capitalistiche, su questa base nasce e si afferma il monopolio transnazionale. A differenza dei “supermonopoli”, basati su accordi tra i grandi monopoli di stati diversi, i monopoli transnazionali nascono dall’espansione dell’attività del monopolio di un singolo paese e, di conseguenza, non sono legati a tali accordi e non si formano da essi.

Rispetto ai monopoli internazionali dell’inizio del XX secolo, che stipulavano accordi con analoghi monopoli sull’esportazione e la vendita sui mercati mondiali di un determinato tipo di merce, il monopolio transnazionale presenta delle specifiche differenze:

1) possiede all’estero una propria rete di produzione e vendita;

2) la produzione all’estero, non l’esportazione, è la base della sua espansione economica;

3) la sua produzione non si limita a un tipo di merce, ma si estende a diversi prodotti, settori e sfere dell’economia;

4) la maggior parte della sua attività si svolge in aree geografiche diverse dal paese d’origine.

Il monopolio transnazionale è più flessibile, ha una maggiore capacità di reagire alle diverse sollecitazioni dei mercati e della concorrenza, di organizzare la divisione del lavoro, la specializzazione e l’integrazione della produzione a livello internazionale, di aggirare legislazioni e restrizioni nazionali, soprattutto in materia fiscale e di diritto del lavoro, di trarre ulteriori utili da operazioni internazionali in valute diverse, di monopolizzare l’innovazione tecnologico-scientifica e, non ultimo, di influire profondamente sulla politica degli stati.

La crescita degli accordi per la spartizione economica del mondo portò Karl Kautsky, il principale teorico della II Internazionale, a sostenere che, con l’imperialismo, il capitalismo fosse entrato in una fase di soluzione “pacifica” delle proprie contraddizioni attraverso gli accordi tra monopoli e che, col tempo, si sarebbe trasformato in “ultraimperialismo”, uno stadio in cui sarebbe scomparsa la concorrenza e la pace sarebbe stata garantita. Una tesi fantasiosa, quanto irreale e smentita dalla tragica realtà della Prima Guerra Mondiale e dei conflitti successivi.

Come Lenin rileva, in regime di capitalismo monopolistico, ogni accordo “pacifico” è il risultato di un precedente scontro e ne prepara uno nuovo. La fine della lotta per i mercati è impossibile per varie ragioni. In primo luogo, lo sviluppo diseguale dei monopoli e la comparsa di nuovi grandi produttori comportano inevitabilmente una nuova spartizione del mercato; in secondo luogo, la comparsa di nuovi settori produttivi e di nuovi prodotti per effetto del progresso tecnico-scientifico spinge nella stessa direzione; in terzo luogo, i rapporti di forza dei monopoli mutano in relazione all’esaurimento delle vecchie fonti di materie prime e alla scoperta di nuove fonti, provocando una nuova lotta per la loro spartizione. In definitiva, la lotta per la spartizione del mondo è un processo continuo che avrà luogo ininterrottamente finché esisterà l’imperialismo. La supposizione socialdemocratica che esso possa cessare per effetto di un accordo “consensuale” del capitale internazionalizzato «è, teoricamente, completamente assurdo e, praticamente, è un sofisma e un mezzo di difesa sleale del peggiore opportunismo»[12]. Con buona pace degli apologeti della cosiddetta “globalizzazione” e delle sue magnifiche sorti e progressive.

 

6. La compiuta divisione del mondo e la lotta per una sua nuova spartizione

L’affermazione del dominio economico dei monopoli portò ad un’intensificazione della politica di conquiste coloniali. Alla fine del XIX secolo, tutti i territori “disponibili” erano ormai divisi tra le grandi potenze dell’epoca e alcune potenze minori, come Spagna, Portogallo, Belgio e Olanda. La spartizione del mondo era ormai compiuta. Tuttavia, la disparità nello sviluppo economico generò aspre contraddizioni tra potenze con un vasto impero coloniale, ma con un rallentato sviluppo delle forze produttive, come Inghilterra e Francia e potenze in forte crescita economica, come USA, Germania e Giappone, a cui erano toccate solo le briciole della spartizione coloniale. Questa situazione portò alla guerra ispano-americana nel 1898, alla guerra anglo-boera del 1899-1902, alla guerra italo-turca del 1911 in Libia, alla guerra russo-giapponese del 1905 e, in definitiva, fu una delle cause della Prima Guerra Mondiale, terminata a oriente con la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre e, in occidente, con la Pace di Versailles, che Lenin definì ben peggiore di quella di Brest-Litovsk e che costituirà uno dei principali argomenti revanscisti della propaganda nazista.

Gli accordi di pace raggiunti alla fine del primo conflitto mondiale durarono solo un ventennio, dopo il quale l’imperialismo scatenò la Seconda Guerra Mondiale in presenza, però, di un fatto epocale che aveva rotto il dominio mondiale dell’imperialismo: l’esistenza dell’Unione Sovietica. La nuova guerra non fu, come in precedenza, un conflitto totalmente interno al sistema imperialista per una nuova spartizione del mondo, ma assunse, accanto a questo, il carattere di una guerra di classe della parte più reazionaria del capitale finanziario contro il primo stato socialista al mondo. La Germania nazista partì dalla denuncia del Trattato di Versailles, occupò prima di tutto i territori più industrializzati d’Europa, ma finì con lo scatenare tutta la sua potenza nella guerra contro il bolscevismo e l’URSS.

La vittoria dell’Unione Sovietica e dei popoli sul nazi-fascismo, la vittoria della rivoluzione cinese, la nascita del blocco socialista in Europa, il nuovo impulso alle lotte di liberazione nazionale nel mondo, determinarono un nuovo, temporaneo, equilibrio mondiale, nel quale l’imperialismo non aveva più l’incontrastato dominio mondiale, ma trovava un limite nella potenza economica, militare e politica dell’URSS e dei paesi socialisti, con cui si trovava costretto a competere, non certo coesistendo “pacificamente”. Il peso del sistema socialista mondiale e, nei paesi imperialisti, la lotta del movimento dei “Partigiani della Pace” sono riusciti a garantire mezzo secolo di pace nel continente europeo nonostante la “guerra fredda” e la corsa agli armamenti, imposte dall’imperialismo euro-atlantico, nonostante le numerose guerre, scatenate dall’imperialismo in altre parti del mondo per frenare i processi di liberazione nazionale e di emancipazione sociale, dalla guerra di Corea, all’aggressione anglo-francese all’Egitto durante la crisi di Suez, a quella contro il governo progressista di Mossadeq in Iran, alla guerra nel Vietnam, al tentativo di invasione di Cuba rivoluzionaria, alla guerra d’Algeria e agli interventi in Africa Centrale, ecc.. Determinante è stato il ruolo del sistema socialista mondiale per il successo dei movimenti di liberazione nazionale, per la caduta del sistema di sfruttamento coloniale, per l’affermazione dell’indipendenza politica dei popoli. Caratteristiche di quella fase erano due tendenze contrastanti, una verso la coesione tra paesi imperialisti nella lotta contro il socialismo e i movimenti di liberazione nazionale, l’altra verso l’accentuazione della concorrenza interimperialistica. Nonostante la temporanea vittoria della controrivoluzione in URSS e nei paesi socialisti abbia restituito all’imperialismo il dominio mondiale, le trasformazioni epocali, innescate dall’Ottobre Rosso, ci consentono di affermare con ragione che l’umanità è entrata nell’era della rivoluzione proletaria, del passaggio dall’imperialismo al socialismo.

L’esportazione del capitale e la nascita del mercato internazionale dei capitali, la crescita del commercio estero per via dell’enorme aumento della produzione di merci, la migrazione internazionale della forza lavoro come mezzo di estrazione del superprofitto monopolistico, la formazione di rapporti valutari, derivanti dallo scambio internazionale di merci, servizi e capitali e riflessi nelle bilance dei pagamenti, sono il prodotto di contraddizioni interne a ciascun paese e ne generano nuove. Pertanto i rapporti economici internazionali dell’imperialismo sono il nodo in cui si concentrano le sue contraddizioni e diventano il punto debole di tutto il sistema capitalistico.

Come detto più sopra, nel mondo contemporaneo ormai quasi tutti i paesi presentano le caratteristiche economico-politiche dell’imperialismo. Lo sviluppo diseguale, che non è dovuto solo alla pesante eredità dell’epoca coloniale, ma è strutturale per il capitalismo, li divide in paesi economicamente avanzati e paesi arretrati. Questa circostanza induce alcuni esponenti della sinistra all’errata conclusione che i secondi costituiscano “colonie” dei primi, arrivando ad includere in questa categoria paesi che, nella piramide gerarchica dell’imperialismo contemporaneo, occupano un posto tutt’altro che secondario. Confondono, cioè, il grado di sviluppo economico (dato quantitativo) con la sostanza dei rapporti di produzione (dato qualitativo). Il fatto che in un paese vi siano livelli di accumulazione, di sviluppo delle forze produttive e di internazionalizzazione del capitale inferiori rispetto ad altri non muta la natura dei rapporti di produzione che vi operano, che sono di tipo imperialistico nel senso economico-politico del termine per via della presenza dei tratti distintivi di questa specifica formazione economico-sociale. Da questo punto di vista, poco importa la suddivisione proprietaria dei monopoli; ciò che conta è che in quel paese operano rapporti di produzione capitalistico-monopolistici ed esiste una oligarchia finanziaria locale, indipendentemente dal suo maggiore o minore grado di intreccio con il capitale estero. Ignorare questo aspetto fondamentale porta ad identificare l’imperialismo con il solo capitale straniero e a non considerare la compartecipazione della borghesia nazionale nella rapina della società, una deviazione opportunistica che rafforza la classe dominante nazionale con gravi conseguenze per la lotta rivoluzionaria del proletariato.

Oltre alle leggi tipiche di qualsiasi economia capitalistica, quali la legge del valore, del plusvalore, della regolazione del salario, ecc., che possono operare in forme anche diverse rispetto al passato, il sistema capitalistico mondiale presenta delle leggi specifiche che agiscono solo nell’ambito dei rapporti internazionali del capitalismo in fase imperialista.

La più alta concentrazione delle forze produttive mondiali in un numero ristretto di paesi che, quindi, hanno un peso economico maggiore rispetto agli altri, il divario economico tra le maggiori potenze imperialiste e i paesi capitalisticamente più arretrati, le diseguaglianze nello sviluppo delle forze produttive tra le stesse potenze imperialiste e tra queste e gli altri paesi, aprono contraddizioni acute che pongono in discussione gli equilibri instabili raggiunti, modificando gerarchie e egemonie economiche all’interno del sistema imperialista mondiale, determinando l’inasprimento della concorrenza tra monopoli e tra paesi. La piramide imperialista non va vista in modo statico, ma dinamico. Al suo interno si verificano continui rimescolamenti, con la conquista o la perdita di posizioni da parte di questo o quel paese. Ad esempio, l’indiscussa egemonia economica, acquisita dagli USA alla fine dell’ultimo conflitto mondiale è oggi seriamente contesa dalla Cina e dall’Unione Europea. Emergono nuove potenze imperialiste, come la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’India, il Pakistan, il Brasile, il Messico, la Russia, le cui borghesie rivendicano un ruolo politico corrispondente al loro nuovo peso economico. Una lotta di tutti contro tutti per scalzare i concorrenti che neppure le temporanee alleanze internazionali di capitalisti riescono ad evitare al proprio interno, ma anche una guerra di classe della borghesia contro il proletariato e i popoli per mantenere il proprio dominio mondiale. Sono queste le vere ragioni dei conflitti armati in atto nel mondo.

A nulla servono i belati opportunistici della socialdemocrazia e della sinistra radical-borghese che invocano un nuovo ordine mondiale. I rapporti internazionali imperialistici sono costruiti sulla base dei rapporti economici dell’imperialismo, cioè su condizioni oggettive e forze di classe che producono diseguaglianze e sfruttamento anche nelle relazioni internazionali, il cui superamento è possibile solo con l’eliminazione della base che li genera.

 
7. Il capitalismo monopolistico-statale

Il capitalismo monopolistico-statale sorge come conseguenza delle leggi oggettive di sviluppo del capitalismo nella sua fase imperialistica e, soprattutto, della sua contraddizione fondamentale tra carattere sociale della produzione e appropriazione privata del suo risultato. Esso rappresenta la fusione della forza del monopolio capitalistico con la forza dello stato borghese al fine di conservare il capitalismo, aumentare i profitti della borghesia monopolistica, reprimere il movimento operaio e accrescere la capacità di aggressione in politica estera.

Lo stato borghese è l’organizzazione del dominio della borghesia capitalistica su tutta la società e ne difende gli interessi generali di classe. Questo è ciò che caratterizza i rapporti tra capitale monopolistico privato e stato borghese.

La concorrenza generalizzata e la ricerca del massimo profitto rendono indispensabile l’aumento, in misura tale da non potere più essere garantito dal solo capitale monopolistico privato, della produzione e della massa di capitale impiegabile, la cui insufficienza rappresenta un freno all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. La riproduzione allargata, ad un certo punto, diventa impossibile senza la partecipazione dello stato, che accelera il processo di concentrazione e centralizzazione del capitale. L’integrazione monopolistica tra stati diversi va nella stessa direzione. Parallelamente alla concentrazione della produzione si sviluppano la concentrazione del capitale bancario e la sua ulteriore fusione con il capitale industriale, per cui i moderni gruppi finanziari si presentano come enormi conglomerati di proprietari di capitale, strettamente interconnessi con lo stato.

La crescente compenetrazione tra monopoli e stato borghese e l’aumento del suo intervento in economia a difesa di tutto il capitale monopolistico determinano la trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico-statale.

Lo stato interveniva nell’economia anche prima dell’imperialismo, ma solo in forma indiretta, attraverso la legislazione. L’intervento diretto dello stato borghese nell’economia è una caratteristica della fase suprema del capitalismo e può avvenire in momenti e modi diversi.

Particolarmente importante è il suo ruolo nei momenti di guerra, quando le commesse militari e la produzione bellica diventano un’occasione di lauti profitti, pressoché senza rischio, per i monopoli privati, oppure nei momenti di crisi economica.

La Prima Guerra Mondiale favorì la trasformazione del capitalismo da monopolistico a monopolistico-statale con i contratti per le forniture di guerra che, ad esempio in Italia, fecero la fortuna di monopoli, quali FIAT, Breda, Ansaldo, ecc..

La grande crisi del 1929-1933 rese nuovamente necessario l’impiego delle risorse dello stato per salvare dalla bancarotta banche e monopoli privati attraverso l’investimento pubblico, dando ulteriore impulso all’affermazione del capitalismo monopolistico-statale. È l’epoca del “New Deal” negli Stati Uniti e della creazione dell’IRI in Italia.

La preparazione della Seconda Guerra Mondiale nella Germania nazista vide un forte ruolo dello stato, sia attraverso le grandi commesse all’industria bellica privata, sia attraverso un impegno diretto nella produzione militare.

I monopoli privati ricorrono al sostegno dello stato in modo multiforme, ad esempio trasferendo su di esso i costi della cosiddetta “infrastrutturazione”, indispensabile al funzionamento della produzione. Oppure trasferendo i costi del mantenimento di aziende o interi settori in perdita, ma necessari, come i trasporti. Altre volte, lo stato ne rileva addirittura la proprietà, coprendone i costi di gestione a carico dei contribuenti, secondo il criterio della pubblicizzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti. Altrettanto indispensabili sono il sostegno politico e finanziario statale alla competitività e all’espansione dei monopoli sui mercati esteri.

Quando lo stato borghese assume direttamente la proprietà o la partecipazione in entità produttive agisce come un capitalista monopolistico collettivo, ma sempre nell’interesse della classe dominante nel suo complesso. Anche la nazionalizzazione o, per meglio dire, la statalizzazione in regime capitalistico persegue questo fine, favorendo il trasferimento di capitali monopolistici privati dai settori in perdita o meno redditizi a quelli che garantiscono maggiori profitti. Questa forma d’intervento è stata largamente praticata dopo il secondo conflitto mondiale e la proprietà pubblica, sia in forma di partecipazione statale, che in forma di gestione diretta della produzione ha raggiunto livelli assai elevati fino a tutti gli anni ’70 pressoché ovunque, ad esclusione degli USA, dove la potenza dei monopoli privati era tale da poter fare a meno di un settore pubblico dell’economia.

Poiché, in condizioni capitalistiche, la proprietà statale non può diventare forma dominante di proprietà in quanto ciò non corrisponderebbe agli interessi dell’oligarchia finanziaria, a partire dagli anni ’80 è cominciato un processo di massicce privatizzazioni, imposto dal capitale monopolistico privato che rivendicava la restituzione di aziende e settori nazionalizzati, risanati con capitale statale. Un processo che ha visto un’accelerazione negli ultimi anni, anche in forza degli accordi tra stati a livello dell’UE, chiaramente imposti dai monopoli, in materia di privatizzazioni e divieto di “aiuti di stato” a imprese e settori per non alterare la presunta azione regolatrice della concorrenza e del mercato.

Tutto ciò non cambia, tuttavia, la natura monopolistico-statale dell’imperialismo contemporaneo in quanto non cancella né l’intreccio di partecipazioni azionarie incrociate tra capitale pubblico e privato, né il sostegno statale ai monopoli privati, che avviene in forme e modalità diverse rispetto al passato. L’intervento dello stato nell’attività d’investimento privato continua ad esistere in forma di incentivi settoriali o territoriali e alle PMI (cosa che spinge i grandi monopoli a creare società di piccole dimensioni per rastrellare le agevolazioni), di crediti agevolati, di sostegno all’esportazione, di concessione di garanzie sovrane sui crediti e sugli investimenti esteri, di agevolazioni fiscali, defiscalizzazioni e decontribuzioni, di finanziamento all’innovazione, ecc..

I rapporti economici tra stato e monopoli avvengono su base di mercato, dove lo stato agisce direttamente nella sfera della circolazione mercantile sia come acquirente che come venditore. La spesa pubblica, spesso finanziata in deficit con ricorso all’indebitamento, accanto alla leva fiscale, è uno degli strumenti attraverso cui si realizza l’intervento dello stato, che è il maggiore acquirente del mondo capitalista, a sostegno dei monopoli privati. Come venditore, lo stato agisce principalmente fornendo ai monopoli infrastrutture, materie prime, energia, trasporti, comunicazioni e altri servizi produttivi a tariffe agevolate, inaccessibili al consumatore/utente privato.

Il fatto che oggi i monopoli agiscano sull’arena internazionale appoggiandosi alla forza dello stato ha favorito i processi di integrazione internazionale monopolistico-statale, con la formazione di blocchi imperialisti interstatali come l’UE e i BRICS che, tuttavia, non ha cancellato né la concorrenza tra monopoli all’interno dei blocchi stessi, ad ulteriore conferma che il capitalismo è ancora organizzato su base nazionale nonostante i processi di internalizzazione e integrazione, né la concorrenza dei blocchi con gli altri maggiori centri imperialistici, USA e Giappone in primo luogo.

L’aumento delle tensioni internazionali determina una crescente spesa in armamenti con una conseguente militarizzazione dell’economia e la creazione di complessi militari-industriali ad altissima redditività, che rappresentano il punto di connessione tra l’oligarchia finanziaria e i vertici dell’apparato militare. Le commesse militari rivestono grande importanza per l’arricchimento dei grandi monopoli. Si tratta di contratti per somme enormi che ormai non hanno più carattere sporadico, ma sono pressoché permanenti e liberi da qualsiasi rischio produttivo o commerciale in quanto garantiti dallo stato. Tuttavia, la militarizzazione deforma lo sviluppo economico, poiché aumenta il carico fiscale sui contribuenti e distoglie ingenti risorse economiche che, in un altro sistema sociale, potrebbero essere impiegate per soddisfare i bisogni delle masse popolari.

Un fattore importantissimo per la riproduzione del capitale nelle condizioni odierne è costituito dalla funzione di redistribuzione del reddito nazionale che lo stato borghese svolge con la statalizzazione di enormi mezzi finanziari, provenienti dal prelievo fiscale e contributivo e dall’emissione di titoli del debito pubblico. Queste immense risorse finanziarie vengono in buona parte utilizzate per aumentare le disponibilità dei monopoli sotto varie forme di agevolazione e incentivazione. Quindi i monopoli si arricchiscono non solo attraverso lo sfruttamento dei lavoratori, ma anche con la redistribuzione a proprio favore di una larga parte del reddito nazionale, attuata attraverso il bilancio dello stato, cosa che colpisce anche la piccola e media borghesia.

L’evasione, l’elusione e l’erosione fiscale, in ogni caso preoccupanti e imputabili principalmente al capitale monopolistico, non rappresentano, quindi, un problema altrettanto importante per i ceti popolari, quanto quello della destinazione del gettito fiscale comunque assicurato dal prelievo sui redditi da lavoro dipendente, che costituisce la maggior parte delle entrate tributarie dello stato. La lotta all’evasione è diventata un comodo slogan demagogico che serve a partiti come il M5S per nascondere agli occhi delle masse la vera origine dei problemi che le affliggono, cioè il dominio del capitale.

Un altro aspetto tipico del capitalismo monopolistico-statale è la regolazione dell’economia da parte dello stato, che può essere di tipo anticiclico, frenando gli investimenti nei momenti espansivi per evitare crisi di sovrapproduzione o stimolandoli nelle fasi di crisi per evitare il calo della produzione, oppure può consistere nella cosiddetta programmazione economica.

La programmazione economica, che abbraccia un periodo più lungo rispetto alla regolazione anticiclica, a differenza della pianificazione non è vincolante, ma puramente indicativa. Può influire sulla congiuntura economica e anche determinare cambiamenti strutturali nella produzione, ma non preserva l’economia capitalistica da sconvolgimenti, crisi di sovrapproduzione, cadute che regolarmente seguono ogni ripresa e improvvise diminuzioni dei ritmi di crescita. Soprattutto non elimina la concorrenza e l’anarchia della produzione capitalistica.

 

8. Il posto dell’imperialismo nella storia

L’imperialismo non è un nuovo modo di produzione, ma una nuova fase dello sviluppo del capitalismo.

Per posto storico dell’imperialismo Lenin intende la sua posizione in rapporto a tutto il precedente sviluppo del capitalismo e al successivo sviluppo dell’umanità. Rispetto al capitalismo pre-monopolistico, l’imperialismo è la fase suprema di sviluppo del capitalismo, ma è anche la sua ultima fase, vigilia della rivoluzione socialista. È una fase storica particolare del capitalismo. «Questa particolarità è triplice: l’imperialismo è 1) capitalismo monopolistico; 2) capitalismo parassitario e putrescente; 3) capitalismo morente»[13].

Il dominio del monopolio comporta la socializzazione della produzione al massimo livello possibile in condizioni di capitalismo, trascinando i capitalisti, indipendentemente dalla loro volontà o coscienza, in un nuovo ordine intermedio tra la libera concorrenza e la piena socializzazione. Un elevato grado di sviluppo del carattere sociale della produzione richiede una regolazione pianificata della produzione su scala di tutta la società e un controllo centralizzato, ma la proprietà privata non lo consente, per cui l’organizzazione della produzione e del lavoro all’interno del monopolio coesiste con l’anarchia della produzione all’interno della società. Inoltre, al carattere sociale della produzione non corrisponde la proprietà sociale dei mezzi di produzione, né l’appropriazione sociale dei risultati del lavoro, per cui nell’epoca dell’imperialismo i rapporti di produzione capitalistici diventano un “involucro” troppo stretto per il suo contenuto, cioè per il livello e il carattere delle forze produttive, impedendone la crescita. Questo involucro può marcire, può mantenersi anche a lungo in uno stato di putrefazione, ma sarà comunque spazzato via dalla rivoluzione socialista.

«I monopoli, l’oligarchia, la tendenza al dominio invece che alla libertà, lo sfruttamento di un numero sempre maggiore di piccole o deboli nazioni da parte di una piccola manciata di nazioni ricchissime e potentissime, tutto ciò ha delineato i tratti distintivi dell’imperialismo, che obbligano a caratterizzarlo come capitalismo parassitario o putrescente»[14].

Storicamente, il ruolo progressivo del capitalismo è consistito nell’avere dato al processo produttivo un carattere sociale e nell’avere garantito una maggiore crescita delle forze produttive rispetto al feudalesimo, un ruolo che il capitalismo perde con il passaggio alla fase imperialista, divenendo un freno al progresso sociale. Tuttavia, nonostante la sua crisi generale, il capitalismo non perde la capacità di rapidi incrementi della produzione e di diffusione del progresso tecnico-scientifico. Non esiste stagnazione assoluta, così come non esiste la possibilità di un crollo automatico del sistema. Lenin è molto chiaro in proposito: «Sarebbe un errore pensare che questa tendenza alla putrefazione escluda la rapida crescita del capitalismo; al contrario, singoli settori dell’industria, singoli strati della borghesia, singoli paesi nell’epoca dell’imperialismo manifestano, con maggiore o minore forza, l’una o l’altra tendenza. In generale, il capitalismo cresce di gran lunga più velocemente di prima, ma questa crescita non solo diventa più diseguale in generale, ma, in particolare, questa disuguaglianza si manifesta anche nell’imputridimento dei paesi più forti per capitale»[15].

Il dominio del monopolio in regime di proprietà privata dei mezzi di produzione genera inevitabilmente una tendenza alla stagnazione e alla putrefazione che si manifesta nella formazione di uno strato sociale di redditieri e di stati-redditieri che prosperano sulla rapina dei popoli, nella possibilità economica del monopolio di frenare la diffusione orizzontale del progresso tecnico-scientifico, nella corruzione dei vertici del movimento operaio e nella creazione dell’aristocrazia operaia, nella reazione politica.

Nel capitalismo pre-monopolistico i proprietari del capitale industriale erano direttamente coinvolti nella produzione materiale con funzioni organizzative e direttive. Il loro parassitismo consisteva solo nell’appropriazione del plusvalore prodotto dal lavoro non pagato del proletariato. Con l’imperialismo la proprietà perde il legame diretto con la produzione, la cui gestione è affidata a specialisti dipendenti, i cosiddetti manager. Da questa separazione tra la proprietà e la funzione del capitale, accresciuta dall’esportazione di capitale, si forma uno strato di borghesia che si arricchisce con la rendita finanziaria derivante dalla proprietà di valori mobiliari, cioè di azioni e obbligazioni, che non solo vive di parassitismo, ma sottrae al lavoro produttivo una parte sempre più significativa di popolazione, impiegata in modo crescente nell’esercito, negli apparati repressivi e burocratici dello stato borghese e come personale al servizio diretto dei capitalisti. Con l’imperialismo si rivela in tutta la sua evidenza l’assoluta inutilità della borghesia parassitaria, proprietaria del capitale monopolistico, nel processo di produzione.

Nella posizione di rentier possono trovarsi interi stati che esportano capitale e vivono in larga misura dello sfruttamento di altri popoli. Lo studio di questo aspetto portò Lenin alla conclusione che «l’esportazione di capitale è parassitismo al quadrato»[16], in quanto, da un lato, disincentiva l’investimento dei monopoli nel proprio paese, usando il capitale potenzialmente produttivo come capitale “in eccesso”, dall’altro lato sfrutta in modo parassitario i popoli dei paesi economicamente più deboli.

Gli enormi profitti dei monopoli, derivanti dallo sfruttamento del proletariato nel proprio paese e all’estero, consentono loro di “comprare” i vertici del movimento operaio in vari modi, dalla concessione di aumenti salariali ai capireparto più zelanti, ai premi di produzione, agli avanzamenti di carriera, fino a un’ininfluente partecipazione azionaria. Questa aristocrazia operaia è un raggruppamento di veri e propri agenti della borghesia all’interno della classe operaia e, insieme alla piccola borghesia e a elementi della burocrazia, è il principale serbatoio di quadri dei partiti opportunisti e dei sindacati collaborazionisti. Lenin, individuando le cause economiche e le radici sociali dell’opportunismo, il suo diretto legame con l’imperialismo, pone anche chiaramente il compito dei marxisti rivoluzionari all’interno del movimento operaio: «… la lotta contro l’imperialismo, se non è legata indissolubilmente alla lotta contro l’opportunismo, è una frase vuota e falsa»[17].

Il passaggio del capitalismo alla fase monopolistica determina uno scivolamento autoritario dello stato dalla democrazia borghese alla reazione aperta, che troverà massima espressione nel fascismo e che è la naturale riflessione sovrastrutturale del carattere totalizzante e liberticida del monopolio nella sfera economica. «Sia in politica estera che in politica interna, l’imperialismo tende ugualmente a violare la democrazia, tende alla reazione. In questo senso, è indiscutibile che l’imperialismo sia la “negazione” della democrazia in generale, di qualsiasi democrazia…»[18], cioè anche della stessa democrazia borghese. Oltre che dal fascismo, questa attualissima analisi di Lenin è comprovata dalle numerose dittature reazionarie che, in diversi paesi del mondo, l’imperialismo ha prodotto e sostenuto, dall’America Latina alla Corea del Sud, ma anche dagli odierni sviluppi all’interno dell’Unione Europea, dove si accentua l’autoritarismo dello stato borghese con leggi e direttive che criminalizzano la lotta di classe, negano i diritti sindacali e politici, limitano il diritto di elettorato attivo e passivo, fino all’aperta repressione fisica del dissenso sociale. Un rigurgito reazionario che ricorre alla falsificazione della storia, alla cancellazione della memoria, alla riesumazione di concezioni arcaiche della famiglia e dei rapporti tra generi e generazioni pur di puntellare culturalmente, oltre che politicamente, l’oligarchia finanziaria e il dominio dei monopoli e ritardare la fine di un modo di produzione moribondo.

«L’epoca dell’imperialismo capitalistico è l’epoca del capitalismo maturato e troppo maturo che è alla vigilia del proprio crollo, maturo a tal punto da lasciare il posto al socialismo»[19]. È, quindi, un capitalismo morente sotto il peso delle sue contraddizioni, ma ancora vivo e Lenin, in varie occasioni, sottolinea che esso non può scomparire motu proprio, automaticamente, ma solo in conseguenza della rivoluzione socialista. La summa delle contraddizioni dell’imperialismo e il malessere delle masse popolari che ne deriva «fanno del livello oggi raggiunto dal capitalismo l’era della rivoluzione proletaria socialista»[20].

Lenin scoprì e studiò a fondo la legge dello sviluppo economico e politico diseguale del capitalismo nell’epoca dell’imperialismo. La diseguaglianza nello sviluppo economico è propria del capitalismo in ogni fase del suo sviluppo. Come insegna Marx «… qualsiasi produzione capitalistica sarebbe in generale impossibile se dovesse svilupparsi in tutte le sfere contemporaneamente e uniformemente»[21]. La differenza di ritmo e grado di sviluppo sia di singole imprese e settori, sia della produzione sociale in generale nei diversi paesi, è direttamente determinata dalla legge del profitto, dalla concorrenza e dall’anarchia della produzione. La legge dello sviluppo diseguale agisce nell’imperialismo in modo estremamente dinamico, per salti che determinano continui mutamenti nei rapporti di forza tra paesi capitalistici, per cui accade che paesi entrati solo recentemente nello sviluppo capitalistico raggiungano e superino le preesistenti potenze. È questa la ragione che determina le guerre per una nuova spartizione di un mondo già spartito.

La distinzione tra imperialismo di un singolo paese e sistema imperialistico nel suo complesso porta Lenin a conclusioni estremamente importanti. La crescita del commercio, dell’esportazione del capitale, la spartizione del mondo e la divisione internazionale del lavoro hanno coinvolto nel sistema capitalistico pressoché tutti i paesi, creando i presupposti oggettivi per la vittoria della rivoluzione proletaria ma, in forza dello sviluppo diseguale, queste condizioni non maturano contemporaneamente in tutti i paesi. Allo sviluppo economico diseguale si accompagna uno sviluppo politico diseguale che non è meccanicamente determinato dal primo, pur essendo legato ad esso. Ai fattori oggettivi si affiancano fattori soggettivi, quali l’intensità della lotta di classe, lo sviluppo dell’organizzazione politica e della coscienza rivoluzionaria, fattori che possono essere maggiormente elevati anche in un paese che non abbia ancora raggiunto il massimo livello di sviluppo economico. Guardando al sistema imperialistico nella sua unitarietà dialettica, che è concatenazione, Lenin giunge alla conclusione che, come lo sviluppo economico diseguale inasprisce le contraddizioni economiche tra gli anelli della catena dell’imperialismo, così lo sviluppo politico diseguale rende possibile la vittoria della rivoluzione proletaria nell’anello più debole della catena, dove ne sussistano i presupposti oggettivi e soggettivi, cioè dove intervenga una situazione rivoluzionaria.

Questa conclusione teorica di Lenin, basata sullo studio della realtà, confuta la concezione dogmatica dei “marxisti ortodossi” della II Internazionale, secondo i quali la rivoluzione proletaria sarebbe dovuta avvenire prima nei paesi capitalistici più sviluppati.

Coerentemente con la propria elaborazione, nell’opera “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa“, Lenin giunge ad un’altra importante conclusione: «La disuguaglianza dello sviluppo economico e politico sono una legge incondizionata del capitalismo. Ne consegue che la vittoria del socialismo è possibile inizialmente in alcuni o persino in un solo paese capitalistico, preso singolarmente»[22]. In netta contrapposizione all’opportunismo trotzkista, Lenin ritiene che il compito della classe operaia sia quello di intensificare l’attacco contro la borghesia del proprio paese per conquistare il potere politico come passo iniziale della rivoluzione mondiale (concetto leniniano distorto e sconvolto nel suo significato da Trotzky) e non quello di attendere lo scoppio della rivoluzione su scala mondiale per prendere il potere.

L’imperialismo ha accelerato il processo di socializzazione della produzione, portandolo fino al limite massimo compatibile con i rapporti di produzione capitalistici basati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Da un lato, esso è chiamato a mobilitare tutti i fattori economici, politici e ideologici per prolungare la vita del capitalismo condannato a morte dalla storia, mentre dall’altro pone le basi materiali della futura società socialista che lo seppellirà.

Nell’opera “L’imminente catastrofe e come lottare contro di essa“, Lenin dà una definizione profondamente calzante del posto storico dell’imperialismo: «Il capitalismo monopolistico-statale è la più piena preparazione materiale del socialismo, è la sua soglia, è quel gradino della scala della storia tra il quale e il successivo, che chiamiamo socialismo, non vi è nessun gradino intermedio»[23]. Il socialismo è, invece, produzione direttamente socializzata, che può realizzarsi, come Lenin ha sempre sottolineato in polemica con i riformisti, non meccanicamente, ma solo in conseguenza della rivoluzione socialista e dell’instaurazione della dittatura del proletariato. Senza attendere un impossibile crollo spontaneo dell’imperialismo, senza illusioni sulla sua riformabilità, i comunisti devono preparare attivamente le condizioni per il suo abbattimento rivoluzionario.


Note
[1]La principale opera di Lenin sull’imperialismo è il libro “L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo“, scritta nel 1916 e pubblicata nel 1917. Per la preparazione del manoscritto, Lenin lesse e compendiò 148 libri e 232 articoli in russo, inglese, francese e tedesco. Tali compendi, che raccolgono ben 740 pagine di appunti e annotazioni, sono pubblicati, con il nome “Quaderni sull’Imperialismo“, nel vol. 28 delle Opere Complete di Lenin, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[2]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 315, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[3]K. Marx, F. Engels, Opere Complete, vol. 4, p. 166, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[4]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 386, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[5]Il monopolio ricopre un ruolo contraddittorio nella concorrenza tra settori diversi. Da un lato, le grandi dimensioni e l’ingente valore del capitale fisso costituiscono una barriera all’ingresso nel settore di capitali esterni. Dall’altro lato, la disponibilità di grandi mezzi finanziari, lo sviluppo della forma azionaria di proprietà capitalistica e il progresso tecnico-scientifico che apre nuovi settori d’investimento, favoriscono e accelerano il passaggio di capitali da un settore all’altro.
[6]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 323-324, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[7]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 344, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[8]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 350, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[9]È importante sottolineare che si parla di capitale in eccesso non rispetto alle effettive esigenze della società, ma rispetto al profitto atteso e realizzabile dall’oligarchia finanziaria.
[10]Una struttura di questo tipo in Italia è, ad esempio SACE Simest del Gruppo CDP, di cui fa parte Fintecna, interamente partecipata dalla Cassa Depositi e Prestiti.
[11]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 34, p. 370, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[12]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 372, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[13]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 30, p. 163, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[14]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 422, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[15]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 422-423, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[16]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 30, p. 164, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[17]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 424, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[18]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 30, p. 93, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[19]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 27, p. 116, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[20]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 32, p. 151, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[21]K. Marx, F. Engels, Opere Complete, vol. 26, parte II, p. 591, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[22]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 26, p. 354, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca
[23]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 34, p. 193, Ed. Politicheskaya Literatura, Mosca

Comments

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Mario Galati
Friday, 08 May 2020 10:31
Non ho creduto necessario specificare che gli epigoni di Lenin, per questi presuntuosi maestrini dei lavoratori, sono tutto il movimento comunista mondiale formatosi sulla scia della rivoluzione bolscevica. Questo ci fornisce la misura dell'enormità del vuoto storicistico e teorico di certe posizioni.
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Mario Galati
Friday, 08 May 2020 10:16
Se è stata confutata e demolita, con argomentazioni e dimostrazioni addirittura matematiche, la teoria del valore lavoro di Marx, anzi, persino, più e più volte, l'intera elaborazione marxiana, non poteva sfuggire a questo destino un instant book di un Bruno Vespa qualsiasi, soltanto un po' più fesso e maldestro, come Lenin, i cui epigoni, come sempre, hanno realizzato le estreme conseguenze.
È il destino di ogni teoria, quello di trovare uno o più confutatori e una o più confutazioni.
Ed è il destino di ogni confutatore e di ogni confutazione, quello di essere brandito con molta soddisfazione e nullo spirito critico da ogni livoroso nemico dello schieramento di classe del teorico "confutato".
Nel caso di Lenin, per es., ma non solo, la bile reazionaria borghese o piccola borghese si sversa in due modi: 1- da parte degli aperti avversari, conservatori o reazionari dichiarati, come invettiva anticomunista tout court; 2- da parte della piccola borghesia di sinistra e finanche "comunista", come critica antidogmatica ad un personaggio dogmatico, autoritario, tutto sommato di poco valore intellettuale e teorico, che ha generato disastrosi errori per il movimento dei lavoratori. Essi, da laici e sagaci pensatori che non hanno il culto delle personalità, sino all'intemerato disprezzo, offrono i loro rimedi a questi errori. Incoscienti e incuranti di apparire, così, ridicolmente irriguardosi, non tanto delle personalità oltraggiate, quanto della stessa storia, la quale, a sentir loro, avrebbe seguito un altro corso più favorevole se avesse applicato le loro ricette. È chiaro, per loro, che il movimento dei lavoratori è stato abbindolato, manipolato e violentato da personalità come Lenin. Se ciò non fosse avvenuto, la storia avrebbe preso un altro corso. Essi sarebbero stati i veri rappresentanti dei lavoratori: oggi si autonominano con efficacia retroattiva.
Eros Barone ha risposto, come suo costume, con argomenti di merito ad un commento che non lo meritava, poiché il commentatore non commentava proprio nulla di quanto affrontato nell'articolo: si limitava a brandire, appunto, uno studio introdotto de relato e da credere sulla parola. Il tutto come occasione per manifestare il proprio livore antileninista e subdolamente anticomunista.
Se non fosse così, come in tutti i casi analoghi al nostro, la critica a personaggi come Lenin e ai suoi "epigoni" non sconfinerebbe in una iconoclastia furiosa e stupida, ma si manterrebbe nei limiti del dovuto rispetto costruttivo.
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Eros Barone
Thursday, 07 May 2020 23:23
Ovviamente deve leggersi come segue: "Il superamento dell'imperialismo diventa così causa ed effetto del superamento del capitalismo".
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Eros Barone
Thursday, 07 May 2020 23:18
Lenin, si sa, non scriveva certo per partecipare a concorsi accademici. Il fatto che il suo "Imperialismo" sia presentato come "saggio popolare" e appaia nel pieno della prima guerra mondiale indica già il tipo e il contenuto della lotta ideologica e politica che Lenin intendeva condurre, l'urgenza di essa dopo il crollo della Seconda Internazionale. Era necessario un giudizio d'insieme sul capitalismo dell'epoca e sulle sue leggi di sviluppo, che inquadrasse i mutamenti intervenuti nelle loro connessioni reciproche e nella loro origine. Solo così sarebbero apparsi chiari la natura della guerra imperialistica e i motivi del crollo della Seconda Internazionale. Chi si firma con un acronimo non meriterebbe di essere preso in considerazione, ma le deformazioni, le falsificazioni e le inesattezze che costellano il commento di R.P. rendono necessarie alcune rettifiche. Cominciamo da Hobson e Hilferding, autori che Lenin cita nella premessa del "saggio popolare" sull'imperialismo come sue fonti teoriche privilegiate. Tuttavia, ciò non significa, come insinua tanto malignamente quanto falsamente R.P., che Lenin non si discosti da questi due autori sia nella diagnosi sia nella prognosi dei fenomeni imperialistici. In primo luogo, vi sono differenze che derivano dalla diversa angolazione spazio-temporale da cui egli osservava tali fenomeni. Mentre Hobson e Hilferding scrivevano prima che scoppiasse la grande guerra imperialistica e la loro preoccupazione principale era proprio di mettere in risalto quelle tendenze che a loro sembravano condurre a un tale evento, Lenin scriveva invece quando la prima guerra mondiale era già scoppiata e la sua preoccupazione principale era di mostrare la precarietà della pace che sarebbe seguita. Di qui il rilevo, assente in Hobson e solo vagamente abbozzato in Hilferding, dato alla duplice tesi secondo cui lo "sviluppo ineguale" avrebbe inevitabilmente riacceso il conflitto tra i paesi capitalistici e la tendenza alla guerra tra tali paesi si sarebbe riprodotta indefinitamente fino al superamento del capitalismo stesso.
Coerentemente con questa ipotesi di stabilità della tendenza alla guerra in regime capitalistico (ipotesi che tutto il corso storico successivo fino ai nostri giorni ha confermato), Lenin ridefiniva il concetto di capitale finanziario cui, al pari di Hobsone e di Hilferding, riconduceva l'imperialismo. Dopo aver citato la definizione di Hilferding: "Il capitale finanziario è il capitale di cui dispongono le banche, ma che è impiegato dagli industriali", Lenin sostiene nondimeno che questa definizione è incompleta, in quanto "vi manca l'accenno a uno dei fattori più importanti, cioè alla crescente concentrazione della produzione e del capitale in misura tale da condurre al monopolio... Concentrazione della produzione; conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle banche con l'industria: in ciò si compendia la storia della formazione del capitale finanziario e il contenuto del relativo concetto" (Lenin, "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo", in "Opere complete", vol. XXII, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2002, pp. 187-303). Capitale finanziario diventava così sinonimo di capitale monopolistico che, a sua volta, veniva ricondotto alla concentrazione capitalistica. In questo modo Lenin, pur adottando la definizione che Hobson e Hilferding avevano dato dell'imperialismo, ne svincolava la teoria dal fatto contingente del dominio del capitale-denaro sul capitale-merce, fondandola invece su un dato permanente e irreversibile dell'accumulazione capitalistica, una vera e propria invariante del sistema: la concentrazione produttiva. Il superamento del capitalismo diventa così causa ed effetto del superamento del capitalismo, e lo stato di guerra permanente genera condizioni potenzialmente favorevoli alla rivoluzione socialista nei paesi imperialisti, e alla liberazione nazionale nei paesi coloniali e semicoloniali. In conclusione, la tesi centrale del "saggio popolare" di Lenin, riguardante «la questione fondamentale, cioè la questione della natura economica dell’imperialismo», conserva ancor oggi tutto il suo valore: l’imperialismo non è una “politica” del capitalismo (come ritenevano molti teorici borghesi e socialdemocratici, fra cui Karl Kautsky, sotto il cui magistero marxista si era formato lo stesso Lenin), bensì una fase o stadio di esso, ragion per cui fenomeni contemporanei quali il militarismo, la "piramide imperialistica", la guerra, gli antagonismi economici e di classe, la ricerca di mercati di sbocco alla produzione capitalistica risùltano, alla luce di tale indagine della matrice strutturale dell’imperialismo, espressioni caratteristiche necessarie di una nuova fase del capitalismo, filiazione a sua volta altrettanto necessaria della fase precedente. Un importante corollario di tale analisi è costituito, nell’epoca della globalizzazione, ossia nell’epoca della compiuta formazione di un mercato capitalistico planetario, dalla configurazione dell’imperialismo come «meccanismo unico» e come sistema mondiale, cioè come estensione del modo di produzione capitalistico a tutto il mondo: a quest’altezza della storia, l’imperialismo non si configura più soltanto come una formazione economica, ma assume i caratteri di una formazione economico-sociale complessiva che abbraccia la politica, l’ideologia e la cultura, mentre i problemi internazionali cessano di essere un livello separato rispetto a quelli nazionali e si concretizza per la classe mondiale dei lavoratori salariati la base reale ed oggettiva dell’internazionalismo. Questi semplici accenni bastano a mostrare che il cómpito di confrontarsi e di fare i conti con Lenin ed il leninismo, al di fuori di atteggiamenti di liquidazione aprioristica o di celebrazione agiografica, è ineludibile per chiunque intenda riflettere con serietà sul Novecento e su questo primo ventennio del XXI secolo, individuando la via che conduce al socialismo/comunismo.
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R. P.
Thursday, 07 May 2020 17:54
La teoria dell'Imperialismo di Lenin è stata giustamente ed efficacemente demolita da Arrighi nel suo Le geometrie dell'imperialismo. Una teoria tutt'altro che 'scientifica' ma approssimativa e fondata su riferimenti contraddittori: il testo di Hobson,liberale e liberista (ampiamente copiato), e quello di Hilferding,socialdemocratico, preso come riferimento per il contesto finanziario dell'imperialismo. Peccato che Hilferding prendesse a modello e scrivesse del sistema finanziario tedesco come era andato strutturandosi tra la Grande Depressione e la vigilia della Prima Guerra Mondiale, preso da Lenin come la 'tendenza' di sviluppo del sistema finanziario capitalistico tout court. E peccato che durante e dopo la guerra fu il sistema finanziario americano, fondato su tutt'altre basi, a diventare il modello di riferimento su cui ruoterà il sistema finanziario globale nei decenni successivi. Il libro sull'Imperialismo non fu altro che un instant book con cui Lenin cercava di dare una lettura razionale del disastro della socialdemocrazia europea di fronte allo scoppio della guerra. Lo stesso Lenin prese le distanze da quel testo, come si può capire dagli appunti presenti nei Quaderni sull'Imperialismo e sappiamo da chi lo frequentava che negli anni della guerra civile si ripromise più volte di rivedere e riscrivere quel testo, da lui stesso giudicato inadeguato.
Ciò non toglie che il libro abbia avuto una decisiva influenza nella politica e nella storia del novecento, talvolta positiva, talvolta disastrosa. Ciò che però non è più accettabile è che si compulsi quello, come altri testi leninisti, come fossero le Tavole della Legge o i Vangeli. Lenin ha scritto e fatto molte fesserie e provocato immani disastri e i suoi epigoni hanno letteralmente distrutto il movimento operaio. Non sarà arrivata l'ora di fare i conti con la storia e con la realtà, e azzardarsi a fare un passo avanti, lasciandosi alle spalle le rovine? La paccottiglia leninista non serve ad interpretare una realtà che non è e non potrebbe essere quella di oltre un secolo addietro: servono idee e parole nuove se non si vuol continuare a fare gli zombies nelle rivistine di estrema sinistra compiaciute, saccenti del nulla e autoreferenziali.
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Ceccoli Silvano
Monday, 04 May 2020 13:04
Nonostante l'ottimo approccio sviluppato dall'autore dell'articolo nel trattare questo complesso tema, ritengo grave non aver adeguatamente affrontato la problematica dell'esercito di riserva, che nei paesi imperialisti e" rappresentato da masse i.migrate, a cui sono stati annullati i più elementari diritti umani e fasce sempre più estese di giovani tenuti in disoccupazione e sfruttati come le masse immigrate. Naturalmente tutto cio' va analizzato in contemporanea ad altri fattori non toccati in questo articolo e molto importanti quali la caduta della tendenza del saggio di profitto, alacompressione dei diritti dei lavoratori e al riemergere del fattore militare nella soluzione dei conflitti interperialistici e nella militarizzazione e dell'importo del controllo sociale tecnologico sulla vita sociale
Come ha osservato correttamente il professore Barone si nota e pesano queste mancanze per avere un quadro completo ed esaustivo de tema trattato
Grazie e saluti
Ceccoli Silvano (zGenova)
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Eros Barone
Sunday, 03 May 2020 00:57
L'analisi fornita dall'autore in questo piccolo saggio è vasta ed articolata. Essa inoltre è animata da una puntuale ed efficace polemica verso le concezioni borghesi, socialdemocratiche e revisioniste dell'imperialismo elaborate nell'epoca contemporanea, delle quali viene denunciato il carattere antidialettico e, in buona sostanza, antiscientifico, ma anche, in taluni casi, la funzione di apologia diretta o indiretta dell'imperialismo. Orbene, prendendo spunto da questo elaborato provo ad avanzare alcune osservazioni. La prima è questa: la concezione innovatrice di Lenin esprime una visione del capitale più complessa rispetto a quella di Marx (sviluppo, peraltro, inevitabile nel processo di approfondimento scientifico, già intuito ‘in nuce’ dallo stesso Marx, quando questi definisce la lotta fra i capitali, la loro concorrenza, come la “relazione del capitale con sé medesimo in quanto altro capitale, ossia la condizione del capitale in quanto capitale” (“Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica”, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 333). Il punto è che, con Lenin, questa sfera della lotta tra i capitali, già delineata da Marx, acquista uno sviluppo analitico più ampio, soprattutto per quel che concerne la dimensione verticale. Schematizzando in base all’ordine di grandezza, si passa dalle piccole e medie imprese agli oligopoli, da questi ai monopoli, dai monopoli alla “piramide imperialistica”. Qui il centro dell’innovazione teorica di Lenin è la tesi dello sviluppo ineguale e della gerarchia dei capitali, per cui accanto all’opposizione nei confronti della forza-lavoro viene approfondita l’analisi dell’opposizione tra i capitali. L’accumulazione ineguale del capitale nel suo procedere incessante alimenta infatti contemporaneamente un vasto fronte di contraddizioni tra capitali e lavoratori, tra diversi capitali (e anche tra diversi lavoratori) con le loro influenze reciproche a livello nazionale e internazionale. La conseguenza è che i conflitti e le tensioni procedono anch’essi a fasi alterne per i diversi settori e le diverse zone, così come per i diversi livelli della piramide sociale di ciascun paese e di tutto il mondo. Parimenti, il punto di massimo attrito può spostarsi, come è infatti avvenuto storicamente. Per quanto esteso, l’elaborato dell’autore manca tuttavia di un riferimento ad una delle principali manifestazioni dell’imperialismo, quella rappresentata dalla sovrappopolazione relativa o esercito industriale di riserva, la cui importanza non può essere sottovalutata sia sotto il profilo dell’aggravamento delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, sia sotto il profilo della stratificazione del corpo di classe sia, infine, sotto il profilo delle controtendenze alla caduta tendenziale del saggio di profitto.
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