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sollevazione2

A che punto siamo della storia?

di Moreno Pasquinelli

APOCALYPSE NOWIl principale paradigma della visione dialettica si può racchiudere in questa massima: nulla è perenne se non il cambiamento. Non lo è, evidentemente, nemmeno il capitalismo. Sappiamo però che il capitalismo, rispetto alle formazioni sociali che lo hanno preceduto, si distingue per il suo innato dinamismo, per la sua intrinseca tendenza ad adattarsi alle diverse circostanze, per la sua capacità di superare in avanti anche le crisi più devastanti. Il capitalismo è infatti un organismo mutante, per sua natura condannato a incessante metamorfosi. Le crisi, tanto più se profonde, segnano sempre il passaggio da uno stadio ad un altro.

Il 2020 sarà ricordato come un anno spartiacque tra un periodo e un altro, come data storicamente periodizzante, come la linea che separa il vecchio dal nuovo.

Sappiamo cos’è il vecchio che ci lasciamo alle spalle: il lungo ciclo segnato dal combinato disposto di globalizzazione estrema, neoliberismo e iper-finanziarizzazione. Cosa sarà il nuovo, l’addiveniente, non è dato sapere con certezza. Con certezza sappiamo che la storia non soggiace a nessun principio teleologico per cui essa sarebbe organizzata e procederebbe in vista di un fine (sia esso socialismo o qualsiasi altra cosa si voglia intendere per fine); sia che tale principio dipenda da una volontà provvidenziale esterna alla storia, sia che esso sia concepito come immanente ad essa. Di contro alla concezione meccanicistica del rapporto causa effetto, oggi sappiamo che da una determinata causa possono risultare effetti diversi. Non si tratta solo di “probabilismo”, per cui dall’evento A non si può dedurre come assolutamente certo l’evento B.

La storia sociale non consiste in una successione di eventi indipendenti l’uno dall’altro, è invece un processo, o meglio un processo di processi in cui entrano in gioco variabili molteplici e tutte le parti sono interconnesse l’una all’altra.

Il clinamen epicureo dunque? La vichiana eterogenesi dei fini per cui l’uomo, pur ponendosi finalità date, finisce per trovarsi tra le mani un risultato diverso se non opposto a quello desiderato? O, come direbbe l’empirista Wundt, saremmo condannati, pur agendo in base a precise intenzioni, ad accettare conseguenze non intenzionali? Non proprio così, anzi, così non è quasi mai così. La storia è un campo di battaglia in cui forze diverse e opposte per interessi e visioni del mondo, si combattono per avere il sopravvento. Quale che sia il risultato di questo cozzo, vi sarà sempre un vincente e un perdente, ove chi vince, per quanti siano gli aggiustamenti che sia costretto a compiere strada facendo, imprime alla società tutta intera il suo proprio stigma, il suo indirizzo. In questo senso, ed a maggior ragione nel campo della storia, vale l’enunciato della fisica quantistica per cui, nell’analisi dei fenomeni, non si può prescindere dagli effetti provocati dall’azione dei soggetti sociali e politici.

Ma scendiamo dal cielo della filosofia all’inferno della politica. Usciremo da questa Grande Crisi lasciandoci alla spalle il capitalismo o invece esso riuscirà a venirne fuori? E se ne verrà fuori, che capitalismo avremo?

Contrariamente a quanto sostenuto da Henryk Grossmann, non c’è da attendersi alcun crollo del capitalismo come esito ineluttabile delle sue leggi di movimento. Grossmann, sull’onda del’impatto potente della grande crisi del ‘29, non faceva che riarticolare l’assunto marxiano secondo cui la madre di tutte le contraddizioni del sistema capitalistico (una specie di Urnorm) sarebbe quella tra forze produttive e rapporti di produzione, ove la forza di spinta progressiva delle prime avrebbe finito per spazzare via la camicia di forza delle seconde. Assunto che mi pare si sia rivelato errato alla prova dei fatti. Il capitale, per meglio dire i diversi e concorrenti capitali, non solo non bloccano l’evoluzione delle forze produttive, non possono permetterselo, essendo costretti a svilupparle per cavar fuori profitto dal processo lavorativo, ovvero la loro massima autovalorizzazione.

Per essere precisi chi difende l’idea del crollo del capitalismo lo deduce dalla marxiana legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Si tratta dell’asserto per cui, data la tendenza del capitale ad aumentare la propria composizione organica (il peso del macchinario rispetto a quello del lavoro vivo nel processo di produzione), e dato che solo il lavoro vivo produce plusvalore, il capitale sarebbe destinato all’auto-consunzione. Vera la legge generale, ma lo sono altrettanto le numerose contromisure che il capitale pone in essere per sfuggirvi.

Se ne deve dedurre, storia alla mano, che il capitalismo non è destinato a crollare da solo, ma può solo essere abbattuto da una forza sociale e politica che si organizzi allo scopo. Se questa forza è assente o se è presente ma non ha la potenza necessaria per vincere la battaglia, il capitalismo non solo sopravvive, non solo cambia pelle, come ogni organismo vivente si ricostituisce per adattarsi alle nuove condizioni.

Non si vede come, nel breve periodo, dall’attuale Grande Crisi, se ne possa uscire con… l’uscita dal capitalismo. Tra tutte le condizioni necessarie allo scopo manca infatti la fondamentale: l’esistenza del suo becchino, il soggetto che per scopo si pone l’abbattimento del sistema. Dargli forma, nel senso aristotelico del passaggio dalla potenza all’atto, è appunto il compito dei rivoluzionari.

Rebus sic stantibus, è facile dedurre che il nuovo ordinamento che sorgerà dall’attuale marasma sarà anzitutto il risultato del conflitto interno al campo capitalistico. Uno scontro multiforme la cui risultante dipenderà, pur data la complessità delle circostanze, dall’azione e dalla reazione dei diversi attori in gioco. Evitando di dileguarci in profezie distopiche occorre, come prima mossa teorica, stabilire se dalla attuale crisi se ne esce con una nuova globalizzazione o non piuttosto con la sua fine. Nel primo caso si tratta di pre-vedere quale sarà la potenza e/o il blocco di potenze che ne sortiranno come egemoniche e quelle che invece ne usciranno con le ossa rotte. Nel secondo caso si tratterebbe di capire se prevarrà un caos indistinto o se avremo una stablizzazione multipolare o policentrica.

In ogni caso, al netto di spesso capziose dissertazioni geopolitiche, stiamo entrando in un periodo storico di instabilità e profonde turbolenze mondiali che si trascineranno a lungo. Quale che potrà essere l’esito del parto da cui nascerà il nuovo ordine mondiale, è sicuro che le doglie saranno molto dolorose, che non si passerà dal vecchio al nuovo per mutamenti graduali ma per via di forti rotture.

In questo contesto generale ciò che a noi deve anzitutto interessare, non è, posta l’agonia dell’Unione europea, fermarsi a congetturare su quale sponda geopolitica approderà la malandata nave del nostro Paese. La principale questione per noi, detto che questa crisi scompaginerà la società, è pre-vedere come sarà quella che verrà fuori dal crogiolo di questa Grande Crisi. Per società intendiamo non solo la sua struttura (le classi da cui è composta e le stratificazioni cetuali e funzionali al loro interno), intendiamo anche la sua connessa sovrastruttura statuale, politica, ideologica. Intendiamo infine tenere in considerazione i condizionamenti che risultano dalla sue vicende storiche, sul cui solco tutti gli attori sono costretti ad agire.

Quello della pandemia non è solo un “intervallo”, esso lascerà una traccia profonda. Le risposte fornite dai governi della più diversa specie, convergono tutte in un punto: l’uso dell’emergenza sanitaria si è spinto spesso fino allo Stato d’eccezione: i governi, alimentando maldestramente il senso di paura, hanno assunto poteri straordinari. In molti casi quote di libertà sociali e civili sono state sacrificate sull’altare della sicurezza. In molti casi lo sforzo di disciplinamento e addomesticamento sociale è andato a buon fine. Le classi dirigenti hanno sperimentato una modalità per sopperire alla cronica crisi d’egemonia. Non ci rinunceranno in futuro. Si preparano anzi a reiterarne l’utilizzo ricorrendo alle più diaboliche tecniche di spionaggio e controllo elettronico. Tutto sta a vedere se il gioco funzionerà in futuro. Impedirlo dovrebbe essere il compito di chiunque si consideri, non diciamo rivoluzionario, non diciamo ribelle, diciamo anche solo riformista — visto che una volta accettato il fatto dell’emergenza c’è spazio solo per inseguire pulsioni sicuritarie e reazionarie.

Un gioco che, siamo pronti a scommettere, difficilmente funzionerà. La società che viene oggi colpita da una recessione, che potrebbe essere più grave di quella scatenata dalla crisi finanziaria del ‘29, era già segnata dalle profonde diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione neoliberista. Il vecchio e combattivo proletariato è stato rimpiazzato da un ectoplasma sociale precario, privo di forma, di coscienza di sé, di coesione Si trattava di un processo inconfessato di riproletarizzazione sociale che con un sofisma post-moderno è stato chiamato “il poliverso dei perdenti della globalizzazione”, o i “non garantiti”, gli “esclusi”. Di qui i fenomeni populistici che hanno dato voce a quelli che “stavano sotto contro quelli che stavano sopra”, al “basso contro l’alto”. “Il popolo contro l’élite”. L’abbiamo sempre detto e lo ripetiamo: dopo decenni di lotta di classe dall’alto, si trattava, malgrado la forma storpia con cui si manifestava, di una forma primordiale e incosciente di lotta di classe dal basso.

La profonda e duratura recessione è destinata non solo a produrre strappi e accelerazioni. Essa accentuerà le diseguaglianze sociali, produrrà ulteriori mutazioni all’interno di quello che abbiamo chiamato “popolo lavoratore”. La crisi causerà un primo mutamento: il passaggio dalla riproletarizzazione al pauperismo. Non basta. Come nel fenomeno chimico della precipitazione, (in cui l’addensazione dei cristalli produce un precipitato), la crisi depositerà in basso un esercito di dannati provenienti da ogni angolo della società. Avremo nuove linee divisive tra inclusi ed esclusi, tra integrati e disintegrati. Avremo, per citare Primo Levi, “i sommersi ed i salvati”. I “salvati”, li riconosceremo non solo dal loro reddito o dalla loro funzione sociale, ma dalla maniera in cui essi si rifiuteranno di finire tra i “sommersi”. Sono quelli che potranno accontentarsi delle briciole che cadranno dalla tavola del capitale fungendo così da suo supporto sociale. D’altra parte verrà fuori una massa di scarti sociali che rifiuterà di essere sacrificata, che pur di non finire tra i “sommersi”, tenderà a ribellarsi. Questa massa è per sua natura bipolare: potrebbe agire come forza motrice di un blocco sociale rivoluzionario e anticapitalista o come carburante per avventure reazionarie e oscurantiste. Non può fungere da forza motrice spontaneamente, per farlo ha bisogno di una testa, di una direzione politica che convogli questa energia che altrimenti si disperderebbe in un ribellismo destinato alla sconfitta.

Si è tanto discusso, negli anni, del gramsciano blocco sociale. Più volte abbiamo fusitigato chi discettava sul “blocco” quasi intendendolo come un sostituto del partito. Questa discussione ce la siamo lasciata alle spalle. Grazie all’accelerazione degli eventi, la discussione sul blocco sociale si è spostata su un piano differente. Compagni ora ci mettono in guardia dalle “fughe in avanti”. Ci rimbrottano che non essendoci il partito, sarebbe aleatorio parlare di blocco sociale. Vero è che non c’è egemonia senza blocco sociale, che non c’è blocco sociale senza partito. Ma da ciò non si deve desumere una specie di corsa per tappe o di progressione scalare. La storia, tanto più in tempi di grandi fratturazioni sociali, non può permettersi il lusso di seguire schemi prefissati. Siamo già nel gorgo senza partito e senza un blocco sociale precostituito. Entrambi dovranno venire alla luce e saranno forgiati nel fuoco del conflitto. Ci gettiamo nella mischia o stiamo alla finestra a fare le pulci alla storia?

Tertium non datur.

Comments

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Michele Castaldo
Thursday, 04 June 2020 07:07
Egregio AlsOb,
ci sono "dettagli" nella storia dell'umanità che segnano il tempo. Se oggi dovessimo mettere a confronto l'episodio della nave dell'Amstad con prigionieri schiavi a bordo con il fatto che la polizia negli Stati Uniti d'America, cioè la prima potenza al mondo, sia stata costretta a inginocchiarsi per chiedere scusa ai neri in rivolta, ebbene siamo di fronte a un fatto epocale di straordinaria importanza. Eppure sono trascorsi meno di duecento anni, che rappresentano meno di un alito temporale.
A bocce ferme è molto difficile immaginare la forza del movimento, ma il movimento è la ragion d'essere della materia e di quella sociale lo è ancora di più. Per meglio ancora dire: è il movimento il modo stesso d'essere della materia.
La forza del modo di produzione capitalistico aveva in sé i connotati straordinari di un movimento storico che ha segnato un'epoca di almeno 500 anni. La sua debolezza consisteva nell'impossibilità di correggere le sue leggi impersonali che lo stanno portando verso la catastrofe.
Il punto in questione non è cosa accadrà dopo, no, il punto è che la catastrofe è inevitabile e l'uomo non può porvi rimedio. Il dopo non potrà in alcun modo riprodurre lo stesso movimento proprio perché ogni movimento è storicamente determinato, ovvero espressione di fattori che lo fanno sorgere e sviluppare.
Le cose che scrivo in questo periodo appaiono strane e fuori dal tempo semplicemente perché l'uomo è superbo, presuntuoso e arrogante, è sostanzialmente stupido, pensa di dominare il resto della natura e non riesce a rendersi conto che è figlio e frutto di un rapporto con le altre specie e da esse dipende.
Esagero? no, basta leggere in questo periodo "Spillover" di Quammen per capirlo, ma per capirlo bisognerebbe essere umili a tal punto da guardare la vita dell'uomo nella sua proiezione storica, esattamente quello che non riesce a fare.
Tutto qua.
Il Comunismo non è il fine obbligato della storia umana, ma l'unica possibilità di introdurre un'organizzazione capace di relazionarsi come una comune specie nei confronti delle altre specie piuttosto che come un branco di lupi che si scannano fra di loro coinvolgendo il resto della natura verso un disastro comune.
Comunque ringrazio chi mi legge e mi commenta anche senza condividere le mie tesi.
Michele Castaldo
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AlsOb
Wednesday, 03 June 2020 23:49
Non è per nulla il 2020 l'anno spartiacque ma il 2008, per il capitalismo. Il virus incidentale o di laboratorio si inserisce nella data determinazione storica del capitalismo fittizio.

Michele Castaldo la tua analisi della crisi è corretta e il tuo afflato o catarsi rivoluzionari commuovono e in fondo il desiderio di molti. Tuttavia con tutta l'ammirazione personale e rispetto della biografia il materialismo storico introdotto da Marx e la sua analisi scientifica del capitalismo basata sul materialismo storico non sono superstizione e autosuggestione fideistica. L'implosione del capitalismo contemporaneo se avvenisse nella forma di una riedizione di una grande depressione crea solo miseria e pace dei cimiteri per i più. Si cerca di evitarlo al momento con la svolta sempre molto classista impressa al capitalismo nel 2008. E alcuni adattamenti dovrebbero ancora essere compiuti.
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Michele Castaldo
Wednesday, 03 June 2020 20:14
Gira che ti rigira siamo al dunque, ovvero la crisi, non una qualsiasi, ma questa crisi, come espressione storica ci pone davanti all'interrogativo: crollo si crollo no. Che strano, verrebbe da dire. Perché mai una tale domanda? E Pasquinelli ancor prima di rispondere si dovrebbe chiedere il perché si pone la domanda, sarebbe di per sé molto più interessante. Ma siccome la sua preoccupazione è altra, lui rimuove quella domanda e procede spedito per la sua interpretazione della storia da cui fa scaturire la sua proposta politica. Si vuole la prova? Eccola, lui scrive:
«Se ne deve dedurre, storia alla mano, che il capitalismo non è destinato a crollare da solo, ma può solo essere abbattuto da una forza sociale e politica che si organizzi allo scopo. Se questa forza è assente o se è presente ma non ha la potenza necessaria per vincere la battaglia, il capitalismo non solo sopravvive, non solo cambia pelle, come ogni organismo vivente si ricostituisce per adattarsi alle nuove condizioni».
Allora cominciamo col dire che il capitalismo non è un organismo vivente che si adatta alle nuove condizioni, in ciò Pasquinelli mostra di non aver capito l'essenza del capitalismo che è un movimento storico degli uomini con i mezzi di produzione. L'organismo vivente è tutt'altra cosa.
Un movimento storico è determinato da fattori, cioè condizioni che lo favoriscono e che obbediscono a leggi proprie, ovvero del movimento impersonale della materia sociale con i mezzi di produzione che man mano vengono modificati. Liquidare la questione del crollo del modo di produzione innervata da Marx nei Grundrisse e sistematizzata poi con Il capitale, ripresa, come legge generale da Rosa Luxemburg e successivamente da Grossmann, da parte di Pasquinelli è un'operazione semplificata riconducibile alla incomprensione del soggetto determinato dalla storia. Secondo lui deve essere una classe, mentre da un punto di vista materialistico deve essere non è una classe ma un rapporto fra classi con i mezzi di produzione. E' il rapporto fra le varie componenti che determinano il soggetto. La storiella che la borghesia sia stata una classe rivoluzionaria può essere ancora raccontata come fiaba agli alunni delle elementari, perché essa, cioè la borghesia, si sviluppò nell'insieme dello sviluppo industriale in rapporto con nuove tecnologie e materie prime. Il tutto in modo impersonale. Sicché il modo di produzione capitalistico proprio perché movimento storico non era e non poteva essere e rappresentare un modello contro cui contrapporre un'altro modello di confronto. Un movimento nasce e si sviluppa per forze intrinseche, favorito da fattori sconosciuti e casuali. In ciò consiste la sua straordinaria forza nella sua fase ascendente e la sua estrema debolezza quando passa il ponte, ovvero quando quei fattori che lo fecero sorgere cominciano a diminuire e venire meno.
Sicché se Pasquinelli, e non solo lui, visto che c'è una corrente molto "solida" a riguardo, non comprendendo che la stessa borghesia fu espressione di un moto deterministicamente determinato, e non soggetto storico come si è voluto far credere, sarà trascinata nel vortice dello stesso movimento che la fece sorgere. E' la dialettica della materia, o il movimento dialettico della materia.
Lasciamo l'alto dei cieli della teoria e scendiamo sulla nuda terra per capire cosa abbiamo fra le mani. Una crisi senza precedenti nella storia del movimento storico definito modo di produzione capitalistico. A cosa è dovuto? All'ingolfamento dei mercati di materie prime, mezzi di produzione e merci. Ovvero un movimento storico che è arrivato a un punto morto, non è più in grado di produrre VALORE. Questa la verità e si sta avvolgendo la corda al collo.
Sicché, dice Pasquinelli:
« Non si vede come, nel breve periodo, dall’attuale Grande Crisi, se ne possa uscire con… l’uscita dal capitalismo. Tra tutte le condizioni necessarie allo scopo manca infatti la fondamentale: l’esistenza del suo becchino, il soggetto che per scopo si pone l’abbattimento del sistema. Dargli forma, nel senso aristotelico del passaggio dalla potenza all’atto, è appunto il compito dei rivoluzionari».
No, Pasquinelli e tutte le correnti che si riferiscono al soggetto come di una componente che faccia da becchino del modo di produzione, si sbagliano, perché tutte le componenti sono complementari nel rapporto che forma il movimento del capitale seppure "conflittuali". Detto in modo brutale se si producono le scarpe e si vendono è un conto; se non si vendono è tutt'altra storia. Ciò vale per ogni merce. Oggi siamo al punto che c'è un eccesso di mezzi di produzione e merci, ovvero la concorrenza è arrivata a livelli parossistici e il rischio di un collasso è reale.
E il Covid-19? E' frutto del modo di produzione, delle deforestazioni, della produzione intensiva degli animali, dell'emissioni nocive nell'atmosfera e via di questo passo. Basta leggere "Spillover" di Quammen per rendersene conto.
Non siamo certi che sarà questo virus a dare il colpo di grazia al capitalismo, ma siamo sulla buona strada.
Se da questo caotico marasma piuttosto che pensare alla rivoluzione -già di per sé in marcia, vedi quello che sta succedendo negli Usa - si pensa alla geopolitica - come se fosse la geografia a fare la storia piuttosto che le forze sociali - ed a sovranismi e alleanze fra stati, beh vuol dire che si è lontani dal materialismo, ci si lega alle ragioni della controrivoluzione per il mantenimento dello status quo capitalistico e alla competizione nazionale e nazionalistica per battere la concorrenza di altre nazioni e portare il proletariato a sottomettersi a quelle regole costi quel che costi.
Ecco, a fronte di questo scenario insulso, ce n'è un'altro possibile, indipendentemente dalla volontà degli uomini: caos, disastro sociale e rivoluzione. La lotta dei neri e del proletariato precario negli Usa di questi giorni dimostra che è cambiata la fase e che è possibile e probabile il secondo scenario.
I Comunisti, quelli con la C maiuscola - optano per la seconda soluzione e lavorano per essa.
Michele Castaldo
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