Il «problema dello Stato» nel marxismo rivoluzionario di Evgeny Pashukanis*
di Carlo Di Mascio
Questo Stato borghese, strumento del dominio di classe borghese, Marx e Lenin hanno ripetuto che occorreva “spezzarlo”, e, idea molto più importante, hanno correlato questa “distruzione” dello Stato borghese con l’“estinzione” ulteriore del nuovo Stato rivoluzionario […]. In altri termini, essi hanno pensato la distruzione dello Stato borghese anche sulla base dell’estinzione e della fine di ogni Stato. Ciò dipende da una tesi fondamentale di Marx e di Lenin: non è solo lo Stato borghese ad essere oppressivo, ma ogni Stato.
Louis Althusser, 22ème Congrès
1. Stato, rapporti di produzione e classe dominante
Se nel marxismo rivoluzionario di Evgeni Pashukanis il «problema dello Stato», e se si vuole dell’intera sua filosofia del diritto, ha poco da condividere con la tradizione marxista legata ad una nozione ancora «romantica» e «utopica» di democrazia ottocentesca, ha invece molto a che fare con la maturità dell’analisi marxista-leninista del capitalismo, nonché con l’approfondimento teorico degli antagonismi scaturenti dai suoi intricati processi economici e amministrativi. E’, difatti, proprio in forza dell’analisi dello sviluppo del capitale - quel capitale che, in coincidenza con il contesto storico in cui La Teoria generale del diritto e il marxismo1 viene pubblicata, inizia aggressivamente a ricercare nuovi mercati in grado di assimilare sempre più pluslavoro, e che Lenin in particolare negli scritti su L’imperialismo del 1916 aveva con lungimiranza già individuato, sia per l’enorme concentrazione del potere capitalistico nella figura dei singoli Stati imperialistici che nella forza di distruzione che lo scontro tra gli stessi metteva in risalto2 - che tende a potenziarsi in Pashukanis il discorso sullo Stato come strumento borghese capace di proteggere interessi di classe e, soprattutto, di mediare le transazioni di mercato per consentire l’accumulazione capitalistica.
Ed è all’interno di questa esperienza, profondamente segnata dall’accelerazione del processo di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato, che Pashukanis riuscirà in modo singolare a formulare le proprie tesi che - seppure condizionate da inesorabili incombenze post-rivoluzionarie, in gran parte legate alla infelice politica del «comunismo di guerra» tra il 1918 e il 1921 e ai problematici risultati della Nuova Politica Economica (NEP) istituita da Lenin nel 1921 e proseguita fino al 1929 - costituiranno il fondamento per una originale critica della forma giuridica e della connessa forma-Stato. Partendo dal presupposto fondamentale secondo cui la forma specifica della regolamentazione giuridica capitalistica nasce dalla forma di merce, nonché dalla conflittualità degli interessi privati, il giurista sovietico tenta di spiegare la correlazione esistente fra lo Stato, il moderno diritto formale astratto ed i rapporti sociali capitalistici3. E’ bene subito pretermettere che lo Stato per Pashukanis - seguendo alla lettera la celebre discriminante di Lenin secondo cui «proprio su questo punto vien fuori il piccolo borghese per il quale lo Stato è «comunque» qualcosa che sta al di fuori o al di sopra delle classi»4, e dunque sottoscrivendo in pieno «la visione marxista-leninista dello Stato come macchina di repressione di classe»5 - non va considerato come costruttore di norme funzionali ai rapporti sociali, bensì soltanto come mistificante apparato a disposizione della classe dominante6, come mero incaricato politico di un «interesse» e di una «volontà» fatti passare come «generali» e «universali», insomma come il prodotto e la garanzia del processo giuridico in grado di assicurare un determinato assetto economico. Il suo compito essenziale è quello di essere «il garante della pace necessaria alle contrattazioni»7, e se è pur vero che «una interpretazione giuridica, cioè razionalistica, del fenomeno dell’autorità diviene possibile soltanto con lo svilupparsi del commercio e dell’economia monetaria»8, sarebbe nondimeno un errore confondere lo Stato con la totalità del processo giuridico. Stato e diritto, dunque, non sono la stessa cosa, poiché è solo nella forma del diritto che lo Stato trova la sua ragion d’essere, quella cioè di garantire quanto il capitalismo impone alla vita degli uomini9. Questo rilievo preliminare è di estrema importanza, perché consente di inquadrare ciò che ha mosso la straordinaria strategia ordinamentale del capitalismo e che Pashukanis, differenziandosi da altri giuristi sovietici, ben illustra mediante una originale analisi marxista del diritto borghese, mostrandone in particolare il carattere storicamente determinato, e tuttavia nella forma del diritto egualitario, quale traduzione del principio economico della «libera concorrenza» e della parità dei venditori e compratori di merci, nonché nella razionalità del mercato che essa inevitabilmente ha la caratteristica di incorporare. Pashukanis, sulla scia del discorso marxiano, pone in risalto che la realizzazione dell’eguaglianza, compiuta dalla borghesia attraverso la rivoluzione, ha avuto l’effetto di liberare la strada allo sviluppo e alla specificazione del modo di produzione capitalistico, in cui si sono strutturate perfettamente la forma merce e la forma valore. Smantellando l’obbligazione diretta tipica del regime feudale, la cui prerogativa era quella di realizzare un prelievo selvaggiamente «politico» sul prodotto del lavoro a favore del proprietario feudale, si è inverato un sistema economico-sociale in cui il prelievo del plusvalore - coincidente nella sostanza con una vera e propria estorsione - è stato occultato dallo scambio e dalla forma del salario che, come ricorda Marx, «oblitera ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito». Se, dunque, i rapporti sociali venivano in passato regolamentati dal privilegio, ora invece - sulla base di questa «forma fenomenica» capace di fondare «tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà»10 - vengono totalmente subordinati al diritto. Come dire che i rapporti sociali sotto il capitalismo, governati adesso da un meccanismo triadico costituito da scambio (della propria forza lavoro identica ad una merce), contratto (grazie al quale le astratte volontà dei portatori di merce possono incontrarsi) e divisione del lavoro (in una produzione e riproduzione sociale che investe tutta la vita del lavoratore) - sono diventati anche rapporti di sfruttamento delle diseguaglianze che assumono la forma del lavoro salariato, la cui giustificazione va ricercata nello sviluppo della forma giuridica, quale agente dello sfruttamento capitalista. Tutta l’elaborazione di Pashukanis si concentra proprio su una serrata critica al violento disciplinamento capitalistico-borghese e alla forma giuridica che non soltanto lo perfeziona e lo attua, ma che stabilizzando il principio dell’uguaglianza formale, per mezzo del rapporto contrattuale instaurato «in apparenza» tra libere volontà, facendo pertanto interagire individui non come proprietari di merce alla pari, bensì come astratti soggetti giuridici che hanno consegnato la loro volontà nel diritto come equivalente generale - consente e, soprattutto, legittima lo sfruttamento. In questa direzione è proprio il diritto, ovvero la forza conferita dalla indistruttibilità del suo formalismo, capace come un immenso recipiente di accogliere tutto e il suo contrario, una sorta di oggetto, tecnicamente indifferente, a disposizione di chiunque abbia il potere di farlo proprio e di utilizzarlo secondo precisi progetti di dominio – a contenere internamente lo sfruttamento, il quale, come sottolinea Pashukanis con grande lucidità, è già completamente iniettato nella forma e non in un contenuto di classe, e questo perché
«le categorie giuridiche fondamentali non dipendono dal contenuto concreto delle norme giuridiche nel senso che esse conservano il loro significato anche se questo contenuto materiale concreto varia»11.
Lo sfruttamento di classe, in altri termini, è già parte integrante del diritto quale struttura, e non sovrastruttura, del capitalismo borghese, che abilmente ha permesso di far scomparire la discriminazione di base tra chi è proprietario dei mezzi di produzione e chi solo della forza lavoro.
2. Neutralità dello Stato, diritto dicotomizzato e controllo del conflitto di classe
La presunta neutralità ordinativa del sistema giuridico, in una critica che Pashukanis rivolge in particolare a Hans Kelsen12, non può che risolversi nella prassi in una specifica neutralizzazione volta a piegare l’individuo, asseritamente libero e indipendente, al sistema stesso, in cui la forma, attraverso la quale il contenuto assumerà efficacia giuridica, proiettandosi nella società, resterà invariata, poiché sarà sempre quella del comando espresso dallo Stato legalmente costituito. Di qui la considerazione del formalismo giuridico come subdola teoria che, se nelle premesse dichiara di essere dotata di un carattere sovraclassista, poiché sostenuta solo da purezza e neutralità, nella realtà finisce per porsi al servizio della classe ogni volta dominante13:
«una teoria generale del diritto – scrive Pashukanis - che non si cura di spiegare nulla, che volge pregiudizialmente le spalle ai fatti della realtà, cioè alla vita sociale, e che ha per oggetto le norme senza interessarsi né alla loro origine (questione metagiuridica) né alla loro connessione con alcun interesse materiale [che] non si cura di analizzare il diritto, la forma giuridica come forma storica giacché non si cura in generale di analizzare ciò che è»14,
che non si preoccupa, dunque, di criticare ciò che la determina, non può che rimanere schiava di quelle precondizioni (capitalistiche) che l’hanno imposta15. Se pertanto è il diritto, attraverso la sua produzione normativa, a creare il rapporto, il fatto, la realtà e non viceversa, esso non può che farsi tecnica di riduzione della complessità sociale, secondo un meccanismo volto alla neutralizzazione degli antagonismi sociali16, o meglio, alla sapiente frantumazione di ogni rapporto tra i soggetti, per cui ridotto a strumento tecnico funzionale all’accumulazione capitalistica, da scienza sociale «imparziale»17 come pretende di porsi, si trasforma abilmente in scienza di parte. Ecco perché, tornando al ruolo dello Stato come involucro protettivo, come risultato e non come totalità del processo giuridico, la sua concezione giuridica «non può mai divenire teoria e resterà sempre una alterazione ideologica dei fatti»18, cioè un elemento esterno del tutto compenetrato in una relazione di dominio. Siamo qui completamente all’interno della logica della società borghese che sin dall’origine riflette la propria vocazione contraddittoria tra ordine convenzionale, arbitrario e illimitato (diritto oggettivo); protezione dell’individuo e dei suoi possessi privati (diritto pubblico), e mercato (diritto soggettivo), come dimensione in cui «il soggetto economico riceve […] - come soggetto giuridico - un raro dono: una volontà giuridicamente presunta che lo fa assolutamente libero ed eguale tra gli altri possessori di merci come lui»19 - ma che ai fini della propria autoconservazione, deve reclamare la necessità del comando e del controllo statuale, quali concreti elementi connettivi del rapporto giuridico, ma soprattutto proclamare la categorica avversione ad una costituzione del soggetto giuridico, connotato sì di contenuti «civili e, a tutto concedere, politici», ma non «sociali», stante l’esigenza borghese, tutta ideologica, di mantenimento degli assetti sociali e istituzionali, di tutela dei principi concernenti la relazione tra potere e diritto, in ogni caso mai da scardinare o mettere in crisi, insomma di legittimazione dell’ordine giuridico come struttura funzionale all’ordine della formazione sociale capitalistica20. Per Pashukanis l’elemento del comando che è insito nel diritto oggettivo, se ha la funzione di ricomporre gli antagonismi fisiologicamente radicati nella dimensione del diritto soggettivo, dall’altra tende a sovrapporsi a quest’ultimo, mistificandone i contenuti in una direzione volta solo a normalizzare le contraddizioni di classe e i rapporti tra poteri e autonomie, e difatti,
«il diritto soggettivo, mediante procedimenti artificiosi, viene rappresentato come una sorta di ombra giacché nessuna combinazione di imperativi e di obblighi ci darà il diritto soggettivo in quel significato autonomo e pienamente reale in cui lo incarna ogni proprietario della società borghese […] quanto più conseguentemente viene attuato il principio della regolamentazione autoritaria che esclude ogni specificità e autonomia di volontà, tanto più si riduce il terreno di applicazione della categoria giuridica»21.
Il diritto, in altri termini, dicotomizzato nella circolarità degli schemi soggettivo/oggettivo, privato/pubblico, individuale/sociale, comincia a profilarsi come elemento del tutto funzionale all'intento capitalistico-borghese di formare una società scissa, in modo da poter giocare (e controllare) una parte contro l'altra, secondo le convenienze, come accade, ad esempio, nella messa in scena dei rapporti tra obbligazione (assoggettamento) e soggettivazione, ossia tra tecnica e diritti:
«il diritto è, contestualmente, per un verso la forma della regolazione autoritativa esterna, e per un altro verso è la forma dell’autonomia privata subiettiva. Nell’un caso è fondamentale ed essenziale la caratteristica dell’incondizionata obbligatorietà, nell’altro la caratteristica della libertà garantita e riconosciuta entro certi limiti. Il diritto opera ora come principio di organizzazione sociale, ora come mezzo con cui gli individui «si separano stando in società». Nell’un caso il diritto sembrerebbe integrarsi completamente con l’autorità esterna, nell’altro, altrettanto completamente, esso si contrappone invece ad ogni autorità esterna che non lo riconosca. Il diritto come sinonimo della statualità ufficiale e il diritto come divisa della lotta rivoluzionaria: ecco un campo di infinite controversie e della più impossibile confusione»22.
Solo le insanabili contraddizioni mistificanti che il modello borghese propone - a loro volta riproducenti altrettanti dualismi reali, quali lavoro salariato e capitale, plusvalore e pluslavoro, libertà e non libertà, eguaglianza e disuguaglianza - consentono di immortalare la sua strategia ordinamentale, la quale deve costruirsi e comporsi materialmente su una base di inesauribile conflittualità, e che nella specie tende a dipanarsi tra la norma giuridica pubblica che è la legge, e i rapporti giuridici privati (che per Pashukanis costituiscono in particolare i contratti mercantili), ovvero da un lato il diritto come regolamentazione autoritaria, contraente esteriore e, dall’altra, il diritto come autonomia del soggetto, libertà garantita23:
«non soltanto i vari dispositivi tecnici dell’apparato dello Stato sorgono sul terreno del mercato, ma che tra le stesse categorie dell’economia mercantile-monetaria e la forma giuridica esiste un nesso interno indissolubile. In una società in cui esiste il denaro, in cui quindi il lavoro privato individuale diviene sociale soltanto con la mediazione dell’equivalente generale, si hanno già le condizioni per la forma giuridica con le sue contraddizioni tra soggettivo e oggettivo, privato e pubblico. Soltanto in una società di questo tipo il potere politico ottiene la possibilità di contrapporsi al potere puramente economico, che si presenta nella maniera più distinta come potere del denaro. In pari tempo diviene possibile anche la forma della legge»24.
Seguendo questo percorso dialettico si comprende come la critica marxista del diritto borghese avanzata da Pashukanis, tenda a svilupparsi in una traiettoria di assoluta radicalità, ponendosi nello specifico ad un livello di processualità che collide vistosamente con il progetto borghese, il quale riorganizzando continuamente e facendo esistere la società civile solo come una proiezione del processo di produzione e della struttura del potere, è destinato unicamente al controllo e all’esclusione di ogni «autonomia di volontà», e ciò attraverso un complesso tecnicismo giuridico-statuale con il quale si stabilizza e si legittima quella «esterna autorità normativa [che] non ha nulla in comune con la forma giuridica»25. E’ qui che la scienza giuridica borghese, promuovendo la differenza tra privato, fondato solo su interessi particolari, e pubblico, fondato su quelli generali della collettività, raggiunge il suo massimo perfezionamento, consistente nella realizzazione di quella totale corrispondenza tra mondo giuridico e mondo sociale, in cui il diritto non è più solamente forma dell’ordine sociale, ma interviene strutturalmente in quanto forma e funzione specifica della regolamentazione sociale di precisi rapporti di produzione26.
In questa prospettiva il diritto pubblico non può che atteggiarsi ad una costruzione intrinsecamente contraddittoria, perché sorretta dal tentativo palesemente ideologico di far passare per «diritto» ciò che diritto non è: «il diritto, come funzione, cessa di essere diritto e il potere giuridico senza l’interesse privato che lo sorregge diviene qualcosa di introvabile e astratto che facilmente trapassa nel suo opposto, cioè nell’obbligo (ogni diritto pubblico è al tempo stesso un obbligo)»27. Tale incoerenza, che si traduce materialmente attraverso questa funzione sociale che il potere costituito esercita in nome dell’interesse generale, illustra bene il momento in cui ogni contraddizione, ogni conflitto che si muta in antagonismo idoneo a mettere in crisi la società borghese, deve essere risolto in favore dell’unità del potere, aspetto questo che consente di individuare la genesi mistificata del comando con cui la classe al potere realizza i propri interessi privati sotto forma di perseguimento dell'interesse generale:
«un diritto pubblico può sussistere soltanto come riflesso della forma giuridica privata nella sfera della organizzazione politica, oppure cessa in generale di essere diritto. Ogni tentativo di rappresentare la funzione sociale come tale, vale a dire semplicemente come funzione sociale, e la norma come mera regola organizzativa significa la morte della forma giuridica. Ma il presupposto reale di questo superamento della forma giuridica e della ideologia giuridica è una condizione della società in cui sia eliminata la stessa contraddizione fra interesse individuale e interessi sociali. Tratto caratteristico della società borghese è proprio il fatto che gli interessi generali si separano dagli interessi privati e ad essi si contrappongono, ma assumono però involontariamente in questa contrapposizione la forma di interessi privati, cioè la forma del diritto. Inoltre, come è da attendersi, gli elementi giuridici della organizzazione statuale sono preminentemente quelli che rientrano senza residui nello schema degli interessi privati separati e contrapposti»28.
Ne consegue per Pashukanis - pur riconoscendo che «il dominio di classe, abbia o no una forma organizzata, è assai più vasto di quella regione che possiamo denominare dominio ufficiale del potere statuale»29 - che diventa ideologicamente necessario attribuire alla regolamentazione sociale di classe un attributo che strutturalmente non può avere, quello cioè di una sovrastruttura che mira a garantire gli interessi privati individuali, e non di classe. Si deve allora affermare che, se è vero che la tutela da parte dell’autorità costituita degli interessi privati individuali, quale obiettivo primario della società borghese, è un elemento determinante dell’interesse generale - la forma giuridica diventa nella sua essenza lo strumento impiegato dalla classe al potere ogni volta dominante di convertire in interesse generale i propri interessi di classe.
3. Stato, riproduzione capitalistica e potere di classe
Ecco dunque specificarsi la reale prerogativa dello Stato che per Pashukanis, come già sopra richiamato, pur assumendo una «caratterizzazione giuridica», pur rappresentando una «esterna autorità» - «non ha nulla in comune con la forma giuridica», coincidendo soltanto con la struttura del comando politico volto tecnicamente a riprodurre la forma del rapporto giuridico tra soggetti portatori di interessi privati autonomi, ma nella sostanza a nascondere i rapporti di dominio di classe: «la massa fondamentale del capitale diviene in modo completo una forza di classe impersonale», sicché «il dominio di fatto fuoriesce completamente dai confini strettamente giuridici»30. E’ pertanto mediante questa sottile operazione di chirurgia giuridica che la mistificazione capitalistico-borghese - quale realtà collegata a utilità specifiche, a interessi particolari, generata dalla sua natura di classe - raggiunge il suo livello più alto e sofisticato, in quanto per affermarsi ha bisogno di una forma giuridica astratta che garantisce un’uguaglianza formale, ma che viene immediatamente neutralizzata dalla sostanziale disomogeneità di posizione rispetto ai mezzi di produzione materiale e culturale: «il potere politico di classe può assumere la forma di un potere pubblico proprio perché il rapporto di sfruttamento si attua formalmente come rapporto fra due possessori di merci «indipendenti» ed «eguali», uno dei quali – il proletario – vende la forza lavoro, e l’altro – il proprietario – la compra»31. La soluzione generale richiesta dalla forma capitalistica del potere prevede quindi che
«a fianco del dominio di classe immediato, si costituisce un dominio indiretto, riflesso, nella forma del potere statuale in quanto forza speciale, separata dalla società. Sorge così il problema dello Stato», e che convalida il suo dominio nella «espressione giuridico ufficiale» della «subordinazione degli stessi operai alle leggi dello Stato borghese, agli ordini e alle disposizioni dei suoi organi, alle sentenze dei suoi tribunali, etc.»32.
In effetti il problema dello Stato, come comando e funzione antioperaia, sorge per Pashukanis perché alla base vi è proprio quella uguaglianza della disuguaglianza immanente ai rapporti di produzione capitalistici che va necessariamente giustificata nel suo contenuto essenzialmente dispotico. Nel rapporto formalmente libero ed indipendente che si conclude mediante il contratto tra il proprietario e il proletario, si nasconde in realtà una ineguaglianza oggettiva tra il primo che detiene i mezzi di produzione ed il secondo che dispone solo della forza lavoro. E’ proprio grazie alla libertà formale e all’uguaglianza del diritto che, paradossalmente, può realizzarsi un ordinamento economico ingiusto, dal momento che colui che vende la propria forza-lavoro viene concepito dal diritto, come offerente di merci, in linea di principio in maniera uguale ad ogni altro offerente di merci, ma la merce «forza-lavoro» si differenzia dalle altre merci in maniera del tutto fondamentale (essa crea nuovo valore), derivandone che il diritto consolida la differenza sociale tra il proprietario dei mezzi di produzione, presso il quale si accumulano questi valori, e l’offerente della forza-lavoro, che è «libero» anche nel senso che non ha altro da offrire. Questa uguaglianza della disuguaglianza reale che si concretizza in uno scambio di merci differenti, salario e mezzi di produzione contro forza lavoro e dipendenza vitale del proletario che ha solo tale risorsa da vendere, induce quindi il capitale a regolare l’inevitabile conflittualità che detto rapporto di forze è in grado potenzialmente di scatenare. La necessità di garantire in piena armonia la circolazione e la riproduzione capitalistica costringe dunque l’autorità dominante a svolgere un duplice ruolo, quello di consentire il regolare funzionamento delle sovrastrutture giuridiche e perseguire, con tutta una serie di strumenti non giuridici, il suo potere di classe. In questa molteplicità di strumenti non giuridici figurerà il ritenuto «diritto pubblico», così come tutto ciò che è tradizionalmente inteso come l'insieme delle sue funzioni di regolamentazione, tra cui il diritto penale:
«il dominio di fatto acquista un preciso carattere giuridico pubblico quando al suo fianco e indipendentemente da esso compaiono rapporti connessi con atti di scambio, cioè rapporti privati par excellence. Intervenendo come garante di tali rapporti, l’autorità diviene un’autorità sociale, un potere pubblico, un potere che persegue l’impersonale interesse dell’ordine […] Al contrario, l’autorità come garante dello scambio mercantile non soltanto può essere trasposta in termini giuridici, ma si configura essa stessa come diritto e soltanto come diritto, si fonde cioè integralmente con l’astratta norma oggettiva. Perciò ogni teoria giuridica dello Stato che voglia abbracciarne tutte le funzioni è necessariamente inadeguata: non può essere un rispecchiamento fedele di tutti i fatti della vita statuale e dà invece una interpretazione ideologica, e cioè alterata, della realtà»33.
Se pertanto il diritto è espressione di quella autonomia di volontà che ogni individuo pretende di realizzare, lo Stato invece, garantendo la pace che permette la realizzazione (presunta) di questa autonomia sotto forma di «interesse generale», tenterà di far passare tutte le manifestazioni del suo potere come derivanti da questa sola funzione «pubblica», nella sua specificità non giuridica in quanto concernente soltanto il dominio di classe. Di qui l’importanza da parte dello Stato di assumere in superficie un travestimento giuridico da commisurarsi alla materiale legittimità pratica del rapporto sociale: «la macchina statale si realizza effettivamente come impersonale volontà generale, come «autorità del diritto» ecc., proprio in quanto la società costituisce un mercato. Sul mercato ogni venditore e ogni acquirente […] è un soggetto giuridico par excellence»34. Dietro questa dimensione impersonale, il capitale può operare indisturbato, assumendo il comando in modo minuzioso sui movimenti dello Stato che così gli resta sottomesso; né incidendo su tale relazione le eventuali modificazioni delle strutture giuridiche, le quali, se date, si limitano solo a porre superabili conflitti in seno alla classe dominante, con ciò derivandone che la direzione del comando capitalistico permane inalterata35. Ma se così stanno le cose, se cioè la forma giuridica, di cui lo Stato è fittiziamente ammantato, non deve mai oscurarne il suo fondamento costituito dal comando attraverso il quale controllare e reprimere ogni antagonismo presente nella società del capitale,
«perché mai il dominio di classe non resta quello che è, vale a dire un assoggettamento di fatto di una parte della popolazione ad opera dell’altra, e prende invece la forma di un potere statuale ufficiale, ovvero, che è lo stesso, perché l’apparato della coercizione statuale non viene costituito già come apparato privato della classe dominante, ma si distingue da questa assumendo la forma di un apparato pubblico impersonale, separato dalla società?»36.
4. Lo Stato del capitale come baluardo dello sfruttamento di classe
L’insistenza marxiana con la quale Pashukanis fonda il suo interrogativo circa la funzionalità della dimensione pubblica nella produzione del comando capitalistico, sembra introdurre un inevitabile parallelismo che non può non coinvolgere quel processo contraddittorio nel quale agiscono differenti soggettività, la cui unità è astrattamente posta, ma separata nella realtà. E difatti, proprio come avviene nell’ambito della circolazione delle merci, laddove l’atto dello scambio semplice, pur richiedendo la presenza di soggetti giuridicamente liberi ed eguali, tende a celare quanto avviene nel modo di produzione capitalistico, il cui presupposto di equivalenza è il pluslavoro, cioè una falsa equivalenza del lavoro estorto, in apparenza non immediatamente percepibile in quanto abilmente nascosto nell’unitarietà del tempo di lavoro e dall’essere la forza lavoro divenuta essa stessa merce, eppure eccezionalmente sviluppato37 - così analogamente per la dimensione pubblica che camuffa il comando trincerandosi dietro una invisibilità immediata di cui si compone l’interesse collettivo, ma tesa a nascondere la particolarità che anima la classe al potere ogni volta dominante, a sua volta da tutelare e proteggere mediante la forma privata di quell’«associazione di dominio» che è lo Stato38. E’ il latente, ma perdurante, elemento giusnaturalistico che interviene a ricomporre razionalmente le manifeste ambiguità del procedimento ordinamentale borghese, oramai del tutto radicato «nel concetto stesso di potere pubblico, vale a dire di un potere che non appartiene a nessuno in particolare, che sta al di sopra di tutti e che si indirizza a tutti»39. In effetti, per restare all’annoso quesito di Pashukanis, questo processo, contraddittorio anche perché essenzialmente dominato da soggettività svuotate di ogni contenuto materiale, porta con sé il suo stesso mascheramento, producendo non tanto ideologia, ma, appunto, una artificiosa invisibilità proprio in quanto l’astratto non si intravede (Stato-interesse generale-dominio di classe), ma si intuisce un concreto (assoggettamento di fatto di una parte della popolazione) svuotato però di ogni determinazione. Si comprende quindi molto bene la specificità problematica che condiziona la strategia discorsiva borghese diretta alla salvaguardia delle strutture fondamentali dei meccanismi di accumulazione, di certo non razionalmente giustificabile, ma solo arbitrariamente esigibile, consistente nella brutale duplicazione di diritto e violenza, necessaria al funzionamento del capitale e più in generale al progetto di dominio dispiegato sul reale che a sua volta si concretizza in un’unica e pienamente integrata forma di comando che vede il diritto (privato), ricomposto all’interno della violenta organicità del diritto pubblico, organizzare nella riproduzione proletaria la produzione sociale e lo Stato garantire la dinamica sociale del profitto. Ma questa normatività del capitale, tendente a configurare un processo di mera subordinazione sociale il cui esito programmatico è quello di determinare la forzosa eliminazione di ogni differenza e autonomia, per evitare la conflittualità di classe deve esaltare la statualità40 come principio impersonale, generale ed astratto:
«la coercizione, in quanto comando di un uomo rivolto ad un altro e sanzionato dalla forza, contraddice al presupposto fondamentale della relazione tra possessori di merci. Perciò, in una società di possessori di merci ed entro l’ambito dell’atto di scambio la funzione della coercizione non può operare come funzione sociale senza essere astratta ed impersonale. Per una società che produce merci la subordinazione ad un altro uomo come tale, come specifico individuo, significa soggezione all’arbitrio perché coincide con la subordinazione di un possessore di merci all’altro, e quindi anche la coercizione non può operare in forma diretta, come atto di mera strumentalità. Essa deve operare come coercizione che promana da una qualche persona astratta e generale, come coercizione attuata non già nell’interesse dell’individuo da cui promana – giacché in una società mercantile ogni uomo è un uomo egoista - ma nell’interesse di tutti i soggetti della comunicazione giuridica. Il dominio dell’uomo sull’uomo si attua come dominio del diritto, vale a dire come dominio di una norma oggettiva ed imparziale»41.
Pashukanis ribadisce qui nuovamente, in maniera palese, il carattere di sovrastruttura che è proprio dello Stato, il quale presuppone, come condizione della propria esistenza, la società civile con i suoi inconciliabili conflitti di classe. E questo carattere che è soltanto legato al comando, per potersi affermare giuridicamente, per dar vita cioè ad una «teoria giuridica dello Stato deve necessariamente prendere le mosse dallo Stato come forza indipendente, separata dalla società: in ciò appunto consiste la sua giuridicità»42. Ora, questo aspetto essenziale del diritto borghese, e cioè la necessità che lo Stato per esistere razionalmente debba farlo estraniandosi formalmente dalla società, rendendosi autonomo e indipendente da essa, risponde ad un preciso disegno. Storicamente ciò avviene in quanto lo Stato moderno, nato dall'esigenza della borghesia di esercitare un potere unitario e accentrato, si è venuto costituendo sempre più come un apparato burocratico e repressivo assai complesso e articolato, e naturalmente costoso. Esso finisce perciò per diventare un grande corpo parassitario che pesa su tutta quanta la società, quindi anche, seppure in misura minore, sulla stessa classe dominante. Questa tendenza dello Stato a sovrapporsi e a estraniarsi rispetto alla base sociale di cui è emanazione, risulta particolarmente evidente quando, avvertendo la borghesia come oltremodo minacciosa la pressione del proletariato, rinuncia ad esercitare direttamente il potere consegnandolo a «generali norme di legge che esprimerebbero la volontà dello Stato»43, e che presentandosi come al di sopra delle parti e garante dell'ordine, le permette (in apparenza) di non figurare in prima persona, ma le assicura in realtà di meglio esercitare il potere che più le interessa esercitare, quello economico-sociale. Si spiega, dunque, nell’ottica dello svelamento marxiano, come Pashukanis giunga ad evidenziare che
«la teoria giuridica presume in primo luogo che sia lo Stato e non le persone a comandare […] [ma] se chi agisce è lo Stato e non le persone, perché mai riferirsi separatamente alla subordinazione alle norme dello Stato stesso? […] ogni concreto rapporto giuridico pubblico include in sé il medesimo elemento di mistificazione che ritroviamo nel concetto generale dello Stato-persona […] lo Stato giuridico è un miraggio, ma un miraggio assai conveniente per la borghesia poiché fa le veci di una più moderna ideologia religiosa: occulta alle masse il dominio della borghesia. L’ideologia dello Stato di diritto è ancor più conveniente dell’ideologia religiosa giacché, pur senza rispecchiare appieno la realtà oggettiva, poggia tuttavia in qualche modo su di essa […] in ogni deliberazione del parlamento si può vedere, abbandonando il punto di vista giuridico, non già un atto dello Stato, ma la decisione di un determinato gruppo di uomini mossi da quegli stessi motivi individualistici ed egoistici o classisti che sospingono qualsiasi altro aggruppamento»44.
Se pertanto lo Stato rappresenta il tentativo di giuridicizzare falsamente i rapporti sociali mediante la logica del mercantilismo contrattuale, ne deriva che non può esistere uno Stato indipendente da un sistema che è sorto per mistificare la sua totalità produttiva e gli antagonismi che sostengono questa totalità: «per tener ferma la purezza della teoria, la borghesia non ha mai perso di vista l’altro aspetto della questione, e cioè che la società classista non è soltanto un mercato in cui si incontrano possessori di merci indipendenti, ma è al tempo stesso l’arena di una asperrima lotta di classe nella quale l’apparato statuale costituisce una delle armi più potenti»45. E così lo Stato, come ha puntualmente osservato Louis Althusser, viene proclamato neutrale, cioè «separato dalla lotta tra classi per meglio intervenirvi»46, perché solo l’illusione che esso sia neutrale ne consente l'occupazione pacifica da parte di una classe, che può così assoggettarlo ai propri interessi e alla propria politica. Lo Stato è concepito «per non essere intaccato e nemmeno “attraversato” dalla lotta tra le classi»47: è lo strumento di lotta politica che serve ad assicurare e perpetuare il modo di produzione capitalistico, ponendosi così, come Marx si premura di analizzare tra i Grundrisse e il Capitale, la «sintesi della società borghese nella forma dello Stato»48. In questi termini lo Stato diventa a pieno titolo uno strumento del conflitto di classe, guidato e controllato dal gruppo provvisoriamente dominante che, se da una parte, per conservare l’ordine riproduttivo rispetto alla classe dominata, deve con abilità mimetizzare la sua azione ed il suo essere parte in causa, dall’altra, con riferimento proprio a se stesso e a tutto ciò che lo compone, deve atteggiarsi a sintesi mediatoria per evitare il più possibile la conflittualità al suo interno. E tale sintesi, tra funzione repressiva ed organizzatoria svolta dallo Stato, svela tutta la propria mistificante natura, quando, nel rapporto dinamico e conflittuale, la classe operaia cerca di imporsi su tutti gli aspetti dello sfruttamento, sicché
«nella nostra epoca – scrive Pashukanis - nella quale si sono intensificate le lotte rivoluzionarie, possiamo osservare come l'apparato ufficiale dello Stato borghese ceda spazio alle organizzazioni armate fasciste ecc. Questo prova ancora una volta che, quando viene scosso l'equilibrio della società, questa non cerca la propria salvezza nella creazione di un potere che si trovi al di sopra delle classi, ma la cerca nella massima tensione di tutte le forze delle classi in conflitto»49.
Ne consegue che questo formalismo, questa neutralità nella quale è apparentemente immerso lo Stato di diritto come meccanismo di comando trascendente sulla produzione sociale, fondato sulla forza legittima che impone il rispetto delle regole senza mediare, sull’autorizzazione della violenza attraverso la costruzione di ordinamenti giuridico-economici in grado di meglio perfezionarla - rappresenta il connotato specifico dello Stato nell’epoca dell’equilibrio delle forze di classe che va continuamente monitorato e corretto, ma che non può impedire che le contraddizioni - prima o poi - esplodano:
«lo Stato come fattore di forza nella politica interna ed esterna: ecco la correzione che la borghesia dovette apportare alla sua teoria e alla pratica dello «Stato di diritto». Quanto più instabile divenne il dominio della borghesia, tanto più compromettente si fece quella correzione e tanto più rapidamente lo «Stato di diritto» si trasformò in un’ombra incorporea: finché, da ultimo, un eccezionale inasprimento della lotta di classe non costrinse la borghesia a metter da parte la maschera dello Stato di diritto e a mettere a nudo l’essenza del potere come violenza di una classe sull’altra»50.
Nonostante tutti gli sforzi tesi ad occultare la sua reale funzione repressiva, a loro volta mascherati dietro la sua forma ideologica prevalente che è quella dell’ideologia giuridica, lo Stato - pur palesandosi come «l'universale in sé e per sé», per dirla con Hegel, dato che il potere nella società civile si presenta come «ordine delle cose» - non può evitare di presentarsi come emergenza o eccezione, e quindi come violenza immediata. Quando il dominio di classe è messo in pericolo, l’emergenza o l’eccezione riescono a trovare una giustificazione soltanto nell’ambito dell’anomia, ovvero del vuoto giuridico, attorno al quale l’unico fondamento teorico può essere dato solo dal potere assoluto dello Stato che, come ricorda Pashukanis,
«come organizzazione del dominio di classe e come organizzazione destinata a condurre guerre esterne, non esige una interpretazione giuridica e, nella sostanza non la consente. E’ questa una regione in cui impera la cosiddetta raison d’état, cioè il principio della nuda conformità al fine»51.
A questo livello formale e generale di ordinazione, è chiaro che nessuna alternativa in termini di composizione dei rapporti di classe può darsi, dal momento che lo Stato, di qualunque forma esso sia52, democratico o totalitario, effetto e motore dello sviluppo nonché baluardo dello sfruttamento, oramai identificatosi con il capitale - pretende di muoversi solo all’insegna di una logica di separazione e di violenza, il cui fine è quello di controllare l’insopprimibile emergenza del bisogno di gestione collettiva della produzione sociale, e dunque di garantire il «dominio dell’uomo sull’uomo».
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