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ilpungolorosso

Autodeterminazione dell’Ucraina?

di Alessandro Mantovani

1649263783 maxresdefault«Se [per la propria affermazione nazionale] un paio di Erzegovini vogliono dare il via ad una guerra mondiale che costerebbe mille volte gli uomini che popolano l'intera Erzegovina; questo secondo me non ha nulla a che fare con la politica del proletariato» (Engels a Bernstein, 22-25/2/1882) 1

«Essere per la guerra in tutta l'Europa per la sola ricostituzione della Polonia significa essere un nazionalista della peggior specie, significa porre gli interessi di un piccolo numero di polacchi al di sopra degli interessi di centinaia di milioni di uomini che soffrono la guerra» (V.I. Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", 1916)

«Quanto più pura è ora la lotta del proletariato contro il fronte generale imperialista, tanto più imperioso si fa, evidentemente, il principio internazionalista: "Un popolo che opprime altri popoli non può esser libero"» (Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", 1916)2.

Ogni grande evento storico determina svolte. In particolare le catastrofi, e nessuna più della guerra. Tutto accelera, gli animi si accendono, le forze sociali si mettono in moto. Sono destinate a divaricarsi inesorabilmente tra chi la guerra la vuole e chi la subisce. Ma all'inizio il quadro si presenta diverso: lo sciovinismo e l'isteria bellicista imperano. ''Armiamoci e partite! Prendiamo misure di guerra e tirate la cinghia!'', è l'assordante boato dei media che copre ogni voce dissonante, mentre gli esitanti si danno un gran daffare, con ragionamenti tortuosi, per esorcizzare il momento in cui dovranno decidere: o per la guerra, o contro.

L'onda emozionale è tanto forte che la minima confusione, la minima incertezza, trascinano inesorabilmente nella direzione indicata dalla pressione mediatica. Anche su questo fronte la guerra è senza esclusione di colpi: si va dai mezzi più rozzi (immagini truculente, fake news sul numero di morti, cronache di efferati massacri e luminosi episodi di eroismo) a quelli più raffinati, fatti per palati esigenti. La guerra richiede sacrifici enormi, e dunque consenso.

Nell'ottocento lo zar di Russia cantava la litania della liberazione dei popoli slavi dal turco infedele, e Napoleone III il principio di ''nazionalità'' contro la ''Santa Alleanza''. Gli yankee, dopo aver sottomesso l'Europa Occidentale con la bandiera dell'antifascismo, han superato tutti con le guerre per la ''libertà'' e la ''democrazia''. Oggi queste seduzioni, un po' ingiallite dopo il Vietnam, il Cile, l'invasione dell'Iraq e dell'Afghanistan, han bisogno di nuova linfa. Ecco allora che, nell'espansione del capitale occidentale e della Nato nei territori dell'Est europeo, strappati palmo dopo palmo all'influenza russa, lo stendardo della ''libertà'' si accompagna a quello dell' ''autodeterminazione''.

Già sperimentato sul teatro siriano (dove, al legittimismo pro Assad dei russi, Washington ha opposto l' ''autodeterminazione'' dei curdi, riuscendo non poco a confondere le idee nel campo dell'estrema sinistra), ecco che di nuovo questo ordigno propagandistico (l' ''autodeterminazione'') sta mietendo nel nostro campo le sue vittime. Col miraggio dell' ''autodeterminazione ucraina'' parecchi scivolano nel fronte guerrafondaio, mentre dicono – e sono convinti – di opporvisi. Trascinati dalla corrente emotiva, non hanno la forza di rompere col filisteismo ammantato di falso pietismo per le vittime innocenti del conflitto, e introducono sofistici distinguo: dal momento che manca ancora un intervento diretto della NATO, quella tra Russia e Ucraina non sarebbe una guerra ''imperialista'', o lo sarebbe solo da parte russa; da parte Ucraina si tratterebbe invece di una guerra ''nazionale'' e ''popolare'' contro l'invasione, o quantomeno potrebbe diventarlo. Di conseguenza, secondo costoro, se da noi e in Russia la parola d'ordine corretta sarebbe il classico ''guerra alla guerra'', ossia il disfattismo, gli ucraini andrebbero invece invitati ad imbracciare le armi contro l’esercito invasore invece di rivolgerle contro la propria borghesia.

Credo che fra quanti si lasciano confondere da queste sirene ve ne siano in buona fede. Ritengo perciò importante confutare questo punto di vista. Tuttavia non si può farlo correttamente se si pensa, semplificando troppo, che le questioni nazionali in generale e l'autodeterminazione dell'Ucraina in particolare non abbiano ormai nessun interesse per il movimento di classe. Dividerò perciò la mia argomentazione in tre parti: dapprima una sintetica messa a punto della questione dell'autodecisione delle nazioni nella tradizione marxista, poi un tentativo di introdurre i criteri sulla base dei quali giudicare la natura del conflitto in corso, che infine verranno messi in rapporto, nella III parte, con la recente storia Ucraina e con la sua collocazione economica e geopolitica nel confronto Est-Ovest.

 

I

Marx ed Engels di fronte alle nazionalità.

Mentre la prima edizione del "Manifesto" comunista era ancora fresca di stampa, Marx ed Engels rientravano in Germania per partecipare alla rivoluzione tedesca, anzi alla rivoluzione europea. La prospettiva socialista era ancora lontana. In Europa la "Santa Alleanza" semifeudale era ancora dominante. Pertanto la loro strategia non poteva puntare che ad un lungo processo rivoluzionario (la "rivoluzione in permanenza"). Nel suo corso, il proletariato, ancora minoritario socialmente e immaturo politicamente, avrebbe via via educato se stesso, tentando di aprirsi un varco verso la sua rivoluzione, lottando dapprima insieme con le classi borghesi e piccolo-borghesi, per la rivoluzione democratica contro la reazione feudale, sgombrando così la strada allo sviluppo delle forze produttive capitalistiche.

Uno dei problemi nodali che avrebbero deciso del futuro dell'Europa era senza dubbio quello nazionale: la costituzione di stati corrispondenti alla nazione era infatti premessa necessaria allo sviluppo del mercato e del capitalismo nazionali, e perciò al loro interno del proletariato, quali premesse del socialismo.

Solo nell'Europa occidentale il processo poteva dirsi su per giù compiuto. Per gran parte del continente, invece, esso era incompleto e, in modo particolare, ciò valeva per le aree sottoposte all'influenza delle tre potenze che costituivano il baluardo della reazione europea: la Prussia, l'Austria e l'impero zarista. Il pegno del loro patto era costituito dalla spartizione della Polonia, paese che la rivoluzione europea aveva dunque vitale interesse a liberare. Solo la sconfitta della "Santa alleanza" poteva d'altra parte spazzar via gli ostacoli che si frapponevano alla riunificazione tedesca, a quella italiana e alla costituzione di un'Ungheria indipendente.

Nella visione di Marx ed Engels, dal momento che la febbre della rivoluzione aveva contagiato la Germania, l'Ungheria, l'Austria, l'Italia, la Polonia, ma non la Russia, questa diveniva - e dato il suo asiatico immobilismo sociale lo sarebbe rimasta a lungo - la riserva strategica della controrivoluzione, che dalle sue steppe avrebbe potuto in qualsiasi momento - come aveva già fatto nel 1830 in Polonia - scatenare la guerra contro la rivoluzione. Il campo di quest'ultima si divideva dunque non solo all'interno del paese, fra le classi, ma anche all'esterno, fra nazioni rivoluzionarie, pronte a lottare contro la Russia, e nazioni controrivoluzionarie, l'impero zarista e i suoi alleati.

Per la ''Nuova Gazzetta Renana'', il giornale da loro diretto, a qualsiasi stadio si fosse per il momento attestata la "rivoluzione in permanenza", nonché per fronteggiare la minaccia della potenza moscovita, era augurabile che la Germania inglobasse l'Austria e la Boemia, aprendosi attraverso la Slovenia un accesso al mare Adriatico; auspicabile che un accesso a quel mare fosse riservato ad un'Ungheria altrimenti inevitabilmente asfittica; che la Polonia e l'Italia fossero ricostituite, infine che l'accesso al Mediterraneo fosse impedito all'odiato knut tataro-cosacco, impedendogli di sfruttare la debolezza dei popoli balcanici per sconfiggere i turchi e fare capolino sugli stretti del Bosforo3. Di qui le divergenze tra Marx e Bakunin, che sosteneva l' ''autodeterminazione'' degli slavi4. Stando alla ''Neue Rheinische Zeitung'', il problema non era dunque l'astratta ''uguaglianza'' di tutte le nazioni e nazionalità europee, che disseminate in innumerevoli staterelli sarebbero cadute impotenti sotto lo stivale russo, bensì la sconfitta della reazione e del feudalesimo.

Il marxismo, in altre parole, non si impegnava a soddisfare per principio le pretese di ogni singola nazionalità, e appoggiava le lotte nazionali solo nella misura in cui esse potevano favorire la crescita del proletariato e la sua unione, dapprima all'interno delle frontiere nazionali, tendenzialmente oltre queste.

Si può discutere fin che si vuole sull'appropriatezza di tale strategia. Ad esempio un insigne marxista come Rosdolsky l'ha criticata – a mio avviso con argomenti non privi di fondamento - sostenendo che essa, allontanando i piccoli popoli slavi dalla rivoluzione, non operò a favore di quest'ultima5. Ma una cosa ne emerge chiaramente: per i marxisti la questione delle nazionalità non si risolve un volta per tutte in base ad un principio sempiterno; si risolve in concreto, in base ai suoi riflessi sugli interessi internazionali del proletariato. Ed a questi è subordinata.

 

La seconda internazionale e le irrisolte questioni nazionali d'Europa

Non v'è da sorprendersi perciò se, fallita la rivoluzione quarantottesca, ed in seguito alla formazione dell'Italia e della Germania attraverso guerre nazionali, in un quadro internazionale profondamente mutato dalla crisi dell'impero turco, la politica del proletariato verso le nazionalità europee ancora oppresse venne ridiscussa. La ribellione degli Armeni contro Costantinopoli e l'insurrezione greca a Creta, alla metà degli anni '90 del XIX secolo, provocano all'interno della II Internazionale un forte dibattito tra chi intendeva conservare alla socialdemocrazia la pregiudiziale anti-russa e chi viceversa, come Kautzky, riteneva che «la vecchia politica orientale di Marx è divenuta del tutto insostenibile»6. Egli, allora il teorico marxista più influente del socialismo internazionale, è ormai convinto che il vero ostacolo alla lotta di classe non siano le aspirazioni di indipendenza dei piccoli popoli ma piuttosto i problemi nazionali insoluti che lo sviluppo capitalistico necessariamente comporta, con tutto il loro corredo di sciovinismo e di odio. Il capitalismo è ormai dominante, e l'accento della strategia proletaria internazionale deve spostarsi dal favorire lo sviluppo borghese attraverso la creazione di grandi stati nazionali, al superamento delle diffidenze dei proletari delle nazionalità oppresse verso quelli della nazione dominante. Su ispirazione di Kautzky, nel 1896, il Congresso di Londra dell'Internazionale socialista approva una risoluzione che riconosce al riconoscimento del «pieno diritto di tutte le nazioni all'autodeterminazione».

Per un'aperta revisione della strategia internazionale socialista coinvolgente anche il tradizionale appoggio proletario all'indipendenza polacca è Rosa Luxemburg. A partire dal 1896 essa si pronuncia per un cambiamento di politica verso l'Europa orientale e la Turchia7. Ma la questione è ben lungi dall'essere teoricamente risolta, soprattutto per quanto riguarda le piccole nazioni.

Al centro del dibattito si trovano, naturalmente, gli imperi multinazionali, Russia, impero asburgico e turco, dove il malcontento di queste piccole nazioni è sempre più accentuato. Il socialismo austriaco adotta nel 1899 per le nazioni sottomesse dalla monarchia bicipite il programma di uno Stato «democratico nazionale e federativo» fondato sul riconoscimento del «diritto di ogni nazione all'esistenza e allo sviluppo nazionali» e sulla negazione di privilegi a qualsiasi nazione8. Si tratta di un programma transitorio, attuabile all'interno del regime monarchico, la cui ambiguità verrà in seguito criticata dai bolscevichi. Costituirà comunque un precedente a cui si ispireranno i socialdemocratici russi, gli unici, oltre a quelli austriaci, a comprendere nel proprio programma un apposito paragrafo sull'"autodeterminazione", rivolto ovviamente a tutela delle nazioni oppresse dallo zarismo. Ed è proprio in Russia che la discussione sul problema dell'autodecisione è più acuta e ricorrente. I marxisti russi vedono l'impero zarista come una ''prigione di popoli'', e lo sciovinismo grande-russo come una fonte di divisione e di diffidenza tra i proletari russi e quelli delle nazioni oppresse dallo zar, e ritengono indispensabile, per favorire l'unione della lotta di classe in tutto il territorio dell'impero, lottare in primo luogo contro il centralismo grande-russo. Nel 1903 il II Congresso del POSDR adotta infatti il principio dell' "autodeterminazione" delle nazioni oppresse dall'impero zarista, inteso anzitutto come libertà di separazione a tutti gli effetti.

Al di là delle diverse posizioni presenti nel dibattito che precede il primo conflitto mondiale, insomma, il problema di sostenere o meno gli sforzi d'indipendenza di questa o quella nazione resta concreto e riferito alla strategia locale o complessiva del movimento operaio.

Ad ogni modo, quando arrivano le guerre balcaniche del 1912-13, i marxisti radicali sono tutti dalla parte dei popoli slavi contro i turchi e le grandi potenze, compresa l'arretrata Russia, che cercano di approfittare dello smembramento turco. Le parole d'ordine avanzate sono "Repubblica federativa balcanica" e "Nessun intervento! I Balcani ai popoli balcanici!"9

 

Lenin ed il problema dell' ''autodecisione'' nell'epoca dell'imperialismo

Il problema dell'autodeterminazione fu sempre al centro degli interessi teorici e politici di Lenin, si può ben dire fino al giorno della sua morte, intervenuta proprio mentre intendeva dare battaglia all'interno del partito contro le tendenze sciovinistiche ''grandi-russe'' che vi si stavano affermando protette dal segretario Stalin. Molti sono gli scritti da lui dedicati all'argomento, disseminati nel corso degli anni, che quindi risentono – malgrado l'uniformità dell'impostazione di fondo – dei diversi sviluppi politici russi ed internazionali. Numerosi essi divengono soprattutto dopo lo scoppio del conflitto mondiale, che rimetteva oggettivamente in primo piano la questione.

Una disamina del percorso intellettuale del leader bolscevico sulla questione sarebbe utilissima, ma lunga per gli scopi di questo scritto. Mi limiterò perciò a sottolineare gli aspetti più pertinenti rispetto al nostro presente, relativi all'epoca imperialistica, dell'entrata nella quale Lenin fu testimone, e in cui siamo ancora immersi.

Una questione generale deve essere premessa: contrariamente a quanto anche oggi si legge in certe semplificazioni "ultra-sinistre", secondo il leader bolscevico è errato ritenere che il problema dell'autodecisione delle nazioni interessi al movimento operaio solamente nei paesi arretrati (feudali o semifeudali, coloniali o semicoloniali), ovvero in quelle aree in cui non la rivoluzione socialista, bensì quella democratica-borghese (e lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche) sono all'ordine del giorno. Secondo la sua visione, al contrario, il problema riguarda le nazioni oppresse in generale (incluse quelle capitalisticamente sviluppate) e il periodo imperialista del capitalismo in particolare. Più volte Lenin polemizzò contro coloro i quali (come la Luxemburg, Gorter, Piatakov, Radek e la Ronald-Holst) sostenevano la necessità di abbandonare, per l'Europa imperialista, la parola d'ordine dell'"autodecisione"10. Di ciò si avvalgono oggi – travisando - alcune tendenze che sostengono l'idea di una resistenza ''popolare'' ucraina contro l'invasione russa (ne parleremo nella seconda parte di queste pagine).

Lenin ammette, naturalmente, che «dappertutto nel mondo i movimenti nazionali sono stati e sono i compagni di strada» della «rivoluzione democratico borghese»11. Ma ritiene altresì che «tutte le rivendicazioni essenziali della democrazia politica sono "realizzabili" nell'epoca imperialista soltanto in modo incompleto, deformato e in via di rara eccezione»12; pertanto «un errore [...] sarebbe quello di sopprimere un qualche punto del programma democratico, ad es. l'autodecisione delle nazioni, col pretesto della sua "irrealizzabilità" o del suo carattere "illusorio" durante l'imperialismo.»13

Lo sviluppo dell'imperialismo mondiale ostacola, frena, lo sviluppo non solo economico, ma anche politico di gran parte del globo. Quindi un completo sviluppo delle nazioni ed una completa risoluzione delle questioni nazionali è un sogno utopistico del nazionalismo borghese (la borghesia stessa, interessatamente, non appena ha dato vita al proprio stato nazionale definisce utopie le pretese di indipendenza delle nazioni oppresse). Proprio per questo il compito di liberare le nazioni oppresse spetta al movimento di classe del proletariato. Ecco alcuni passi di Lenin che si prestano a sintetizzare il suo fondamentale contributo all'argomento (i grassetti sono miei):

«il socialismo vittorioso deve necessariamente instaurare la completa democrazia e quindi, non deve attuare soltanto l'assoluta eguaglianza dei diritti delle nazioni, ma anche riconoscere il diritto di autodecisione delle nazioni oppresse, cioè il diritto di libera separazione politica. […] il socialismo non può essere vittorioso senza attuare una piena democrazia […] Come l'umanità non può giungere all'abolizione delle classi se non attraverso un periodo transitorio di dittatura della classe oppressa, così non può giungere all'inevitabile fusione delle nazioni se non attraverso un periodo transitorio di completa liberazione di tutte le nazioni oppresse» 14.

«Tutti gli indizi attestano che l'imperialismo lascerà in eredità al socialismo che lo sostituirà frontiere meno democratiche, parecchie annessioni in Europa e nelle altri parti del mondo. E allora? Il socialismo vittorioso, ristabilendo e applicando fino in fondo, su tutta la linea, la piena democrazia, rinuncerà a determinare democraticamente le frontiere dello Stato? […] In realtà queste frontiere verranno determinate democraticamente, cioè conformemente alla volontà e alle "simpatie" della popolazione. […] In regime capitalista non si può sopprimere l'oppressione nazionale (e politica in generale). Per farlo è necessario abolire le classi, cioè instaurare il socialismo. Ma, pur essendo fondato sull'economia, il socialismo non si riduce affatto a questo solo fattore. Per sopprimere l'oppressione nazionale si devono avere delle fondamenta: la produzione socialista, ma su queste fondamenta occorre anche edificare un'organizzazione democratica dello Stato, un esercito democratico, ecc. […] la delimitazione delle frontiere dello Stato conformemente alle "simpatie" della popolazione, compresa la libertà di separazione. Su questa base, a sua volta, si svilupperà praticamente l'assoluta eliminazione dei sia pur minimi attriti nazionali […] si avrà un rapido riavvicinamento e la fusione delle nazioni, che verrà coronata dall'estinzione dello Stato»15.

Se, dunque, il capitalismo (in particolar modo il capitalismo imperialista) non può essere disgiunto dall'oppressione delle nazioni, e da ciò consegue l'obbligo dei proletari della nazione dominante di lottare a favore di quella oppressa, da ciò non deriva affatto sillogisticamente che i proletari di quest'ultima debbano mobilitarsi sempre e comunque per l'affermazione della propria nazione. Anzi, man mano che lo sviluppo capitalistico procede, man mano dunque che esso si afferma a dispetto della mancata sistemazione nazionale di certe aree (e appunto, concretamente, si afferma tramite il predominio di alcune nazioni e il soffocamento o l'assimilazione di altre), il proletariato non ha più bisogno di farsi carico dello sviluppo capitalistico e può quindi lasciare la propria nazionalità oppressa al proprio destino, puntando alla rivoluzione proletaria internazionale, all'affermazione del socialismo, tendendo all'unità con quello della nazione che opprime, da cui la sua borghesia vorrebbe deviarlo tramite l'eterna querelle nazionalistica e sciovinistica. Di qui la diversità di tattica nei paesi dominanti e in quelli dominati.

«L'educazione internazionalista degli operai nei paesi dominanti [grassetto ns; ndr] deve avere necessariamente come centro di gravità la propaganda e la difesa della libertà di separazione dei paesi oppressi. Altrimenti non v'è internazionalismo. […] Si tratta di una rivendicazione incondizionata, quantunque fino all'avvento del socialismo la separazione sia possibile e "realizzabile" in un caso su mille. Noi abbiamo il dovere di educare gli operai all'"indifferenza" verso le questioni nazionali. Ma non un'indifferenza da annessionista […] Al contrario, il socialdemocratico di una piccola nazione deve porre il centro di gravità dell'agitazione sulla […] "volontaria unione" delle nazioni. […] Ma in ogni caso egli deve lottare contro la grettezza delle piccole nazioni, il loro isolamento, il loro particolarismo, lottare perché si tenga conto del tutto, dell'assieme del movimento, perché l'interesse particolare venga subordinato all'interesse generale. Coloro che non hanno approfondito la questione trovano "contraddittorio" che i socialdemocratici dei paesi oppressori insistano sulla "libertà di separazione" e i socialdemocratici delle nazioni oppresse sulla "libertà di unione". Ma se si riflette un pochino si vede che un'altra via per arrivare all'internazionalismo e alla fusione delle nazioni, un'altra via per raggiungere questo scopo partendo dalla situazione attuale non c'è e non può esserci» 16.

All'epoca in cui in primo piano stavano le rivoluzioni borghesi, le piccole nazioni dovevano subordinare la loro indipendenza alla necessità di abbattere lo zarismo e di creare grandi stati borghesi in grado di spazzare via il più presto possibile ogni residuo feudale. A partire dalla rivoluzione russa del 1917 all'ordine del giorno dell'Europa vi è la rivoluzione proletaria. dialetticamente, proprio perché ormai l'industrialismo, il mercato universale delle merci, il capitale hanno storicamente vinto e, non solo sbaragliato i resti del passato, bensì posto le basi per il loro stesso superamento, per rapporti di produzione sociali, proprio per questo la futura rivoluzione non avrà più bisogno di "subordinare" le piccole nazioni.

Proprio perché, come dice il Manifesto, vi è ormai troppo sviluppo, troppo commercio, se da un lato il proletariato delle nazioni oppresse non ha più un interesse ad allearsi con le classi borghesi e piccolo borghesi ai fini dello sviluppo di un mercato nazionale indipendente, e perde dunque interesse alle insurrezioni nazionali, dall'altro, proprio perché le condizioni sociali europee sono mature, anzi stramature, per il socialismo, la rivoluzione proletaria di domani potrà permettersi il lusso - e così facendo si assicurerà l'unica via possibile per superare gli attriti nazionali e far marciare insieme i proletari di diversi lingue e territori - di dare anche alla più piccola nazioncella, etnia o dialetto europeo uno status assolutamente identico a quello della nazione tedesca o della lingua inglese. Potrà dunque permettersi il lusso - e questo è il dovere precipuo delle nazioni che ne opprimono altre - di "concedere" la parità in tutti i campi alle minoranze nazionali e - ivi compresa la pidocchiosa "indipendenza" - alle piccole nazioni. Nel frattempo, il primo dovere del proletariato delle nazioni che opprimono è lottare concretamente contro ogni discriminazione nazionale, etnica, linguistica, religiosa nei confronti delle minoranze, contro l'annessione, l'occupazione, l'oppressione delle piccole nazioni.

Al tempo stesso per la consapevolezza che la vittoria della classe operaia è l'unica via che porta alla fine dell'oppressione nazionale, il dovere dei proletari delle piccole nazioni, delle minoranze e delle nazioni oppresse sarà invece quello di lottare per l'unione più stretta col proletariato delle nazioni dominanti.

In poche parole: la strategia proletaria diviene la seguente: subordinare tutte le nazioni, "grandi" e "piccole", all'esigenza dell'internazionalismo proletario.

 

L'autodecisione delle nazioni nella guerra imperialistica

Un chiaro esempio della necessità di questa subordinazione tanto delle nazioni oppressive quanto di quelle oppresse a questa comune strategia si ha allo scoppio, nel 1914, della prima guerra imperialistica. Fino a quel momento, il socialismo rivoluzionario aveva sostenuto la Serbia contro le pretese austriache. Ma dal momento che il conflitto diviene generale un cambio di strategia si impone.

«L'elemento nazionale, nella guerra attuale - spiega Lenin - , è rappresentato solamente dalla guerra della Serbia contro l'Austria […] Solo in Serbia e tra i serbi abbiamo già da parecchi anni un movimento di liberazione nazionale al quale partecipa una "massa popolare" di parecchi milioni e la cui "continuazione" è la guerra della Serbia contro l'Austria. Se questa guerra fosse isolata, vale a dire non collegata con la guerra europea e con gli avidi scopi di rapina dell'Inghilterra, della Russia, ecc., tutti i socialisti avrebbero l'obbligo di desiderare il successo della borghesia serba»17.

Ma nel 1914 «l'elemento nazionale della guerra austro-serba non ha un serio significato, in confronto alle rivalità imperialistiche fondamentali che decidono tutto» 18. Giustamente dunque, i socialisti serbi si rifiutarono di firmare i crediti di guerra. In queste condizioni nessun appoggio – ritiene Lenin - può essere dato alla propria borghesia nazionale. Non si può essere per la guerra in Europa, per la guerra imperialista, con i sacrifici immensi che causa alle masse popolari e proletarie, con le difficoltà che inevitabilmente crea al movimento operaio, pur di soddisfare le brame della propria nazione, ancorché oppressa.

«Essere per la guerra in tutta l'Europa per la sola ricostituzione della Polonia - spiega Lenin nel 1916 - significa essere un nazionalista della peggior specie, significa porre gli interessi di un piccolo numero di polacchi al di sopra degli interessi di centinaia di milioni di uomini che soffrono la guerra. […] Lanciare la parola d'ordine dell'indipendenza della Polonia oggi, nelle condizioni degli attuali rapporti fra le potenze imperialistiche limitrofe, significa veramente correre dietro a un'utopia, cader in un angusto nazionalismo, dimenticare la premessa necessaria, quella della rivoluzione generale in Europa, o, per lo meno, in Russia e in Germania. […] Ma per gli operai russi e tedeschi non è indifferente il fatto se parteciperanno o meno all'annessione della Polonia […] La situazione è senza dubbio molto intricata, ma vi è una via d'uscita che permetterebbe a tutti i partecipanti di rimanere degli internazionalisti: i socialdemocratici russi e tedeschi esigendo l'incondizionata "libertà di separazione" della Polonia; i socialdemocratici polacchi lottando per l'unità della lotta proletaria in un piccolo e nei grandi paesi senza lanciare per il momento attuale, o per il periodo attuale, la parola d'ordine di indipendenza della Polonia» 19.

Gli esempi della Serbia e della Polonia non sono eccezionali; al contrario, sono generalizzabili, e lo sono a maggior ragione in quanto l'affermazione di questa o quella nazione in più o in meno diviene, in un'area di capitalismo ormai avanzato, indifferente al proletariato, il quale non pone, come la borghesia, in primo piano le rivendicazioni nazionali, ma «le subordina agli interessi della lotta delle classi»20. Non è indifferente al proletariato, tuttavia, la divisione fra i suoi diversi distaccamenti nazionali favorita dal permanere dell'oppressione nazionale.

Da quanto detto sin qui possiamo già trarre una prima conclusione importante relativa alla guerra in corso: il proletariato russo non può oggi assolutamente ignorare, nel prendere posizione netta contro la guerra, la necessità di sostenere la piena ed incondizionata autodeterminazione dell'Ucraina, ed a sua volta, il proletariato ucraino, se non vuole assecondare la politica oppressiva dal proprio governo contro il Donbass, la Crimea e la Transnistria, appoggiare allo stesso modo il diritto di autodecisione di queste ultime.

Ci resta ora da considerare se ed in che misura il proletariato ucraino debba farsi promotore di una guerra nazionale e popolare contro l'invasione russa o se, all'opposto, la sua consegna debba essere il disfattismo del fronte esterno in vista della guerra di classe su quello interno.

 

II

Criteri per la crisi presente

Alla luce di quanto sopra svolto, quali criteri possiamo adottare per orientare il nostro atteggiamento di fronte alla guerra in corso? E' possibile in Ucraina conciliare la rivendicazione della lotta per la rivoluzione socialista, proletaria, con quella per la difesa nazionale, sia pur nella forma di una ''guerra popolare''? Per rispondere a questi quesiti dobbiamo anzitutto chiederci se guerre nazionali siano ancora possibili oggi in Europa, e a quali condizioni i marxisti potrebbero essere dalla loro parte.

Per evitare il più possibile lunghe citazioni, basti ricordare qui che Lenin, allo scoppio della guerra imperialistica del 1914, distingue da questo punto di vista il mondo in tre gruppi di paesi: l'Europa Occidentale, gli Stati Uniti e il Giappone, cioè i paesi capitalisti avanzati, dove le questioni nazionali sono sostanzialmente risolte; l'Europa orientale e i Balcani, dove esse persistono ma possono essere veramente risolte soltanto dalla ''democrazia proletaria'', ovvero da una rivoluzione diretta dal proletariato; il resto del mondo e le colonie, dove il problema nazionale era del tutto attuale.

Anche oggi in gran parte del mondo extra occidentale le questioni nazionali sono ancora all'ordine del giorno. Ma non è questo il nostro tema. Oggi la guerra è tornata nel ''Vecchio continente''. Parliamo dunque dell'Europa. Il capitalismo è ormai dominante in ogni poro della società europea, e il più arretrato dei paesi europei è cento volte più sviluppato, da un punto di vista borghese, di molti paesi dell'Africa o dell'Asia. Fa ciò di per sé scomparire la questione nazionale? No, ma ne lega le sorti alla rivoluzione proletaria:

''L'epoca dell'imperialismo non distrugge né l'aspirazione delle nazioni all'indipendenza politica né la 'realizzabilità' di tale aspirazione nel quadro dei rapporti imperialistici mondiali, Senonché, fuori di questo quadro […] una qualsiasi trasformazione democratica sostanziale è 'irrealizzabile' senza una serie di rivoluzioni e non può essere mantenuta senza il socialismo''21

Tornando all'Europa, se, come già detto, Lenin respinge l'opinione della Luxemburg e degli ''economisti imperialisti'' secondo cui le guerre nazionali vi sono ormai impossibili, nondimeno esse possono darsi solo in circostanze del tutto peculiari. Concretamente, l'unico caso allora verificatosi fu l'insurrezione ''di Pasqua'' irlandese del 1916, alla quale oggi certa sinistra si richiama per sostenere l'appoggio ad una più sognata che reale ''resistenza popolare'' ucraina all'invasione russa. Non starò a citare le sacrosante arcinote parole di Lenin secondo le quali una tale insurrezione, pur con tutti i suoi pregiudizi piccolo-borghesi, andava – contro l'opinione degli ''economisti imperialisti'' polacchi, russi, olandesi e tedeschi – salutata con favore. Ma è necessario dire qui che mai un paragone storico fu così inopportuno, e dimostrazione di ignoranza: la rivolta scaturiva da secoli di oppressione ed occupazione del territorio, il suo retroterra sociale era fortemente caratterizzato in senso (anche se non esclusivamente) proletario, e la direzione del movimento si richiamava persino (sia pur confusamente e incoerentemente) al marxismo (il leader della Irish Citizen Army, James Connolly, era stato un militante socialista, durante la sua emigrazione in America aveva fatto parte degli IWW, e si definiva marxista22). Ma ciò che più conta, al di là delle ambigue posizioni verso la Germania, oggettivamente, la rivolta, rispetto all'Inghilterra allora impegnata nel conflitto mondiale, era disfattista. E fu il preludio della guerra di liberazione irlandese del 1919-1921, i cui strascichi si prolungarono sino al 1923.

Tornando all'Europa nel suo complesso, stando a Lenin le ''guerre nazionali'' vi erano gà allora estremamente ''improbabili''. Ecco un suo passaggio illuminante:

''Se il proletariato europeo dovesse dimostrarsi impotente ancora per venti anni, se l'attuale guerra dovesse finire con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma; se anche l'imperialismo extraeuropeo (americano e giapponese principalmente) durasse per venti anni senza che si arrivasse al socialismo, per esempio a causa di una guerra nippo-americana, allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale. Ciò implicherebbe per l'Europa una involuzione di parecchi decenni. Ciò è improbabile. Ma non è impossibile''23.

Per quanto improbabile, fu proprio qualcosa del genere che accadde. La sconfitta, nel primo dopoguerra, della rivoluzione proletaria, intesa in senso internazionale, ha impedito che nell'est europeo e nei Balcani le questioni nazionali fossero risolte in modo democratico, secondo i desideri delle popolazioni e gli interessi del proletariato. La spartizione delle sfere d'influenza tra i due blocchi dopo la seconda guerra mondiale le ha dapprima congelate, e in seguito fatte riesplodere col crollo del blocco sovietico e della stessa URSS. I rivoluzionari non poterono perciò – pur essendo consapevoli che si trattava di movimenti storicamente condannati - non simpatizzare per le rivolte di Berlino est nel 1953 e dell'Ungheria nel 195624, la prima che iniziò come lotta proletaria per poi assumere anche un contenuto nazionale antirusso, la seconda che cominciò come insurrezione antirussa aprendo le porte però all'irrompere del movimento operaio dei consigli. Ma in entrambi i casi quei movimenti, pur interclassisti, non furono inquadrati nell'esercito regolare e si batterono contemporaneamente contro il proprio governo. Essi erano al contempo indipendenti – anche se ideologicamente contaminati – dall'Occidente, che non li aveva voluti e che fu ben felice di vederli schiacciare senza muovere un dito.

La premessa di una guerra ''nazionale'' nel senso marxista, di una guerra ''giusta'', che giustifichi la partecipazione del proletariato, è sempre, dunque, il suo contenuto oggettivamente rivoluzionario, il suo contenuto di classe all'interno del paese che lotta contro l'oppressione nazionale. Come si può dunque comprendere se una guerra è nazionale o meno?

''bisogna studiare la politica che precede la guerra, la politica che ha portato e che porta alla guerra. Se la politica è stata imperialistica, ha difeso cioè gli interessi del capitale finanziario, ha depredato ed oppresso le colonie e gli altri paesi, la guerra che scaturisce da una simile politica è imperialistica. Se la politica è stata una politica di liberazione nazionale, ha espresso cioè il movimento delle masse contro l'oppressione straniera, la guerra che ne deriva è una guerra di liberazione nazionale''25

''come distinguere una guerra effettivamente nazionale da una guerra imperialistica, travestita con parole d'ordine ingannevolmente nazionali […] bisogna appunto esaminare se a loro 'fondamento' via sia 'una lunga successione di movimenti nazionali di massa' per l' 'abbattimento del giogo nazionale' ''26

La premessa della ''guerra nazionale'', nella maggioranza dei casi, è l'insurrezione sul fronte interno. Ma anche laddove questa premessa è solo implicita – come nel caso delle ''rivoluzioni dall'alto'' – il contenuto rivoluzionario è un elemento indispensabile. Tenuto conto delle condizioni attuali di elevato sviluppo capitalistico dell'Europa, non v'è dubbio che il contenuto di classe fondamentale di ogni rivolgimento rivoluzionario non può essere che antiborghese e proletario. Qualsiasi guerra nazionale senza questa premessa fondamentale, senza il proletariato al potere o quantomeno una situazione di dualismo di potere, non è la nostra.

''Alla guerra borghese imperialista […] si può soltanto contrapporre […] la guerra civile del proletariato contro la borghesia per il potere […] e poi – solo in determinate circostanze particolari – una eventuale guerra di difesa dello stato socialista contro gli stati borghesi''27

''La rivoluzione in tempo di guerra è la guerra civile; la trasformazione della guerra dei governi in guerra civile è facilitata da una parte dai rovesci militari (dalla 'sconfitta') di questi governi; d'altra parte è praticamente impossibile tendere realmente a questa trasformazione senza concorrere, in pari tempo, alla disfatta''28

''Sul problema della milizia: non siamo favorevoli alla milizia borghese, ma soltanto alla milizia proletaria. Quindi 'né un soldo né un uomo' non soltanto per l'esercito permanente, ma neanche per la milizia borghese''29.

E' il contenuto di classe a decidere se, oggi, in Europa una guerra è o meno imperialistica, non certo il fatto che vi siano schierati molti o pochi paesi capitalisti. E dicendo guerra imperialistica non intendiamo banalmente una guerra di rapina, di conquista. Questa sarebbe una concezione volgare, non scientifica. Intendiamo una guerra che rappresenti, da una parte e dall'altra, gli interessi del capitale finanziario e, indipendentemente da quanti paesi vi partecipino, dei grandi gruppi monopolistici del capitale mondiale.

Si possono trovare questi elementi nel nazionalismo ucraino di oggi e di ieri?

 

III

Il nazionalismo ucraino: origini

Se volessimo limitarci, dogmaticamente, ad interrogare i testi di Marx ed Engels, il giudizio sul nazionalismo ucraino (o ''ruteno'' come essi lo chiamavano) non potrebbe essere più sprezzante: ''popoli senza storia'' à la Hegel. Un giudizio forse (come il già ricordato Rosdlosvsky ritiene) ingeneroso, dato che un movimento contadino anti polacco ed anti russo (il che voleva dire nell'ottocento anti aristocratico), in quanto tale proto-nazionale, pur si manifestò. Ma senza una classe urbana non poteva certo affermarsi (e tali classi erano - nei territori ''ruteni'' divisi tra Polonia, Russia e Impero asburgico - polacche, russe o tedesche)30.

In un territorio che è un caleidoscopio di etnie (ucraini, polacchi, bielorussi, russi, cechi, magiari, rumeni, ebrei, moldavi, tatari, bulgari, tedeschi, Rom), nel corso del XIX secolo, l'idea nazionale ucraina è patrimonio di cenacoli intellettuali, sorti per lo più nella Galizia austro-ungarica, senza collegamento con la massa del popolo, specie della campagna, i cui veri portavoce si trovano nel clero ortodosso, che guardava a Mosca. Come osserva il Carr, il nazionalismo popolare (contadino) ucraino era rivolto soprattutto contro i polacchi e gli ebrei31. E una divisione non solo politica, ma culturale e linguistica, esisteva tra l'Ucraina occidentale, sottoposta agli Asburgici32, e quella orientale, dove era in corso una consistente immigrazione di popolazione russa, concentrata nelle città, attirata dallo sviluppo industriale e capitalistico che stava conquistando anche l'arretrato impero zarista. Una divisione culturale che permane fino ad oggi.

Dicendo che l'Ucraina indipendente fu un'invenzione di Lenin, Putin ha espresso una mezza verità. In realtà, essa è, ancor più, una conseguenza dell'oppressione nazionale zarista sui ''piccoli russi'', perché non v'è nulla che attizzi di più il risentimento nazionale che l'assimilazione forzata. Eppure, ancora durante la rivoluzione del 1905, gli ucraini si limitano a chiedere autonomia e libertà nell'uso della propria lingua. E così sarà ancora tra la caduta dello zar nel febbraio 1917 e la rivoluzione bolscevica. Durante la ''grande guerra'', i nazionalisti ucraini cercarono appoggio tra le potenze occidentali, coprendosi di discredito per essersi mostrati ''così pronti a vendersi allo straniero''33. La prima ''Rada'' centrale ucraina, del 1914, dichiarò la propria fedeltà all'Austria-Ungheria, e una seconda Rada organizzò l'arruolamento di volontari sotto le insegne asburgiche.

 

Il nazionalismo ucraino: 1917-1921

Dopo la rivoluzione di febbraio 1917 tutta l’Ucraina è ormai in ebollizione. Rinascono le vecchie organizzazioni politiche ucraine, ma anche, a Karkov e Kiev, i primi soviet. Sempre a Kiev si costituisce in quei giorni la ''Rada Centrale'' Ucraina, diretta dagli elementi “borghesi” e dai socialdemocratici di orientamento nazionalista.

Fin dall’inizio vi furono quindi, anche a Kiev, come a Pietrogrado, due centri di potere. Su iniziativa della Rada centrale nasce un Comitato militare generale, diretto da Symon Petljura, con circa 60.000 uomini. In dicembre, la Rada Centrale riconosce la Repubblica dei Cosacchi del Don, proclamata pochi giorni prima.

Il 21-28 settembre si tiene a Kiev il Congresso dei popoli della Russia, che auspica la nascita di una Repubblica russa federale. Il 2 novembre il Congresso militare pan-ucraino emana una risoluzione in cui chiede la proclamazione di una “Repubblica democratica ucraina''. In dicembre si apre a Kiev il Congresso dei Soviet, in cui i bolscevichi sono in netta minoranza. Il 25/12/1917 si forma a Karkov il primo governo bolscevico dell’Ucraina. Nel frattempo la Rada, mentre tollera la presenza delle armate controrivoluzionarie di Kornilov e Kaledin, disarma le unità sovietiche sul suo territorio e ne impedisce il transito per le operazioni contro i ‘’bianchi’’.

Così, malgrado la famosa ''Dichiarazione sui diritti dei popoli della Russia'', sancita da uno dei primi decreti del governo sovietico russo a guida bolscevica, nel gennaio 1918 si giunge alla prima campagna sovietica contro la Rada, che decide alfine di proclamare la piena indipendenza dalla Russia, chiedendo aiuto, prima alla Francia, poi a Germania e Austria-Ungheria. Ma, come ammise Vinničenko, '’la vasta maggioranza della popolazione andava voltandosi contro’’ il governo nazionalista34. I bolscevichi presero Kiev nei primi giorni di febbraio. La loro base sociale era tuttavia instabile, dal momento che, nella maggioranza, si trattava di russi (ucraino-russi), di origine urbana, staccati dalle campagne ucrainofone.

In seguito allo stallo delle trattative di Brest-Litovsk, mentre nel partito bolscevico si combatteva un’aspra lotta fra i sostenitori della pace ad ogni costo, capeggiati da Lenin, e i sostenitori '’di sinistra’’ della guerra rivoluzionaria contro la Germania, con la mediazione di Trotzky, i tedeschi riprendevano le ostilità avanzando verso la Russia. Il 2/3/1918 entravano pertanto a Kiev ponendo termine al primo periodo bolscevico dell’Ucraina. La Rada Centrale ritornava in sella. Ma i sorrisi dei nazionalisti furono di breve durata. Il loro governo impotente venne presto deposto dalle truppe del kaiser. Un Congresso manovrato dalle potenze centrali conferì al gen. Pavlo Skoropads’kyj il titolo glorioso e arcaico di Ataman, in memoria delle tradizioni cosacche (non dimentichiamo che i cosacchi furono la milizia controrivoluzionaria preferita dagli zar). L’Atamanato (come venne popolarmente conosciuto il governo fantoccio di Skoropads’kyj), ufficialmente nominato “Stato Ucraino”, adottò una politica di ucrainizzazione in campo culturale ed ecclesiastico, oggi molto rivalutata.

È per il governo rivoluzionario russo un frangente di estrema debolezza e pericolo. Ritornato al tavolo delle trattative di Brest-Litovsk, esso è costretto ad una resa senza condizioni, impegnandosi a ritirare le sue forze dal territorio dell'Ucraina. Ma, come Lenin aveva predetto incitando il partito a firmare a qualsiasi prezzo la pace, la Germania cade in preda alla rivoluzione, e lascia la guerra. L'Ataman Skoropads’kyj, che fin’allora aveva svenduto il paese ai tedeschi, abbandona l’idea di uno stato ucraino indipendente e proclama la federazione con una futura Russia non bolscevica. Ciò spinse i nazionalisti a formare un contro-governo, noto come Direttorio della Repubblica popolare ucraina, formato da cinque uomini: Vynnyčenko, Petljura, Švec’, Andrijevs’kyj e Makarenko).

Intanto, nel novembre 1918 gli ucraini dell’ex impero austro-ungarico avevano proclamato a Leopoli la ''Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale'', causando disordini con le popolazioni polacche che la abitavano. Il 22 gennaio successivo, l’unione fra la nuova repubblica e la Rada del Direttorio fu proclamata solennemente, ma nei fatti lasciò alquanto a desiderare. La diffidenza fra le due ucraine era alimentata dal fatto che mentre a Leopoli si odiavano soprattutto i polacchi, a Kiev il nemico erano fondamentalmente i “grandi russi”. Contraddizione foriera di gravi attriti, come si vedrà appresso. Al momento questi contrasti rimasero in secondo piano a causa dell'esplosione di una guerra con la Polonia, riunitasi sulle macerie degli imperi centrali e di quello zarista. Conflitto sostenuto soprattutto dalle truppe della Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale, conclusosi il giugno 1919 con la vittoria polacca (ne riparleremo tra poco).

Tornando ai rapporti tra la Russia ed Ucraina, già nel febbraio 1919 i bolscevichi, dopo aver dato vita alla “Repubblica Sovietica Socialista Ucraina”, con capitale a Kharkov, riprendevano Kiev, preceduti da decreti di confisca delle terre a favore dei contadini e delle fabbriche a favore degli operai, e dunque accolti, secondo le parole dello stesso Vinničenko, con grande favore dalla popolazione35, che aveva saggiato sia le tendenze reazionarie di Skoropads’kyj e Denikin, sia la timidezza riformatrice del Direttorio. Un trattato venne stipulato fra la nuova Repubblica ucraina e il governo russo, che, seguendo i principi dell’autodeterminazione del governo bolscevico, riconosceva all’Ucraina sovietica l’intero territorio rivendicato dalla Rada Centrale. A quel punto il Direttorio cercò l’appoggio dell’''Intesa'', ed in particolar modo dei francesi.

Il governo bolscevico a Kiev durò dal febbraio 1919 alla fine di agosto 1919 e terminò per il simultaneo, ma non convergente, arrivo delle truppe di Denikin da est e di quelle del Direttorio da ovest. Ma da ciò non trasse impulso alcuna indipendenza ucraina. Tutt’altro: le truppe “bianche” cacciarono in malo modo gli ucraini del Direttorio. Ancora una volta la fragilità del nazionalismo ucraino emergeva alla luce del sole.

Ed infatti, con la disfatta di Denikin, i bolscevichi rioccuparono tutta l’Ucraina , anche grazie all'apporto delle bande di Makhno36. Con Denikin crollò anche il regime cosacco del Don. A questo punto, dimissionato Vynnyčenko, Petljura, che aveva assai minori scrupoli di principio, cercò l'accordo con la Polonia, sacrificando i territori della Galizia. Il sogno di un’Ucraina unita finì quindi miseramente.

Il 6/5/1920 Kiev cadde in mano agli ucraini e ai polacchi. L’11/6/1920 venne ripresa definitivamente dai sovietici. A sua volta l’offensiva apparentemente inarrestabile dei sovietici si infranse davanti a Varsavia a metà agosto 1920.

Insomma, riassume il Carr, il nazionalismo borghese ucraino perì dopo aver ''dato ampie prove della sua assoluta inefficienza: privo di qualsiasi appoggio tra gli operai, non era riuscito a guadagnarsi neppure i contadini, e ciò – come fu francamente e ripetutamente ammesso da Vinničenko, il più onesto dei suoi capi – per non aver voluto sostenere la causa della rivoluzione sociale né quella più modesta d'una qualche riforma di rilievo. Questa sua intrinseca debolezza lo portava poi, necessariamente, a una costante dipendenza da interessi stranieri''37.

All’inizio del 1921 il potere sovietico appariva ormai consolidato; il governo ucraino sovietico in questi primissimi anni si poneva come un governo “indipendente”, ancorché strettamente legato alla Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche dal trattato del 28/12/1920. L'Ucraina sovietica manteneva financo alcune missioni diplomatiche separate all’estero. Ciò venne meno con l’adozione della prima Costituzione dell’Unione sovietica, entrata in vigore il 31/1/1924, dieci giorni dopo la morte di Lenin, che aveva lottato sino all'ultimo – contro l'indifferenza del partito - affinché i principi dell'autodeterminazione non fossero abbandonati nei rapporti con le repubbliche sovietiche.

Tra Ucraina e Russia vi erano senza dubbio le più favorevoli condizioni – linguistiche, culturali, economiche - per un'assimilazione democratica e spontanea. Ma il regime staliniano superò quello zarista nell'infliggere al contadino ucraino enormi sofferenze, e ad umiliare la specificità culturale ucraina. E ancora una volta, la brutale assimilazione forzata non fece che attizzare gli odi e i risentimenti nazionalistici.

 

Il nazionalismo ucraino durante la II guerra mondiale

A partire dal 1939, il patto germano-sovietico e l’invasione della Polonia da parte dell’Armata Rossa permette di annettere all’URSS la maggior parte della Galizia; i capi ucraini si rifugiano a Cracovia, dove i tedeschi lasciano loro la facoltà di organizzarsi. Nel novembre 1939 viene creata l’Unione nazionale ucraina (UNO) ripartita in due tronconi, quella del colonnello Melnyk e quella dell'attivista nazionalista di estrema destra Stephan Bandera.

Quando i tedeschi invadono la Russia, nel 1941, Bandera proclama a Leopoli la creazione di un “Governo dello stato ucraino”, mentre Melnyk, da parte sua, crea a Kiev, il 5 ottobre seguente, un consiglio nazionale ucraino. Dopo gli orrori staliniani, i tedeschi vengono in un primo tempo ben accolti. Alcune migliaia di ucraini si arruolano nella Wehrmacht. Un corpo cosacco opererà nei Balcani. La 14a Divisione SS “Galizia”, composta per la gran parte di uniati, si è battuta accanitamente contro l’Armata rossa a Brody, non senza aver partecipato ad alcuni pogrom. Queste unità si sono spesso comportate con una crudeltà anche maggiore di quella dei tedeschi, sia contro i polacchi che gli ebrei, collaborando con le SS.

Ma anche questa volta la gioia dei nazionalisti è di breve durata: i tedeschi trattano la popolazione alla stregua di manodopera servile al servizio del Reich. Stephan Bandera viene arrestato fino al 1944, mentre banderisti e melnykisti sono divisi sul campo da lotte intestine. In seguito viene liberato col compito di organizzare la resistenza all'avanzata russa. Ma il crollo della Germania e l'avanzata dell'esercito russo faranno di nuovo tabula rasa dell'indipendentismo ucraino.

Può sembrare incredibile, ma – in mancanza di meglio – Bandera è assurto nell'Ucraina di oggi a eroe nazionale, senza vergogna da parte di chi ne conosce la storia e l'ideologia, ingenuamente forse da parte di chi i conti con la storia non li ha fatti38.

Se ne deve concludere che un movimento nazionale progressista di impianto davvero popolare in Ucraina non è mai esistito, se con ciò si intende – come si deve nel nostro caso – un movimento di lunga durata, che acquisisca una capillare dimensione all'interno di una compagine nazionale. Al massimo si può concedere ve ne siano stati degli elementi, o degli embrioni, che tali sono rimasti, a dispetto dei sentimenti e degli intenti nazionalistici (che non vuol dire nazionali) di alcuni settori della società ucraina. E non si tratta solo di un pregiudizio alimentato dal regime sovietico stalinizzato o post-stalinista se, all'indomani della seconda guerra mondiale, esso era condiviso da coloro che oggi sembrano i più convinti assertori dell' ''autodeterminazione'' ucraina, i policy maker americani. Affermava nel 1948 il National Security Council:

“gli ucraini non hanno mai dimostrato di possedere i requisiti necessari per fondare e dirigere una nazione indipendente e in grado di fronteggiare efficacemente l’opposizione dei “grandi russi”: l’Ucraina non riflette un concetto chiaramente definito dal punto di vista etnico e geografico”39.

Sembra azzeccata l'opinione del generale Massimo Iacopi, non certo un filo russo:

«Terra quasi sempre sprovvista di stato nazionale, mosaico di popoli diversi, crocevia di ambizioni di vicini, l’Ucraina non ha mai smesso di essere teatro di scontri. Contrariamente alla maggior parte dei Paesi europei, essa non è stata il frutto di una paziente costruzione consolidata nel corso dei secoli. Essa scompare regolarmente e rinasce, altrettanto regolarmente, come per incanto»40.

Ed è così infatti che l'Ucraina di oggi è sorta di nuovo, non in seguito ad un movimento nazionale, ma, ancora una volta, a causa del crollo del dominio russo.

 

L'Ucraina odierna

Con la dissoluzione dell'URSS, alla fine del 1991, si assiste alla più audace versione del ''neoliberismo'' mai sperimentata. Tutto l'ex blocco sovietico è investito da una compulsiva serie di privatizzazioni. I ''chigago boys'' cirillici, istruiti dal FMI, organizzano una gigantesca messa all'incanto della proprietà statale. I vecchi brontosauri della burocrazia e del partito si trasformano con la rapidità della luce in velociraptor. Nascono i cosiddetti ''oligarchi''.

«Petrolio, metalli non ferrosi, materie prime di importanza strategica, potevano essere comprate dai commercianti russi in rubli da un’azienda statale e rivenduti in valuta forte a speculatori della Comunità europea a 10 volte il prezzo. […] . Gli utili di queste transazioni venivano depositati su conti di banche off-shore''41

I profitti vengono impiegati per acquistare a prezzi stracciati le proprietà statali in via di privatizzazione. Meccanismi affini si verificarono in Ucraina, ma con un'ancor più smaccata identificazione tra ricchezza e potere politico nelle mani degli esponenti della ex nomenklatura, capeggiati da Leonid Kučma, divenuto primo ministro e presidente. Ad es. Pavlo Lazarenko,  direttore del complesso agro-industriale di Naukovyi, accumulò grandi ricchezze con l’esportazione di materie prime, il che gli permise di divenire ministro delle Energie e successivamente capo del governo, dirottando ingenti fondi nelle Isole Cayman (200 milioni di dollari in appena un paio d’anni)42. O la futura ''pasionaria'' della ''rivoluzione arancione'' del 2014, Julija Tymošenko.

Giovane imprenditrice al crollo dell'impalcatura sovietica, la Tymošenko acquistò per 100.000 rubli alla Borsa di Mosca un pacchetto di azioni sul mercato petrolifero che in appena due settimane si rivalutarono del 4500%. Con l'appoggio del suocero, importante funzionario ex sovietico, fondò la società energetica Korporacija Ukraijnskij Benzin (Kub), entrando nel ricco mercato degli hazotreidery (“venditori di gas”). Beneficiando del decreto con cui Lazarenko, appena assurto al ruolo di primo ministro, ridusse da otto a due le compagnie autorizzare al commercio di prodotti energetici, in due anni divenne leader nel mercato energetico nazionale. I proventi di questa posizione monopolistica hanno permesso alla Tymošenko di far capo a oltre venti aziende operanti nei settori più disparati, con un fatturato complessivo di oltre 10 miliardi di dollari l’anno. Alla fine del 1996 controllava il 25% dell’economia ucraina. Il suo trust versò oltre 120 milioni di dollari su conti off-shore intestati al già nominato Lazarenko43 (in seguito arrestato negli USA per distrazione di 200 milioni di dollari dalle casse dello stato, frode ed estorsione). Quest'ultimo le evitò di finire in carcere dopo esser stata arrestata nel 1995 con l’accusa di aver cercato di portare illegalmente in Russia 26 milioni di dollari. Questo fu solo l'inizio. Quando il presidente Kučma cercò di limitare il campo d’azione della “libera impresa”,  la “pasionaria” decise di darsi alla politica stringendo un'intesa con Viktor Juščenko, direttore della Banca centrale Ucraina, primo ministro nel 1999, con solidi legami verso gli Stati Uniti e l'Occidente (la seconda moglie è un’ex funzionaria del Dipartimento di Stato Usa). Costui, anche grazie all'appoggio della Tymošenko, divenne leader della ''rivoluzione arancione'' ed infine presidente, e subito la nominò primo ministro. La ''pasionaria'' in seguito fu condannata a 7 anni di carcere per aver esercitato abusi su un accordo per la fornitura di gas con Putin (sentenza rigettata Corte europea dei diritti dell'uomo). Fu scarcerata dopo i fatti di Euromaidan, dei quali riparlereremo.

Ritornando a Juščenko, nel suo programma elettorale aveva promesso – come farà Zelensky in seguito, e con gli stessi risultati - una acerrima lotta alla corruzione. Promesse non mantenute.

''Con dispiacere dei suoi alleati della società civile, il nuovo presidente sembrava andare d'accordo con gli oligarchi dell'era Kuchma. Lungi dall'essere incarcerati, i loro imperi commerciali si espansero, così come la loro influenza. […] gli oligarchi non avevano nulla da temere dalla sua presidenza''. 44 

Fatto significativo, nel settembre 2008 Juščenko dichiarò che entro il 2017 le navi russe avrebbero dovuto abbandonare le loro basi sul Mar Nero.

 

La posta in gioco: rapporti economici e relazioni geopolitiche

E qui veniamo alla vera questione sul tappeto: nell'impossibilità oggettiva di una vera autonomia (del resto, quanti sono i paesi che oggidì possono determinare autonomamente il proprio destino?), la scelta di campo sullo scacchiere internazionale: buoni rapporti con la Russia o con l'Occidente? La storia dell'Ucraina dall'indipendenza in poi è un pendolo che testimonia il tiro alla fune fra Occidente e Russia per il suo controllo.

Da Mosca l'Ucraina dipendeva totalmente per gli approvvigionamenti energetici e per le royalty derivanti dal transito del gas russo verso l'Unione Europea, ma anche come mercato d'esportazione delle produzioni industriali45. Ancora nel 2012 la Russia era la destinazione del 25,7 per cento dell’export ucraino, mentre nell’Ue arrivava soltanto il 24,9 per cento. Nel 2018, le esportazioni verso la Russia saranno tre volte inferiori! Come si è giunti a questo punto?

Il primo accordo di cooperazione con la UE risale al 1994, mentre crescono le tensioni in Crimea.

Nel 1997 Russia ed Ucraina firmano un trattato di amicizia e cooperazione, dopo di che l'aiuto occidentale a Kiev si assottiglia.

Nel 1998 l'Ucraina adotta una road map per l'integrazione nella UE. Le pressioni militari e le ritorsioni economiche russe si fanno sempre più pesanti.

Nel 2010, con Janukovich presidente, a sua volta ammanigliato con gli ''oligarchi'' e reo in seguito di comprovati corruzione e nepotismo, ritorna al governo la fazione disponibile ad accordarsi con la Russia. La concessione delle basi navali Russe sul Mar Nero viene prorogata46. La Russia concede generosi prestiti.

Nel 2013, alla vigilia della firma del trattato di associazione con l'UE, il ''filorusso'' Janukovich fa marcia indietro. Ciò porterà ai fatti di Euromaidan ed alla caduta di Janukovich, che si rifugia in Russia.

Mosca, preoccupata per le sorti delle proprie basi navali in Crimea, annette la penisola, già Russa, che Kruscev aveva ceduto all'Ucraina nel 195447. Ad aprile anche gran parte delle regioni russofone di Donec'k e Luhans'k si scindono dall'Ucraina con l'appoggio militare e logistico russo. La secessione delle repubbliche del Donbass fu l'inizio di un prolungato conflitto, nel quale sia gli Stati Uniti sia la Russia hanno rifornito i rispettivi alleati di armi, denaro e consulenti militari. Tra gli episodi più efferati di questo periodo, il tristemente noto ''massacro di Odessa'', quando 48 ucraini filo russi furono arsi vivi nella ''casa dei sindacati'' in cui si erano rifugiati per sfuggire alla persecuzione dei nazionalisti ucraini di estrema destra.

Consapevole del pericolo della situazione per l'equilibrio europeo, un'Europa in quel momento non del tutto appiattita sulle posizioni americane, e soprattutto la Germania, preoccupata dei suoi rapporti economici con la Russia e delle forniture di gas, riuscirono a mettere i contendenti al tavolo delle trattative. Si giunse così al famoso cessate il fuoco ''di Minsk'' (settembre del 2014), subito disatteso. Per cui nel febbraio successivo, la Merkel e il presidente francese Hollande si recarono a Mosca. proponendo un ulteriore accordo – ribattezzato “Minsk 2” - impegnandosi ad appoggiare l’applicazione di un modello federale di Stato ucraino che garantisse alle popolazioni russofone un'ampia autonomia, nonché a impedire sia la fornitura di armamenti al regime di Kiev voluta dagli Stati Uniti, sia l’entrata dell’Ucraina della Nato. Ma le cose andarono diversamente. Ben presto Kiev rinunciò allo status di “Paese non allineato”, e, a partire dal 2015, ha iniziato a cooperare con la NATO.

Ciò avvenne sotto la presidenza, iniziata nel 2014, di un altro oligarca, Poroschenko, noto come ''re del cioccolato'' (e definito dal cablogramma riservato “06KIEV1706_a” inviato il 28 aprile del 2006 dall’ambasciata statunitense di Kiev divulgato da WikiLeaks «la nostra talpa in Ucraina»). Sotto il suo governo venne finalmente firmato il trattato con l'UE. Suoi molti accordi che aprono all'occidente le porte per il saccheggio dell'economia ucraina48, in particolar modo nel settore agricolo, uno degli obiettivi principali del capitale internazionale49. Contemporaneamente, assunse un programma nazionalista di ''ucrainizzazione'', emanando leggi discriminanti verso i russofoni, leggi volte a spingere la lingua russa fuori dalla sfera pubblica e dalla scuola, e patrocinò una Chiesa ortodossa ucraina, minando così l'influenza del patriarcato di Mosca. Vietò la propaganda del comunismo, promosse la rimozione di tutti i monumenti comunisti, nonché la rivalutazione di ogni nazionalista del passato, incluse le figure e le organizzazioni che avevano durante la seconda guerra mondiale collaborato coi tedeschi allo sterminio degli ebrei e a massacrare migliaia di polacchi, come Stephan Bandera. La sua fortuna è aumentata di 400 milioni di dollari tra il 2012 e il 2020, mentre il paese sprofondava nella crisi economica e nella miseria. Oggi Poroshenko è accusato di alto tradimento per aver facilitato l'acquisto di carbone da società situate nell'Ucraina orientale, per mano di separatisti filo-russi che sono in guerra con Kiev.

Nel frattempo gli accordi di Minsk furono costantemente disattesi da entrambe le parti in conflitto, mantenendo alta la tensione fino ai drammatici sviluppi attuali.

Nel 2019 diviene presidente Zelensky, con un programma, guarda caso, ancora una volta, di lotta alla corruzione, destinato a fallire come quello di Juščenko. E non poteva essere diversamente: le fortune di Zelensky cominciano con l'oligarca Ihor Kolomojs'kyj, il cui gruppo TV ne aveva fatto una pop star, per non parlare dei legami fra il primo consigliere di Zelensky e l'uomo più ricco del paese, Rinat Akhmetov, così come sono note le ben 14 società offshore di Zelensky. Infatti, prima della guerra odierna il gradimento del ''comico'' presidente era in caduta libera e nulla sembrava poterlo risollevare50. In campagna elettorale Zelensky aveva assunto, rispetto al nazionalismo esacerbato di Poroscenko, un profilo moderato, facendo sperare in una trattativa con la Russia. Ma presto la cessione di due importanti miniere di litio all'impresa europeo-australiana European Lithium a scapito della compagnia cinese Chengxi Lithium ne dimostrarono l'allineamento con l'Occidente51.

Il sintetico excursus che abbiamo tratteggiato non è passato invano. Nel 2020, certo, la Russia è ancora il secondo investitore diretto nell' economia ucraina (13,4% del totale), dietro la Polonia (15,6%)52. Ma l’UE nel suo complesso è ormai il maggior partner commerciale (col 42 per cento del totale) e la maggiore fonte di investimenti stranieri dell'Ucraina (con Polonia e Germania in testa, seguite dall'Italia)53. Dall'occidente l'Ucraina dipende per gli aiuti finanziari, per elargire i quali però (con il solito pretesto della lotta alla corruzione) esso ha preteso ed ottenuto l'apertura dei mercati al capitale ed alle merci straniere. Nel dopo Maidan il FMI ha stanziato oltre 17 miliardi di euro in finanziamenti a fondo perduto e prestiti per sostenere quelle riforme che possono favorire la penetrazione economica occidentale54. L’Ucraina è stata trasformata in una colonia finanziaria delle metropoli occidentali.

La guerra oggi in corso fu preceduta, a fine 2021, da un fatto cruciale: un conflitto con la Germania, accusata di voler estromettere Kiev dal mercato del gas attraverso l’implementazione del gasdotto Nord Stream 2, progetto sabotato anche dagli Stati Uniti con sanzioni mirate alle aziende coinvolte nell’iniziativa, fino ad un accordo Biden-Merkel che prevedeva l'affossamento del progetto in caso di minacce all'Ucraina. Un imbroglio che contribuì definitivamente a consegnare i destini dell'Ucraina nelle mani di Washington. E non a caso l'inizio della guerra attuale (o sarebbe meglio dire della fase attuale della guerra) ha coinciso con la sospensione unilaterale del Nord Stream 2 da parte del governo tedesco. Infine, nel 2021, in territorio ucraino e sul Mar Nero si sono svolte imponenti manovre militari Nato-Ucraina con il coinvolgimento di 32 paesi.

Non ci troviamo dunque di fronte ad una guerra nazionale. Nessun movimento popolare rivoluzionario ha preceduto di poco o di tanto l'invasione russa, a meno che tali non si vogliano considerare la ''rivoluzione arancione'' e la ''rivoluzione di Maidan'', la quali, anche ammessa la loro natura endogena e non eterodiretta dall'estero, come i russi sostengono, furono in ogni caso movimento reazionari, i cui contenuti ben si sono visti nell'oppressione sanguinosa del Donbass e nei pogrom contro la popolazione russa, ai quali (e alla Crimea) si vuol negare quella stessa ''autodeterminazione'' che a gran voce si chiede l'occidente vada a salvare in Ucraina a costo di un conflitto armato globale. E del resto quale movimento davvero rivoluzionario potrebbe attendersi in Ucraina, nelle condizioni capitalistiche di oggi, se non un movimento a trazione proletaria?

 

Per concludere

Di fronte alla guerra imperialistica scoppiata nel 1914, così Lenin formulava la strategia marxista:

''Il carattere reazionario di questa guerra, l'impudente menzogna della borghesia di tutti i paesi, che maschera i propri scopi di rapina con un'ideologia "nazionale", tutto ciò, sul terreno di una situazione obiettivamente rivoluzionaria, crea inevitabilmente nelle masse degli stati d'animo rivoluzionari. E' nostro dovere contribuire a rendere coscienti questi stati d'animo, approfondirli e precisarli. Questo compito è espresso in modo giusto soltanto dalla parola d'ordine di trasformare la guerra imperialista in guerra civile; ed ogni lotta di classe conseguente in tempo di guerra, ogni tattica di "azione di massa" seriamente applicata, conduce inevitabilmente a questo. E' impossibile sapere se un forte movimento rivoluzionario scoppierà in seguito alla prima o alla seconda guerra imperialistica fra le grandi potenze, durante o dopo di essa, ma in ogni caso è nostro preciso dovere lavorare sistematicamente e con perseveranza proprio in questa direzione''.55

Caliamo tutto ciò nella realtà presente: pur in assenza, a tutt'oggi, purtroppo, di sentimenti rivoluzionari nelle masse, v'è un solo modo per tenere alta la bandiera dell'internazionalismo proletario nella difficile situazione odierna: respingere qualsiasi sirena nazionalista, qualsiasi compromissione, anche temporanea, con la propria borghesia nazionale.

Lanciare parole d'ordine apparentemente astute, come quella della ''resistenza popolare'' contro l'invasore russo, si gioca a rimpiattino con la guerra, si elude la questione fondamentale: non c'è guerra rivoluzionaria, durante un conflitto imperialistico, senza previa presa del potere da parte del proletariato, e a questo non si arriva se non si comprende che il primo nemico della classe operaia non è l'esercito invasore ma la propria borghesia, se si teme la sconfitta del proprio esercito, se non si capisce che è proprio questa sconfitta ad aprire un possibile scenario rivoluzionario. Che la parola d'ordine non è ''trasformazione della guerra in guerra popolare'', bensì la vecchia parola d'ordine bolscevica: ''trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile''. Ciò significa che:

  • in Russia il proletariato deve sostenere incondizionatamente (indipendentemente cioè da chi sia al governo in Ucraina in questo momento) la completa indipendenza ed autodecisione dell'Ucraina (proprio come ai tempi di Lenin), contro il proprio stato e la propria borghesia, contro la guerra, augurarsi la disfatta del proprio esercito, incitare i militari di leva mandati a morire in Ucraina a fraternizzare con i proletari ucraini;

  • in Ucraina il proletariato deve anch'esso combattere contro la propria borghesia, non temere, anzi desiderare la sua sconfitta militare, negarle la solidarietà, fraternizzare ovunque possibile con i proletari russi inquadrati come militari di leva nell'esercito invasore, riconoscere l'autodeterminazione della Crimea, del Donbass, della Transnistria, i diritti dei cittadini di lingua russa e delle altre nazionalità nel proprio territorio;

  • In Donbass, nella Crimea e nella Transnistria il proletariato deve anteporre l'unione con i proletari ucraini alle proprie aspirazioni indipendentistiche.

E noi, proletari d'Italia e d'Occidente? Il nostro primo dovere è opporci con ogni forza alla guerra, non con sterili e utopiche richieste di arbitrati e di pace per graziosa concessione delle cancellerie governative, non con patetici appelli costituzionali, ma con la lotta di classe. Il campo di battaglia del proletariato è quello interno. Il secondo dovere è esprimere la nostra solidarietà imparziale verso tutti i proletari di Russia, Ucraina, Crimea, Donbass, Transnistria.


Note
1 cit in F. Andreucci, "Socialdemocrazia e imperialismo", Ed. Riuniti, 1988, Roma.
2V. I. Lenin, Opere complete (OOCC), vol. 22.
3Un'antologia di scritti della ''Neue Rheinische Zeitung'' in Marx, Engels, ''Il Quarantotto. La 'Neue Rheinische Zeitung' '', Firenze, La Nuova Italia, 1970.
4Una ricostruzione estremamente interessante della polemica tra la ''Neue Reinische Zeitung'' e Bakunin, che rende giustizia anche a quest'ultimo, nel bel libro di Roman Rosdolsky ''Friedrich Engels e il problema dei popoli 'senza storia'. La questione nazionale nella rivoluzione del 1848-49 secondo la visione della 'Neue Reinische Zeitung' '', Genova, Graphos, 2005.
5Ibid.
6 K. Kautzky, "Nazionalità e internazionalità", in A. Salsano (a cura di) "Antologia del pensiero socialista", vol. III. Purtroppo non esistono in Italia traduzioni integrali degli importanti scritti di Kautzky sul problema nazionale, in particolare, oltre a quello appena citato, del 1908, "Die Moderne Nationalitat" del 1887. Per le posizioni di Kautzky sul problema nazionale cfr. anche R. Gallissot, "Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio", "Storia del marxismo", Einaudi, To, v. II; M. Waldenberg, "Il papa rosso Kautzky", Ed. Riuniti, Roma, 1980, v. I; F. Andreucci, op cit.
7 Il capovolgimento della classica impostazione di Marx ed Engels sui Balcani comporta per la Luxemburg quello speculare relativo alla Polonia: nella misura in cui la Russia non era più il baluardo della reazione europea ma una pedina nell'organico sistema dei rapporti imperialisti, nella misura in cui - secondo la Luxemburg - lo sviluppo capitalistico legava tra loro Polonia e Russia, l'importanza dell'indipendenza polacca per la rivoluzione internazionale veniva meno e solo gli sciovinisti potevano sostenerla. Combattuta da Kautzky e al suo seguito da Lenin, la fondatezza di questa posizione sarà dopo del 1905 riconosciuta entro certi limiti da quest'ultimo, come vedremo tra poco). Si veda anche P. Frolich, "Rosa Luxemburg", Rizzoli, 1987, Mi, pp. 87-102. Sulle opinioni della Luxemburg in materia si veda R. Luxemburg, "Prefazione" a “La questione polacca e il movimento socialista”", in R. Luxemburg, "Scritti politici", E. Riuniti, 1967, Roma.
8 Il testo del programma di Brunn (Brno) in: R. Luxemburg, "La questione nazionale e l'autonomia", in R. Luxemburg "Scritti scelti", Einaudi, 1975, To, pp. 266-268.
9 V. I. Lenin, "Un nuovo capitolo della storia mondiale", OOCC, vol. 18, pp.354-55.
10Un'antologia di scritti riguardante il dibattito internazionale sulla questione nazionale nel periodo aperto dalla guerra imperialistica in C. Basile (a cura di), ''I bolscevichi e la questione nazionale''. La polemica tra Lenion e il 'gruppo di Baugy' (1915-1916)''. La posizione della Luxemburg in R. Luxemburg, ''La crisi della socialdemocrazia (Juniusbroschure)'', https://www.marxists.org/italiano/luxembur/1915/4/junius.htm
11 V. I. Lenin, "Il programma nazionale del POSDR", OOCC, vol.19, p. 506.
12 V. I. Lenin, "La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione", OOCC, vol. 22, p. 149.
13 Ibid., p. 148.
14 ibid. pp. 147-151.
15 V. I. Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", op. cit. pp. 322-324.
16 V.I.Lenin, "I risultati …", op. cit., p. 344-45.
17 V.I. Lenin, "Il fallimento della II Internazionale", OOCC, vol. 21, p. 212.
18 V.I. Lenin, "A proposito dell'opuscolo di Junius", OOCC vol. 22, p.309.
19 V.I. Lenin, "I risultati della discussione sull'autodecisione", op. cit. pp. 347-349.
20 V.I. Lenin, "Sul diritto di autodecisione delle nazioni", OOCC, vol. 22, p. 391.
21V. I. Lenin, ''Intorno a una caricatura del marxismo e all' 'economismo imperialistico', OOCC, vol. 23, p. 51, nota a piédi pagina
22Cfr. Fearghal McGarry, ''The Easter Rising'' https://www.qub.ac.uk/sites/irishhistorylive/IrishHistoryResources/Articlesandlecturesbyourteachingstaff/TheEasterRising/
Austen Morgan, ''James Connolly - A Political Biography'' Manchester, Manchester University Press, 1988;
Lyam A. Ryannov, ''James Connolly—The Irish Lenin'', 30, 2021 https://soapboxie.com/world-politics/James-Connolly-The-Irish-Lenin ;
Liam O Ruairc, ''James Connolly, Germany and the First World War: Was Connolly a proto-Lenin?'' https://theirishrevolution.wordpress.com/2015/12/03/james-connolly-germany-and-the-first-world-war-was-connolly-a-proto-lenin/
Hugh Stevens ''Connollyism and Leninism'', Class Struggle, April 1981;
''Connolly e l’Insurrezione di Pasqua'', https://www.rivoluzione.red/1916-2016-linsurrezione-di-pasqua-a-dublino/#:~:text=Connolly%20e%20l%E2%80%99Insurrezione%20di%20Pasqua%20Il%2017%20aprile,gli%20irlandesi%20e%20per%20creare%20una%20Repubblica%20d%E2%80%99Irlanda. ;
23V. I. Lenin, "A proposito dell'opuscolo di Junius", OOCC vol. 22, pp. 308-9.
24Su questi episodi, sui quali la sinistra rivoluzonaria non ha ancora raggiunto un giudizio storico fondato, i due articoli di Amadeo Bordiga ''La Comune di Berlino, dura e lunga la strada, meta grande e lontana'', e ''Con la tresca immonda fra comunismo e democrazia tutto hanno sfasciato i cani rinnegati'', su 'il programma comunista' nn. 14 del 1953 e 22 del 1956.
25V. I. Lenin, ''Intorno a una caricatura del marxismo e all''economismo imperialistico' '', OOCC, vol. 23, p. 30
26V. I. Lenin, ''Intorno a una caricatura del marxismo e all''economismo imperialistico' '', OOCC, vol. 23, p. 28.
27V.I.Lenin, "A proposito dell'opuscolo di Junius", OOCC vol. 22, p. 315.
28V. I. Lenin, ''La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica'', OOCC, vol. 21, p. 250.
29V. I. Lenin, ''Il programma militare della rivoluzione proletaria'', OOCC, vol. 23, p. 83.
30Le storie generali dell'Ucraina a disposizione del lettore italiano sono poche e per molti aspetti insoddisfacenti. Segnalo G. Cella, ''STORIA E GEOPOLITICA DELLA CRISI UCRAINA DALLA RUS' DI KIEV A OGGI'', Carocci, 2021; M. Vassallo, ''Storia dell’Ucraina, Dai tempi più antichi ad oggi'', Mimesis, 2020.
31E. H. Carr, ''La rivoluzione bolscevica 1917-1923'', Torino, Einaudi, 1964, p. 282.
32''La dominazione austriaca in Galizia è stata fondamentale e ha avuto effetti dirompenti che permangono tuttora [...] permise la sopravivenza della lingua ucraina […] nei lunghi e oscuri anni […] in cui il mero utilizzo dell'ucraino fu bandito nell'impero russo […] a impedire che l'ucrainismo avesse la stessa, oggettivamente triste, sorte del nazionalismo bielorusso […] rese impossibile che il nascente movimento nazionale ucraino nell'Impero russo fosse spento sul nascere'' (S. Vassallo, ''Breve storia dell'Ucraina dal 1914 all'invasione di Putin'', Udine, Mimesis, 2022, pp. 19-21).
33E. H. Carr., op. cit., p. 284.
34Ibid., p. 290.
35Ibid. p. 293.
36In Ucraina meridionale grande ruolo fu giocato, specialmente nel 1919 ma ancora nell’anno 1920, dalle bande anarchiche di Nestor Makhno, spesso pro-bolsceviche e talora anti-bolsceviche così come da altre bande contadine. Nell’area di Čerkasy alcune bande crearono financo una “Repubblica contadina” che durò in qualche modo sino al 1921. Le bande di Hryhor’jev e ancor più quelle di Terpylo e di altri capi locali commisero numerosi pogrom contro gli ebrei, da cui non furono indenni nemmeno alcune dell bande Makhnoviste, con ogni verosimiglianza contro gli ordini di Makhno stesso. I pogrom contro gli ebrei furono uno dei peggiori retaggi delle operazioni militari in Ucraina. I polacchi e le armate di Petljura si macchiarono di orrende persecuzioni anti ebraiche. Cfr. R. Pipes, Il regime bolscevico, Milano, Mondadori, 1994; S. Vassallo, op. cit.
37E. H. Carr, op. cit., pp. 296-297.
38''Dopo l’indipendenza le due Ucraine etnico-linguistiche si sono distinte anche nella toponomastica. C’è stata un’Ucraina rimasta fedele a un’identità legata al passato sovietico, dove le strade e le piazze sono ancora intitolate alla Rivoluzione d’Ottobre e agli eroi dell’Urss, e dove i monumenti di Lenin avevano sempre fiori freschi ai loro piedi. E c’è stata un’Ucraina che ha cercato di ricostruirsela un’identità nazionale, aggrappandosi a frammenti di un passato un po’ sepolto, dove le statue del poeta Taras Ševčenko hanno scalzato quelle di Lenin dai piedistalli, e la toponomastica si è riempita di personaggi riemersi da una storia in parte ancora da scrivere, dal re Danylo Halytskiy a Bogdan Khmelnytskyi. E in mezzo c’è finito pure Bandera'' (Danilo Elia ''Stephan Bandera, l’eroe criminale che divide l’Ucraina'', Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, 08/07/2014). https://www.balcanicaucaso.org/aree/Ucraina/Stephan-Bandera-l-eroe-criminale-che-divide-l-Ucraina-154127
39''Us objectives with respect to Russia'', Document 20/01, 18 agosto 1948.
40M. Iacopi, ''UCRAINA, UNA STORIA E UNA COABITAZIONE DIFFICILI, 1 ottobre 2014, http://www.storiain.net/storia/ucraina-una-storia-difficile/
41Michel Chossudovsky, ''Globalizzazione della povertà e nuovo ordine mondiale'', Gruppo Abele, Torino, 2003.
42G. Gabellimi, ''Ucraina, una guerra per procura'', Bologna, Arianna Editrice, 2016.
43M. Kaminski, ''The Rise and Fall of Yulia Tymoshenko'', Wall Street Journal, 1471172011.
44Katya Gorchinskaya, ''A breif history of corruption in Ukraine: the Yushenko era'', eurasianet, 28/5/2020.
45Secondo Trading Economics la Russia rappresenta ancora (2020) l'8,5% (terzo posto) delle importazioni ucraine ed il 5,5% (terzo posto) delle esportazioni (il partner commerciale più rilevante è ormai la Cina, con il 14 ed il 15% rispettivamente) https://tradingeconomics.com/ukraine/exports-by-country , https://tradingeconomics.com/ukraine/imports-by-country
46Per la Russia l'importanza dell'accesso a quel mare, ossia ai ''mari caldi'', non è vitale solo dal punto di vista strategico e militare (non si può essere potenza senza l'accesso al mare), ma anche come arteria commerciale irrinunciabile: il 65% dell'export verso l'estero e il 38% del petrolio esportato da Mosca passano da lì.
47Kwaśniewski, Aleksander. “Ukrainian-Russian Relations: Lessons for Contemporary International Politics.” Horizons: Journal of International Relations and Sustainable Development, no. 2, Center for International Relations and Sustainable Development, 2015, pp. 22–33, https://www.jstor.org/stable/48573451
48https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-ucraina_il_lato_oscuro_dei_prestiti_internazionali/82_20902/
49Mousseau, Frederic, ''West’s agri-giants snap up Ukraine'', «Asia Times», 28 gennaio 2015.
50Fulvio Scaglione, ''Zelens'kj e il peso degli oligarchi'', Limes 2/2022.
51https://auto.hwupgrade.it/news/mercato-green/european-lithium-si-assicura-due-enormi-giacimenti-di-litio-in-ucraina-cosi-l-europa-non-dipendera-dall-asia_102297.html
52https://www.investmentmonitor.ai/analysis/ukraine-fdi-snapshot-foreign-investment
53Ibid.
54G. P. CASELLI, ''Ucraina, dietro la crisi ci sono le scelte economiche della classe politica'', 16 dicembre 2021 https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/crisi-ucraina-classe-politica-economia-h04wkfqo
55V. I. Lenin, il socialismo e la guerra, OOCC, vol. 21, 286.

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