Immanuel Wallerstein, “Dopo il liberalismo”
di Alessandro Visalli
In questa agile raccolta di interventi che è stata pubblicata[1] da Wallerstein nel 1995 a New York e poi tradotta da Jaca Book tre anni dopo, sono sostenute alcune tesi radicali che, tuttavia, hanno una precisa collocazione storica. Si tratta in effetti di un potente esercizio di astrazione e semplificazione, per il quale tutti i movimenti politici dell’otto-novecento, sotto il profilo delle fondamenta ideologiche, sono ricondotti a varianti di un’unica pervasiva tradizione: quella liberale. A ben vedere è un riverbero, quasi trenta anni dopo, della critica al mondo ‘adulto’ della rivolta giovanile del ’68, accusato ‘in blocco’ di essere riformista ed un unico ‘sistema’. Riflettendo sulle conseguenze dell’89 l’autore diagnostica il declino del liberalismo (ovvero di quella che chiama l’unica ideologia politica della modernità), e con esso della complessiva idea di sviluppo, progresso, modernità come destino e speranza. Il declino della speranza induce a ripiegarsi nella protezione di gruppi identitari; infatti, se non ci può essere collettivamente una via di sviluppo e progresso allora occorre salvarsi da soli. Ma in questa fuga è presente sia il rischio di balcanizzazione della politica, che precipita nella lotta di tutti verso tutti, sia la speranza di una nuova politica plurale e decentrata, questa volta senza progetto definito, capace di montare e rimontare indefinitamente i gruppi intorno ad un vago ideale di eguaglianza delle diverse identità e rivendicazioni. Vaghezza rivendicata nell’ultima frase del libro. Una prospettiva che ebbe un certo successo in quegli anni e che oggi si presenta come fantasma in ogni tentativo di riaggregazione (sempre condotto nella forma della federazione aleatoria) nella sinistra radicale.
Si potrebbe dire che in questo libro generoso, come in altri, è una delle radici del fallimento, forse inevitabile, della sinistra antisistemica. Ridotta ad un pulviscolo di microconflitti, allo stato che, forse in modo ingeneroso, un interessante politico della Linke come Fabio de Masi chiama ‘sinistra Mogadiscio’ (con evidente riferimento alla guerra civile somala).
Il testo di Wallerstein, a sei anni dall’evento-mondo della dissoluzione dell’Urss, è comunque un tentativo di tracciare una riflessione conclusiva sul ciclo del novecento, a sua volta entro i cicli più ampi nei quali si iscrive. Come noto l’autore è animatore del Ferdinand Braudel Center of Study of Economise, Historical System and Civilization, intorno al quale si riunisce negli anni ottanta e novanta la “Scuola dei sistemi-mondo”. Provenendo da una famiglia politicamente attiva, trasferita dalla Germania in Usa negli anni venti, Wallerstein si laurea in Sociologia, dove consegue anche il dottorato, alla Columbia a New York, tra i suoi docenti Merton, Bell, Galtung. Subisce l’influenza di Marx, Polanyi, Braudel e del docente della Columbia Charles Wright Mills. Divenuto a sua volta docente della Columbia nel 1958, sostiene nel 1968 le rivolte studentesche e poi, dal 1971, si trasferisce in Canada. Fino agli anni settanta inoltrati si interessa di Africa; dal 1976 presiede il Ferdinand Braudel, mentre insegna ad intermittenza a Hong Kong, Amsterdam, Parigi, Yale.
Si potrebbe dire che la “teoria dei Sistemi-Mondo”[2] è influenzata dalle tesi dell’integrazione dell’economia nel sociale di Polanyi, della visione dialettica tra struttura e sovrastruttura di Marx, e dall’approccio storico-metodologico della “lunga durata” di Braudel. Esplicitamente riprende tutti questi impulsi nella ripresa del modello dei “cicli di Kondratiev”[3], che amplia ed estende facendo uso anche di stimoli schumpeteriani[4]. Dichiara influenze da Franz Fanon, Braudel e Prigogine. Molto più dei suoi principali coautori Gunder Frank, Samir Amin, Terence Hopkins, e Giovanni Arrighi, Wallerstein è politicamente legato ai movimenti “antisistemici” contro la globalizzazione (i “no-global”[5]) degli anni novanta, riprendendone, come vedremo, diversi stimoli e spunti utopici di ispirazione antiautoritaria.
Scheletricamente l’argomento presentato, in diverse forme e sequenze, nei saggi contenuti nel libro è che il liberalismo è sempre stata una dottrina poliforma, con un centro politico principale e due ali, una conservatrice ed una più impaziente e progressista. Ciò che si intende normalmente come “liberalismo” è quindi la linea che sostiene di difendere e garantire la libertà in opposizione ai reazionari da una parte (che vogliono conservare il più possibile gli assetti dati dal rischio della modernizzazione) e alle sinistre dall’altra (che la vogliono accelerare bruscamente). Tuttavia tutte tre le forme politiche sono liberali, almeno nel senso che postulano la modernizzazione inevitabile e che si possa conseguire con sviluppo e benessere di tutti. Differiscono solo sui tempi: la componente di destra vuole procedere con il freno tirato, quella di centro razionalmente e in modo progressivo e prudente, quella di sinistra bruscamente.
Ma, a partire dal 1968, e dalla sua corrosiva critica delle diverse forme del liberalismo (tutte e tre), e poi nel 1989 questa speranza è venuta meno. Emerge la consapevolezza che lo sviluppo non può essere conseguito per tutti, e con essa termina il progetto politico-ideologico del liberalismo. Questo esaurimento della spinta ideale, rivelatasi come illusione, apre, sostiene Wallerstein, una fase di transizione che impegnerà i prossimi venticinque-cinquanta anni (ovvero dal 1995 al 2020/2045) che saranno periodo di disintegrazione e disordine sistemico.
È abbastanza singolare questo modo di porre la questione, perché in parte poggia su un costrutto teorico che ha basi in una modellistica di tipo economico (di Schumpeter/Kondratiev) e in una visione dello scorrimento del tempo storico (come “dialettica delle durate”[6], Braudel), in parte risente di quello che Boltanski e Chiappello chiamarono, quasi contemporaneamente, “Il nuovo spirito del capitalismo”[7]. La nuova configurazione ideologica che emerge in alcuni luoghi cruciali, come il discorso manageriale, negli anni novanta ma in continuità con i sessanta si fonda su una decostruzione del mondo del lavoro (che a sua volta passa per la desindacalizzazione e la messa in discussione radicale della pertinenza della distinzione tra classi sociali come clivage fondamentale) e del mutamento del ruolo dello Stato[8]. Quella che gli autori chiamano “critica artistica”[9] è, in effetti, esattamente la posizione presa da Wallerstein, con tutte le conseguenze date (incluso la svalutazione del materialismo e, per esso, della lotta per il controllo dello Stato). In altre parole, nell’impianto del libro si sente una certa aria del tempo che potrebbe far ritenere che la fine del “liberalismo” sia in effetti l’altro nome dell’insorgere del “neoliberalismo”. Infatti, se la liberazione è sempre stata incorporata nel capitalismo liberale (dalle forme di vita tradizionali verso quelle ‘moderne’) nella formulazione che successivamente è stata chiamata ‘neoliberale’, divenuta dominante, sono state integrate le critiche che nel ’68 denunciavano l’oppressione capitalistica, ovvero le mancate realizzazioni delle promesse di liberazione. Del resto, il neoliberismo come riletto da Dardot e Laval è un pensiero dell’adattamento, sottilmente invertebrato, capace di pervadere ogni cosa e soprattutto produttore di nuove soggettività.
In ogni caso, dopo la profezia circa la fase di disgregazione e disordine sistemico, di cui possiamo oggi misurare la sostanza, l’argomentazione dello storico americano si rivolge ai movimenti “antisistemici” che inquadra come unica speranza di radicale democratizzazione di sistema. Ma in un senso peculiare, a ben vedere: infatti la disgregazione comporta la fine dell’affidamento nello Stato, e anche nella “società civile” (che ne è prodotto necessario[10]), e apre all’epoca dei ‘gruppi difensivi’. Dunque tutta la dinamica di divisione in bande iper-rissose, la deviazione della ‘politica dell’identità’ in frammentazione, la marginalità e l’abbandono della sfera politica, che lamenta in tutto l’occidente la sinistra antisistemica (ma anche quella moderatamente non sistemica) è contenuta in questa diagnosi. Solo che Wallerstein, scrivendo prima del crollo e dissoluzione del movimento “no-global”, crede possa essere diverso l’esito. La immagina come speranza e non come problema. Nell’argomentazione di Wallerstein, del resto, i “gruppi difensivi” sono il necessario esito della fine della speranza nel liberalismo. Con esso nello Stato e nelle politiche dello sviluppo (nelle due varianti wilsoniane e leniniane[11]), nelle quali aveva pur creduto negli anni sessanta e settanta.
Ma vediamo lo svolgimento storico del suo argomento.
In un’ampia ricostruzione condotta a volo d’aquila riconduce l’intera parabola del confronto tra il sistema capitalista del dopoguerra e il sistema socialista, terminato appunto da pochi anni, ad una sorta di semi-finzione. Seguendo una tesi tipica della rivolta del 1968, per Wallerstein in effetti l’Urss era l’altro polo di un sistema unico esteso a livello mondiale nel quale svolgeva un necessario ruolo di stabilizzazione sub-imperialista. La divisione del lavoro sarebbe stata che gli Usa garantivano l’ordine nel campo dei “paesi liberi”, mentre l’Urss teneva sotto controllo i suoi. Dato che non c’era una vera sfida all’egemonia americana questo modello garantiva nel suo insieme il controllo del mondo. Si tratta chiaramente di una tesi ultrasemplificata ma molto in voga in quegli anni nella “nuova sinistra”. In qualche modo in essa un funzionamento di fatto è interpretato come se fosse un piano (ad esempio, l’Urss controlla e frena l’espansionismo cubano e discute anche aspramente con la Cina, che vorrebbe spingere verso l’accensione di ‘mille fuochi’ per esaurire la forza statunitense). Seguendo questa idea le nozioni di progresso e di sviluppo di Woodrow Wilson e di Lenin vengono polemicamente viste come diverse incarnazioni della medesima idea di fondo: quella che il mondo possa complessivamente svilupparsi. Ovvero come l’incarnazione dell’ideologia dello sviluppo imperniato sulle nazioni ed esteso a tutti. Lo stesso marxismo novecentesco diventa, in questa prospettiva, solo una variante del wilsonismo. Entrambi avevano in comune sei cose: l’autodeterminazione delle nazioni; la prospettiva e promessa di sviluppo economico per tutti gli Stati (ovvero contemporanea urbanizzazione, commercializzazione, proletarizzazione e industrializzazione); l’esistenza e l’affermazione di valori universali validi per tutti; l’affidamento nella scienza; l’idea che uno Stato forte ed il progresso dell’umanità fossero connesse; la promessa della sovranità del popolo. Ma ci sono dei problemi: intanto la sovranità politica degli Stati indipendenti “è in gran parte un’invenzione, anche in quei paesi assai forti militarmente”, e, in secondo luogo, “il concetto di autonomia economica è totalmente mistificante”[12]. Molto semplicemente, “se qualcuno si sviluppa qualcuno declina”.
Nella ricostruzione del nostro, sul piano dello sviluppo storico questo doppio modello per un poco sembra funzionare, ma poi i movimenti di decolonizzazione in un ventennio glorioso tra il 1950 ed il 1970, “forzano il passo” (anche verso l’Urss) e mettono sotto pressione la catena delle merci dell’economia-mondo capitalista e le distribuzioni sia spaziali sia di classe del plusvalore. Vincono infatti alcuni paesi non previsti e non desiderati: Cina, Vietnam, Algeria, Cuba. E intorno a questi prende forma lo “spirito di Bandung”[13]. Segue, in Occidente e ovunque nel mondo, la rivoluzione culturale della “nuova sinistra” del 1968.
Wallerstein, riprendendo e contemporaneamente confutando la ‘teoria della dipendenza’ di cui era stato uno degli attori negli anni sessanta, sostiene in proposito una tesi semplice e netta: “l’economia-mondo capitalista è un sistema che comporta una disuguaglianza gerarchica della distribuzione che si basa sulla concentrazione di certi tipi di produzione (relativamente monopolizzata e, di conseguenza, altamente redditizia) in alcune zone ristrette che diventano così i luoghi di maggiore accumulazione di capitale”[14]. Solo questa concentrazione, a sua volta, consente il rafforzamento delle strutture dello Stato ed un certo grado di redistribuzione. Questa genera la “società civile”, con le “classi medie” e la stabilità politica. Ma lo Stato è anche la precondizione, con le sue prestazioni difensive, della conservazione e rafforzamento dei monopoli. Questi, a loro volta, per stretta definizione impediscono che altri poli entrino in competizione. O, per dirla diversamente, “né lo Stato né il mercato promuoveranno mai lo ‘sviluppo’ egualitario in seno a un’economia-mondo capitalista, il cui principio-guida di un’incessante accumulazione di capitale chiede e genera una sempre maggiore polarizzazione del reddito reale”. Dunque, non è possibile che tutti si sviluppino. Lo sviluppo di uno comporta il sottosviluppo di altri (tesi centrale di Andrè Gunder Frank, con il quale, peraltro, di lì a poco andrà allo scontro[15]). Non è possibile eliminare il divario tra Nord e Sud su scala mondiale, né è possibile un nazionalismo mondiale[16]. La periferia non può essere integrata tramite lo sviluppo nazionale e appropriate politiche dedicate (siano esse affidate al mercato ed agli investimenti internazionali o al protezionismo ed alla disconnessione).
Come si procede, allora? Per via di cicli di accumulazione (formazione di monopoli e di redditività del capitale entro sistemi egemonici) seguiti da fasi di disgregazione (dei monopoli e della loro sostituzione). Cicli nei quali, riprendendo la modellizzazione di Kondratiev, delle strutture di valorizzazione prima si formano e poi si distruggono in favore di altre (tesi che riecheggia quella della ‘distruzione creatrice’ di Schumpeter[17]). Tra l’uno ciclo di accumulazione e l’altro è presente un interludio ed una ‘guerra dei trent’anni’[18].
Dunque, tornando al tema, se il crollo del comunismo in effetti rappresenta solo il crollo finale dell’ideologia dello sviluppo nazionale (o meglio, della sua illusione), anche sotto la spinta della crisi ciclica di transizione (“fase B di Kondratiev”), abbiamo ora una fase nella quale si cercano soluzioni “individuali” avendo perso fiducia in quelle collettive. Queste possono essere basate sul mercato (es. sulle migrazioni), che porteranno ad una pressione sui sistemi economici occidentali tale da tendere a riportare alle condizioni dell’inizio del XIX secolo[19], o sulla lotta tra gruppi. O quello che, in altro luogo chiama il “nazionalismo culturale delle ‘minoranze’”[20].
A livello della dialettica centro-periferia tra potenze nazionali sono espressione di questo crollo dei sistemi di ordine bipartiti sia l’avventura di Saddam Hussein (che sfrutta il venir meno del controllo sovietico per tentare una soluzione individuale al problema della crisi sistemica mondiale, che iniziava a mordere l’economia irachena, mettendo a rischio la sua stabilità politica, saccheggiando le risorse kuwaitiane) sia quella di Khomeini (che sviluppa una ideologia radicalmente anti-liberale e tenta una effettiva disconnessione). Ma anche il tentativo, fallito, di Gorbaciov di ricollocare l’Urss come partner riconosciuto, se pure subalterno, dell’Occidente e quindi cogarante della sicurezza.
Certo nel testo sono anche formulate delle previsioni geopolitiche che non si sono affatto realizzate, e che seguivano un eccesso di economicismo e schematismo che è tipico difetto dell’autore. La crisi sistemica avrebbe avuto termine quando si sarebbero formate al fine due nuovi poli, dotati di due semiperiferie dipendenti dalle quali attrarre forza lavoro a basso prezzo quando necessario (per regolare la lotta di classe interna, ovviamente) e destinare i surplus di investimento (allo scopo di non mettere a rischio il dominio monopolistico o non generare sovrainvestimento e conseguente sovrapproduzione e svalutazione). Sulla base di questo schema di chiara derivazione marxista (tramite un filtro schumpeteriano) proprio della ‘teoria della dipendenza’, Wallerstein sostiene che il più probabile esito è l’associazione di Usa e Giappone (con il secondo come egemone economico) e di Europa e Russia (con la prima) come sfidanti. La Cina sarebbe la semiperiferia del primo polo e la Russia e paesi dell’Est del secondo. Questa tesi, con la sopravvalutazione del Giappone (che il doppio colpo del Plaza[21] ricondurrà all’ordine), era tipica di quegli anni. Ciò che è, invece accaduto, è che la Cina si è sollevata dallo stato di semiperiferia, emancipandosi a quello di Grande Potenza, e l’Europa non ci è riuscita.
Dunque se si intravedono due poli oggi sono casomai gli Usa, con le semiperiferie Giappone ed Europa (dove, però, la funzione di esercito industriale di riserva lo svolge casomai il Sud America) e, dall’altra, parte la Cina con la Russia semiperiferica (in particolare a seguito della guerra ucraina).
Anche se si riformasse, tuttavia, una bipolarità e quindi un ordine mondiale, non avremmo per il nostro la replica della fase fortunata del dopoguerra, e per diversi motivi: questa volta la bipolarità sarebbe effettiva (mentre prima era apparente, come abbiamo visto); in secondo luogo non ci sono più sufficienti risorse da redistribuire al sud (tesi dell’esaurimento dell’illusione dello sviluppo per tutti); quindi ci saranno fenomeni di migrazione massiccia che impediranno il consolidarsi di un relativo potere dei lavoratori e quindi comprimeranno sistematicamente la dinamica salariale; ci sarà un costante erodersi delle classi medie (che “potrebbero ribellarsi”); ormai sono presenti ineludibili vincoli ambientali; restano poche aree di espansione vergini (echeggio della tesi di Rosa Luxemburg, un’altra delle radici teoriche); manca l’ingenuo entusiasmo della decolonizzazione; infine il liberalismo è declinato. Dunque, “man mano che, negli anni a venire, le tensioni Nord-Sud assumeranno connotati sempre più drammatici (e violenti), ci accorgeremo che il mondo sentirà la mancanza della coesione ideologica dell’antinomia degli ideali wilsoniani-leninisti che ha rappresentato una gloriosa, ma storicamente fugace, panopilia di idee, speranze ed energie umane. Non sarà facile sostituirla. E, tuttavia, sarà solo trovando una nuova e molto più salda visione utopica che potremo superare l’imminente periodo di difficoltà”[22].
Se il liberalismo è infatti declinato viene meno anche il suo effetto calmante (con le due teste del wilsonismo/rooseveltismo e del leninismo). Quindi senza speranza le “classi pericolose” possono tornare. Questa tesi nella Seconda Parte del libro è più profondamente ancorata alla nascita stessa delle ideologie politiche del XIX secolo, ovvero il Conservatorismo, il Liberalismo storico e il Socialismo. Si tratta di progetti politici che nascono, in tempi diversi, all’ombra della rivoluzione. Ovvero intorno a due idee nuove ed esplosive: che il cambiamento politico è un evento normale e non eccezionale, che la sovranità richiede il “popolo”. Di fronte allo sconvolgente rimescolamento culturale determinato dalle rivoluzioni di fine settecento, ed all’irrompere della modernità come destino, prima sorgono i Conservatori, che cercano di circoscrivere il pericolo della destabilizzazione degli stili di vita consolidati, poi i liberali, che al contrario puntano a liberarsi dai residui irrazionali del passato ma in maniera progressiva, e, infine, i socialisti che vogliono accelerare la transizione. Una differenza nasce nel soggetto della proposta ideologica, per tutti è il ‘popolo’, ma per i primi è una somma di individui liberi ed indipendenti (cosa che significa, ovviamente, abbienti e bianchi, inoltre maschi), per i conservatori sono i gruppi tradizionali (di volta in volta diversamente identificati), per i socialisti sono i lavoratori. Dal 1830 si delinea una distinzione tra liberali e socialisti (prima è molto sfumata) che dopo il 1848 diviene profonda, mentre, contemporaneamente liberali e conservatori si avvicinano per difendersi dalla nuova minaccia. Questa storia è molto nota, ma è letta come variazione sul medesimo tema dell’irruzione della modernizzazione e della convinzione liberale della inevitabilità dello sviluppo e della modernizzazione. In sostanza perché da questa altezza “il liberalismo, di fatto, è stato un’espressione di tutti i campi dell’attività umana”[23]. Oggi, dice, è cessato come ideologia, ovvero come “programma politico completo, a lungo termine, capace di mobilitare un gran numero di persone”.
Connettendosi con la rivolta del popolo di Seattle (che è nella sua sostanza una rivolta della piccola e media borghesia tradita dal venire meno della speranza dello sviluppo), Wallerstein qui sta scrivendo che il crollo della speranza nelle politiche dello sviluppo a guida statale (ovvero delle diverse forme della ‘teoria dello sviluppo’[24]) apre tuttavia, almeno come utopia necessaria e aggregante, la possibilità di una radicale democratizzazione. Si tratta, per espressa ammissione, dell’unica strada possibile per rimobilitare individualità disperse. Ovvero della versione progressista del destino inevitabile nella fase di disgregazione e paura che si avvia: rivolgersi per protezione ai “gruppi”. Precisamente a gruppi “etnici, religiosi o linguistici, oppure gruppi di preferenza sessuale o di sesso o, ancora, minoranze di qualsiasi tipo”.
Quella che altri[25], cantori della svolta neoliberale, contemporaneamente chiameranno “politica dell’identità” è anche per Wallerstein l’unica prospettiva quando la fiducia è venuta meno. Infatti, “di chi fidarsi se non c’è più speranza per il futuro?”. Come articolare un’azione politica nel segno di una critica antisistemica radicale al materialismo, all’individualismo, all’etnocentrismo ed all’impulso di Prometeo[26]? Ovvero quando, è morto il marxismo come teoria dello sbocco della modernità con la sua strategia di “conquistare il potere dello Stato e fare la rivoluzione”, sostanzialmente cristologica. O, in altre parole, quando è cessata la modernità in senso politico, cioè quella sensazione che “il nuovo è qualcosa di positivo e desiderabile, dato che viviamo in un mondo di progresso ad ogni livello della nostra esistenza”. Ma anche quando l’alternativa indicata nel ’68 “si è rivelata priva di significato” e la svolta mercatista del ’89 la segue da presso.
Chiaramente in questa prospettiva di frammentazione in gruppi, necessariamente (anche qui per definizione, dato che un gruppo si forma su un confine) in lotta reciproca, il rischio è enorme. Con le sue parole “proteggere il nostro gruppo a scapito di qualche altro è distruttivo”[27]. Esiste in sostanza una doppia alternativa a questa politica di richiusura difensiva al tramonto della speranza della modernità: o gruppi rifugio dai confini armati, razzisti e neo-darwinisti; oppure gruppi con barriere permeabili e pluralisti. Chiaramente la seconda è in parte un’utopia, in quanto un certo grado di barriera difensiva è costitutiva di ogni gruppo difensivo, “i gruppi tendono a creare gerarchia all’interno” e “senza qualche frontiera di difesa non possono ovviamente esistere”[28].
In altre parole, la sfida del Wallerstein degli anni in cui dialogava con il movimento “no-global” è di “creare una nuova ideologia di sinistra in un’epoca di disintegrazione del sistema storico in cui viviamo”. E paradossalmente tenta di pensarlo proprio accettando l’esito della fase e passando attraverso quelle “esclusioni resesi necessarie nella costruzione di gruppi autocoscienti”, che si separano da una società non più supportata da uno Stato credibile ed autorevole. In sostanza si tratterebbe di rifugiarsi in gruppi identitari, dotati di confini, ma capaci di riconoscere le proprie interconnessioni.
Riproducendo un’agenda molto nota, e caratteristica da allora della sinistra radicale, è necessario per riuscirvi:
- Rompere definitivamente con la strategia che propone di realizzare la trasformazione sociale attraverso l’acquisizione del potere dello Stato (questa è al più una tattica possibile, ma solo difensiva);
- Valorizzare il radicamento comunitario dei vari gruppi sociali difensivi che, di volta in volta, possano in modo fluido e non unificato raggrupparsi (e ri-raggrupparsi) a livelli superiori[29];
- Organizzare lotte senza priorità strategiche, partendo dalla convinzione che “un insieme di diritti di un gruppo non è più importante di un altro insieme di diritti per un altro gruppo”. Ovvero che il dibattito sulle priorità, es. sulla centralità della lotta di classe rispetto alla lotta di genere, quella sulla razza, l’ambiente, “è debilitante e fuorviante e ci riporta sulla falsa strada dei gruppi unificati e alla fine fusi in un singolo movimento unificato. La battaglia per la trasformazione può essere combattuta solo su tutti i fronti contemporaneamente”[30].
La strategia sarebbe quindi una riedizione in termini di lotta culturale dello slogan dei “mille fuochi o mille Vietnam” degli anni sessanta: sovraccaricare il sistema, prendendo le sue rivendicazioni e le sue aspirazioni più seriamente di quanto desiderino le forze dominanti. Si tratta di una prospettiva rischiosissima di adattamento allo spirito del tempo che flirta con il “nuovo spirito del capitalismo” e la svolta “neoliberale” che, esattamente in quegli anni, prende accelerazione. Senza avvedersene si rischia di farsi abitare da quel pensiero dell’adattamento, della fine della storia, sottilmente invertebrato (come dicono Dardot e Laval), che è capace di pervadere ogni cosa ed emergere in ogni mobilitazione ‘libertaria’ (essendo il libertarismo una delle sue più evidenti immagini di marca) creando e sfruttando le soggettività. L’uomo neoliberale si pensa auto-governato e integralmente autonomo, e senza avvedersene è governato dalla sua propria rivendicazione di libertà. L’ethos neoliberale è orientato alla impresa di sé, alla autorealizzazione, ed è, in effetti, qualcosa di molto vicino ad essere l’etica del nostro tempo (in particolare per alcuni ceti e strati sociali). Questo ‘managemant dell’anima’ che si ancora in una sorta di ascetica, relazionata ad un vero e proprio ordine cosmologico. Ad esempio, per Beck il capitalismo avanzato demolisce interamente la dimensione collettiva dell’esistenza, distruggendo le strutture tradizionali che lo hanno preceduto, ma anche quelle strutture che aveva creato al loro posto: le classi sociali. Dunque “si assiste ad una individualizzazione radicale per cui tutte le forme di crisi sociale sono percepite come crisi individuali, e tutte le disuguaglianze sono messe in relazione con la responsabilità individuale”[31]. Chiaramente, come dice spesso anche Bauman, in questo modo tutti i problemi sistemici sono neutralizzati come problemi politici e ricondotti a fallimenti individuali. Ne deriva un decisivo indebolimento dei quadri istituzionali e delle strutture simboliche in cui i soggetti trovavano posizione ed identità, quindi alcune specifiche e caratteristiche patologie: erosione della personalità, demoralizzazione, depressione generalizzata, desimbolizzazione.
Anche volendo correre il rischio di flirtare con lo spirito neoliberale, l’“utopistica” delle forze antisistema che si vuole stimolare sarà sufficiente? La risposta che lo stesso Wallerstein fornisce è no. Ma nelle condizioni di generale rotta nella quale scrive (siamo alla metà degli anni novanta, dentro una società apparentemente pacificata e felice, dove nessuno pensa più che esista una significativa sfida e pochi centri sociali sono facilmente tollerati) le battaglie non si possono più combattere a livello di Stato. Ovvero nessuno può più contendere il potere politico in elezioni o in mobilitazioni di massa, perché i rapporti di forza non lo consentono.
Quindi le battaglie “si consumeranno a più livelli locali, tra quei gruppi nei quali ci stiamo riorganizzando” (piccola frase altamente indicativa dello spirito disperato del tentativo). Per questo, per l’estrema debolezza e il totale discredito di organizzazioni complesse (accusate di essere social-liberali), si immagina di ripiegare in una “strategia di alleanze flessibile e complessa”. Si potrebbe dire che la mossa che propone qui Wallerstein, certo nella temperie di quegli anni, è di attraversare il neoliberalismo e uscire in un certo senso dall’altra parte. Non cercare di tornare al compromesso socialdemocratico, in qualunque quadro, senza neppure evocare il meccanismo del ‘presupposto-posto’ (per usare un termine di Finelli) marxiano, per cui il soggetto alternativo è già qui, presupposto nella situazione, e va posto a partire da essa. Ma neppure la mossa simile di Negri e Hardt che postulano una “autonomia ontologica della moltitudine”, generata dalla dinamica del ‘capitalismo cognitivo’[32].
Come capiterà pochi anni dopo a Dardot e Laval, chiuso nel labirinto della sua sconfitta, strettamente scaturente dalla corrosione della sua analisi che resta dentro i presupposti del tempo venendone colonizzato senza avvedersene pienamente, questo pensiero, in uno con una vasta compagnia, esce con la mossa del cavallo di postulare la necessità-possibilità di costruire un nuovo soggetto che combini la soggettivazione individuale o di gruppo (in effetti neoliberale) con la resistenza al potere. Creando quella che Foucault chiamava una “contro-condotta”[33], come rifiuto di farsi condurre e definizione di se stessi, ovvero rifiuto di comportarsi verso sé come un’impresa e rifiuto della norma della concorrenza verso gli altri. Quindi avviare rapporti di cooperazione, inventando collettivamente nuove forme di esistenza, producendo e moltiplicando contro-condotte.
Era, a ben vedere, un pensiero della sconfitta. Non ha funzionato.
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