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machina

Lo statuto dell’immagine digitale

di Enrico Livraghi

Una riflessione sulla differenza ontologica tra immagine analogica e immagine digitale, e le sue conseguenze

0e99dc e9bce87ac17a41c4bf09bef94f7a85bamv2Di tutti gli equivoci appiccicati alle nuove tecnologie, i più insidiosi sono certamente quelli relativi allo statuto della cosiddetta immagine digitale. In particolare, intorno a un tema che dovrebbe ormai essere venuto a fuoco nitidamente – quello relativo alla differenza ontologica tra immagine analogica (fotografica e fotodinamica) e immagine numerico-digitale – tali equivoci appaiono paradigmatici di una difficoltà reale nell’elaborare concettualmente un simile nodo tematico.

La critica più accorta – quella che ha percepito il problema e si è posizionata davanti a una simile (invisibile) differenza ontologica – sembra inchiodata alla questione, certo importante, della cosiddetta «verità» o «sincerità» dell’oggetto visivo, che però si mostra anche l’unico terreno sul quale la stessa critica pare disposta a spingersi e a prospettare un qualche giudizio. Si tratta, come è noto, di un semplice constatare la scomparsa della traccia, o impronta sensibile, dall’immagine digitale; traccia invece da sempre conservata nell’immagine analogica grazie alla stessa struttura tecnica dell’apparecchio di ripresa (camera, otturatore, diaframma, pellicola fotosensibile eccetera). Detto di passagio, ai fini di una definizione minimamente rigorosa, ci sarebbe da chiedersi se sia ancora appropriato – al di là dell’abitudine – chiamare foto-grafia un’istantanea scattata con una macchina mediante la quale la luce emanata dal soggetto (insieme con i suoi tratti) è calcolata e immagazzinata in un file, e non più impressa, ovvero in-scritta, necessariamente e automaticamente in un supporto sensibile.

In ogni caso, quel constatare di cui sopra è ineludibile: l’oggetto concreto – ciò che è stato davanti all’obiettivo, per dirla barthesianamente – non è affatto necessario all’immagine digitale, la quale, al contrario di quella analogica, si costituisce come potenzialmente autoreferenziale.

Tuttavia, un tale obbligato constatare sembra essere anche l’unico atto critico: una semplice intuizione del differente fondamento d’essere nei due tipi di immagine tecnica, per lo più inconsapevole della radicalità (e abissalità) di tale differenza: una riflessione che alla fine rimane, per così dire, al palo.

La critica sembra piuttosto interessata a una battaglia contro i luoghi comuni generati dalla circolarità e dalla ripetitività quasi rituale di un discorso ossificato intorno all’antinomia analogico-digitale, (quasi) sempre coniugata in coppia con l’antinomia vero-falso. Èil lato più innegabile ed evidente del problema, e però anche il più periferico, e per giunta banalizzato in una formula di tipo mediatico: verità dell’immagine analogica, in quanto impronta geneticamente costituita nell’oggetto sensibile; impostura (potenziale) dell’immagine digitale, in quanto costituita in se stessa, ovvero autogenetica.

La critica sembra anzi volerci dire che tali antinomie rappresentano ormai un dogma, pur evidenziando – e non potrebbe essere altrimenti – come l’immagine numericamente formattata sia sempre trasformabile, ovvero manipolabile. D’altronde, di questa evidenza si mostra perfettamente cosciente anche un regista come Steven Sodeberg quando inserisce in Ocean’s Thirteen una scena, probabilmente irrilevante per la maggior parte del pubblico (ma anche degli addetti ai lavori), che in realtà risulta piuttosto emblematica. Si tratta della manipolazione, mostrata direttamente sullo schermo, di alcune fotografie formato tessera allo scopo di alterare le fisionomie dei soggetti fino a renderli irriconoscibili.

È ben vero che una tale evidenza non è altro che un dato oltre il quale l’analisi parrebbe impossibilitata a procedere, e che proprio per questo stallo precipita rapidamente nella stucchevolezza. Quindi è un gioco facile dichiarare quelle antinomie come «puramente formali», in quanto separate dal nesso sociale in cui esse si generano e si inscrivono, che fonderebbe la garanzia veritativa dell’immagine, vale a dire il «patto stipulato» tra chi guarda, cioè si trova di fronte all’immagine stessa, e chi quell’immagine ha costituito o contribuito a costituire. Ne consegue che la violazione di un tale patto, ovvero la manipolazione dell’immagine, sarebbe semplicemente un tradimento, ossia un atto di manifesta immoralità. Il che risulta eticamente ineccepibile. Per esempio, qual è il fondamento d’essere delle immagini digitali di Piazza Alimonda a Genova quel 21 luglio 2001, che catturano gli attimi precedenti il colpo di pistola che spegnerà la vita di Carlo Giuliani? Su quale base si costituisce la certezza che esse rimandano a un evento reale, a qualcosa che è stato concretamente? Questa certezza si fonda sulla storia, cioè sul dato storico costituito dall’esperienza vissuta da moltitudini di persone presenti in carne e ossa: esse, e non lo statuto, nè la natura dell’immagine tecnologica, e neppure la sua potenziale ripetizione e moltiplicazione all’infinito.

Tuttavia è da chiedersi se le domande che sorgono – e a quanto pare si allargano – intorno alla tecnologia digitale di produzione/riproduzione dell’immagine richiedano una riflesione nei termini di un problema di ordine morale, o tuttalpiù di natura deontologica. Su questo, purtroppo, il panorama che offre la critica in generale è soprattutto di una sorprendente chiusura ermeneutica, perfino incapace di sospettare le profondità del problema. D’altra parte la stessa critica più acuta (va da sé che ci stiamo riferendo al peraltro notevole intervento di Franco Marineo su n. 36 di «Duellanti») ci ricorda come l’evento fotografico sia sempre stato simulazione e falsificazione anche con la vecchia tecnica analogica, solo intrinsecamente più «sincera».

Viene presa come esempio di un tale e ben noto processo manipolatorio una celebre epica immagine «ambigua», forse «simulata», quella che rappresenta i soldati americani che issano la bandiera sul monte Suribachi di Iwo Jima, la più feroce battaglia della guerra nel Pacifico. Un immagine problematica, di cui viene ricostruita la vicenda nel film Flags of Our Father di Clint Eastwood. Come è noto, non è dato sapere se si tratta della fotografia scattata al primo alzabandiera, in quel momento drammatico della conquista, o invece del secondo alzabandiera documentato dal reporter Rosentalh, oppure del terzo (tre, infatti, sono stati gli alzabandiera), o magari di una foto scattata successivamente. Dal punto di vista del patriottismo americano, la cosa importa nulla: si trattava, essenzialmente, di costruire un’immagine mitologica e leggendaria, non di sbandierare il valore di testimonianza storico-reale di quella stessa immagine.

Però, bisogna dire che proprio un tale esempio si rivela denso di aporie. Perché si tratta pur sempre di una fotografia scattata con apparecchiatura analogica (a quel tempo non poteva essere altrimenti) che certifica non già l’autenticità del gesto simbolico compiuto da quei soldati nell’issare la bandiera a stelle e strisce, ma bensì l’autenticità del loro essere stati inconfutabilmente di fronte a quell’obiettivo di quel fotografo. Proprio in questa fotografia magari «autentica», o magari «insincera» in quanto finalizzata non a documentare la verità di un evento ma a trasfigurarlo in un oggetto di natura puramente ideologica; proprio in questa immagine «indecidibile» si ripresenta – ineliminabile – l’essere dell’impronta: forse quella dei soldati che hanno davvero compiuto il primo alzabandiera, o forse quella dei «supplenti», certamente e necessariamente quella dei loro corpi, non importa quali. È questo il nodo da cogliere: quei corpi sono stati davanti all’obiettivo con assoluta certezza. Tanto, che questo si può dire dell’«antiquata» tecnologia analogica: che con essa non è possibile nessun falso ontologico.

Per questo è del tutto vano ridurre a pura questione etica quello che si mostra come un complesso problema estetico, relativo alla percezione sensibile (aisthesis). Ne va del rapporto estetico-sensibile di un corpo parimenti estetico-sensibile con l’oggetto dell’esperienza, ovvero con la cosa. Sono in gioco le modalità dell’afferramento dell’oggetto, ovvero le modalità proprie dell’oggetto, della cosa stessa, nell’offrirsi alla percezione (ossia – ma è lo stesso – della percezione nell’appropriarsi l’oggetto). Insomma, è in gioco – nientemeno – il tema dell’essente materiale. E anche il tema del rapporto che si istituisce tra un tale essente e le forme del pensiero (ma su questo fermiamoci qui).

Poiché l’immagine informatizzata non reca in sé alcun fondo concreto-sensibile, in un certo senso essa mostraoccultando. Anzi, esibisce l’imponderatezza del suo fondo, la labilità del visibile circoscritto nel campo del fotogramma, e in ultima istanza pretende un atto di fiducia intorno a esso, cioè impone – appunto – un patto, un atto di fede, un compromesso morale tra gli attori. Infatti, il suo fondo non può lasciare traccia – per definizione – in nessun elemento costitutivo capace di certificare con la forza della necessità l’essere materiale del soggetto, se non nelle trame incorporee di un ineffabile e inafferrabile rizoma numerico. Dunque, quanto alla certezza dell’oggetto, è solo l’atto soggettivo di colui che agisce l’immagine – di colui che «cattura» l’immagine – che qui entra in gioco: percezione dell’oggetto reale nella forma «intellettiva» di tale percezione. Si tratta della ben nota intenzionalità del pensiero (della coscienza) che la tradizione fenomenologica definisce come percezione noetica (e naturalmente chiunque può sospendere il giudizio su tale definizione).

Perchè, come è evidente per ogni cultore di immagini novecentesche, c’è un noema nella foto analogica, come appunto sosteneva Barthes in La camera chiara: si tratta proprio di quel percepire, di quell’è stato del soggetto, di quella certezza che quel soggetto – persona o altro – è stato necessariamente davanti all’obiettivo, lasciando materialmente l’impronta di sé. Ma c’è un noema nell’immagine digitale? Non si tratta di un interrogativo capzioso, dato che «il fondamento ontologico» di quell’immagine – il mondo esperito di quella visione, per dir così – è in sé incerto, instabile, volatile, e alla fine indecidibile, anche perchè sempre esposto al divenire nella possibilità della trasformazione (tecno-artificiale). In termini fenomenologici si potrebbe dire in questo modo paradossale: il noema non ha certezza del suo contenuto noematico.

La percezione riflessiva, ovvero l’intenzionalità della coscienza, non può eliminare il fatto che si tratta pur sempre di coscienza di qualche cosa, vale a dire della cosa che si offre essa stessa alla percezione. Ma su quale statuto si fonda la certezza che sussista una cosa nell’immagine numerica, e che tale cosa sensibile si offra essa stessa all’immagine, cioè alla percezione? Qui, di fatto, l’atto soggettivo di colui che fruisce l’immagine, cioè l’atto dell’altra coscienza intenzionale, è (potenzialmente) fuori gioco, e quindi senza afferramento.

Gli appassionati misuratori di pixel non si allarmino: l’ibridazione, il meticciato, la sovrapposizione e perfino la fusione artefatta di immagini spurie, adesso abitano definitivamente il cinema – questo oggetto ormai parimenti meticcio e ibrido – e con risultati spesso straordinari sul piano iconico, linguistico e narrativo, come dimostrano – valgano per tutti gli altri – i più recenti film di Michael Mann, in particolare Collateral, o l’ultimo di Robert Zemeckis, Beowulf, che spinge molto in avanti le performance motroniche, cioè la tecnologia che trans-duce la figura degli attori in immagini computerizzate. In fin dei conti, si tratta solo di un tema fenomenologico, che la critica non è tenuta ad affrontare. Purchè prenda coscienza della questione cruciale che l’artefazione digitale lascia intravvedere: non un problema etico, ma bensì teoretico, cioè politico.

Del resto, ne va di ben altro. Per esempio, ne va dell’imponderabilità dell’oggetto informatico – visibile/invisibile – in rapporto al processo lavorativo e alle figure del lavoro vivo, divenute intricate come un rizoma (e prima ancora in rapporto al concetto stesso di forza-lavoro già di per sé ostico); e ne va anche di «cosa» e «quanto» di tale imponderabilità/invisibilità entra oggi nel processo di valorizzazione. Ma questo è un altro discorso.


Immagine: Libera elaborazione grafica in omaggio a un’opera di Robert Glogorov, che ringraziamo.

Enrico Livraghi, ha diretto la rivista di filosofia politica «Metropolis», ma è anche stato critico cinematografico e studioso della filosofia dell’immagine, oltre che protagonista nell’esperienza del mitico cinema Obraz, una saletta con un centinaio di posti che ha lasciato un segno profondo nella cultura milanese, e non solo. Ha inoltre collaborato a quotidiani e riviste, ha scritto libri, tra i quali, nel 2006, Da Marx a Matrix. I movimenti, l’homo flexibilis e l’enigma del non-lavoro produttivo, per DeriveApprodi. Ha collaborato con la Casa della Cultura di Milano curando un ciclo bellissimo sul cinema con i protagonisti delle varie fasi della produzione cinematografica. È scomparso il 12 maggio 2010.

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