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Vincenzo Costa, “Elite e populismo. La democrazia nel mondo della vita”

di Alessandro Visalli

competenzahhuIl libro di Vincenzo Costa[1] è stato scritto immediatamente a ridosso del ciclo di successi elettorali ‘populisti’ del 2016-18 e si pone il problema di fornire gli strumenti intellettuali per giudicare quel che accade in quel torno di anni che seguono la crisi del 2008 (la quale in Europa manifesta i suoi effetti maggiori solo dopo la crisi greca e quindi dal 2010), con gli effetti economici e sociali dell’austerità, la critica dell’Unione Europea e dell’Euro, il distacco delle classi medie dal consenso verso quelle che saranno qui chiamate “le élites”. Pur nella sua agilità, un testo di circa centocinquanta pagine, il libro individua un percorso teorico semplice e chiaro: la democrazia è un progetto sempre a venire, una ‘riserva attiva del possibile’, ma viene ridefinita dalla cultura liberale alla quale le sinistre si sono arrese come dispositivo istituzionale e legale che resta indifferente alle vite concrete e punta piuttosto a governarle attraverso le élite. Nel ‘divenire inutile della sinistra’ l’opposizione che si manifesta a questo progetto di disattivazione e gerarchizzazione è quella tra élites e ‘moltitudini’. In questa opposizione si apre un bivio: o la risposta ai meccanismi sociali e discorsivi che costituiscono le élite ed escludono avviene in modo reattivo, egemonizzata dai ‘senza-potere’ e dalle classi medie déclassé[2], e si ha il ‘populismo’. Oppure intorno ad un progetto che articola le premesse antepredicative dei “mondi vitali” allargati, e non solo relativi alle ‘classi medie’, si determina la costruzione di “popolo” che muove dall’esigenza di giustizia e ottiene la riconnessione delle élite con questi; e allora si ha ‘democrazia popolare’.

Uno dei punti metodologici del testo è che il luogo di origine di ogni ordine concettuale è l’esperienza, ovvero l’insieme dei fenomeni che sono ritenuti in esso e che lo muovono[3]. Ovvero è quella che Costa chiama l’esperienza effettiva della vita. O, in altro termine, ciò che rimanda al fondo del “mondo vitale[4] (che include anche l’insieme dei valori e delle nozioni rese possibili in un dato quadro di esperienza). La democrazia, quindi, vero problema al centro del libro, non può in alcun modo essere compresa come mero risultato di un sistema di regole atte a governarla, o di teorie che le fonderebbero. La democrazia si comprende solo come fenomeno che deriva dall’essere situati. O meglio, dall’essere i diversi attori sociali diversamente situati. Di qui nasce quel processo che, decentrando le posizioni di esistenza di ego e alter, apre alla scoperta di abitare in un diverso orizzonte; in un “mondo di vita”, estraneo (affermazione da prendere in senso lato[5]). Ed appare la scelta se sentirsi ‘senza-potere’, estranei alla politica, o praticare e ricercare luoghi di amicizia nella quale questa diventi possibile e con essa la democrazia. È importante questa caratterizzazione della marginalità come assenza di potere (e non, ad esempio, di denaro), perché manifesta una delle caratteristiche del modo dell’autore di percepire il problema della socialità e della sua organizzazione.

Ma ciò da cui bisogna partire, per comprendere il diverso essere situati degli attori sociali, è che élite e moltitudini abitano in due diversi modi di sentire, ovvero in due “mondi di vita” diversi. Le classi dominanti hanno infatti un carattere specifico, un esasperato desiderio e bisogno di riconoscimento. Come scrive:

“l’élite è una struttura di interazione nella quale ogni soggetto mira ad essere riconosciuto come superiore ad altri, e nella misura in cui viviamo in un mondo mediatizzato le élite hanno bisogno di un pubblico, per cui esperiscono il popolo come insieme di spettatori e consumatori del proprio spettacolo e si rapportano al popolo come un pubblico, invece che come una moltitudine che, attraverso processi di formazione della volontà democratica, deve esprimere una volontà politica”[6].

Chiaramente, in questo modo, esse non hanno rapporti con comunità determinate, ma solo con sottoposti, eventualmente elettori. Per questo motivo:

“la democrazia liberale è un dispositivo indifferente ai concreti mondi della vita, e proprio per questo una forma di organizzazione politica che può essere calata dall’alto su mondi della vita pensati come amorfi, privi di organizzazione semantica, di regole di interazione e di strutture teleologiche”[7].

Anzi, secondo il punto di vista liberista[8] il governo della società prodotta dalla logica della competizione estesa dal mercato nelle vite di tutti determina un nuovo uomo. Ovvero, nel linguaggio di Costa, punta a cambiare il ‘mondo della vita’. L’intero sfondo di preinterpretazioni condivise a partire dalle quali diventa possibile ogni conoscenza e azione. Si comprende se si fa mente al fatto che. dal punto di vista storico, il neoliberalesimo reagisce alla crisi determinata negli anni in cui, come si trovò a dire Karl Polanyi[9] la società iniziò a difendersi (dalla condizione di insopportabile ineguaglianza e degrado sociale prodotto dalla globalizzazione imperialista sotto guida anglosassone tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento). E lo fa senza limitare il mercato attraverso azioni compensative (come proponeva Keynes), ma, al contrario, spingendolo avanti e mettendo in piedi una ferrea gabbia normativa sostenuta dalla forza dello Stato, per purificare il mercato e far affermare in esso la forma pura della concorrenza[10]. Il neoliberismo è una forma di progressismo e, al contempo, una forma di accelerazionismo. Lo scriverà bene Lippman nel 1938 e anni seguenti:

“gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben lungi dall’essere astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine giuridico attivo e progressista, teso al continuo adattamento dell’uomo a condizioni sempre mutevoli. Serve un ‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed un dirigismo statale che certo si deve differenziare sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed al collettivismo”[11].

Ne consegue un dirigismo sui generis, “che implica la protezione della libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la conquista di benefici sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno di una competizione leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro meglio collocati socialmente”. Un liberismo che è quindi, contemporaneamente, il regno della legge e il governo delle élite, e che si allontana, ancora Lippman, “dalla mentalità magica ed impaziente delle masse”[12].

Se questo è il punto di vista delle élite, proposto dai neoliberali, quello delle “moltitudini” (l’insieme dei lontani dal potere, ma, tuttavia, spesso consapevoli, istruiti, se pure eterogenei) vede la democrazia come luoghi, volti, amicizie. Ovvero come articolazione dell’intersoggettività a partire da esperienze concrete. Esperienze dell’altro, che è come me ma altro da me; esperienze dell’essere altro di un altro di ognuno; dell’avere orizzonti di senso comune; della possibilità, in definitiva, di assumere il punto di vista dell’altro in uno spazio discorsivo. In altre parole: non può esservi democrazia senza capacità di pensare l’io nel noi ed a partire dal noi.

Ma le ‘moltitudini’, se pure sparpagliate e disconnesse, non sono i “senza potere” (o i “declassati”) che, invece per Costa non riescono a pensare collettivamente e restano per questo nel circolo determinato dalle forme di oppressione che subiscono individualmente. Inoltre restano, in assenza di un’articolazione teorica e di un progetto di emancipazione, nel circolo della disperazione e della rabbia cieche, nel ribellismo senza progetto di cambiamento. Al contempo in certo modo sono in modo subalterno catturate dalle precomprensioni e concettualizzazioni (una parte, ma non tutto, di ciò che qui si chiama “mondo vitale”) delle élite stesso, ovvero del neoliberismo. A causa di questa cattura cognitiva inconsapevole esse non percepiscono possibilità nelle istituzioni presenti e nel dibattito politico. Sentono fortemente sulla propria pelle il peso bruciante della delegittimazione, che promana dalle élite, e la perdita di senso, ma non sanno trovarne un altro.

Considerando questa biforcazione, è lo stesso modo di essere delle élite che blocca la democrazia e provoca, come mero fenomeno reattivo, il populismo che, per parte sua, non è altro che una vendetta. Un’emergenza che si verifica quando la decodifica delle relazioni che si presentano come sistematicamente distorte ed in piena ‘crisi comunicativa’ diviene impossibile.

Mentre, al contrario, una democrazia sana prevedrebbe che la giustizia sociale sia in qualche relazione riconoscibile con i diritti sociali e al contempo connessa con la formazione della volontà politica. La forma liberale recide questa relazione e la sinistra, accusa Costa, ha negli ultimi trenta o quaranta anni seguito questa deriva, sostituendo lo scopo dell’emancipazione con quello di “far saltare il codice della normalità in direzione di un’esistenza libertaria, anarchica, centrata sul valore della libertà assoluta dell’individuo”[13]. In sostanza le formazioni della sinistra, anche le più estreme, hanno assunto senza avvedersene quelle formule e quei toni che avevano caratterizzato la critica aristocratica alla borghesia. Sconfitti sono divenuti interamente subalterni, in un processo che ha progressivamente modificato in profondità l’intera rete valoriale, e che ha finito per presentare il mercato come sovrano assoluto non lasciando nulla da decidere alla forma politica. A muovere questa trasformazione è stata l’illusione che la questione sociale fosse divenuta obsoleta (una posizione in particolare affermatasi nei lunghi anni Novanta), perché a loro volta le contraddizioni del capitalismo si erano neutralizzate. Una volta accolta questa idea sono rimaste solo amministrazione e riconoscimento dei diritti civili.

Come segnalano non pochi avversari ciò ha determinato la tendenza a creare una élite chiusa che, in quanto tale, crea sistemi di esclusione. Ma cosa significa infine élite? In questa descrizione si manifesta una delle migliori caratteristiche del libro: essa è essenzialmente un sistema di interazioni. Non è affatto una ‘casta’ che opprime, quanto “l’insieme delle persone che hanno un potere distintivo a causa della loro posizione strategica che li connette ad organizzazioni, istituzioni e movimenti in grado di generare risultati politici ed economici stabilmente”. Entro tali insiemi, come accade costantemente, vigono tacitamente regole che guidano il comportamento e l’accettazione. Si tratta, semplicemente, di “sistemi di attese reciproche che partono da una comune e condivisa comprensione del mondo”[14]. Si tratta, in sostanza, di un sistema di doni e controdoni, una logica sia mondana sia amicale che si manifesta in luoghi comuni, secondo frequentazioni ripetute.

“l’élite è un sistema di interazioni e il suo modo di funzionare non dipende da perfidia delle volontà che, benché possa talvolta essere presente, può anche mancare senza che il carattere essenziale dell’élite venga meno. L’élite non è dunque un insieme di persone, ma una rete semantica che produce regole di interazione, da cui le parti traggono il loro potere, ma che, d’altro canto, le vincola entro limiti ben definiti da cui non possono evadere, perché rappresentano le condizioni di compatibilità senza le quali il sistema reticolare si sfalda e i singoli si trovano in pieno stato di natura”.

Tutto ciò è esperito da chi sta fuori (i “senza potere”) come disprezzo ed ingiustizia. Il populismo è dunque solo una reazione tutta interna a questa circolazione di senso. Secondo una posizione esplicitamente lontana dal marxismo, viene rivendicato che questa lettura delle élite non è connessa con i mezzi di produzione. Si può avere una struttura reticolare di potere, fortemente coesa e altamente escludente, anche dove i mezzi di produzione sono collettivi. Più che la ricchezza materiale nella visione di Costa, che è erede della tradizione fenomenologica, conta la ricchezza immateriale, il potere effettivo ed il dominio. E fa premio la separazione dai mondi della vita e la stabilità dei meccanismi di inclusione e cooptazione e di quelli di riproduzione. Per cui conta la solidità del sistema di attese reciproche che partono da una comune e condivisa comprensione del mondo. Dunque, una delle caratteristiche distintive di un’élite chiusa è il grado di ‘porosità’ della membrana esterna, che, nei casi più consolidati serve a far passare solo chi è affidabile e fa promessa di garantire la riproduzione del sistema. Il sistema di ‘doni e controdoni’ che, nel loro insieme, identificano e consolidano le élite esprime del resto in profondità una logica amicale e mondana che si manifesta tipicamente in luoghi ‘notevoli’ (come il dato campus universitario, o la carriera distintiva) e vive di frequentazioni comuni. Si tratta di una rete di amicizia, ovviamente, ma anche e in modo necessariamente indissolubile, di una rete di esclusione. Ma le élite sono anche un insieme di tensioni, non si tratta in nessuna forma di una struttura tra pari, al contrario, è una gerarchia articolata che si compatta ulteriormente nei momenti di crisi. E un sistema di relazioni la cui legittimazione si manifesta attraverso l’egemonia che riesce ad esercitare sulle classi medie.

Il punto è che se per entrare a far parte delle élite bisogna previamente abbandonare la comprensione emotiva del ‘mondo della vita’ di provenienza (le rare volte in cui questa è dissonante come è accaduto, ad esempio, ad una parte del personale politico portato improvvisamente ‘nelle istituzioni’ dal M5S, esemplare la parabola di Di Maio), allora viene bloccata la circolazione del sentire e le élite, di converso, alla fine non sentono più la società e si autorappresentano come coloro che hanno i valori corretti. I ‘boni viri’, coloro che hanno in sé la virtus, e, ovviamente, il meritum. La pars melior humani generis, come uno sconcertato Rutilio Namaziano dirà della classe senatoria, sfidata dai barbari, in “De reditu” del 417[15]. Come allora accadde la ri-circolazione delle élite (o, in altre parole, l’irruzione dei barbari) potrebbe rivitalizzare la situazione, inserendo nuovi modi di sentire e possibilità di azione. Ma può anche, al contrario, fermarsi alla fase di distruzione, o essere strumentalizzata inavvertitamente dalle élite stesse in una ‘rivoluzione passiva’. Questo è il problema, in effetti: le élite si sono fatte, e da tempo, sclerotiche e autoreferenti, bloccano la vitalità, ma questa locomotiva che sferragliando e tremando corre verso l’abisso, può essere fermata solo da un moto di distruzione. La cui natura è da vagliare, arrivando fino a sospettare che “il populismo può essere la forma attuale della violenza rivoluzionaria”[16]. Una frase questa ultima che forse oggi l’autore, dopo lo spettacolo dell’umiliazione che le dinamiche avviate nel 2018 hanno subito (in cui tanti si sono accodati, esattamente lasciando per strada, e con entusiasmo, l’intera comprensione emotiva che portavano in dote), non sottoscriverebbe più. Si tratta, però, del reale problema di fronte a noi della possibilità della riattivazione della politica di trasformazione a fronte di un passaggio d’epoca che si presenta enormemente travagliato ed anche pericoloso.

Il problema è, in effetti, che cosa possa trasformare una moltitudine anche arrabbiata e déclassé[17] in un soggetto politico capace di esercitare una qualche forma di egemonia e autonomia (dalle élite). Qui compare la questione di comprendere che cosa si intenda, in questo contesto, per ‘popolo’.

“Il popolo è una articolazione antepredicativa di soggetti unificati da una serie di intrecci intenzionali derivanti dal fatto di muoversi entro un comune orizzonte di senso[18]”.

E questo può avvenire solo quando i soggetti sanno assumere il punto di vista dell’altro e sono capaci di esplicitare questa comprensione ‘antepredicativa’ originaria. Ciò accade nella democrazia, nelle quali dinamiche di ‘amicizia’ situata (in luoghi, processi e temi) “il soggetto impara a guardarsi come l’altro di un altro”, ed in questo modo “prende le distanze da se stesso, può guardare se stesso come un altro, e dunque può costituirsi come cittadino distinto dal privato”[19]. Insomma, avviene in lui un processo di maturazione (si veda la teoria di Piaget descritta da Habermas in “Teoria dell’agire comunicativo[20]). Questo processo di costruzione dell’intersoggettività decentra il soggetto e facilita il sorgere, da questi, del “popolo”. Un ente che “sorge quando le moltitudini acquisiscono la capacità di assumere il punto di vista dell’altro, poiché questo sdoppia il soggetto, lo divide, e istituisce la differenza, nello stesso individuo, tra privato (soggetto ad interessi particolari) e cittadino (soggetto alla volontà generale)”. Riecheggiando temi rousseuiani per Costa, allora, “il popolo è tale nell’atto stesso di dare la legge a sé stesso, e dunque si costituisce in popolo sovrano limitando la propria sovranità nell’atto di darsi la legge”. Ovvero, in modo più sintetico, “il popolo è il movimento di trascendenza immanente alla moltitudine”. Precisamente, quel movimento immanente che è attivato dal sentimento di umiliazione ed offesa passato al setaccio del concetto e sentimento di giustizia (che presume un riconoscimento). Non già di quello di sicurezza. Ma questa esperienza, ovvero questo potenziale immanente, attivato dalla situazione, deve essere articolato discorsivamente. Con questo tono habermasiano, Costa afferma che: “la giustizia non è qualcosa che qualcuno possiede, ma il movimento del suo farsi legge attraverso il discorso, è la ragione all’opera tra i soggetti, ciò che crea legame, lo genera e lo rigenera”[21].

Per dare una idea dell’estrema densità di presupposti di questa posizione si veda questo passo chiave di TAC di Habermas:

“di ‘logica evolutiva’ nel senso della tradizione che risale a Piaget, possiamo però parlare soltanto nel caso in cui le strutture storiche dei mondi di vita non mutino in modo casuale, ma solo in dipendenza di processi di apprendimento, quindi in modo orientato. Una variazione orientata dei mondi di vita ha luogo, ad esempio, quando le trasformazioni evolutive si lascino collocare nella visuale della differenziazione fra cultura, società e personalità. E si dovranno postulare processi di apprendimento per siffatta differenziazione strutturale del mondo di vita, quando sia dimostrabile che quest’ultima ha significato un aumento di razionalità”[22].

Svolge una funzione chiave, in questo discorso che a me pare avere una somiglianza fisiognomica, non specifica, non solo quello che chiama un “mondo di vita idealizzato”, nel quale vigono in ultima istanza prese di posizione si/no razionalmente motivate su contesti normativi ‘razionalmente impenetrabili’, quanto l’implicita descrizione di questo processo come ‘divenire adulti’ (ovvero il fondamento nascosto di un’antropologia della quale la forma di vita occidentale e, nel caso di Habermas, anche liberale ed illuminista, serberebbe la chiave). Seguita Habermas:

“In verità questo mondo di vita acquisterebbe una singolare trasparenza, nel senso che consentirebbe soltanto situazioni in cui gli attori adulti saprebbero distinguere le ‘azioni orientate al successo’ dalle ‘azioni orientate all’intesa’, altrettanto chiaramente quanto atteggiamenti empiricamente influenzati si distinguono da prese di posizione si/no razionalmente motivate”[23].

Allora qui, alla luce di queste considerazioni, emerge la differenza con il “populismo”. Questo fornisce della situazione e del movimento di liberazione un tono meramente reattivo, e interpretazioni sistematicamente non politiche. Anche il populismo è un fenomeno relazionale, ma ha il tono piuttosto di una rivolta contro lo Stato moderno, e le sue forme tecniche e relazionali (nonché giuridiche) ed a inconfondibili tratti anarchici, liberali e conservatori. Anzi, si tratta di “un fenomeno essenzialmente conservatore”. Vive di costanti polemiche contro la burocrazia, lo Stato e la fiscalità; rappresenta il conflitto come opposizione tra classi politiche e “non politiche”, dandogli una coloritura morale che nasce direttamente e senza mediazione da un vissuto di distanza ed umiliazione. Una sorta di anarco-liberalismo conservatore, che è in esatta continuità con i movimenti, ed i partiti-nicchia, che hanno avuto lungo successo durante gli anni Novanta e zero. Partiti che vivevano di rifiuto della politica basata sugli interessi di classe, e organizzavano il discorso politico su singole scelte (l’ambientalismo, il femminismo, i tanti movimenti di difesa di minoranze offese, etc.), restando essenzialmente legati alle classi medie allora emergenti.

Il populismo ne è l’erede legittimo, una volta che queste classi medie si trovino a rischio di declassamento, e si trova in un’unica struttura relazionale con il movimento aperto dalle élite liberali. Si tratta di due variabili non indipendenti.

“in senso forte, il populismo deve, al pari di una prospettiva liberista, mettere da parte la nozione di ‘giustizia sociale’, poiché questa richiede necessariamente concentrazione di potere e primato della politica sull’economia”[24].

Se, dunque, il populismo è essenzialmente un movimento anarco-liberale conservatore (e non un movimento parimenti orientato, ma progressista, come per certi versi sono le élite che dice di combattere), e si appella a quelle sezioni delle classi medie che sono state declassate, e vivono ciò come disconoscimento, allora è un movimento reattivo. L’unità che apparentemente crea, oltre ad essere effimera e di brevissima durata, è meramente oppositiva. Infatti si può dire in questo modo: il populismo articola la dialettica tra moltitudini e classi sociali, a partire dall’istanza liberistica dell’autogoverno e delle libertà individuali. Nel fare ciò in sostanza trasforma la moltitudine in popolo, come vorrebbe Laclau, ma in modo effimero e soprattutto sotto l’egemonia del ceto medio. Se può sembrare avere un tono popolare è solo perché ad esso si oppone, nel completo silenziamento delle altre voci (rese afone da una egemonia culturale onnicomprensiva dell’estetica liberista), a classi medie superiori e classi alte incorporate nelle cosiddette élite. Insomma, il populismo è figlio del liberismo e non esce dalla sua ombra.

Si tratta in sostanza di un disturbo comunicativo e di un annullamento delle articolazioni, condotto attraverso la sistematica elusione dei problemi e l’annientamento di ogni possibile progetto di trasformazione (necessariamente, anzi fatalmente, divisivo). Anche la necessità per una costruzione populista di fare uso di “significanti vuoti” (Laclau), implica che la costruzione discorsiva populista escluda sempre ogni riferimento alla questione sociale per privilegiare elementi come l’onestà, la rottamazione, l’antiburocrazia. Si tratta, deve essere chiaro, di temi e toni che scaturiscono dalle esperienze di vita dei soggetti, ovvero dal ‘mondo di vita’, ma che non permettono alcuna definizione di progetto. Si tratta di un’aggregazione in negativo, che produce apparente unità solo perché toglie le differenze (ignorandole) e rifiuta quindi quella discussione capace di far emergere altre possibilità implicite, presenti nel ‘mondo di vita’. L’accusa che Costa svolge alla dinamica ‘reattiva’ del populismo è quindi di irrazionalità, reificazione e subalternità. Una dinamica incapace di produrre effettiva libertà ed emancipazione.

Abbiamo detto in precedenza che il recupero dall’alienazione può avvenire solo in modo non alienato (nota 17). Per concludere questa lettura tentiamo, dunque, di richiamare alcuni luoghi del lungo dibattito sulla alienazione/reificazione, che come noto viene posto in posizione strategica nell’opera di Marx e poi ripreso nel dibattito a più voci degli anni Venti e di qui successivamente abbandonato nella svolta ‘liberale’ della sinistra (nella quale “Teoria dell’Agire Comunicativo” svolge un ruolo rilevante) e che si tenta di riprendere nelle più recenti ‘generazioni’ francofortesi. Nel 1923 in “Storia e coscienza di classe[25] Lukacs pubblica il saggio “La reificazione e la coscienza del proletariato”, che muove dalla trattazione della merce in Marx nella quale “un rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi una ‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini”. Il tema si lega a quello dell’alienazione, da Hegel connessa alla “rinuncia” ed alla “estraneità” o “scissione”[26], e poi da Durkheim tradotto in “anomia”[27] e da Simmel nella sua denuncia del predominio delle istituzioni sugli individui[28], per non parlare di Max Weber. Nella sua prima versione la teoria dell’oggettivazione di Lukacs è strettamente connessa con quella di Hegel, un fatto strutturale, anche se, con Marx questa viene identificata come caratteristica specifica del capitalismo e quindi con esso superabile. Per l’autore ungherese, comunque, si tratta di un effetto dell’espansione dello scambio di merci a danno delle altre dimensioni della relazionalità umana e della vita.

Questa espansione provoca tre effetti:

  • Conduce a percepire gli oggetti come mere “cose” da cui è ricavabile un profitto (e qui il linguaggio non ci aiuta, dato che ‘oggetto’ e ‘cosa’ appaiono sinonimi e solo la ricerca di Mauss aiuta e comprendere una potenziale maggiore estensione semantica ed affettivo-esistenziale);
  • A considerarsi anche vicendevolmente come cose in una transazione vantaggiosa,
  • A considerare le capacità di ego ed alter come “risorse” mobilitabili nel calcolo dei possibili profitti (ad esempio utilizzando concetti come “risorse umane”).

La tendenza alla “reificazione” del mondo e delle soggettività prese nelle relazioni di mercato produce una sorta di “seconda natura”. Come Mauss, negli stessi anni, in altre parole sosteneva che l’uomo calcolatore è un prodotto della modernità, ed è “davanti a noi”. L’idea, al contrario del rivolgersi indietro di Heidegger[29], è che dietro il velo alzato dal capitalismo c’è la vera esistenza umana potenziale. Si può dire che l’uomo realizza sé stesso nella modalità di un impegno esistenziale, di un ‘prendersi cura’, che gli fa scoprire un mondo dotato di senso, non attraverso un orientamento a conoscere, padroneggiare e manipolare in modo neutrale.

Davanti al rischio che, seguendo questa linea di critica, qualunque forma di oggettivazione (o di agire strumentale) sia reificante e che la socialità umana sia destinata a sparire in essa, Habermas in “Teoria dell’agire comunicativo” individua più limitatamente come “reificazione” solo il processo che vede forme di comportamento strategiche penetrare in sfere sociali nelle quali non è funzionalmente opportuno siano coinvolte, per non perderne i presupposti comunicativi. La modernizzazione capitalista, sostiene Habermas segue un modello che vede la razionalità cognitivo-strumentale superare gli appropriati ambiti di economia e stato e penetrare anche “in altri ambiti di vita strutturati in modo comunicativo”, prevalendo sulle forme di razionalità ad essi più appropriate (pratico-morale ed estetico-pratica). La cosa crea quindi disturbi nella riproduzione simbolica del mondo vitale[30]. Ne deriva il concetto chiave, richiamato in un passaggio anche da Costa, di “colonizzazione del mondo vitale” che in TAC è alla base dei fenomeni di “reificazione della società” che si verificano “quando la distruzione di forme tradizionali di vita non può più essere compensata mediante l’adempimento più efficace di funzioni a livello sociale complessivo” (p.978). Torna dunque un criterio esterno, funzionale, di tipo marxiano (e weberiano), per giudicare quando un’oggettivazione è complessivamente accettabile, in quanto “compensata” da un superiore beneficio.

Nel capitolo “Da Parsons attraverso Weber sino a Marx”, in cui il filosofo si impegna in un serratissimo corpo a corpo con i processi della modernità di astrazione reale e ‘cosificazione’ dei nessi di azione socialmente integrati e con gli autori che auroralmente li hanno messi in questione, torna sempre di passaggio la diagnosi storico-situazionale che muove dall’interno l’impresa di TAC stessa: “vedremo poi come può essere spiegata la pacificazione del conflitto di classe, nel quadro delle democrazie di massa dello Stato sociale, e come la teoria marxiana dell’ideologia può essere collegata con le riflessioni di Weber sulla modernità culturale”[31]. Nel più recente “Verbalizzare il sacro[32], viene enfatizzato il concetto di ‘apprendimento’ come avanzamento attraverso il quale la prestazione di “trascendere il contesto” (kontexttraszendent) viene connesso con processi di reciproco apprendimento per effetto di ‘buone ragioni’ in una struttura intersoggettiva. Qui, come del resto in TAC, la storia dell’umanità può essere retrospettivamente compresa (rischiando, come ammette, di restare a sua volta esso stesso in una sorta di prigione mentale etnocentrica) come evoluzione dall’incapsulamento dell’individuo nei “mondi-di-vita”, etnocentricamente situati, alla conquista di una capacità di agire in base ad una razionalità astratta, che si fonda su una normatività procedurale a sua volta fondata sulla struttura di riconoscimento implicata nel linguaggio a livello grammaticale. Questo processo è, al modo di Kant, interpretato come decentramento e autonomizzazione individuale, ma è costantemente sfidato dal doppio rischio di “ricadere” nel vicino abbraccio del mondo-di-vita (generando un ritorno ai conflitti identitari, reciprocamente impermeabili, ed alle forme sociali dell’ante modernità) o nella reificazione, trasportata dalla logica scientista e dalla potenza darwiniana dei “mercati”. Entrambi i rischi sono ascrivibili al novero della mancanza di “autonomia”, e dunque dell’alienazione. È chiaro, infatti, che si è di fronte al rischio dell’abbandono alla logica tecnocratica de-individualizzante, che vede solo una disseminazione, come sabbia, di “avatar” ad una dimensione (consumatori, eventualmente produttori, comunque ingranaggi della macchina valorizzante) che sono agiti da strutture ritrovate ex ante e non disponibili. Un simile mondo non prevede effettivo reciproco riconoscimento, né solidarietà, e dunque manca dell’infrastruttura necessaria per l’emergere dell’autonomia.

Anche qui il punto di partenza è che l’uomo è da sempre incorporato in un mondo-di-vita che è contestuale e non sta in qualche modo “davanti” in forma teorica, non è trasparente ed enumerabile dalla ragione analitica (che, anzi, la inibisce in qualche modo), ma “piuttosto siamo noi che ci scopriamo dentro di essa prima ancora di cominciare a teorizzare. Essa ci abbraccia e ci sostiene fin dal momento in cui, come esseri finiti, dobbiamo affrontare ciò cui andiamo incontro”[33] ed è, insieme, orizzonte e sostegno (Husserl). È un sapere-di-sfondo, preriflessivo, che accompagna le abitudini quotidiane e costituisce il deposito di risorse dei processi di intesa e di cooperazione sociale. Tutta questa dimensione, in quanto non modellizzabile, è completamente ignorata nel sapere scientifico e in particolare nelle sue forme più razionalizzate e autoritarie, come nella modellistica matematica. Lo scambio, attraverso l’incontro di momenti di dissonanza cognitiva, contraddizioni, scontri bisognosi di nuova regolazione, può provocare allora una dinamica di processi di apprendimento che mette al riparo, in qualche modo, “buone ragioni” che, al mutare di circostanze e conoscenze, possono essere via via sostituite da “migliori”[34].

Habermas è cosciente che la descrizione di simili processi, nella sua forma idealtipica, rischia di far “scivolare nell’ideologia pseudo illuministica di un inarrestabile progresso nella comprensione di sé e del mondo”. Ogni “ragione” è infatti presa in un denso tessuto di rimandi e condizioni di possibilità ed abilitanti e dunque essa non è mai al riparo dalla possibilità di revoca, da parte di altre non necessariamente “migliori”. In altre parole, l’espressione ha due letture, per così dire alla maniera degli hegeliani di destra e sinistra: una ragione può essere migliore solo perché è l’ultima, attualmente, o può esserlo in base ad un criterio (la seconda via richiede una fondazione trascendentale dello stesso che Habermas tenta, valorizzando il concetto kantiano di autonomia).

L’elemento logicamente centrale di questo processo è la creazione di un rapporto non ascrittivo ma riflessivo con le tradizioni ma anche, insieme, con una crescente integrazione sociale che si estende e differenzia ben oltre i gruppi parentali a far esplodere progressivamente i confini (anche nazionali). Il punto critico, nell’intera opera, è che leggendo in questo modo il processo antropico, Habermas individua in questa storia ricostruttiva un “aumento di riflessività anche nel rapporto degli individui con sé stessi”[35]. Sfiorando ancora il rischio di etnocentrismo a questo punto il nostro individua nella tradizione europea una sorta di spinta cognitiva “supplementare” che si fonda su una più pronunciata individualizzazione, insieme ad una radicalizzazione dell’universalismo giuridico-morale[36], e qualcosa che chiama “una coscienza ancor più affilata della contingenza e una anticipazione ancor più marcata del futuro”.

Certo, nel 2012, quando la crisi è iniziata, confessa “non sono più tanto sicuro che i potenziali spirituali, e le dinamiche sociali, della modernità globalizzata abbiano in sé forza sufficiente per arrestare le tendenze autodistruttive (a partire dall’erosione della sua stessa sostanza normativa)[37], ma resta ostinatamente connesso con l’impresa di spingere lo sforzo fallibile di “controllare democraticamente la nuove opzioni che ci vengono messe a disposizione da eugenetica, neurologia e intelligenza artificiale”, producendo sempre “decisioni razionalmente giustificabili” che si collocano su un meta livello: quello “in cui si deve scegliere tra una decisione politica consapevole e il passivo adattamento alle naturalistiche leggi dell’economia capitalistica”.

Ora io non ho compreso pienamente, nei vari luoghi in cui questo termine compare, il senso esatto (se critico o descrittivo) in cui Habermas spende il termine “naturalistiche leggi dell’economia capitalistica”. La cosa è, per me, centrale e dirimente. Perché certamente appare vero che “oggi, nelle condizioni del capitalismo globalizzato il controllo politico dell’integrazione sociale si è molto ridotto”[38], e anche che questo deriva dalla dissoluzione del “embebbled capitalismo”, cioè dal venire meno delle condizioni del capitalismo interno allo stato nazione. Ma questo fatto storico era il risultato di specifici accordi internazionali (principalmente stipulati a Bretton Woods e poi messi a punto nel quindicennio successivo), di un assetto delle forze (in particolare dallo strapotere della capacità industriale, economica e militare americana nel contesto della sfida sovietica che rendeva necessario consolidare il consenso negli stati-nazione), di condizioni e livelli della tecnologia dominante, e via dicendo. Tutte dimensioni che implicavano azioni intenzionali di attori miranti ai propri scopi e l’alterazione di distribuzioni di risorse con una vasta disseminazione di conseguenze. In altre parole, era il prodotto storico di fattori storici.

Allora se la politica (nazionale) “poteva controllare la deriva dei sottosistemi e controbilanciare le tendenze disintegrative”, ciò che determina la fine di questa possibilità e conduce ad una condizione di semi-impotenza dei governi nel “controllo politico dell’integrazione sociale” è, a sua volta, un turning point che non ha nulla di “necessario”. Crederlo, o alludere a tale ipotesi, significa scivolare nel considerare naturale questo movimento. C’è una certa dinamica nel discorso di Habermas che, sia pure per ragioni antropologiche e culturalistiche (e non tecnico-economiche), indulge a tale conclusione. Ciò significa anche considerare sempre più verosimile l’immagine della teoria sistemica della modernizzazione sociale. Ma naturalmente implica anche riconoscere, come nell’ambito nazionale, scrive il nostro, “la politica – intesa come strumento di autodeterminazione democratica – si è fatta tanto impossibile quanto superflua”[39]. Un’integrazione che obbedisce solo a imperativi funzionali retrocede infatti la stessa democrazia a mera “facciata illusoria rivolta dalle amministrazioni ai loro clienti indifesi”. “Clienti” che naturalmente si ritirano intimiditi nella loro sfera privata e rifuggono dall’agire collettivo.

Ma questa potente tendenza contemporaneamente provoca a sua volta accumuli di tensione e risonanze. Induce un accumulo di costi esterni che si scaricano sulle storie-di-vita. Sono queste resistenze, ed i relativi movimenti, che, per l’anziano teorico della “democrazia radicale”, “restituiscono al concetto del Politico una sua ritrovata attualità”. Molte di queste resistenze muovono dalla dissonanza tra le storie-di-vita rese comuni dall’imperialismo neo-liberista mondialista, ed i suoi sottosistemi resisi funzionalmente autonomi (basti pensare il potere indiretto di controllo sull’agenda democratica dei movimenti resi ubiqui dal sistema delle banche centrali), e il “contrafforte” delle sensibilità normative religiose. I legami, ad esempio, tra la morale giudaico-cristiana e la formazione della filosofia e del “politico” sono noti ed evidenti. Come anche il deposito di sensibilità verso la natura, la socialità umana e lo sviluppo della persona radicalmente non coincidenti con il funzionalismo astrattamente ottimizzante della tecnica e della “economia” contemporanea.

Davanti a questo problema in TAC Habermas sosteneva che tutte le deformazioni oggetto della critica di Marx, Durkheim e Max Weber, secondo lui “non vanno ricondotte né alla razionalizzazione del mondo vitale in generale, né alla crescente complessità sistemica in quanto tale”. La ragione è che “né la secolarizzazione delle immagini del mondo né la differenziazione strutturale della società hanno di per sé effetti collaterali patologici inevitabili”[40]. Poche pagine dopo cade una pagina cruciale nella quale, descrivendo il compromesso dello Stato sociale (vigente all’epoca dello scritto), scrive:

“La pacificazione del conflitto di classe, da parte dello Stato sociale, avviene a condizione di proseguire un processo di accumulazione il cui meccanismo propulsore capitalistico, salvaguardato mediante interventi statali, non viene affatto modificato. Il riformismo fondato sullo strumentario della politica economica keynesiana ha elevato questo sviluppo a programma dei paesi occidentali, sia sotto governi socialdemocratici sia sotto governi conservatori.

Le strutture sociali che si sono in tal modo cristallizzate non devono però essere interpretate come il risultato di un compromesso di classe, come pensavano teorici austromarxisti come Otto Bauer o Karl Renner. Con l’istituzionalizzazione del conflitto di classe, infatti, il contrasto sociale, acceso dalla disponibilità privata sui mezzi di produzione della ricchezza sociale, perde sempre più la forza di plasmare il mondo di vita dei gruppi sociali, pur continuando ad essere costitutivo per la struttura del sistema economico. Il capitalismo avanzato trae vantaggio a modo suo dalla relativa disgiunzione di sistema e mondo della vita. La struttura di classe, trasferita dal mondo di vita al sistema, perde la sua forma storicamente afferrabile. La distribuzione diseguale di risarcimenti sociali rispecchia un modello di privilegi che non è più riconducibile direttamente a posizioni di classe. A dire il vero, le antiche fonti di disuguaglianza non si sono affatto esaurite, ma adesso esse sono condizionate non soltanto dalle compensazioni dello Stato assistenziale, ma anche da ineguaglianze di nuovo tipo. Sono caratteristici di ciò sia certe disparità sia conflitti dei gruppi emarginati”[41].

E, conclude, in modo chiaro e fulminante (la diagnosi di un’intera generazione):

“Quanto più il conflitto di classe, connaturato alla società per via della forma privata di accumulazione, può essere arginato e mantenuto latente, tanto più balzano in primo piano problemi che non direttamente violano situazioni di interesse attribuibili in modo specificamente di classe”.

Come cioè accade ad altre posizioni teoriche che si consolidano tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, il presupposto, assunto come ottenimento consolidato e ormai parte della struttura fondamentale da cui si parte nel pensiero, è che lo Stato Sociale ha distribuito in modo accettabilmente equo le risorse e “pacificato” il conflitto. Eliminati, dunque, conflitti irrisolvibili, o frontali, resta da definire un processo di adattamento progressivo, per così dire “ai margini” e graduale.

Ma tutto questo si è rovesciato; la “cosificazione dei nessi di azione integrati socialmente” (come Habermas riassume la posizione critica di Marx) si sono cioè ripresentati con forza nei rapporti sociali di lavoro, nelle forme di comunicazione (visibili nella cosiddetta “sharing economy”, nelle pieghe della Platform economy e via dicendo). Risulta, in altre parole, più difficile sostenere che “il nesso sistemico di economia capitalistica e di amministrazione statale moderna rappresenta anche un livello integrativo superiore per società organizzate statualmente e vantaggioso dal punto di vista evolutivo”[42]. Questo maggior “valore evolutivo” è più questionabile oggi che nel 1981.

Rimetterlo in questione non muove l’intera teoria?

E se l’intera teoria andrebbe rimessa in movimento, essendo cadute le sue premesse storiche (peraltro esplicite), la cruciale, se pur accennata pagina 130 del testo di Costa non potrebbe esserne coinvolta? In altre parole, pur condividendo senza riserve la condanna della meccanica meramente reattiva del ‘populismo’ descritto dall’autore, e a maggior ragione la sua critica delle élite liberali, temo che la mera via di uscita ‘democratica’ come autoriflessione, differenziazione e connessione con i mondi della vita, sia troppo semplice e ‘pacificata’. Come anche sia troppo semplice lo schema “a tre attori” implicato (élites, ‘moltitudini’, ‘senza-potere’).

Il problema cade nel progetto, e nell’attore che questo deve attivamente perseguire. E cade, soprattutto, nella dinamica che insieme deve trasformare la situazione e gli attori stessi, costruendoli come strumenti del cambiamento nel mentre questo avanza. Un processo rischiosissimo e probabilmente con tratti di violenza (almeno in qualche fase), che dovrà portare, come vorrebbe Costa, alla ri-circolazione delle élite (ovvero all’irruzione dei barbari), ma non senza una caduta. Che non assomiglierà ad una discussione razionale.

Se si dovrà giungere alla costruzione di un ‘popolo’, che sia attore collettivo, il suo volto potrebbe essere difficile da guardare. Potrebbe comparire dove non lo aspettiamo e farsi avanti per azionare il freno di emergenza[43].


Note
[1] - Vincenzo Costa, “Elite e populismo. La democrazia nel mondo della vita”, Rubettino 2019.
[2] - Ovvero spostate, cadute da una data classe sociale ad una percepita come inferiore. Evento che può essere anche solo temuto per produrre i suoi effetti reattivi, e mobilitare l’angoscia personale e sociale.
[3] - Con ciò, in questa sintetica formula, parafrasata dal testo, l’autore delimita anche e con precisione l’ambito di interesse. È l’ordine concettuale della società che interessa, non già i funzionamenti che chiama ‘antepredicativi’ (i quali, ad esempio, sono esplorati con orientamento all’azione dal marxista atipico Jon Elster). La teoria dell’azione implicita che emerge dal testo è filtrata dalla transizione di una cognizione ed apertura all’esperienza ritenuta implicitamente (e socialmente) nei ‘mondi di vita’ alla razionalizzazione via discorso. Si tratta di un approccio che ricorda abbastanza da vicino la posizione che nel corso degli ultimi quaranta anni ha gradualmente precisato Jurgen Habermas, in particolare intorno al suo testo chiave “Teoria dell’Agire Comunicativo” (Il Mulino 2022, ed.or.1985, da ora sinteticamente TAC). Il problema di questa concezione è di suggerire che la società sia tenuta insieme dalla condivisione e disgregata dai conflitti. Per un esercizio, se pur datato, di connessione tra le prospettive di teoria dell’azione di Elster e di teoria della razionalità (comunicativa) di Habermas, si veda, Alessandro Visalli, “’Discorso’ e ‘potere’. Intrecciando Habermas con Elster”, CRU. Critica della ragione urbanistica, n. 7-8, 1997.
[4] - Anche in Habermas, che del resto su questo punto si riferisce alla tradizione fenomenologica aperta da Husserl, autore di elezione di Costa, con l’etichetta “mondo vitale” (lebenswelt) si intende una sorta di supporto passivo, un corpus di conoscenze ed interpretazioni giudicate ovvie, e spesso neppure presenti alla coscienza, che possono essere riscattate discorsivamente, nelle diverse situazioni di azione, una per volta. Con le stesse parole di Habermas: “il mondo vitale è un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una situazione” (TAC, vol II, p.182). Certo, la prospettiva particolare e l’intera impresa habermasiana è debitrice non solo degli ambienti di discussione sociologica (Durkheim) e filosofica (Husserl, recepito tramite G.Brand) ‘continentali’, quanto anche da quelli anglossassoni (Mead) e quindi si sforza di concepire la società come sistema e al tempo stesso come mondo di vita (TAC, vol II, p. 174). Uno degli scopi espliciti è di riprendere la problematica marxiana della reificazione (Lukacs) in termini di teoria della comunicazione intorno al concetto chiave di ‘forma di intesa’ (verstandigungsform). Il problema è comprendere “come il mondo di vita, in quanto orizzonte in cui si muovono ‘già sempre’ gli agenti comunicativi, venga dal canto suo limitato e modificato dal mutamento strutturale della società” (ivi).
[5] - L’effettiva partecipazione a ‘mondi di vita’ estranei, facendo venire meno le preinterpretazioni condivise delle sfere del mondo e i relativi sensi, renderebbe in effetti del tutto impossibile in modo radicale la comprensione. In modo non dissimile da come è incomprensibile il parlante di un’altra lingua che non potesse neppure gesticolare. Tuttavia il punto sollevato indica una semi estraneità che rende i messaggi equivoci o li travisa sistematicamente, in quanto li riferisce a sfere di senso che si sono autonomizzate.
[6] - Costa, cit., p. 18
[7] - Idem,
[8] - Si veda Pierre Dardot, Christian Laval, “La nuova ragione del mondo”, Derive e Approdi, 2009.
[9] - Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, Einaudi 1974 (ed. or. 1944).
[10] - La mossa eleva la concorrenza a principio centrale della vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di mercato non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione politica intrinsecamente storica.
[11] - Cit. in Dardot e Laval, cit., p. 182
[12] - Cit. in Dardot e Laval, cit., p. 196
[13] - Costa, cit., p. 61
[14] - Costa, cit., p. 104
[15] - Rutilio Namaziano, “De reditu”, cit in Sergio Roda, “Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà provinciali”, “Storia di Roma”, 3.I, Crisi e trasformazioni, Einaudi, 1993, p.643.
[16] - Costa, cit., p. 117
[17] - Il problema generale della presenza di déclassé è quello che ha agitato in tutta la sua durata il movimento socialista, e si può ritrovare in tutti i classici. Il problema è che, per usare una gergalità marxista, il recupero dall’alienazione può avvenire solo in modo non alienato, sapendo che esiste una stretta correlazione tra l’essere degli uomini e il processo reale della loro vita e che si tratta sempre di rompere insieme le barriere esterne e quelle interne. Se si muove verso una nuova società questo automovimento non può che essere determinato dallo stesso processo, per cui le coscienze sono parte integrante e la loro trasformazione è un necessario esito. Bisogna “levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume” (Marx), e può avvenire solo nel processo rivoluzionario, sapendo che “nell’attività rivoluzionaria il mutamento di se stessi coincide col mutamento delle circostanze” Karl Marx, “L’ideologia tedesca”, Editori Riuniti, 2018 cit. in. Michael Lowy, “Il giovane Marx”, Massari Editore, 2001, (ed.or. 1970), p. 192.
[18] - Costa, cit. p. 126
[19] - Costa, cit., p. 127
[20] - Jurgen Habermas, “Teoria dell’agire comunicativo”, cit.
[21] - Costa, cit., p. 130
[22] - Jurgen Habermas, “Teoria dell’agire comunicativo”, II, cit., p. 210.
[23] - Idem.
[24] - Costa, cit., p. 140
[25] - Gyorgy Lukacs, “Storia e coscienza di classe”, Tasco 2021, ed or. 1923, pp. 107 e seg.
[26] - Hegel, “Fenomenologia dello Spirito”, 1807
[27] - Emile Durkheim, “La divisione del lavoro sociale”, 1893
[28] - Georg Simmel “Filosofia del denaro”, 1900
[29] - Heidegger è convinto che l’idea moderna della possibilità di una rappresentazione neutrale della realtà sia in effetti responsabile della cecità ontologica dell’uomo; cosa che gli impedisce di comprendere le strutture della sua esperienza. Pur senza connetterla ad alcuna determinante sociale (e tanto meno alla dinamica “del capitalismo”), l’obiettivo è qui di attaccare e distruggere l’idea di un soggetto che assume una posizione neutrale rispetto al mondo e lo riduce ad una collezione di “cose”. L’analisi di fenomenologia esistenziale condotta dal filosofo della Foresta Nera (collocato all’esatto polo opposto nello spettro politico di Lukacs) tende quindi a mostrare che l’uomo non si rapporta al mondo originariamente nella forma di un soggetto conoscente, ma è sempre immerso in un campo di significati pratici nell’atteggiamento della “cura” (tesi già presente nel 1927). Il soggetto non si pone in modo neutrale rispetto alla realtà da conoscere “nella forma dell’apprestare”, dirà, ma è essenzialmente interessato ad essa. La realtà gli si presenta sempre come qualcosa in cui lui è, secondo un insieme totale di significati qualitativi, non riducibili a calcolo.
[30] - Jurgen Habermas, cit., II, p. 427
[31] - Jurgen Habermas, cit., II, p. 466
[32] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia”, Laterza 2020, ed or. 2012
[33] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare il sacro”, cit., p. 6
[34] - Jurgen Habermas, cit., p. 57
[35] - Idem, p. 93
[36] - Si veda su questo Jurgen Habermas, “Fatti e norme”, Guerini 1996 (ed. or. 1992).
[37] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare il sacro”, cit., p. 192
[38] - Idem, p. 219
[39] - Idem, p. 219
[40] - Jurgen Habermas, “Teoria dell’agire comunicativo”, cit., II, p. 463
[41] - Idem, p. 486
[42] - Idem, p. 473, nel criticare la diagnosi di Marx di avere di fronte, nel capitale, una forma mistificata della relazione di classe e non già, come sostiene appunto Habermas, un livello integrativo ‘superiore’ tra economia ed amministrazione e una dinamica con “intrinseco valore evolutivo” in quanto differenzia sottosistemi guidati dai media. Infine un “piano superiore” di differenziazione sistemica che dischiude “nuove possibilità di controllo”.
[43] - Michael Lowy, “La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin”, Ombre Corte, 2020 (ed. or. 2019).

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