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Das Kapital, aggiornamenti

Enzo Modugno

3309BK1Das Kapital, aggiornamenti. Avrebbe potuto essere questo il titolo del libro di Luciano Vasapollo, Trattato di Economia Applicata, cinquecento pagine nel solco della grande tradizione teorica del movimento operaio. Una mappa della complessa dinamica del modo di produzione capitalistico, resa possibile da un esercizio rigoroso della critica dell’economia politica. Gli aspetti nuovi del capitalismo che vengono analizzati sono molti, ma almeno su un paio possiamo qui cominciare a discutere: l’economia militare e l’economia della conoscenza. Sono però due argomenti sui quali si rischia qualche incomprensione con i marxisti più ortodossi. Con più evidenza negli Usa (ma persino a Foggia si producono le ali del nuovo supercaccia Usa F35), la produzione per la difesa è diventata una necessità della dinamica del ciclo di riproduzione di tutta l’economia. Vasapollo lo sostiene in un intero capitolo che nessuno che tratti della guerra può fare a meno di tenere aperto sul tavolo. E se qualcuno volesse obbiettare che le spese militari non consentono al capitale di realizzare il plusvalore, gli si può rispondere che questo potrebbe essere vero per la totalità del mercato mondiale, ma non per la nazione dominante che se ne avvantaggia a spese di quelle dominate.

E che comunque l’incremento della domanda sostenuta dallo stato, non risolve ma solo posticipa la crisi di sovrapproduzione. Il secondo argomento, che meriterebbe una discussione più ampia di quanto si possa fare qui, è l’economia della conoscenza. Vasapollo rompe subito gli indugi con “ortodossi” e “finelavoristi”, definendo un errore epistemologico fondamentale ritenere che solo il lavoro manuale potesse essere produttivo di plusvalore, perchè un lavoratore è produttivo non in base alla sua manualità o intellettualità, bensì in base alla sua internità al processo produttivo di plusvalore. E questo pone le basi per una corretta analisi dell’economia della conoscenza. Vasapollo sviluppa l’argomento per molte pagine, un altro capitolo da tenere aperto sul tavolo. Tuttavia è difficile non farsi coinvolgere da questa esposizione, e qui di seguito si proverà a dialogare con Vasapollo inserendo qualche considerazione più sociologica. L’economia della conoscenza è ormai l’argomento di una vasta letteratura, che va dagli utopisti della “fine del lavoro”, ai positivisti informatici che credono nelle capacità liberatorie delle nuove tecnologie. Da chi considera la conoscenza un privilegio pagato dai lavoratori manuali del terzo mondo, fino alla letteratura manageriale che considera l’economia della conoscenza importante solo come informatizzazione dell’industria, così come le prime macchine furono considerate importanti solo per l’industrializzazione dell’agricoltura. Se invece si tiene conto del capitolo marxiano sulle macchine, potremmo considerare la grande industria come la “forma che precede la produzione capitalistica” di conoscenze, e quest’ultima come una nuova epoca del capitale. Dopo il capitale commerciale, che per alcuni millenni ha fatto da intermediario per lo scambio di beni materiali, e dopo il capitale industriale, che negli ultimi secoli si è impadronito della produzione di questi beni, ora il capitale ha conquistato anche la produzione di conoscenze. Alla fine del ‘900 le conoscenze erano già la parte principale di quell’“immane raccolta di merci” che costituisce la ricchezza delle società dove predomina la produzione capitalistica. Infatti, sviluppando le considerazioni di Vasapollo sul lavoro intellettuale, possiamo dire che non cambia nulla se la merce conoscenza soddisfi bisogni provenienti dalla mente invece che dal corpo, o se soddisfi questi bisogni immediatamente come oggetto di godimento (informazioni minute e divertimenti addomesticati sul web di superficie), o per via indiretta come mezzo di produzione (ratio calcolante sul web profondo). Ma qui le cose si complicano perché, poiché si tratta della conoscenza, scienza e filosofia diventano protagoniste sia della produzione capitalistica che della sua critica. Per riassumere, solo qualche punto. Innanzitutto, la critica della scienza condotta dalla parte migliore della filosofia del ‘900 - da Lukacs a Korsch, da Husserl a Sartre alla Scuola di Francoforte - può oggi essere considerata ben altro che “idealismo spiritualista”, come pure è stato autorevolmente affermato. Possiamo invece fondarla materialisticamente come la denuncia della reificazione del pensiero, ridotto con la sua matematizzazione ad un utensile universale per la fabbricazione di tutti gli altri. “Il pensiero si reifica in un processo automatico che si svolge per conto proprio, gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente sosituire”. Cos’altro è questo celebre passo di Horkheimer e Adorno, se non l’analisi di come il pensiero possa diventare merce e nello stesso tempo macchina per produrla? E’ così che il capitale trova già pronta la nuova merce e il nuovo mezzo di produzione, e non deve fare altro che appropriarsene. Naturalmente siamo qui al culmine di un lungo processo storico che molto lentamente è pervenuto alla completa matematizzazione delle conoscenze, condannando all’oblio tutto ciò che non può diventare un algoritmo.

Questo passo della Dialettica dell’illuminismo, - pubblicata nel 1944 - parla dunque di “una macchina che possa finalmente sostituirlo” riferendosi al pensiero matematizzato: straordinaria precoce intuizione, perché il primo elaboratore programmabile Eniac è del 1946, ha 70 mila resistenze, 18 mila valvole, è largo come una palestra ed è alto tre metri. Ma questo pone il problema della macchina per pensare senza cervello, (per ora solo calcolo logico e memoria), analoga alla macchina “per filare senza dita”, che secondo Marx diede l’avvio alla grande industria. Non potrebbe questa nuova macchina aver dato l’avvio alla produzione capitalistica di conoscenze? Che ne pensa Vasapollo? Marx infatti in quel capitolo non pone la questione di chi ha prodotto quella macchina - si occuperà altrove della produzione dei mezzi di produzione - ma si occupa dell’uso che il capitale ne fa per far lavorare gli operai. Un ultimo punto per chiarire la questione. Potremmo considerare, come archetipo di tutte le macchine per la riproducibilità tecnica delle conoscenze, il cinema analizzato da Walter Benjamin. La conoscenza è diventata una merce “almeno da quando un uomo pagò per la prima volta per farsi predire il futuro” scrive Vasapollo. E parafrasando Benjamin possiamo dire che la conoscenza è sempre stata riproducibile, prima oralmente e poi con la scrittura e con la stampa. Ma la riproducibilità tecnica della conoscenza è invece qualcosa di nuovo: si passa cioè dallo strumento alla macchina, dal libro all’informatica. Ciò che per noi è teoricamente rilevante nel cinema, è che un addetto al proiettore e un paio di inservienti in sala, possono produrre uno spettacolo che prima solo sperimentati attori in carne ed ossa erano in grado di rappresentare. Lo schema è questo: una macchina da presa produce una pellicola che viene decodificata dalla macchina da proiezione che può ri-produrla infinite volte. Così è per le conoscenze: una macchina produce un software che viene decodificato da un’altra macchina che ri-produce quelle conoscenze. Gli addetti alla prima macchina, in tutto il mondo qualche migliaio di supertecnici che producono “nuove” conoscenze, per ora non ci interessano. Ci interessano invece gli innumerevoli addetti alle macchine che ri-producono queste conoscenze e che non sanno nulla dei saperi che stanno manipolando. La separazione tra macchina e cervello umano è così compiuta, proprio come la virtuosità dell’artigiano medioevale divenne inutile con la macchina “per filare senza dita”. Ma è proprio questa la forza dirompente dell’economia della conoscenza: qualunque addetto alla macchina informatica a mala pena diplomato, può ora operare con un grado di precisione e rapidità che nessun sapere accumulato avrebbe potuto dare allo scienziato più abile. E come le ossa dei tessitori imbiancarono le valli indiane dopo l’arrivo dei tessuti inglesi, ricorda Marx, così oggi il lavoro intellettuale precipita rapidamente verso la precarietà.
 

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