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materialismostorico

Sullinsegnamento della filosofia nella scuola e nelluniversità*

Una risposta a Massimo Mugnai

di Giovanni Bonacina (Università di Bologna)

de chirico 1.jpgGrazie per questo invito e grazie all’autore per avermi mandato le bozze del suo libro, senza le quali – da storico della filosofia aggrappato al materiale cartaceo come àncora di salvezza – non avrei saputo che cosa dire... È vero – ha perfettamente ragione il collega Enzo Fano – si tratta di un libro vivace e frizzante; di conseguenza ho preparato anch’io un intervento che almeno in parte abbia questo taglio, come di solito i miei colleghi storici della filosofia non praticano. Perciò incomincerò con un apologo.

Immaginate di starvi recando a prendere il treno la mattina presto e di aver molta fretta e di non sapere che ore siano, poiché avete dimenticato a casa l’orologio e il vostro telefono cellulare è maledettamente scarico. Finché non sarete seduti in treno, non potrete collegarlo alla corrente. Per vostra fortuna vedete venirvi incontro leggendo il giornale un signore molto distinto, al quale subito pensate di rivolgervi.

Prima possibilità: il signore che avete di fronte è Massimo Mugnai. La risposta suonerà: «Sono le ore 6 e 14 minuti primi, 56 secondi». Avrebbe potuto dire: «Le sei e un quarto» obietterete! Ma poiché la filosofia deve il più possibile assomigliare a una scienza esatta, dotata di un linguaggio incontrovertibile e aderente all’esperienza, è così che il nostro collega vi avrà dato la risposta. Riuscirete a prendere il treno.

Seconda possibilità: siete un po’ più sfortunati, il signore molto distinto che vi viene incontro è chi vi parla, è Giovanni Bonacina. Gli domandate l’ora. Estrae dal taschino il suo orologio e vi legge: «Vacheron et Constantin, Genève». E aggiunge: «Genève... la città di Jean-Jacques Rousseau! Ma Lei sa che quando Jean-Jacques faceva Rousseau, o quando Rousseau faceva Jean-Jacques… perché Lei sa che fu autore di un’opera dal titolo Rousseau juge de Jean-Jacques, nevvero? anno di pubblicazione? 1780!

Ecco, Lei sa che a quel tempo l’orologio da polso non era stato ancora inventato e c’erano solo orologi come questo mio e che nella lingua di Rousseau l’orologio si chiama montre, perché mostra bensì l’ora ma è anche un portento, un mostro?». E via di questo passo.

Due ipotesi. La prima: siete una persona normale, appena udito il nome di Rousseau fate un salto di dieci metri e scagliando un’imprecazione contro il vostro interlocutore volate di corsa verso la stazione. Arriverete in tempo a prendere il treno. La seconda: avete studiato filosofia nelle scuole secondarie superiori italiane sulla base di un manuale ispirato alla riforma Gentile. L’uomo che avete di fronte vi incanta, vi trattiene. Pensate: «Ma è un manuale vivente, addirittura sa delle cose che nel manuale non ci sono! Ergo è un filosofo!». Se questa è la vostra conclusione, avrete perduto il treno.

Giunti in stazione ormai troppo tardi, scoprite che a causa di uno sciopero selvaggio di tutto il personale ferroviario proclamato proprio in quell’istante dovrete aspettare cinque ore prima che un nuovo treno parta per la vostra destinazione. Ripensando al vostro incontro, siete un po’ desolati. Avrete letto nei manuali scolastici, o a scuola i vostri noiosissimi professori di filosofia vi avranno raccontato, che Socrate come una torpedine stordiva quanti avessero avuto la malaugurata ventura di incontrarlo e parlare con lui. Ma nel caso vostro, più che a Socrate, vi verrà fatto di pensare allo Stregatto, quando nel Paese delle Meraviglie Alice tutte le volte che se lo trova dinnanzi rimane confusa e interdetta.

Un solo treno è in arrivo e puntuale, poiché non viene dall’Italia bensì dal Regno Unito e porta una comitiva di filosofi analitici anglosassoni diretti a un congresso. Seduto accanto a voi sulla banchina c’è un signore molto distinto, che si intrattiene al telefono parlando in inglese. Poiché avete studiato nelle scuole superiori italiane su programmi ancora ispirati alla riforma Gentile dove anziché insegnarvi l’inglese vi hanno tormentato a tradurre dal greco al latino inutili frasette estratte da autori a voi ignoti la vostra conoscenza della lingua è carente. Tuttavia quel tanto che ne sapete vi fa capire che questo signore è un filosofo e sta discorrendo con uno dei viaggiatori stranieri in arrivo. Pensate: «È proprio la giornata dei filosofi!» e gli rivolgete la parola raccontandogli quanto vi è accaduto. Poiché il signore in questione è Massimo Mugnai, la sua risposta sarà scientifica: «Ci sono tre possibilità: o l’orologio di Giovanni Bonacina era fermo, vuoi perché guasto vuoi perché scarico; o l’orologio di Giovanni Bonacina indicava l’ora sbagliata – l’improvvido non l’aveva sincronizzato sul Big Ben; oppure l’orologio di Giovanni Bonacina indicava l’ora esatta. Ebbene Lei sappia che, qualunque di queste tre possibilità sia quella vera, il risultato sarebbe stato assolutamente lo stesso».

Siete un po’ sbalorditi. Vi spiegherà allora Massimo Mugnai: «Sì, perché Giovanni Bonacina non è che non sappia che cosa sia un orologio, non è che non sappia a che cosa serva un orologio. Tant’è che vi avrà raccontato tutta la storia a partire dalla clessidra, dalla meridiana, dal Dio orologiaio di Leibniz, così come ne parlano i manuali di storia della filosofia ispirati alla riforma Gentile... No, Giovanni Bonacina non è un selvaggio irochese, che dopo aver scotennato il suo nemico e ignaro dell’utilità dell’orologio se lo appenda al collo come amuleto nella speranza così di tener lontana da sé l’anima vendicativa del guerriero ucciso. Ma il fatto è che Giovanni Bonacina mai ha imparato a leggere le ore e come tutti quelli che vengano interrogati intorno a qualcosa che non sanno – alla maniera dei miei studenti alla Scuola Normale di Pisa – che cosa fa? Detto in termini popolari, mena il can per l’aia».

Ecco, se dovessi dirvi quale immagine dello storico della filosofia prenda corpo in questo libro dal ruvido umorismo del suo autore Massimo Mugnai, direi che sia proprio quella di qualcuno che, al pari di quegli studenti pisani di formazione storica, sia propenso a menare il can per l’aia. Chiedete a uno storico della filosofia di parlarvi di un testo ed ecco che vi parlerà del contesto. Chiedetegli di fornire la spiegazione di un argomento ed ecco che vi parlerà della genesi di questo argomento. Chiedete a uno storico della filosofia la soluzione di un problema ed ecco che vi dirà che già questo problema sia stato risolto, come minimo nel Seicento e molto meglio di oggi, da tutt’altri che un grande filosofo; o forse sì, da un grande filosofo, ma ispirato da un minore che inviato da lui a far la spesa gli abbia scritto sul retro dello scontrino un intero memoriale mettendo le cose in modo tale che il grande abbia potuto solo grazie a ciò afferrare la soluzione del problema. Onde bisognerà far l’edizione critica dello scontrino, ma – badate non solo dalla parte dov’è scritto il messaggio del minore a quel maggiore, bensì anche dall’altra, dove si legge insieme ai prezzi: un rotolo di Scottex, una tanica di candeggina, un tubetto di dentifricio... Perché chi può mai saperlo? Come ci insegna Eugenio Garin, se il minore putacaso avesse comprato, anziché il dentifricio, il borotalco, chissà che cosa di diverso avrebbe potuto scrivere in quel suo memoriale con ricadute incalcolabili sulla scoperta della soluzione del problema da parte del grande di cui si è detto. Così ragiona lo storico della filosofia!

Molto bene a questo punto ho detto a me stesso ma che cosa vengo a farci in questo nido di filosofi assomiglianti a matematici, scienziati naturali, io che neanche so leggere le ore – neanche so superare questa prova elementare cui vengono sottoposti gli anziani per verificare se per caso stiano sviluppando una qualche forma di demenza! Lo confesso: ero un po’ esitante. Poi però ne ho concluso: «Devi accettare questa sfida, devi mostrare che, quando si impegna, anche uno storico della filosofia è capace di arrivare al dunque senza menare il can per l’aia!». Così mi sono dedicato a una lettura attenta del testo. E qui mi sono trovato in imbarazzo. Voi direte: «Bella forza, sei uno storico della filosofia! Anche provandoci, volevamo ben vedere se saresti arrivato al dunque!».

Può essere che abbiate ragione, ma fate attenzione. Primo mio motivo di perplessità: il connettivo logico che si legge nel titolo di copertina. Come non insegnare la filosofia. Ci è stato detto che non era nelle intenzioni del nostro autore barrare il ‘non’, ma che così abbia voluto l’editore. E infatti nelle bozze che ho qui sotto il naso posso dirvi che il ‘non’ non è barrato lo confermo. Da storico della filosofia sono molto attento ai documenti e, come vedete, qui la barra non c’è. Però in copertina sì. E non per mancanza di senno dell’editore, ma forse proprio a seguito di una scrupolosa lettura del libro.

Che connettivo logico è mai questo? Potrei ricordarvi che non tutti i logici sono d’accordo se il ‘non’ sia un connettivo oppure no, ma poiché stiamo parlando di una scienza, assumiamo nel nostro caso che lo siano e che di un connettivo si tratti. Senonché questo ‘non’ barrato mi fa pensare a una negazione della negazione e da storico della filosofia, se penso alla negazione della negazione, penso a quel «cuoco» dello Stift di Tübingen che, morendo di fame – lui e altri suoi due compagni di sventura – svuotò tutta quanta la dispensa, gettò ogni cosa in un calderone e cucinò una zuppa cui diede il nome di una vodka. Di una vodka finlandese, dunque buona; non di una vodka russa, che per definizione sappiamo essere cattiva. Con il bel risultato – solito effetto dei confusionari ignoranti di filosofia analitica, come quel cuoco tubinghese – che qualcuno che ancora oggi volesse ubriacarsi bevendo quell’intruglio si ritroverebbe nello stomaco la massa di una zuppa indigeribile, laddove qualcuno che volesse scaldarsi le viscere con una zuppa nutriente se le ritroverebbe perforate per aver trangugiato un’intera scodella di vodka scambiata per zuppa... Non serve dire che la vodka in questione è quella chiamata Absolut e il filosofo suo distillatore negazione della negazione, tesi-antitesisintesi, così nel manuale di storia della filosofia secondo la riforma Gentile – è naturalmente Hegel.

Ecco dunque il mio primo motivo di sorpresa. Come mai il ricorso a questo inusuale connettivo logico proprio sulla copertina di un libro dove si legge che Hegel sarebbe stato nulla più che il creatore di questo bel genere di zuppa la zuppa della storia della filosofia così come da lui raccontata, avente la pretesa di abbracciare in sé ogni filosofema – un libro dove si legge che la miglior trovata di Hegel sarebbe stata proprio quella di dichiarare degna di interesse questa zuppa in quanto tale, ossia la storia della filosofia presa nel suo insieme, anziché solo questo o quel suo ingrediente, vale a dire questa o quella teoria filosofica? come mai il ricorso a un connettivo così equivoco, il ‘non’ barrato, sulla copertina di un libro animato da tutt’altro intento rispetto a quello di Hegel?

Secondo elemento di stupore: la struttura del libro, ossia il suo indice. Un’introduzione, cinque capitoli l’ultimo dei quali intitolato Per concludere, un’appendice, una bibliografia, un indice dei nomi… Mi si è accesa una lampadina e mi son chiesto: «Ma è questo l’indice di un brillante e sferzante libello come l’avrebbe concepito Bertrand Russell? Mah! Mi sembra piuttosto l’indice di un libro come l’avrebbe scritto un mio collega,uno storico della filosofia. Magari un allievo di Paolo Rossi….». E a partire di qui – pensate, ci sono anche le note a piè di pagina – si è impadronito di me un terzo e ultimo dubbio, ossia riguardo al contenuto del libro.

Ho stilato a vostro beneficio questo elenco degli argomenti affrontati da Massimo Mugnai: 1) L’impreparazione degli studenti italiani usciti dalla scuola secondaria superiore retorici, sgrammaticati, svogliati, inadatti a ragionare astrattamente e via di questo passo. 2) Il rapporto della filosofia con le altre scienze: è la regina delle scienze, la filosofia? è la depositaria del pensiero critico? ammette per sua natura la filosofia in quanto disciplina una parte istituzionale oppure no? assomiglia alle scienze della natura e alla matematica oppure no? 3) Il rapporto tra filosofia e storia della filosofia: è parte della filosofia la storia della filosofia oppure no? c’entra qualcosa oppure equivale a quel che la storia della matematica è per il matematico, al quale non serve sapere che sia esistito Tartaglia per poter risolvere un’equazione così come non servirà oggigiorno a un filosofo degno di questo nome sapere che siano esistiti un tempo Pomponazzi, Bruno, Zabarella, magari anche Telesio (visto che nel libro si parla di insegnare la filosofia juxta propria principia, sia concesso allo storico della filosofia ravvisare un’assonanza ). 4) L’astruso linguaggio dei decreti ministeriali e dei loro ispiratori, i pedagogisti: pedagogia delle competenze, learning by doing, lifelong learning… Termini che, a tradurli in italiano – «imparar facendo», «imparare a vita»… – farebbero tutt’altro effetto: «imparar facendo», qualcosa di aulico e degno del divin poeta; «imparare a vita», qualcosa di simile a un ergastolo, laddove in inglese l’uno e l’altro suonano scientifici. 5) La filosofia e il cinema. 6) Il plausibile contenuto di un manuale istituzionale di filosofia. 7) Le denominazioni degli insegnamenti universitari di area filosofica e il modo nel quale si svolgono i concorsi universitari di filosofia. 8) L’utilità della filosofia collegata agli sbocchi professionali dei laureati italiani in questa materia…

A rileggere questo elenco sarei quasi quasi tentato di dire che siamo di fronte a una di quelle composite pietanze imbandite sotto il nome di «fritto misto», se non fosse che già ho imparato proprio dalle pagine di Massimo Mugnai come per antonomasia il «gran fritto misto», fra tutti gli oggetti librari esistenti a questo mondo, sia il manuale di storia della filosofia ispirato alla riforma Gentile, dunque non il nostro libro. Devo pertanto moderare i miei toni e trovare un’altra maniera di descriverne il contenuto. La qual cosa faccio molto volentieri, tentando finalmente di venire al dunque.

Diciamo allora che un elemento di grande ambiguità riscontrabile nel testo è costituito dall’oscillazione dell’autore fra la discussione della storia della filosofia con il suo statuto disciplinare e la discussione del manuale di filosofia organizzato in chiave storica, inteso quale strumento di apprendimento per la scuola secondaria superiore. Questa continua oscillazione suggerisce al lettore che i cattivi effetti del manuale di storia della filosofia (o meglio, di filosofia) così com’è concepito per le scuole secondarie siano niente meno che gli effetti generati dallo studio disciplinare della storia della filosofia in tutti quanti lo esercitino professionalmente, con evidenti ricadute anche sull’insegnamento di livello universitario. Legame che è apertamente istituito dall’autore.

Dopodiché ho realizzato una specie di tavola comparativa dei due tipi di manuali scolastici quello tradizionale a impianto storico e quello sistematico, o tematico, o istituzionale, proposto in alternativa da Massimo Mugnai. E al pari di lui ho lasciato in disparte, perché irriducibile a un manuale, quella terza varietà di insegnamento che potremmo chiamare ‘oracolare’, propria di chi ritenga la filosofia il patrimonio personale di qualche ingegno ispirato per via di intuizione, solo in tal modo afferrabile e trasmissibile. In questo caso, infatti, non saremmo di fronte a un manuale, ma a un libro rivelato da studiare in quanto tale. Non è quel che qui ci interessa.

Sul manuale sistematico queste sono le mie osservazioni. Primo carattere del manuale sistematico – leggiamo nel libro è l’aver per scopo quello di formare soggetti capaci di filosofare. Lo studente così istruito sarà in grado di argomentare, porre quesiti, dibattere non con la pretesa di far prevalere le proprie idee, ma per genuino interesse ad approfondire una questione. Non così il manuale di storia della filosofia, secondo Massimo Mugnai, capace solo di formare eruditi. Parola bruttissima, che a mala pena in un passo Mugnai riscatta da quest’onta, là dove afferma che nelle discipline umanistiche l’erudizione serva in effetti a qualcosa. Senonché non ci è spiegato a che cosa. ‘Erudito’ è qui insomma un termine nobile per alludere a quel che il pedagogista – poi incontreremo anche costui – designa spregiativamente come nozionismo.

Secondo carattere del manuale sistematico è il fatto di basarsi sull’assunto che la verità debba esser ricercata e poter venire almeno avvicinata. Argomenta Massimo Mugnai: ci sono questioni filosofiche che oggi non ha più senso porsi, poiché sono superate. Per esempio l’argomento ontologico in favore dell’esistenza di Dio non regge più – non importa che ogni tanto qualcuno lo ripeschi; almeno a partire da Kant lo sappiamo per certo, e questo è ormai un acquisto irrinunciabile. Allo stesso modo, che un linguaggio privato non possa darsi è di nuovo un guadagno quale a partire dalle riflessioni di Wittgenstein e di altri venuti dopo di lui possiamo considerare in cassaforte.

Come si rapporta, invece, il manuale di taglio storico rispetto al problema della verità? Il manuale così strutturato si basa sull’assunto, scettico e relativistico, che tutte le filosofie si equivalgano. Il che vuol dire, in altre parole, che ci sono tante verità quante sono le filosofie. È un po’ diverso.

Il manuale sistematico, in terzo luogo, assume che la filosofia sia una disciplina dotata di un proprio statuto particolare. Non a caso, sapendo che ci sono tante cose che si chiamano filosofia e non tutte corrispondenti allo statuto che secondo Massimo Mugnai la filosofia dovrebbe darsi – il nostro autore individua una fattispecie di filosofia, da lui chiamata «filosofia pop», nella quale rovesciare tutto quel che sia estraneo al vero statuto della filosofia. La filosofia pop è quella filosofia che ciascuno di noi può praticare intorno a qualunque quesito gli capiti di sollevare: dal pensiero apocalittico della fine del mondo sino alla metafisica del bikini, tutto può essere oggetto di filosofia... Il che va bene – concede Massimo Mugnai – purché non sia questa la filosofia da insegnare nelle scuole. Viceversa il manuale di storia della filosofia muove dal presupposto che filosofia sia tutto quel che storicamente abbia assunto tale nome. Come si vede, è un’altra cosa.

Quarto elemento importante: il manuale sistematico, di norma, non sa che cosa farsene della storia in quanto tale. Filosofia e storia sono due discipline – la seconda, per carità, rispettabilissima! – che devono rimanere separate. Una lezione che sempre ho appreso attraverso il confronto con quei miei colleghi filosofi che non tanto amano la storia della filosofia, ma anche con certi miei colleghi storici della filosofia ansiosi di figurare più evoluti, è che quando tutti costoro dicono: «Per carità, utile e seria è la storia della filosofia e va frequentata, ma…» ebbene questo ‘ma’ è proprio il cuore del discorso. Quel che precede è captatio benevo- lentiae, quel che conta è il ‘ma’. Ecco così la filosofia separata dalla storia. Sul fronte opposto, invece, nei manuali di impianto storico come quelli promossi sia pur per via indiretta dalla riforma Gentile va da sé che la filosofia abbia a trovare in qualche modo nella storia la sua anima gemella.

C’è da tener presente come quinto elemento di confronto anche un problema pratico, ossia che molto difficile è nella scuola poter contemplare la presenza di insegnanti che insegnino soltanto filosofia, poiché il personale a disposizione è limitato. Mi vien fatto dunque di pensare che per Massimo Mugnai la filosofia meglio si accompagni a discipline diverse dalla storia, qualora un medesimo insegnante debba esser titolare di più di una materia nella scuola superiore. La qual cosa peraltro già accade, poiché ci sono licei, quelli psicopedagogici, dove già oggi la filosofia si accompagna alla pedagogia (vedremo che questo è importante) e alla psicologia anziché alla storia. La fedeltà al manuale di tipo tradizionale comporta invece che fra tutte le discipline la storia sia ritenuta, nel complesso, quella meglio compatibile con la filosofia.

Sesto e ultimo elemento di confronto: mentre il manuale sistematico selezionerà problemi e autori classici, ecco che il manuale di taglio storico sarà appunto la ‘zuppa’ che dicevamo, enciclopedico e onnicomprensivo. Cercherà di far star dentro tutto. Qui mi vien fatto di osservare che proprio questa nozione apparentemente neutra di ‘classico’, posta alla base del manuale sistematico, è in realtà un nuovo fattore di ambiguità, poiché come si possa riconoscere la classicità di un autore o di un problema senza far riferimento alla storia è difficile a comprendersi. Il rischio è in questo caso quello che i classici possano variare secondo le mode e le tendenze del momento, cioè non siano più ‘classici’.

La mia impressione, in buona sostanza, è quella che si sia di fronte qui a due Weltanschauungen competitive, tra le quali pur con tutti gli sforzi di buon garbo e cortesia reciproci sia difficile trovare un terreno comune: o c’è l’una o c’è l’altra. In qualche modo il libro di Massimo Mugnai questa conclusione scopertamente avanza: anche all’università, infatti, ci vien detto che ancora troppo si insegni la storia della filosofia, che questa si affacci sotto troppo numerose e varie epigrafi e che le cose vadano semplificate. Onde la via maestra sarà quella di privilegiare fin dal liceo, quali modalità di insegnamento della filosofia, quelle riconducibili alla logica (teoria dell’argomentazione), all’etica (dilemmi morali) e alla filosofia della scienza, intesa quest’ultima come indagine di secondo grado intorno all’origine delle nostre credenze e conoscenze. Oggetto supremo sarà la verità, intesa come coerenza interna a un discorso o come corrispondenza fra i nostri enunciati e la realtà esterna. Ecco tutto ciò che la filosofia avrà da fare.

Sono argomenti, quelli qui avanzati a sostegno del manuale sistematico, dotati di un’intrinseca plausibilità e forza di persuasione, purché sia preso per buono l’assunto che la filosofia sia proprio quel che Massimo Mugnai ritiene appunto che essa debba essere. Sono però anche argomenti aventi natura eteroclita e insinuante.

Incominciamo con quello che chiamerei l’argomento basato sul con- sensus gentium. Tradizionalissimo in filosofia, ogni tanto rispunta anche sotto la penna di filosofi come Massimo Mugnai insensibili al fascino della tradizione storica. Così fan tutti avrebbe detto Mozart. L’argomento suona più o meno in questo modo: «Chi è rimasto a insegnare la filosofia in chiave storica nelle scuole superiori dei paesi civilizzati? Solo gli Italiani!». Lasciando perdere gli Spagnoli, sul conto dei quali ho scoperto cose terribili leggendo il nostro libro, del tipo che colà sia stato sostituito l’insegnamento della storia con quello dell’ecofemminismo, della democrazia e non so quant’altro, rimane che Inglesi, Francesi, Tedeschi e perfino Portoghesi ben si guardano dall’insegnare la filosofia alla nostra maniera. Argomento dotato oggi di un potere di suggestione grandissimo. Chi è rimasto in Europa a proteggere dalla libera concorrenza i taxisti? – leggiamo sui giornali Solo noi! Chi è rimasto a proteggere i gestori di impianti balneari? Solo noi! E per analogia: chi è rimasto a proteggere gli storici della filosofia? La risposta è la stessa. Mi scusino bagnini e taxisti se oso paragonarmi a così gran lavoratori, io che non lavoro affatto: ma in loro compagnia siamo rimasti soltanto noialtri storici della filosofia. È un argomento seducente. Si prendano i Topici, si legga Aristotele: sulle questioni che attengono alla probabilità, il parere dei più o il parere dei più competenti è dichiarato essere un criterio di decisione utile ed efficace. Tutto ciò è vero e il parere della maggioranza potrebbe avere anche qui una sua validità, se proprio nel nostro libro non si leggesse che una sola «certezza» alberga nel petto Massimo Mugnai, ossia quella che la filosofia insegnata alla maniera storica non va bene e che è importante cambiare. Certezza e probabilità – lo saprete sono due varietà di conoscenza dotate di uno statuto veritativo diverso; dove c’è certezza, il consensus non è da invocare, poiché la probabilità non vale la certezza e il mero consenso dei più non dà titolo sufficiente a vantare la certezza.

Dimentichiamo tuttavia per un attimo questa incoerenza di Massimo Mugnai e immaginiamo che davvero il consensus gentium sia qui fonte di certezza. A questo argomento opporrei allora un’altra favoletta, brevissima, che chiamerei la favoletta del lemming superstite. Forse saprete che il lemming è un simpatico animaletto delle regioni polari del quale si racconta (poco importa se sia vero) che abbia un’abitudine tristissima, tanto triste che quando ne leggevo da bambino mi impressionava: l’abitudine del suicidio di massa. A un certo momento i lemming corrono a gettarsi nell’oceano Artico e lì scompaiono nei flutti, non sapendo nuotare in condizioni così difficili, e muoiono. Inutile domandarsi – in ogni caso non saprei rispondere – perché il lemming si comporti così. Immaginiamo però un lemming un po’ tonto, che quando i suoi compagni incominciano a correre verso il mare e gli gridano: «Pigrone, ritardatario, sei ancora lì fermo, vieni con noi!» esca dalla sua tana, sofferente anche un po’ di artrite poiché nell’Artide fa freddo e cerchi di unirsi ai suoi compagni. E immaginiamo che il nostro lemming inciampi malauguratamente in un libro di Eugenio Garin, che un esploratore artico italiano digiuno di storia della filosofia abbia dimenticato lì dalla sua scorta di combustibile. Si domanderà il nostro lemming: «Ma che cos’è questo oggetto?». Lo fiuterà, cercherà di capire se sia commestibile, insomma perderà un sacco di tempo. Arrivato finalmente alla spiaggia, alla vista dei suoi compagni ormai tutti in balìa del mare, esclamerà: «Sarò un ritardatario, sarò un pigrone, sarò rimasto indietro nel tempo, ma voi state annegando!». Ebbene questo lemming un po’ tonto dovrà la sua vita a Eugenio Garin, all’incontro accidentale con il suo libro. Garin non lo saprà mai, neanche i suoi gloriosi discepoli, ma il lemming sarà salvo. A voler dire che non sempre far come fanno tutti sia per forza la cosa migliore e non sempre gli storici della filosofia sian per forza da buttare. Più volte il consensus gentium è stato invocato a difesa della credenza nell’esistenza di Dio: se questo criterio già invocato da Cicerone fosse davvero così risolutivo, la prova ontologica ideata da Anselmo e infine liquidata da Kant sarebbe potuta rimanere nel regno goethiano dei bambini mai nati, spettatori dell’ascesa finale di Faust verso il paradiso e meravigliati per il fatto di ritrovarsi tutti insieme in cielo senza esser mai stati in terra. Un altro argomento che si vuole fortissimo nel libro di Massimo Mugnai è quello, come si diceva, ispirato alla miglior dottrina della pedagogia, la pedagogia progressista, quella che crede nella scuola delle competenze. Così ragiona il nostro autore: se ormai è acclarato che teoria pedagogica dominante è quella orientata allo sviluppo delle competenze del discente, risulterà evidente che un metodo di insegnamento della filosofia volto a preparare i giovani a fare i filosofi, anziché gli eruditi, meglio corrisponderà all’esigenza di favorire l’acquisto di una competenza, nel nostro caso la competenza filosofica. Potremmo anche chiamarlo l’argomento della Realpolitik, vale a dire: «Se qualcuno domina – in questo caso il pedagogista progressista sarà perché costui ha ragione e bisognerà dunque adeguarsi a quel che il dominatore stabilisce».

Lecito è il sospetto che Massimo Mugnai voglia stipulare un patto leonino con il pedagogista progressista – del quale invero non ha molta stima poiché quando ne descrive la prosa nei documenti ministeriali, o quando irride all’uso confuso del termine ‘competenza’, non sembra molto convinto circa la serietà scientifica della pedagogia – un patto leonino del tipo: «Abbiamo un nemico comune, alleiamoci!». Il ragionamento è ancora quello schmittiano: il nemico del mio nemico è mio amico. Anche questa si chiama logica. Qual è infatti il nemico comune del pedagogista progressista e del filosofo, diciamo così, scientifico? Semplice, è Giovanni Gentile. Per il pedagogista progressista Gentile è il babau e lo spauracchio della scuola elitaria selettiva; per i filosofi come Massimo Mugnai è colui che sostenne esservi circolarità tra filosofia e storia della filosofia, dunque è l’orco, il nemico contro il quale sia lecito stipulare ogni alleanza. A quale scopo? Nel caso del pedagogista progressista non saprei dire; se fosse qui lo interpellerei, ma è latitante. Nel caso di Massimo Mugnai lo scopo rimane quello sottostante alla descrizione sua iniziale dello studente normalista pisano ottuso, mal preparato, svogliato, comunque sia incapace di argomentare e anche solo di svolgere un tema. Quale scopo?

Possiamo riassumerlo in un amen. Sin quando lo studente della scuola secondaria superiore arriverà all’università convinto che la filosofia sia quella stipata nei manuali di liceo ispirati alla riforma Gentile, di questa sbobba ancor sempre egli andrà in cerca e di conseguenza sarà contento di ritrovare anche in università tanta bella storia della filosofia elargita a piene mani. Mentre se lo studente della scuola secondaria superiore venisse formato alla filosofia intesa come scienza provvista di una parte istituzionale e sistematica… come andrebbero diversamente le cose anche più avanti!

Mi sia consentito aprire una parentesi. Manuale per manuale, quanti di voi pensano che ci siano discipline i cui manuali studiati a scuola non risultino noiosi? Solamente quelli di filosofia saranno tali? Ammetto volentieri che siano noiosi e mai li ho letti con soddisfazione durante miei anni di studio all’università. All’università mi interrogavano sul manuale di Mario Dal Pra, poiché nella mia università il gran sacerdote della storia della filosofia si chiamava così e i suoi assistenti un po’ frustrati pretendevano che noi studenti ne ripetessimo le parole a memoria. E poiché questa pretesa mi spiaceva, poteva accadere che il mio voto nella parte istituzionale dell’esame non fosse il massimo, poiché il tentativo di usar parole mie per esprimere le idee dei passati autori incontrava disapprovazione da parte di questi miei interlocutori. Il risultato è che facevo di tutto pur di evitare di dover preparare le parti manualistiche che gli esami di storia della filosofia allora prevedevano. Voglio solo dire con ciò che non sono un difensore del manuale in quanto tale, ma sono convinto ci siano manuali e manuali, e anche quelli di taglio storico siano passibili di venire utilizzati in tanti modi e non solamente in un quello stupido del mero apprendimento mnemonico.

Bene, torniamo al nostro tema. I manuali ad andamento storico sono noiosi denuncia Massimo Mugnai. E aggiunge: senza un insegnante capace, lo studente con questi manuali è finito. Temo però che questo discorso valga un po’ per tutte le materie. Avete mai trovato divertenti i manuali di geografia? – quelli dove si enumerano i prodotti tipici della Lombardia, o del Botswana, i nomi dei fiumi che scorrono in una data regione… Ne dubito. Ci deve essere anche qui un modo più intelligente per utilizzare il manuale di geografia. Ma allo stesso modo il manuale di biologia, almeno se non vogliamo apprendere in maniera solo mnemonica: «Che cosa significa DNA? Acido desossiribrrr…» lo studente, balbettando, cerca di ripetere lo scioglilingua del quale nulla intende. Anche la biologia può uscire molto male dall’insegnamento manualistico.

Ancora un esempio tratto questa volta dal manuale di matematica, che più di ogni altro dovrebbe avvicinarsi al modello caro a Massimo Mugnai. Dovete risolvere questa equazione di secondo grado (vi garantisco che è un’equazione di secondo grado, magari non tutti lo sapete): 5x2 + 5x - = 0. Lo studente non tanto bravo, che non ricorda la formula per risolvere le equazioni di secondo grado, corre a pigliare il manuale. Che cosa incontrerà nel manuale? l’espressione generale di un’equazione di secondo grado, vale a dire: ax2 ± bx ± c = 0. Lo studente non tanto bravo si mette le mani nei capelli e getta via il manuale. Ci sono tre cose qui a confonderlo: innanzitutto quel maledetto segno ±. Nella sua equazione ci sono un segno + e un segno -, ma nessun segno ±. Poi ci sono le lettere alfabetiche. Ma in matematica non dovrebbero esserci i numeri? così nel mio caso il numero 5, ripetuto tre volte; che cosa vogliono dire allora questi caratteri a, b, c? E ancora: nella mia equazione ricorre sempre il numero 5, mentre nel manuale le tre lettere sono diverse. Lo studente non ce la fa. Se il professore non gli ha insegnato a usare il manuale, è spacciato.

Nella scuola dei miei tempi lo studente mio compagno di classe e non tanto bravo aveva un rimedio: il call center. Telefonava al piccolo Giovanni Bonacina. Costui saltava giù dalla sedia dov’era issato a fare i compiti e trottava a rispondere al telefono: «Qualcuno mi cerca, qualcuno vuol parlarmi!» era contento. E incominciava a raccontare la rava e la fava intorno a questa equazione: che potessero darsi due soluzioni per l’incognita, che bisognasse impostare una formula frazionaria, moltiplicare i coefficienti delle incognite nel rispetto dei segni + o anteposti a ciascuno di essi ecc., non senza l’aggiunta di spiegazioni non richieste come quella che nelle moltiplicazioni a invertire l’ordine dei fattori il prodotto finale non cambia... . A un’altra estremità del cavo il misterioso utente in duplex della linea telefonica del piccolo Giovanni Bonacina già sapeva furibondo che, per chiamare sua zia con urgenza, gli sarebbe toccato recarsi a una cabina pubblica uscendo di casa sotto la pioggia (all’epoca non c’erano i telefoni cellulari). Vi risparmio il seguito della vicenda, se non per dirvi che il mio compagno non tanto bravo veniva a capo bensì di quella particolare equazione, ma spesso non altrettanto dell’enigmatica espressione generale contenuta nel manuale. Questo perché il piccolo Giovanni Bonacina era forse un sapientino, ma non era certo un professore. A voler significare che anche in matematica il manuale non corroborato dalla spiegazione del docente, nel caso specifico dalla spiegazione della simbologia astratta adoperata per illustrare tutte le possibili concrete equazioni di secondo grado, rischia di diventare un oggetto di lettura, se non noioso, sicuramente inservibile.

Bene, vi ho parlato del consensus gentium, della pedagogia delle competenze, dell’inarrivabile noiosità e oscurità dei manuali. Ma Massimo Mugnai afferma anche che la pratica della filosofia debba insegnarci a discutere, a dibattere. Non per far prevalere ciascuno il suo parere, come fanno gli ideologi, ma per avvicinarci tutti insieme alla verità e in questo modo – altro patto leonino con il pedagogista – imparare a fare i conti con la pluralità delle vedute e delle opinioni: ossia prendere sul serio quelle dei nostri interlocutori e con loro dibattere per giungere a un risultato condiviso. Ma la storia – mi vien fatto di osservare a questo proposito non servirà proprio ad alcunché? Qualora ci trovassimo, come sempre più spesso potrà capitare nelle nostre classi multietniche, di fronte a qualcuno riluttante ad accettare le nostre regole del discorso e le loro conseguenze, magari perché persuaso che la verità stia altrove, non sia quella che emerge dai dibattiti filosofici, ma quella scritta in un libro sacro e magari un libro sacro dove sia insegnato che di Dio c’è n’è uno solo, mentre di mogli se ne possono avere fino a quattro – e tutto ciò in società come le nostre, dove ciascuno si fabbrica Dio come gli pare, ma di moglie deve averne non più di una per volta – ecco che si avrà un bell’argomentare davanti a costui che dal punto di vista giuridico e morale aver più di una moglie sia iniquo, in quanto condizione di svantaggio della donna rispetto all’uomo! Il detentore di una verità rivelata non saprà che cosa farsene di questa nostra deduzione, né gli mancherà qualche argomento più o meno capzioso per dire che la poligamia sia in fondo preferibile. Forse un ragionamento su base storica basato sull’evocazione della lontana provenienza di certe rivelazioni e sull’analogia con libri sacri tuttora in qualche uso anche da noi e che soltanto con qualche sforzo ermeneutico e gran dispiego di erudizione (ahi!, la brutta parola) si sia da parte nostra rinunciato a rivestire di un contenuto sempre valido, da applicarsi alla lettera nella vita reale a ogni epoca e latitudine, ecco che forse un ragionamento siffatto potrebbe costituire una forma di dialogo più proficua con questo interlocutore, anziché volergli senz’altro dimostrare che la poligamia in uso a casa sua sia un’aberrazione. Come a dire che anche la storia a qualcosa possa giovare in sede di discussione e accertamento della verità – per quanto questa sia solo una mia congettura, beninteso.

Ultima tesi di Massimo Mugnai è quella che la filosofia, se insegnata secondo i suoi auspici, sia più utile. Circa l’utilità il nostro autore sta invero assai attento, poiché sa come l’argomento sia malfido. Tuttavia afferma: se formiamo qualcuno dotato almeno di competenze, forse qualche piccola opportunità di lavoro in più costui arriverà ad averla rispetto ad altri avviati, attraverso lo studio in chiave storica, solo all’insegnamento di quelle stesse aride nozioni già imparate a scuola. Senonché – lamenta l’autore i nostri giovani non sono più capaci del ragionamento astratto, non sono più capaci di sviluppare conoscenze o riflessioni prive di immediati agganci con la loro diretta esperienza tutta immaginosa, con la loro sensibilità troppo eccitata dai mezzi di comunicazione di massa oggi a disposizione ecc. Ma se così è, se scarseggiano le doti preliminari necessarie per abbandonarsi all’astrazione, prima fra tutte il disinteresse personale, siamo così certi che le doti sviluppate dallo studio storico della filosofia siano inutili? Forse lo studio della storia della filosofia una qualche utilità propedeutica potrebbe averla, diversa da quella fine a se stessa di permettere al vano erudito di abbagliare l’ingenuo passante privo di orologio che, diretto in stazione, commetta l’errore di interpellarlo.

E con questo mi rimane poco altro da dire. Il taglio di questo mio intervento è stato volutamente ironico, in quanto per una specie di contrappasso ho voluto riprodurre fra noi la situazione comicamente imbarazzante nella quale spesso lo storico della filosofia viene a trovarsi al cospetto dei suoi critici, persuasi che la sua disciplina con la filosofia c’entri poco o nulla e proprio perciò beffardi. In apertura del libro di Massimo Mugnai si legge una battuta di Marco Santambrogio così intonata: «I filosofi per svolgere il proprio lavoro hanno tanto bisogno della storia della filosofia quanto i pesci per nuotare hanno bisogno della bicicletta». Ecco battute di questo tipo, volte a instillare disistima verso ciò di cui si parla, credo siano un cattivo genere di argomentazione, mirante in qualche modo a catturare il favore del lettore facendo leva sul fastidio che il non facile apprendimento di una determinata materia insegnata in un certo modo possa aver suscitato in lui a scuola e attraente per il fatto di fornire la magra consolazione di veder questa stessa materia e la sua trattazione esposte ora al dileggio. Senonché non è vero che nei manuali di storia della filosofia si trovi descritto il colore dei calzini di Cartesio – come scrive Massimo Mugnai. O almeno: quale sia il manuale così bene informato, non è indicato nel libro.

Naturalmente anch’io ho esagerato. Affermare che tutti i manuali di ogni disciplina siano noiosi, è da parte mia una provocazione, sebbene corroborata dall’esperienza di tanti studenti non per forza solo svogliati o distratti. Quel che intendo dire è che troppo facile è prendersela con i manuali di filosofia oggi in uso nelle scuole. Sono il capro espiatorio perfetto, che assolve gli studenti dalla loro responsabilità per il proprio cattivo apprendimento, i docenti dalla loro responsabilità per il proprio cattivo insegnamento. Ma il manuale è uno strumento ausiliario. Se non c’è chi aiuti lo studente a adoperarlo, il rischio – anche in matematica – sarà quello di trarne risposte o soluzioni delle quali rimanga oscuro il significato, per quanto sufficienti ad assicurare la promozione. Si tratta di un modello di scuola che personalmente ho conosciuto e che non mi sento di escludere sia sopravvissuto fino a oggi. Tuttavia il taglio storico della trattazione c’entra qui solo fino a un certo punto, anzi a ben vedere assai poco. Anche i rudimenti istituzionali di filosofia cari a Massimo Mugnai possono prestarsi a una ripetizione pappagallesca.

Quanto infine alla questione circa la natura della filosofia, circa il suo oggetto, credo ci sia qui davvero un motivo di dissenso. Poiché è verissimo che la filosofia si occupa di una gran varietà di cose e che ‘filosofia’ si dice in molti modi, se vogliamo fare il verso ad Aristotele (così anche Massimo Mugnai). E tuttavia è innegabile che allorché si ritenga necessario insegnare la filosofia a quel modo efficace, interessante, attuale e competente caldeggiato e descritto da Massimo Mugnai, il risultato sarà giocoforza quello di finir per promuovere in maniera selettiva un ben preciso modello di ciò che sia filosofia e per scartare un’enorme varietà di testi e autori che, classificati come filosofici, pur sempre hanno riscosso successo e attenzione durante la storia più che bimillenaria della disciplina. E questo non sono affatto certo che sia un bene. Torniamo così alla questione già accennata dei ‘classici’. È assolutamente falso sostenere che i manuali di filosofia dall’impianto storico non stabiliscano gerarchie e in vario modo non suggeriscano l’idea che un qualche autore sia stato miglior filosofo di un altro. Poiché se prendiamo un manuale in uso nella scuola, poco importa se vecchio o nuovo, il numero di pagine dedicato a Kant mai sarà lo stesso di quelle dedicate a Gaetano Filangieri o a Mario Pagano (due autori citati da Mugnai come affatto trascurabili). Dovremo dire perciò che la semplice menzione di Filangieri o Pagano valga a screditare un manuale? Non varrà forse la pena dare allo studente italiano (non diciamo statunitense) almeno una vaga nozione dell’esistenza di un movimento culturale noto come illuminismo napoletano, tuttora documentato perfino nella toponomastica stradale? Sarà proprio così del tutto inutile saper qualcosa di questo soggetto facente parte della nostra storia nazionale e rinvenibile con qualche stupore perfino nella comune nostra esperienza quotidiana di frequentatori delle vie di una città? Dopodiché il manuale di filosofia che dedicasse cinquanta pagine a Pagano e appena due righe a Kant sarei il primo a dire che sia un manuale da non adottare. I ‘classici’ sono i classici anche per noi filosofi di orientamento storico.

Voglio dire con ciò che non è affatto vero che il manuale di filosofia a impianto storico debba per forza essere ‘enciclopedico’. Vero è per certo che i manuali di questo genere oggi in commercio contengono troppe cose e che qui si ha lo specchio di una crisi. Non sarei assolutamente contrario all’idea di un manuale che selezionasse i grandi autori e di questi essenzialmente parlasse. Né sarei contrario alla lettura diretta dei loro testi. La mia esperienza forse un po’ particolare – tengo a ricordarlo a difesa di un certo ordine di studi – è quella di aver incontrato sui rispettivi testi i miei primi classici della filosofia studiando greco: Platone ed Epicuro sopra tutti. Ma se questo avviene studiando greco non si capisce perché non possa avvenire anche studiando filosofia. Forse gli ordinamenti ministeriali potrebbero aiutare il docente nella selezione degli autori, riducendo il numero di quelli che sia richiesto allo studente di conoscere. Su questo sono perfettamente d’accordo. Ma tutto ciò non ha strettamente a che fare con l’alternativa tra manuale istituzionale di filosofia e manuale storico, poiché anche quest’ultimo potrebbe essere ordinato e organizzato in maniera diversa e più conforme ai tempi. Si tratterebbe solo di volerlo e di avere un’idea, per quanto approssimativa, di quel che sia importante imparare.

Avrà forse a che fare l’enciclopedismo con la storia in quanto tale, o non piuttosto con certa nostra sopravvenuta incapacità di ordinarla e raccontarla?


* Intervento in occasione della presentazione del libro di Massimo Mugnai, Come non insegnare la filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2023, Urbino 20 aprile 2023, insieme all'Autore e a Vincenzo Fano».

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