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manifesto

Lo stato DEL LAVORO

di Luigi Cavallaro

operaiL'uso del diritto nel definire i rapporti di potere nelle società capitaliste. Un sentiero di lettura a partire dalle riproposte di un volume del giurista Costantino Mortati e del saggio di Toni Negri su «Costituzione e Lavoro»

Un anno di transizione, il 1964. Si è appena concluso un lustro che ha visto l'Italia crescere a ritmi fra i più alti del mondo occidentale e sperimentare trasformazioni imponenti nel modo di lavorare, produrre, consumare e perfino pensare e sognare. La celebrazione del «miracolo» ha lasciato il passo alla «congiuntura»: la crisi della bilancia dei pagamenti ha indotto il Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, a una stretta monetaria e ne è seguito il consueto rallentamento produttivo e aumento della disoccupazione.

 

La percezione dell'esaurimento di un ciclo è ben presente nei protagonisti di quegli anni, ma la filosofia, si sa, è come la nottola di Minerva: prende il volo sul far del crepuscolo. Non può dunque stupire che proprio in quel 1964 un giovane Toni Negri, all'epoca assistente di filosofia del diritto all'Università di Padova, scriva un corposo saggio su «Il lavoro nella costituzione», proponendosi di spiegare che cosa abbia concretamente significato l'inserzione nella nostra Costituzione delle norme contenute negli articoli 1, 3 secondo comma e 4, primo comma: i quali, dopo aver proclamato la Repubblica «fondata sul lavoro», le attribuiscono il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese», e di riconoscere «a tutti i cittadini il diritto al lavoro», promuovendo «le condizioni che rendano effettivo questo diritto».

 

Le fondamenta del potere

Non è passato molto tempo dal tentativo dei giuristi più conservatori di liquidare quei testi come dichiarazioni sprovviste di contenuto precettivo e ancor meno ne è passato da quando il costituzionalista (e comunista) Vezio Crisafulli ha chiarito che la loro normatività, ben oltre che all'attività legislativa, va riferita all'intero indirizzo politico. «Vorrà questo significare che alcuni, fondamentali principi ideologici del socialismo sono penetrati e vigono nella Costituzione? A nostro avviso, la risposta a questa domanda non può che essere positiva», scrive Negri: si tratta infatti di precetti che imprimono una peculiare torsione alla «costituzione materiale», ristrutturandola in modo da collocare il lavoro «come modello e fondamento dell'articolazione sociale del potere».

Con ragione qui Negri intuisce la fecondità nella prospettiva analitica marxista del concetto di «costituzione in senso materiale», teorizzato negli anni '40 da Costantino Mortati: è proprio l'accentuazione del motivo laburista di quest'ultima a spingere l'ordinamento ad «incidere sulla realtà dei rapporti sociali», in modo da configurarli direttamente e così superare il tradizionale (e conservatore) atteggiamento dello «Stato di diritto», mero garante del «libero coordinamento delle energie capitalistiche individuali». Lo Stato sociale, sotto questo profilo, non è affatto «garantista», scrive Negri: «non constata negativamente la realtà sociale, anzi mette in dubbio o addirittura nega la capacità di autoregolazione di quest'ultima». Correlativamente, esso considera i diritti fondamentali «non come interessi dei singoli da tutelare ma come interesse sociale da conquistare», intervenendo «attivamente nella realtà sociale per costruire direttamente il suo ordine».

Si tratta di considerazioni già allora correnti nel dibattito fra i giuristi più progressisti e Negri non manca di ricordare gli apporti in questa direzione di Tullio Ascarelli e Ernst Forsthoff. Quel che egli aggiunge è la consapevolezza - tutta marxista - che un risultato del genere non è conseguibile se non a prezzo di sostituire «alla garanzia delle condizioni di autoregolazione del capitale» il controllo politico della forza-lavoro sociale sull'accumulazione capitalistica, «attraverso un sistema democratico funzionale ed efficiente»: lo Stato sociale, in effetti, può essere «garantista» solo in questo senso, cioè garantendo l'ordine imposto dal piano «contro chi contesta il piano, rifiutandosi di autogestirsi in esso».

 

Nel cielo delle libertà formali

Un obiettivo del genere presuppone che il fondamento costituzionale materiale venga ricercato non già in nozioni «classiste» del lavoro, quanto piuttosto in un'accezione di esso che ne valorizzi la caratteristica di «attività relativa alla produzione e allo scambio di beni e servizi», come aveva ben colto Luisa Riva Sanseverino già all'indomani dell'entrata in vigore della Carta del '48: è solo così che - osserva giustamente Negri - «il modello funziona», nel senso che la contestazione generale che esso rende possibile diventa propedeutica ad una non meno generale mediazione. Ma l'assunzione di un concetto di lavoro così astrattamente formale («sans phrase», si potrebbe dire con Marx) è d'altra parte il tramite per consentire al sistema statuale delineato nella Costituzione di «porsi criticamente il problema della fattualità»: vale a dire quel problema che lo Stato di diritto risolveva nel cielo delle libertà formali e che adesso deve essere affrontato sul terreno dei conflitti reali, «utilizzando la contraddizione come momento sistematico, essa stessa elemento e motore del movimento sistematico, chiave di volta delle articolazioni del sistema».

Non è dunque per caso ma pour cause che una riflessione germinata dalla considerazione della rilevanza costituzionale del lavoro vada a parare sulle trasformazioni subite dal diritto pubblico generale nella dottrina dello Stato, che - sintetizza Negri - è «Stato pianificato dal punto di vista della forma della processualità, e Stato sociale dal punto di vista della sua forma politica»: caratteristica eminente della «costituzione in senso materiale» è per l'appunto quella di presentarsi «come espressione di una generica intenzionalità sociale», come «progetto di azione politica»; non più, quindi, «schema predisposto alla comprensione di un potere costituito», ma «sostegno positivo di un potere costituente». Del resto, prosegue Negri, «pianificare» significa appunto «assumere il lavoro a fondamento unico del valore sociale e ricostruire l'intero ordinamento giuridico, sociale e politico in sua guisa». E se è vero che ciò implica la destrutturazione degli antichi confini fra pubblico e privato (come dimostra l'intima ambiguità del ruolo dei sindacati nella contrattazione collettiva e, prima ancora, l'esistenza stessa del contratto collettivo), ciò accade perché la pianificazione, sebbene risulti essere «forma dello Stato» (e precisamente quella forma che gli consente «una serie di interventi di indirizzo e di coordinamento del tutto specifici»), viene raffigurata «come forma dell'estinzione dello Stato, come esaltazione della sua qualificazione sociale rispetto e di contro a quella meramente statuale».

 

Il riformismo del capitale

Sennonché, nonostante tutti i complessi rivolgimenti che concernono il sistema delle fonti, la struttura ordinamentale e la connessa concezione della norma giuridica e dell'autorità, Negri risponde negativamente alla domanda se la riqualificazione come «Stato "sociale" pianificato, come Stato del "lavoro"» implichi un mutamento della natura classista e borghese dello Stato: si tratta di trasformazioni che, al contrario, «la perfezionano, adeguandola alle nuove esigenze di sviluppo del capitale». Il «riformismo» del centro-sinistra, in altri termini, ai suoi occhi non è altro che «un momento del riformismo del capitale».

È facile ritrovare in questa conclusione l'insegnamento di Mario Tronti, la cui teorizzazione fa in quegli anni da viatico alla lettura negriana di Marx: La fabbrica e la società e Il piano del capitale sono da poco apparsi sui Quaderni rossi e in entrambi Tronti ha picchiato duro circa la possibilità di rinvenire nello sviluppo in corso altro che una manifestazione del modo di produzione capitalistico. Qui però preme considerare il modo in cui Negri, sul versante della filosofia del diritto e della dottrina dello Stato, perviene a giustificare le conclusioni di Tronti. Non si tratta solo di riconoscere che «la pacificazione della conflittualità concreta nel modello del lavoro astratto è, sul piano dei fatti desiderio», ché anzi è immanente al concreto sviluppo del modello la possibilità di una «insubordinazione generalizzata»; del resto, se un portato del modello è il conseguimento di un'occupazione tendenzialmente piena (nel 1963 il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 4%), la conseguenza non può che essere il volgersi del mercato del lavoro dal lato dell'offerta, cioè dei lavoratori, con quanto ne consegue sul piano delle loro capacità rivendicative come classe.

 

Tra insubordinazione e controllo

Il punto concerne piuttosto quell'«elemento connettivo» che, ad avviso di Negri, permea nascostamente il modello della costituzionalizzazione del lavoro fino a farne la sola garanzia per il suo reale funzionamento: si tratta - dice Negri - del momento dell'«autorità», che a suo avviso, prima di essere l'elemento connettivo del sistema giuridico, «è anche il prodotto dell'oggettività sociale, economicamente integrata, capitalisticamente dominata».

In realtà, il momento dell'«autorità» è di per sé socialmente muto: già Engels aveva diffidato dal prestare ascolto a quei «socialisti» ai quali bastava dire «che questo o quell'atto è autoritario per condannarlo» e nelle sue note critiche a Stato e anarchia di Bakunin lo stesso Marx aveva spiegato cosa intendesse per «proletariato organizzato come classe dominante» riferendosi ad una «forza e organizzazione tali da permettergli di impiegare mezzi coercitivi generali nella lotta» contro «le classi economicamente privilegiate».

A meno di precipitare nell'anarchismo, dunque, la natura sociale di uno Stato può derivare solo dall'ordine economico che i suoi mezzi coercitivi intendono tutelare. E in che misura, allora, può essere definito «capitalistico» l'ordine garantito da uno Stato che - per dirla con il terzo comma dell'art. 41 della Costituzione - pretende di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»? Privando così il capitale di quella libertà di movimento che costituisce il correlato indefettibile della massimizzazione del profitto? E attribuendo specularmente in forma di diritti (sociali) beni e servizi che prima potevano essere solo acquistati sul mercato?

Il punto è centrale, e ai fini di una convincente sistemazione dei rapporti fra Stato e capitalismo converrà enunciarlo con la massima chiarezza. Se ha ragione Tronti a suggerire che la «pianificazione interna di fabbrica» e la «programmazione dello sviluppo capitalistico» possono essere utilizzate «a fini rivoluzionari», se cioè è vero che «le tecniche di integrazione economica tentate dal padrone» possono diventare «strumento di controllo politico sul capitale», non si può - come fa Negri - escludere a priori che fosse esattamente questo lo scopo inscritto nella Carta del '48. E nemmeno che il sovrappiù d'autorità all'uopo necessario (non c'è cosa più autoritaria di una rivoluzione, diceva Engels) abbia finito per esser giudicato del tutto intollerabile anche da coloro che più avrebbero potuto trarne i frutti in termini di sviluppo sociale e civile. In fondo, se invece di pensare alla pianificazione e programmazione la «sinistra moderata» s'è data alle liberalizzazioni, mentre quella sedicente «radicale» s'è ridotta a parlare di decrescite conviviali, salario sociale e autogestioni comunitarie, qualcosa vorrà pur dire.

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