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Gli antisemiti al governo di Tel AViv
di Dante Barontini
Nel linguaggio ordinario si è soliti chiamarla “eterogenesi dei fini”, indicando le conseguenze inattese o sorprendenti di comportamenti considerati logici in senso lineare.
Il pensiero dialettico, che cerca invece di rispettare e riflettere il movimento della realtà, è più pronto a riconoscervi il classico rovesciamento della “tesi” in “antitesi”. Che non è una “magia” astratta, ma una necessità del reale.
Scendiamo subito sul piano politico concreto, anche se occupandoci comunque di “concetti” che nella narrazione dominante sembravano saldi come la roccia pur essendo prodotti di un’operazione tanto furbesca quanto criminale.
Parliamo dell’identificazione assoluta tra “antisionismo, antigiudaismo e antisemitismo”, ovvero della pratica politica e comunicativa per cui si mette all’indice ogni critica all’operato dello Stato di Israele qualificandola come “antisemitismo”, “odio razziale verso gli ebrei” e amenità varie.
Coloro che hanno pensato, praticato e imposto questa ferrea identificazione tra concetti e soggetti diversi (un ebreo può non essere sionista; al ceppo semita appartengono anche tutti gli arabi, i siriaci, ecc; Israele è uno Stato come tutti gli altri, senza alcuna “eccezionalità” di origine divina, ecc) aveva immaginato un “meccanismo perfetto”.
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Russia, il trionfo di Putin
di Fabrizio Casari
Con una debordante vittoria elettorale di Vladimir Putin, si è conclusa la consultazione elettorale russa. Le operazioni di voto sono durate tre giorni, necessari per coprire il Paese più grande del mondo: un territorio immenso di oltre 17 milioni di chilometri quadrati, 11 fusi orari diversi e 112 milioni di elettori su 146 milioni di abitanti. Il dato che balza immediatamente all’attenzione è quello relativo alla partecipazione: un record storico, con il 77% degli elettori che ha votato, mentre in Occidente, mediamente, non si arriva al 50%. Dopo l’annunciato crollo dell’economia e la certa sconfitta militare in Ucraina, l’elenco dei desideri frustrati dell’Occidente si allarga.
La partecipazione al voto era infatti uno dei test che il mainstream atlantista e russofobo assegnava alla credibilità e affidabilità del processo elettorale e la sua percentuale ha dimostrato come i russi non siano affatto intimiditi dalle campagne mediatiche occidentali, che nell’intento di scoraggiare la partecipazione avevano annunciato possibili attentati, disordini ai seggi, proteste eclatanti contro Putin. Il fallimento delle ipotizzate proteste ha dimostrato anche come l’apparato spionistico occidentale abbia le unghie spuntate, che viva una crisi nella sua campagna di reclutamento.
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Lotta di classe e speculazione immobiliare: le differenze tra Cina e occidente
di Leonardo Sinigaglia
“La lotta di classe è finita e l’hanno vinta i ricchi”: una frase che spesso ritorna in Occidente e che può corrispondere effettivamente alla realtà nell’immaginario collettivo di una parte di mondo in cui le crescenti diseguaglianze si sommano all’incontrastato monopolio della grande borghesia sul potere politico, sui media, sulla vita culturale e sulla produzione ideologica. In quanto base dello sviluppo sociale, la lotta di classe è inesauribile, almeno sino al limite teorico del superamento dei suoi presupposti, ossia la stessa divisione in classi. Essa caratterizza ogni sistema classista, quindi anche, ovviamente, quello capitalista, sia che nella contraddizione tra classe lavoratrice e borghesia la prima rappresenti l’aspetto principale, sia che questa posizione sia occupata dalla seconda. Ma ciò è vero anche per il socialismo, anch’esso sistema classista, dove però il rapporto tra borghesia e classe lavoratrice risulta invertito, con il potere politico conquistato da quest’ultima e assicurato dall’esercizio della dittatura del proletariato, con il controllo delle principali leve economiche e sociali.
“La lotta di classe esiste oggettivamente nella società socialista. Non va né sottovalutata né esagerata”[1]: al mutare delle condizioni non viene meno l’esistenza della lotta, ma le sue forme.
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Da termometro a valutazione individuale: la resistibile ascesa dei test INVALSI
Redazione ROARS
Un vecchio adagio recitava che i test INVALSI servissero per migliorare il sistema di istruzione, che fossero anonimi e che non valutassero né il singolo studente, né l’insegnante. Si trattava di un semplice termometro: uno strumento che segnalava i punti di forza e i punti di debolezza della scuola italiana. Non bisognava demonizzare un termometro: ogni strumento, si sa, non è né buono né cattivo in sé. Dipende dall’uso che se ne fa. Questo racconto non ci aveva mai convinto. Origini e scopi dei test erano stati ben delineati dal trio Checchi-Ichino-Vittadini nel 2008 in un documento per l’allora ministra Gelmini: i test sarebbero dovuti progressivamente diventare lo strumento di regolazione dell’insegnamento e della popolazione studentesca. Da termometro di stato a certificazione algoritmica individuale, è stato un attimo. Una prevedibile e resistibile ascesa, quella dei test Invalsi: realizzatasi con sostegno politico e mediatico trasversale e irriducibile, nell’assenza di voci critiche radicali. Bene constatare che oggi, quando i buoi sono scappati dalle stalle, si levino petizioni e preoccupazioni diffuse. Noi sosterremo queste posizioni, benché tardive, perché continuiamo a credere che ogni costruzione umana e ogni fede, perfino quella nei test Invalsi, siano in realtà fatti profondamente politici, e quindi modificabili.
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Antigone: Mito - Letteratura 1 a 0
di Annalisa Ambrosio
Sulla copertina dell’ultimo libro di Eva Cantarella per Einaudi troneggia un enorme titolo provocatorio: Contro Antigone, accompagnato da un sottotitolo importante e minuscolo: O dell’egoismo sociale. Ora, in un certo senso, il fatto che il titolo sia provocatorio è proprio l’oggetto del saggio in questione, perché l’autrice ci mostra per 104 pagine quanto sia forte e radicato il mito di Antigone, quanto questa eroina abbia guadagnato un posto d’onore nel sentire comune fino a divenire intoccabile. Non solo.
Cantarella cerca di capire che cosa ne sia stato di Antigone e della sua storia sofoclea, manipolata e piegata dalle generazioni di umani che si sono susseguite nel mondo. Quindi, nonostante questo sia l’ennesimo libro su Antigone, non è l’ennesimo libro su Antigone, di fatto è l’unico che non ne dipinga l’agiografia: ecco la promessa. E la promessa, in effetti, è mantenuta.
La ragione che ha spinto Eva Cantarella a prendere le parti di Creonte è antica e sentimentale: già quando si trovava sui banchi di scuola a leggere la tragedia di Sofocle, racconta, le stava stretta la versione dei fatti secondo la quale Antigone sarebbe una santa e Creonte il suo persecutore. Dopo una vita, le cose stanno ancora così, con la differenza che Cantarella non è più una tra le tante studentesse adolescenti del liceo Beccaria di Milano, ma una delle più note e riconosciute studiose di grecità in Italia, e allora un prestigioso editore le commissiona questo libro in cui finalmente può tentare di riabilitare pubblicamente Creonte.
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Attentato a Mosca
Traduzione integrale del discorso di Putin alla nazione dopo l'attacco terroristico
di La Redazione de l'AntiDiplomatico
Traduzione in italiano del messaggio rivolto alla nazione dal presidente Vladimir Putin dopo l'attacco terroristico di Mosca, pubblicato dal quotidiano russo Komsomol'skaja Pravda.
Cari cittadini della Russia!
Mi rivolgo a voi in relazione al sanguinoso e barbaro atto terroristico, le cui vittime sono decine di persone pacifiche e innocenti - nostri compatrioti, tra cui bambini, adolescenti e donne. I medici stanno lottando per la vita delle vittime, che sono in gravi condizioni. Sono sicuro che faranno tutto il possibile e anche l'impossibile per salvare la vita e la salute di tutti i feriti. Un ringraziamento speciale va agli equipaggi delle ambulanze e delle ambulanze aeree, alle forze speciali, ai vigili del fuoco, ai soccorritori che hanno fatto di tutto per salvare vite umane, per tirarle fuori da sotto il fuoco, dall'epicentro dell'incendio e del fumo, per evitare perdite ancora più gravi.
Non posso ignorare l'aiuto dei comuni cittadini che, nei primi minuti dopo la tragedia, non sono rimasti indifferenti e, insieme a medici e agenti di sicurezza, hanno fornito i primi soccorsi e consegnato le vittime agli ospedali.
Forniremo l'assistenza necessaria a tutte le famiglie le cui vite sono state colpite da questo terribile disastro, ai feriti e alle vittime. Esprimo le mie profonde e sincere condoglianze a tutti coloro che hanno perso i loro parenti e i loro cari. Insieme a voi tutto il Paese, tutto il nostro popolo è in lutto. Dichiaro il 24 marzo giorno di lutto nazionale.
A Mosca e nella regione di Mosca e in tutte le regioni del Paese sono state introdotte ulteriori misure antiterrorismo e antisabotaggio. La cosa principale ora è impedire che i responsabili di questo sanguinoso massacro commettano un nuovo crimine.
Per quanto riguarda le indagini su questo crimine e i risultati dell'operazione di ricerca, al momento possiamo dire quanto segue. Tutti e quattro gli autori diretti dell'attacco terroristico, tutti coloro che hanno sparato e ucciso le persone, sono stati trovati e arrestati. Hanno cercato di fuggire e stavano viaggiando verso l'Ucraina, dove, secondo i dati preliminari, era stata preparata per loro una finestra sul lato ucraino per attraversare il confine di Stato. In totale sono state arrestate 11 persone. Il Servizio di Sicurezza Federale russo e le altre forze dell'ordine stanno lavorando per identificare e scoprire l'intera base ausiliaria dei terroristi: coloro che hanno fornito loro i mezzi di trasporto, hanno pianificato i modi per allontanarsi dalla scena del crimine, hanno preparato cache e nascondigli con armi e munizioni.
Ripeto, le agenzie investigative e di polizia faranno tutto il possibile per stabilire tutti i dettagli del crimine. Ma è già evidente che non ci siamo trovati di fronte a un semplice attacco terroristico attentamente e cinicamente pianificato, ma a un omicidio di massa preparato e organizzato di persone pacifiche e indifese. I criminali avevano intenzione di uccidere a sangue freddo e di proposito, di sparare a bruciapelo ai nostri cittadini, ai nostri bambini, come facevano i nazisti che commettevano massacri nei territori occupati, e progettavano di organizzare un'esecuzione spettacolo, un sanguinoso atto di intimidazione.
Tutti gli autori, gli organizzatori e i mandanti di questo crimine saranno giustamente e inevitabilmente puniti, chiunque essi siano e chiunque li abbia diretti. Ripeto, identificheremo e puniremo tutti coloro che stanno dietro ai terroristi, che hanno preparato questa atrocità, questo attacco contro la Russia e il nostro popolo. Sappiamo qual è la minaccia del terrorismo.
Contiamo qui sulla cooperazione con tutti gli Stati che condividono sinceramente il nostro dolore e sono pronti a unire realmente le forze nella lotta contro il nemico comune, il terrorismo internazionale, con tutte le sue manifestazioni. I terroristi, gli assassini, i subumani, che non hanno nazionalità e non possono avere una nazionalità, hanno solo un destino poco invidiabile: la punizione e l'oblio. Non hanno futuro.
Il nostro dovere comune adesso, i nostri compagni al fronte, tutti i cittadini del paese è quello di stare insieme in un'unica formazione. Credo che sarà così, perché niente e nessuno potrà scuotere la nostra unità e volontà, la nostra determinazione e coraggio, la forza del popolo russo unito. Nessuno potrà seminare semi velenosi di discordia, panico e discordia nella nostra società multietnica.
La Russia è passata più volte attraverso le prove più dure, a volte insopportabili, ma è diventata ancora più forte. Così sarà anche adesso.
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Larry Johnson (ex analista CIA): "Gli USA sapevano che l’Ucraina stava tramando qualcosa"
di La Redazione de l'AntiDiplomatico
Un recente rapporto secondo cui gli Stati Uniti sono preoccupati per le “azioni palesi” dell’Ucraina contro la Russia suggerisce che Kiev sia coinvolta nell’attacco terroristico a Mosca, e gli Stati Uniti lo sapevano molto bene. Questa opinione è stata espressa dall'ex analista della CIA Larry Johnson su Judging Freedom. Anche la loro rapida negazione del coinvolgimento, ancor prima che Mosca stessa venisse a conoscenza di informazioni precise su quanto accaduto, solleva interrogativi.
Queste le parole dell'ex analista della CIA: "Non è stata l'Ucraina - possiamo esserne certi perché il Dipartimento di Stato ce lo ha appena detto! Ma pensate a questo: non sappiamo ancora quanti siano stati gli attentatori, quali armi siano state usate... Abbiamo sentito parlare di spari, di esplosioni, ma non sappiamo nulla di concreto. L'FSB parla ancora di 40 morti e 100 feriti. Eppure il Dipartimento di Stato è proprio lì: 'Questa non è l'Ucraina! Questa non è l'Ucraina!'.
Sanno che è stata l'Ucraina. Ed ecco perché possiamo esserne certi: il 7 marzo, l'ambasciata statunitense e quella britannica a Mosca hanno emesso un avviso, un consiglio di viaggio per tutti gli americani e i britannici: state lontani, ci sarà un attacco terroristico entro 48 ore. Non è successo.
Ma questo era il mio lavoro, faceva parte del mio lavoro quando ero nell'antiterrorismo: questo tipo di avvisi vengono emessi solo quando si hanno informazioni specifiche e credibili e non si può prevenire un attacco. E di solito in questi casi, se le informazioni sono abbastanza specifiche e credibili, le trasmettiamo a un altro governo affinché intervenga per prevenire il pericolo.
Ma in questo caso, solo un giorno fa, l'outlet di intelligence open source OSINTdefender - che è uno di quei feed Twitter che fanno molto parte degli sforzi di propaganda della CIA - ha riferito che il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e la Casa Bianca erano sempre più frustrati per le "azioni plateali non autorizzate" intraprese dall'Ucraina contro la Russia.
Ciò significa che gli Stati Uniti sapevano che l'Ucraina stava tramando qualcosa, avevano un'idea di ciò che stava per fare. E c'è una buona probabilità che l'Ucraina non solo l'abbia fatto, ma l'abbia fatto con armi e supporto forniti dagli Stati Uniti. Questo è ciò di cui la Casa Bianca era così spaventata".
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Attentato a Mosca. Si firma ISIS, si legge NATO
di Fabrizio Marchi
Sconfitti sul campo in Ucraina, sconfitti politicamente perché il popolo russo ha fatto fronte comune votando in massa per Putin facendo chiaramente capire che ogni velleità di dividere o destabilizzare la Russia è mera illusione, i vari cosiddetti “deep state” (servizi segreti, apparati di sicurezza ecc.) della NATO ricorrono al terrorismo. Non a caso la firma è dell’ISIS che non ha mai sfiorato neanche con una pallina di carta tirata da una cerbottana Israele e i suoi alleati in loco e che, guarda caso, fu scatenato contro la Siria, difesa proprio dalla Russia e, naturalmente, dall’Iran e da Hezbollah.
A mio parere la chiave di lettura dell’attentato di Mosca è questa. Poi si tratterà di vedere quale fra i diversi “deep state” è stato il mandante, ma non è determinante saperlo. La domanda che bisogna sempre porsi, come ripeto sempre in questi frangenti è “cui prodest?”, a chi giova?
Seguendo questo metodo di indagine si comprendono i perché e i percome di un qualsiasi evento.
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Mosca: la strage al Crocus e le ambiguità dell'Occidente
di Piccole Note
L'attentato contro Putin. Per una volta alcuni attentatori sono stati catturati. Le troppe ambiguità Usa nella "lotta al terrore"
Mentre sale la conta dei morti dell’attentato al Crocus City Hall di Mosca e si attende un intervento di Putin, qualche riflessione. La strage avrebbe dovuto essere perpetrata prima delle elezioni presidenziali, tale la tempistica dettata dalla nota dell’ambasciata statunitense a Mosca che allarmava, il 7 marzo, di un attentato a Mosca “entro le prossime 48 ore“.
Qualcosa è andato storto, probabilmente una intensificazione dei controlli; e la cellula terroristica si è messa in sonno in attesa di tempi più adatti. E ieri ha colpito.
Vergognoso (o forse no, dal momento che è una dinamica usuale di questi due anni) che le autorità ucraine in un primo momento abbiano accusato Mosca dell’accaduto. La ragione? Una scusa per intensificare le operazioni di guerra in Ucraina.
Crocus: l’attentato contro Putin
Nel riportare le accuse di Kiev contro Mosca, Strana – poco dopo l’attentato e prima dell’asserita rivendicazione dell’Isis – commentava: “La domanda principale è: Putin aveva effettivamente intenzione di annunciare la mobilitazione e un’eventuale escalation, un ‘ultimatum nucleare’ all’Ucraina o all’Occidente, ecc.?”.
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Gli Stati Uniti e il pareggio catastrofico nel sistema mondo
di Carlos Eduardo Martins1
Il testo di Carlos Eduardo Martins che qui pubblichiamo grazie alla segnalazione e traduzione di Herta Manenti e Francesca Staiano, merita di essere letto e studiato attentamente per diverse ragioni.
1. Per l’ipotesi che qui affaccia sulle tendenze e il quadro della situazione mondiale attuale. In essa è evidente la crisi di egemonia dell’unipolarismo degli USA e del blocco imperialista occidentale, ma, al contempo, le nuove potenze emergenti della Cina, della Russia e del “Sud globale”, dirette alla costruzione di un mondo multipolare, non sono ancora in grado di prevalere, per cui si ha un “pareggio catastrofico tra due tendenze contrapposte che non riescono a imporre alcun ordine mondiale”. Una situazione analoga a quella che un secolo fa Gramsci definiva – in un contesto ovviamente diverso – con l’aforisma: “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Scrive Martins: “Tutto indica che stiamo entrando in una lunga situazione di pareggio catastrofico, dove la struttura di potere dell’imperialismo anglosassone non riesce più a reggere la possibilità di stabilire un ordine globale, e nemmeno la struttura di potere emergente, ancora incipiente, ha forza, sviluppo e organicità sufficienti per sostituire ampiamente le potenze declinanti, che ancora possiedono forza considerevole e ampiezza per limitare e restringere, ma sempre meno per determinare o dirigere”.
Se questo è il quadro mondiale delineato dall’autore, la questione della strategia dei comunisti e del movimento operaio in questa fase diviene di primaria importanza.
2. Il testo ci presenta una sintesi, corroborata dall’esposizione di dati eloquenti, dell’economia e della politica statunitensi e delle tappe e cause del declino, nonché delle basi materiali dello scontro interno ai gruppi dirigenti nordamericani, che si manifesta nell’antagonismo Biden/Trump nelle prossime elezioni presidenziali, sul cui esito l’autore non vede la possibilità di una via d’uscita progressiva.
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I canoni superiori della giustizia morale: Aaron Bushnell nella storia
di Alberto Bradanini
1. Con intelligenza ed empatia, l’australiana Caitlin Johnstone ci invita a meditare sugli orrori del nostro tempo, restando lontani dal megafono della propaganda e meditando sulla circostanza, da quest’ultima sistematicamente omessa, che la violenza israeliana contro i palestinesi non è certo iniziata oggi.
Negli anni 1947/48, un tempo che i palestinesi chiamano non a caso Nakba, la catastrofe, quando su una popolazione di 1,9 milioni, oltre 750.000 palestinesi furono cacciati con la violenza, mentre bande armate sioniste s’impadronivano del 78% della Palestina storica, dopo aver distrutto centinaia di villaggi e città e massacrato oltre 15.000 poveri palestinesi disarmati, che avevano provato a difendere i loro beni, le loro famiglie e la loro vita.
La Nakba è il frutto malsano dell’ideologia sionista, sviluppatasi in Europa Orientale alla fine del XIX secolo, nel cui nucleo ideologico troviamo il radicalismo politico-religioso e la pretesa che gli ebrei (nazione, razza e/o religione) avessero diritto a un proprio stato, un diritto invero estraneo a qualsiasi norma nazionale o internazionale, ma derivato esclusivamente dalle cosiddette sacre scritture, vale a dire quanto di più farfaleico si possa immaginare.
Nel 1880, la popolazione degli ebrei palestinesi non supera il 3% dei residenti. A differenza degli ebrei sionisti che sarebbero arrivati in Palestina successivamente, l'Yishuv originale non aspirava a costruire un moderno stato ebraico. A partire dal 1882, però, migliaia di ebrei iniziano a stabilirsi in Palestina, fuggendo dalle persistenti persecuzioni ai loro danni (pogrom e altro), ma anche attratti dal fascino sionista della costruzione di uno stato religioso.
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Lavoro povero con vita digitale o vita povera con lavoro digitale?
di Lelio Demichelis
Il lavoro ha subito tali trasformazioni da renderne necessario un profondo lavoro di revisione e ridefinizione sia dal punto di vista economico e legislativo, sia nelle sue forme e nel suo ruolo sociale. Accanto agli studi relativi ai singoli ambiti disciplinari è opportuno ampliare la visuale cercando di far interagire le indagini, anche per gettare luci differenti sui risultati da esse ottenuti. Abbiamo pertanto provato a mettere in relazione due libri molto diversi tra loro, eppure legati da molti elementi, che insieme aiutano a capire il mondo degli ultimi quarant’anni e di quelli a venire.
Il primo è un saggio critico contro l’attuale “mortificazione e mercificazione del lavoro”, scritto da Alessandro Somma, docente di ‘Diritto comparato’ alla Sapienza di Roma. La sua è sia una analisi storica, politico-economica e in punta di Costituzione di come il lavoro sia stato deliberatamente ri-trasformato da diritto dell’uomo a merce di mercato dall’ideologia neoliberale, sia un programma sociale e politico, immaginando “un sistema di sicurezza sociale saldamente in mano pubblica, di piena e buona occupazione rispettosa dei vincoli ambientali”: tutto esplicitato fin dal titolo: Abolire il lavoro povero, pubblicato da Laterza nella Collana Anticorpi. Il secondo è invece un manuale di Davide Bennato, che insegna ‘Sociologia dei media digitali’ all’Università di Catania, pubblicato sempre da Laterza, dal titolo: La società del XXI secolo. Persone, dati, tecnologie.
Leggerli e commentarli in coppia ci permette soprattutto di provare a capire se il lavoro povero è solo l’effetto della flessibilizzazione neoliberale del lavoro per adattarlo alle esigenze del capitale, oppure se è anche l’effetto necessario (voluto) – come noi crediamo e anche Somma – delle tecnologie oggi digitali (che hanno permesso la esternalizzazione dei processi produttivi e “accelerato la deregolamentazione del mercato del lavoro”) e della razionalità che predetermina neoliberalismo e tecnica.
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25° dell’aggressione NATO --- IN SERBIA L’EUROPA SI SUICIDA --- Nasce la Sinistra Nato
di Fulvio Grimaldi
Byoblu-Mondocane da Belgrado – Fulvio Grimaldi al Convegno Internazionale, 21-24 marzo 2024, nel 25° anniversario dell’aggressione Nato. In onda domenica 21.30. Repliche, salvo imprevisti, lunedì 09.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30, domenica 09.00.
Quelle che vedete qui sopra sono le copertine di documentari che ho realizzato in Serbia nel corso dell’aggressione Nato del 1999 ed eventi successivi. Scusate se stavolta parto da una vicenda personale. Credo lo giustifichi il suo carattere emblematico per quanto riguarda il passaggio della stampa dall’informazione, nei paesi sedicenti democratici, alla propaganda di servizio all’Impero. Una transizione che ha coinvolto ciò che si dichiarava di sinistra, con conseguenze di cui stiamo vedendo gli esiti, tra il catastrofico e il criminale, nel tempo dello scatenamento bellico dell’Occidente politico.
Ci sono due eventi nella mia vita e professione che mi paiono investiti di valore paradigmatico, per quanto capitati a un semplicissimo cronista di strada.
Bloody Sunday, la Domenica di sangue di Derry, Irlanda del Nord, quando accadde che fossi l’unico giornalista internazionale in presenza a documentare la strage di 14 inermi manifestanti per mano dei parà britannici; e una riunione di redazione al TG3, la mattina del 25 marzo 1999, dopo la notte in cui la NATO aveva iniziato l’attacco alla Serbia che avrebbe visto 78 giorni di bombardamenti a tappeto, anche all’uranio impoverito. Genocidio non è un concetto che nasce a Gaza.
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Per il voto in Russia, Mosca ringrazia l’Occidente e i golpisti di Kiev
di Fabrizio Poggi
«Il potere è rimasto fermo e il popolo fedele», così che l’attacco non poteva che fallire. Diremo più avanti di chi fossero queste parole e a cosa si riferissero.
Intanto, constatiamo il risultato del 87,28% dei voti per Vladimir Putin alle presidenziali russe del 15-17 marzo e l’affluenza record alle urne del 77,44% degli aventi diritto, pari a oltre 87 milioni, sui 112 milioni di elettori certificati lo scorso febbraio dalla Commissione elettorale russa.
Di fronte a queste cifre, è più comprensibile lo stupore dei liberal-reazionari euroatlantici, avvezzi a sproloquiare sul cielo plumbeo, all’indomani di ogni tornata elettorale di casa propria, pur di non spiegare il perché del fatto che la maggior parte delle accozzaglie elettoralistiche in giacca e cravatta riesca a mietere un successo dopo l’altro nella corsa a far allontanare le persone dai seggi.
Ancora più ”naturali” le reazioni degli intellettualoni clerico-liberali, dediti a sponsorizzare “dissidenti” (par di sentire i due canali RAI dell’epoca dei “martiri della fede” Sinjavskij e Daniel) antiputiniani e gli “oppositori democratici” in esilio volontario, tutti riuniti (cioè: quella mezza dozzina di soci d’affari) nel fantomatico “Mezzogiorno contro Putin”: gli uni e gli altri, cioè sponsor quartapellian-picierniani, e sponsorizzati della “opposizione a Putin”, impettiti a mugolare sulle «elezioni ingiuste e non libere».
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In tempi di AI, ogni contenuto informativo è re
di Carola Frediani
Qualche giorno fa, commentando l’esplosione dell’intelligenza artificiale generativa (in particolare l’arrivo di Sora, il modello text-to-video di OpenAI) e riportando alcune riflessioni di ricercatori e giornalisti che lavorano con internet e le fonti aperte su come affrontare l’ondata di testi, foto, video sintetici, avevo proposto di rovesciare il paradigma. Invece di preoccuparci solo e tanto di tracciare la filiera dell’AI, pensare semmai di tracciare quella delle informazioni autentiche / verificate / contestualizzate.
Costituire una filiera dell’informazione
“Bisogna investire nel verificare e contestualizzare tutto quello che viene immesso in circolo dai media o da chiunque voglia fare informazione”, scrivevo nella newsletter Guerre di Rete. “Ricostruire e mettere a disposizione tutta la filiera non solo dell’AI, ma dei contenuti autentici. Permettere a tutti di risalire la corrente del flusso informativo a ritroso. I lettori come salmoni, esatto. Ogni artefatto informativo per quanto minuscolo non dovrebbe essere una monade slegata dal resto, ma dovrebbe avere una serie di connessioni che permettano di capire da dove arriva, che percorso ha fatto, assieme a chi o cosa altro stava, come è mutato, come è stato tagliato o modificato”.
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Siamo pronti!
di Davide Miccione
Siamo pronti per l’Intelligenza Artificiale. Senza alcun dubbio.
Sì, c’è qualche dibattito, ma è solo per dare la sensazione di non precipitarsi dietro le novità. C’è qualche protesta ma di categorie che non hanno mai contato granché (gli sceneggiatori ad esempio). C’è qualche lamentela ma di potentati in declino come le case editrici o i giornali che fanno leva sul diritto d’autore per riempire un po’ la scodella prima di tramontare definitivamente. La politica, intanto, ha assunto una posa pensosa, chiede proroghe non troppo convinta per capire dove soffia il vento e si domanda se questa roba li rafforzerà o li indebolirà nelle loro simulazioni di potere. Gli accademici-intellettuali fanno mostra di dover riunire qualche comitato etico (se ne trova sempre qualcuno) in modo da piegarsi al progresso (che leggono da decenni come Necessità) però dando l’impressione di averci pensato e che non sia un mero automatismo (come in effetti è).
Ma nell’essenziale siamo pronti. In quello che conta siamo pronti. Basta volerlo vedere. Vedere come sono docili i ragazzi; come cercano griglie, spiegazioni, applicazioni, ricette e fuggono dal pensiero autonomo, dalla cultura, dalla libera ricerca.
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Mosca brucia, abbiamo perso la pace
di fuoricollana
Alla fine della prima guerra mondiale pochi, lungimiranti, inascoltati uomini della parte vittoriosa dissero: “abbiamo vinto la guerra, ma abbiamo perso la pace”. Keynes, tra gli altri, intuì che la “pace cartaginese” imposta alla Germania, profondamente umiliata dalle clausole dei Trattati di Versailles, avrebbe preparato una nuova e immane tragedia per l’umanità.
Nessun “profeta” potrebbe oggi dire altrettanto. Nessuno dei contendenti dell’odierna “guerra mondiale a pezzi” potrebbe dire abbiamo vinto la guerra. Dopo il massacro avvenuto in un teatro di Mosca, quali che siano i responsabili ed esecutori materiali, l’unica cosa chiara è che il destino del mondo è sempre più fuori controllo. Nessuno potrà mai vincere la “prima guerra mondiale del ventunesimo secolo”, anche perché si combatterebbe fatalmente con armi in grado di annientare l’intero pianeta. Stiamo solo perdendo definitivamente la pace.
Solo gli ineffabili capi di Stato e di governo dell’Unione europea sembrano non vedere, fingono di non sapere. Dopo aver messo da parte, da lungo tempo, le autentiche ragioni fondative del processo di integrazione europea, discettano delle magnifiche e progressive sorti per i popoli europei dell’economia di guerra: «è giunto il momento – scriveva Charles Michel poche ore prima che un teatro di Mosca bruciasse – di un autentico cambiamento di paradigma in relazione alla nostra sicurezza e difesa. Sono decenni che l’Europa non investe a sufficienza nella propria sicurezza e difesa […]. Dobbiamo essere pronti a difenderci e mettere l’economia dell’Ue sul piede di guerra».
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Mosca, un attentato per accelerare l’escalation
di Dante Barontini
Il problema è semplice, la soluzione devastante. L’attentato terroristico di ieri sera a Mosca è trasparente nei mandanti, nelle intenzioni, negli obiettivi. E nessuno, stavolta, può nasconderli sotto la solita coltre di voci e non detti incontrollabili.
Tanto meno sotto il messaggio targato “Isis”, di cui appare ormai non identificabile la “ragione sociale” e il campo d’azione. Un calderone fumoso in cui è possibile pescare “manodopera” da usare per altri scopi ma contro “nemici comuni” (la Russia, in questo caso).
Al momento di scrivere vengono contati almeno 93 morti [saliti intanto a 115] e 140 feriti, ma il fatto che molti spettatori del teatro Crocus City Hall si fossero rifugiati sui tetti lascia purtroppo immaginare che le vittime finali possano essere molte di più.
Quattro o cinque uomini in mimetica hanno assalto una sala concerti al centro di Mosca, senza neanche nascondere il proprio volto. Tecnicamente – come si dice in Sicilia – sono “carne morta”, o kamikaze in giapponese; insomma, attentatori suicidi per cui non è stata prevista nessuna via di fuga.
Il che significa anche che sapremo presto, a distanza di ore o giorni, l’identità dei killer: e dunque dei mandanti.
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Gaza: Israele usa l’arma della fame per completare il genocidio
Il piano di aiuti alimentari dal mare è solo un diversivo
Riprendiamo e traduciamo dal magazine +972 un articolo di Samer Badawi che mette in luce come il piano statunitense di aiuti alimentari via mare non sia altro che un’arma di distrazione di massa, nei fatti una vera e propria copertura della decisione dello stato sionista di usare l’arma della fame per ampliare al massimo la portata dell’operazione genocida in corso a Gaza. Infatti, se davvero si volesse impedire l’affamamento della popolazione di Gaza, bisognerebbe imporre l’immediato cessate il fuoco, la totale ritirata dell’esercito di occupazione e l’altrettanto immediata apertura di tutti i valichi di accesso al territorio di Gaza dal Nord e dal Sud. Ma le democrazie “umanitarie” impegnate (si fa per dire) negli “aiuti alimentari” via cielo e via mare, non muovono un solo dito in questo senso, totalmente complici della politica dello stato sionista. Che, peraltro, non è successiva al 7 ottobre, dal momento che l'”insicurezza alimentare” della popolazione di Gaza data da quasi due decenni, dal momento in cui è iniziato “l’assedio più lungo della storia” deliberato con lo scopo di punire la popolazione di Gaza per aver votato maggioritariamente per Hamas nelle prime elezioni democratiche della loro storia (e non per al-Fatah, come ordinato dalle potenze occidentali).
Dopo il 7 ottobre tale politica di assassinio di massa ha conosciuto un salto di quantità e di qualità, ed in questo articolo (e in altri) se ne forniscono alcuni “dettagli”. Uno dei principali è la criminalizzazione e la distruzione sistematica delle strutture dell’UNRWA con l’uccisione del suo personale – l’agenzia dell’ONU finora incaricata degli aiuti alimentari alle popolazioni palestinesi di Gaza e del vicino Oriente, a cui anche l’infame governo Meloni ha deciso di tagliare i fondi.
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Alla ricerca di Federico Caffè
di Pierfranco Pellizzetti
"Dove la luce" (La Nave di Teseo, 2024) di Carmen Pellegrino è un intreccio, a tratti autobiografico a tratti di fantasia, caratterizzato dalla delusione esistenziale a ridosso di due epoche: quella dei "trenta gloriosi", del welfare state e dei diritti sul lavoro, e quella degrado dello Stato sociale dato dal neoliberismo. L’autrice elabora un dialogo ipotetico con un anziano Federico Caffè, apostolo del pensiero keynesiano in Italia, sulle promesse mancate della crescita economica degli anni d’oro del capitalismo e sull’amarezza della decrescita causata da uno Stato sconfitto dalle forze predatorie del mercato.
«La disperazione è una forma superiore di critica.
Da oggi noi la chiameremo: felicità»
Leo Ferré
«Solitaire, solidaire».
Albert Camus
Una civiltà possibile, ormai cancellata
Più che un romanzo – quello di Carmen Pellegrino – è un crocevia, dove si incontrano e intrecciano biografie e autobiografia. In qualche misura creazioni letterarie? Invenzioni – come si premura di suggerire l’autrice al termine della sua narrazione?
Di certo non è un personaggio di fantasia Federico Caffè, il celebre economista che percepisce come una ferita la sua crescente inattualità, mentre non solo l’Italia ma l’intero Occidente – come si diceva – “industrialmente avanzato” prende tutt’altra direzione rispetto agli assetti democratici e inclusivi del secondo dopoguerra. Gli anni che i francesi definirono Les Trente Glorieux e lo storico inglese Eric Hobsbawm “l’Età dell’oro”. Il periodo in cui l’ortodossia in materia di governance politico-economica trovava il proprio riferimento intellettuale primario nella lezione profetica di John Maynard Keynes; i destinatari del cui messaggio erano le moltitudini degli ‘ultimi’, quelli che bussavano a porte che potevano schiudergli l’accesso a migliori condizioni di vita.
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Dall'Ucraina a Gaza: la crisi definitiva dell'imperialismo USA
di Alfred McCoy - TomDispatch
Gli imperi non crollano semplicemente come alberi abbattuti. Invece, si indeboliscono lentamente man mano che una serie di crisi ne prosciuga la forza e la fiducia, fino a quando non iniziano improvvisamente a disintegrarsi. È stato così per gli imperi britannico, francese e sovietico; così è ora per l'America imperiale.
La Gran Bretagna affrontò gravi crisi coloniali in India, Iran e Palestina prima di precipitare a capofitto nel Canale di Suez e nel collasso imperiale del 1956. Negli ultimi anni della Guerra Fredda, l'Unione Sovietica affrontò le sue sfide in Cecoslovacchia, Egitto ed Etiopia prima di schiantarsi contro un muro invalicabile nella guerra in Afghanistan.
Il giro di vittoria dell'America post-Guerra Fredda ha subito la sua crisi all'inizio di questo secolo con le disastrose invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq. Ora, all'orizzonte della storia si profilano altre tre crisi imperiali a Gaza, Taiwan e Ucraina, che potrebbero trasformare cumulativamente una lenta recessione imperiale in un declino troppo rapido, se non in un collasso.
Per cominciare, mettiamo in prospettiva l'idea stessa di crisi imperiale. La storia di ogni impero, antico o moderno, ha sempre comportato una successione di crisi - di solito superate con abilità nei primi anni dell'impero, per poi essere gestite in modo sempre più disastroso nell'era del declino. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando gli Stati Uniti divennero l'impero più potente della storia, i leader di Washington gestirono con abilità crisi del genere in Grecia, Berlino, Italia e Francia, e in modo meno abile ma non disastroso nella guerra di Corea che non finì mai ufficialmente.
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Bavaglio social, perché nessuno muove un dito? (e cosa si potrebbe fare, invece)
di Laurent Ferrante
È passato oltre un mese dal comunicato di Meta che annuncia la messa al bando dei contenuti politici dalle sue piattaforme ma nessuno sembra intenzionato a fare nulla. Eppure, l’impatto sulla distribuzione e la circolazione delle informazioni sarà gigantesco.
Se per gli utenti è certamente complicato organizzare un’azione di difesa coordinata per tutelare la propria libertà di parola dagli abusi delle big tech, lo stesso non può dirsi dei grandi attori dell’informazione e della politica, che dispongono di strutture e risorse economiche più che sufficienti ad avviare una qualche iniziativa. Se non per un astratto senso di giustizia universale, quantomeno per tutelare i propri interessi. E invece nulla. Una manciata di articoli di cronaca e poco più. Non una diffida, non un comunicato di categoria, non un’interrogazione parlamentare.
Viene il dubbio che questi attori non abbiano ben compreso la sorte che Meta ha riservato loro. Ma soprattutto, fatto sconcertante, viene il dubbio che giornali e politici – pur avendone scritto, i primi, e pur avendone votato il testo, i secondi – non abbiano studiato il https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32022R2065" target="_blank" rel="noopener">Digital Services Act (DSA), approvato ormai due anni fa dall’Unione Europea.
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Mattarella, gli studenti e l’inganno del ‘doppio legame’
di Vincenzo Morvillo
Stando a quanto affermano Mattarella e la sinistra, liberal o radical poco importa – leggere in proposito le parole di Nicola Fratoianni è istruttivo, mentre Acerbo e Santoro tacciono furbescamente – i ragazzi che hanno contestato alla Federico II di Napoli l’intervento di Maurizio Molinari, direttore con l’elmetto del quotidiano Repubblichino (schierato con le più ignobili ragioni della guerra in Ucraina e con le feroci logiche del genocidio in atto sulla Striscia di Gaza) quei ragazzi sarebbero “intolleranti e violenti”.
Perché la libertà di espressione non si conculca!
Perfetto. Siamo d’accordo.
Ora però ci sorge un dubbio. Qualche giorno fa quegli stessi “autorevoli” esponenti istituzionali si erano indignati per le manganellate della polizia contro i ragazzi di una scuola di Pisa, che protestavano liberamente per la stessa ragione: il genocidio in atto in Palestina, “dal fiume al mare”.
Il Presidente e la sinistra allo spritz parlarono, anche in quell’occasione, di violenza repressiva, di fallimento e di necessità di garantire la libera circolazione delle idee.
Mi domando dunque quale sia il perimetro concettuale entro il quale quel libero esercizio di espressione venga garantito.
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Clima, una risposta pubblica, varie ed eventuali
di Il Chimico Scettico
Magari quelcuno riconosce l'immagine, già comparsa qua sopra. Quel post ha provocato un commento pubblico di Ugo Bardi. Dopo diversi giorni, ho pensato che forse una mia risposta pubblica sarebbe stata opportuna.
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La clinica dopo Basaglia
di Pietro Barbetta
L’istituzione negata è un libro del 1968, anno che ognuno ricorda come svolta nel panorama del secondo dopoguerra; il libro esce di nuovo oggi, per la collana La nave di Teseo, di Baldini+Castoldi, a cinquantasei anni di distanza dalla prima e a cent’anni dalla nascita di Franco Basaglia, che lo ha curato e che è, nel mondo, il protagonista di un cambiamento epocale. Dopo Basaglia, la clinica nel campo della mente non è più la stessa.
Basaglia non è stato un medico qualunque, era politicamente schierato, aveva un’enorme sensibilità umana e una grande preparazione filosofica. Tra i suoi autori ci sono Edmund Husserl, Max Scheler, Maurice Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre. Franca Ongaro, che lo aveva sposato nel 1953, non ne era solo la moglie, era una scrittrice, aveva una formazione politica, è stata Senatrice della Repubblica e ha scritto – con Basaglia e da sé – opere di grande valore. Ricordo di lei un bellissimo saggio – in un numero di Panorama mese del 1983 – su come la psicoanalisi in Messico avesse convertito un gruppo di padri benedettini in psicoanalisti: “Così parlò Edipo a Cuernavaca”.
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Cattivi maestri e maestri del dove tira il vento
Considerazioni inattuali per un caso attuale (di cui non parlo)*
di Gaspare Nevola
C’è un abisso tra un amante deluso e chi è incapace di amare
(Koestler)
S’alza il sipario
Prof.ssa Tizia: Le sue parole mi suscitano sconcerto…
Prof. Caio: Mi scusi, ma è mio mestiere e dovere è cercare di capire le cose e offrire spiegazioni, come lei ben sa. Mi sconcerta il suo sconcerto, cara collega…
(Frammento di un confronto mancato. L’ennesimo nel discorso pubblico dei nostri tempi. Ah… Ma su cosa? La risposta al lettore, o nel vento…).
1. Del mito, o delle “grandi narrazioni”
Per una collettività e la sua cultura politica, il mito (mythos) è una “narrazione”: classicamente, una “grande narrazione”[1] che esprime una “visione del mondo” (nel senso weberiano), o anche un’”ideologia” (nel senso di Karl Mannheim, più che di Marx). Il mito è uno strumento culturale, cognitivo e valoriale che opera per conferire, come è antropologicamente necessario, un “senso” al mondo, alla vita collettiva di una comunità e dei suoi membri. Il mito non è solo “racconto” ma anche “costruzione del racconto” o dei racconti, “processo del raccontare”: vale a dire, un meccanismo antropologico-culturale che forgia narrazioni, e per loro tramite delinea significati, identità e valori collettivi. Il mito, insomma, è anche mytho-moteur[2], intrinsecamente mitopoietico. In quanto tale, il mito produce “sue verità”, verità che sfuggono al paradigma “vero/falso”[3]. Il mito, inoltre, attinge al passato, “attualizza” il passato, lo porta nel presente e orienta il futuro, indicando direzioni per l’azione umana collettiva[4].
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Il caso del caso Moro. Parte 3: La trattativa
di Davide Carrozza
Sulla scia dei miei due articoli precedenti (qui e qui) sul “caso del caso Moro”, ripresi da Sinistra in Rete e Minuti di Storia, volevo tornare su un argomento poco dibattuto e appena sfiorato dagli stessi: Moro, poteva essere salvato? Quanto siamo stati vicini alla sua liberazione? Dal momento che tutti i commenti agli stessi articoli (non gli articoli stessi) lascerebbero intravedere una mia presa di posizione lapidaria sui misteri della vicenda Moro, chiarisco che essere anti complottista non significa di per sè credere che sul rapimento, prigionia e omicidio dell’On. Moro sia tutto un libro aperto e niente debba essere più risolto.
Se c’è un aspetto infatti poco dibattuto sia dalla storiografia, che dalle commissioni parlamentari, che dai numerosi procedimenti giudiziari riguarda quella trattativa sotto traccia, che attraverso numerosi canali riuscì a mettere in comunicazione neppure tanto indiretta, ma segretissima, le Brigate rosse e lo stato durante i 55 giorni. Anziché elucubrare su quello che fu e sarebbe potuto essere proverò a ricostruire quella trattativa con una cronistoria il più possibile precisa, proverò quindi a dipanare gli eventi senza aggiungere commenti od opinioni di parte per provare a rispondere a domande che, a 47 anni di distanza, a mio avviso hanno ancora tutto il senso del mondo: C’è mai stata la speranza di salvare Moro in quei giorni maledetti? Se si, quanto concreta? Quanto siamo stati vicini alla sua liberazione? Chi avremmo dovuto ringraziare? Domande metafisiche da sliding doors potrebbero sorgere: cosa sarebbe accaduto poi alla storia del nostro paese? Avrebbe preso un altro corso? Proviamo a riordinare le idee e a ricostruire tutto a bocce ferme, per poi tirare le somme alla fine.
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Giulia Bertotto: Terza Guerra Mondiale? Attenzione al fattore “disperazione”
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Carlo Rovelli: Dissenso, élites e "anelare alla dittatura"
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Adam Entous e Michael Schwirtz: Come la Cia ha preso possesso dell'Ucraina golpista
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Enrico Cattaruzza: Il male nel giardino di Höss. “Zona di interesse” di Jonathan Glazer
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Emmanuel Todd: «Stiamo assistendo alla caduta finale dell'Occidente»
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