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Ucraina: la discarica dei residuati bellici d'Occidente
di Piccole Note
Come "buttare" equipaggiamenti obsoleti e costringere le nazioni europee a spendere - per lo più negli Usa - per acquistarne di nuovi. Il tutto sulla pelle dell'Ucraina
“Uno dei miti più ricorrenti nella stampa occidentale e [nei discorsi dei] leader della NATO è che l’equipaggiamento che stanno inviando all’Ucraina li aiuterà a proseguire la guerra contro la Russia. In realtà, la maggior parte delle attrezzature fornite all’Ucraina sono poco più che spazzatura”. Così Brandon Weichert sul National Interest.
L’analisi di Weichert è impietosa, a iniziare dai carri armati di fattura sovietica forniti all’inizio delle ostilità dai Paesi dell’Est, sui quali i russi hanno imperversato facilmente.
I carri armati Nato
Quindi, veniamo ai cosiddetti carri armati francesi, in realtà veicoli blindati dalla corazzatura leggera. Così Weichert : “L’AMC-10RC. L’AMC-10RC sono una rimanenza dei primi anni ’80. L’ultimo importante aggiornamento di questo carro è stato fatto nel 2000.
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I BRICS spingono per la de-dollarizzazione
di Fabrizio Verde
Nel passato mese di agosto il Presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che il processo di de-dollarizzazione dei legami economici tra i Paesi BRICS è irreversibile.
“Il processo oggettivo e irreversibile di de-dollarizzazione dei nostri legami economici sta acquistando slancio, si stanno compiendo sforzi per elaborare meccanismi efficaci di regolamento reciproco e di controllo valutario e finanziario”, queste le parole pronunciate dal leader russo in occasione di un forum economico in Russia tenutosi alla vigilia del vertice BRICS in Sudafrica che avrebbe poi sancito l’allargamento del blocco all’attuale formato BRICS+ con l’ingresso di Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
Quindi i paesi BRICS si stanno posizionando strategicamente per un nuovo sistema economico internazionale in cui mirano a diventare completamente autonomi rispetto agli Stati Uniti. L’accumulo di oro da parte dei paesi BRICS, la diminuzione della quota di dollari statunitensi detenuta dalle banche centrali e i progetti per creare un’alternativa al sistema di pagamento Swift, indicano i preparativi per un cambiamento nelle dinamiche del potere economico globale.
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É ora di rompere i “vincoli esterni”
di Redazione Contropiano
I primi scricchioli si vedono già. Ma è davvero inutile aspettarsi che il prevedibile aumento della conflittualità all’interno del governo possa produrre un qualsiasi “cambiamento” degno di nota.
Al massimo, come in tutte le legislature precedenti, potrebbe avvenire un rimescolamento che lascia le cose come stanno; una diversa maggioranza, insomma, ma non una diversa stagione politica.
Come sempre, un cambiamento reale richiede che si faccia avanti e si affermi un soggetto diverso, una presenza di massa – nelle piazze, nei luoghi di lavoro e di studio e di vita – in grado di mettere in discussione la “narrazione” dominante e riattivare un corpo sociale da troppo tempo sotto anestetici.
Il governo Meloni – come i precedenti – è un governo di crisi, guerra e declino. Una rovina per le classi popolari e per le prospettive stesse del Paese.
Questo governo rivendica per esempio di aver “aumentato l’occupazione”, ma se questo non si traduce in crescita della ricchezza prodotta e dei consumi di massa – sostanzialmente fermi al palo – significa che si tratta di “lavoretti”, in settori ad alta intensità di manodopera, con bassi salari e senza garanzie.
Si tratta insomma di crescita del lavoro povero, servile, di pura sopravvivenza. Spesso anche sotto questo livello.
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Stellantis, l’auto elettrica e i cinesi
di Vincenzo Comito
Il governo vorrebbe che l’Italia tornasse a produrre un milione di veicoli e apre all’ingresso di partner cinesi, che finora ha ostacolato. Un’operazione difficile, considerando gli investimenti già annunciati di Byd in Ungheria, la scarsa appetibilità del mercato elettrico italiano, la nebulosa dei piani di Stellantis
Il settore dell’auto, data la sua persistente importanza per la gran parte delle economie del nostro continente e considerando le grandi trasformazioni in atto, si è negli ultimi tempi conquistato un posto importante nella cronaca economica dell’Unione Europea e anche del nostro paese, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Cina, per la questione dell’auto elettrica e per le difficoltà dell’Italia sul tema; tali questioni sono tra di loro interconnesse.
Alcuni dati di base
Può essere utile ricordare preliminarmente alcuni dati di base relativi al settore.
Quella dell’auto è una delle tante attività economiche nelle quali il primato produttivo, tecnologico e di mercato si è andato spostando sempre più verso l’Asia e verso la Cina in particolare. Così nel 2023, rispetto a una produzione totale di veicoli a livello mondiale pari a circa 82 milioni di unità, in Asia ne sono uscite dalle fabbriche per un volume vicino al 60% del totale e nella sola Cina si è superato un terzo del totale. Anche per quanto riguarda le esportazioni, nel 2023 la Cina si è collocata al primo posto nel mondo, con 5.1 milioni di unità vendute all’estero, seguita peraltro nella classifica da un altro paese asiatico: il Giappone.
Ancora più rilevante il predominio cinese nel comparto delle vetture elettriche. Su una produzione totale di circa 9,5 milioni di unità nel 2023, con un aumento del 33% sull’anno precedente, la quota della Cina si è collocata vicino al 60%.
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Gli Stati Uniti non riescono a gestire Israele
di Alastair Crooke - Strategic Culture
Alon Pinkas, ex diplomatico israeliano di alto livello, ben collegato a Washington, ci dice che una Casa Bianca frustrata ne ha finalmente "abbastanza". La rottura con Netanyahu è completa: Il Primo Ministro non si comporta come dovrebbe fare "un alleato degli Stati Uniti"; critica aspramente le politiche mediorientali di Biden, e ora gli Stati Uniti hanno capito questo fatto.
Biden non può permettersi che un ulteriore effetto-Israele metta a rischio la sua campagna elettorale e quindi - come chiarisce il suo discorso sullo Stato dell'Unione - raddoppierà i quadri politici mal interpretati sia per Israele che per l'Ucraina.
Cosa intende fare Biden in merito all'atto di sfida di Netanyahu contro il "Santo Graal" delle raccomandazioni politiche statunitensi? Beh, ha invitato a Washington Benny Gantz, un membro del gabinetto di guerra israeliano, e lo ha avvolto in un'agenda "riservata a un primo ministro, o a qualcuno che si pensa possa o debba diventare premier". A quanto pare, i funzionari hanno pensato che, avviando una visita al di fuori dei consueti protocolli diplomatici, avrebbero potuto "scatenare una dinamica che potrebbe portare a un'elezione in Israele", osserva Pinkas, con il risultato di una leadership più favorevole alle idee statunitensi.
È stato chiaramente inteso come un primo passo verso un cambio di regime "soft power".
E il motivo principale della dichiarazione di guerra a Netanyahu? Gaza. A quanto pare, Biden non ha apprezzato l'affronto ricevuto alle primarie del Michigan, quando il voto di protesta per Gaza ha superato i 100.000 "voti non impegnati". I sondaggi - soprattutto tra i giovani - stanno lanciando segnali di allarme per novembre (in gran parte a causa di Gaza). I leader nazionali democratici cominciano a preoccuparsi.
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La fine del mondo
di Marco Calamari
Virtuale
Sarà un bug informatico usato come arma a provocare la fine del mondo? Per adesso sappiamo che poteva succedere nel mondo virtuale, e che stavolta è andata bene. Ma domani?
CVE-2024–22252–3–4–5.
Quando scritto qui sopra da Cassandra è incomprensibile al 99,9% delle persone normali, e probabilmente anche ai suoi 24 intelligentissimi lettori.
Tradotto in italiano, con una buona traduzione, di quelle che spiegano il significato più profondo, suonerebbe così:
“Abbiamo evitato che qualcuno potesse provocare la fine del mondo delle macchine virtuali”.
Ma ancora per molti non sarà chiaro, o almeno non ne sarà chiara l’importanza. Riproviamo.
“La maggior parte dei server al mondo potevano essere bloccati o distrutti da un singolo atto di guerra informatica, ma questa volta ce ne siamo accorti e l’abbiamo impedito”.
Chiaro, no? E veniamo al fatto.
CVE-2024–22252–3–4–5 è il nome assegnato ad una serie di falle informatiche che consentono di penetrare l’ipervisore dei sistemi VMware ESX, permettendo di accedere al server fisico sottostante, e di fare qualsiasi cosa, incluso bloccare o “distruggere” il server fisico, e con esso tutte le macchine virtuali che vi girano sopra.
Non molti sanno che la maggior parte dei server che costituiscono il tessuto della Rete odierna non sono “ferro”, macchine fisiche, ma “macchine virtuali” che funzionano tutte insieme su un unico server specializzato. Diciamo tipicamente 10–100 macchine che condividono un unico computer.
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Cosa si nasconde dietro la pazzia (calcolata) di Macron
di Giuseppe Masala
Ieri è stato il grande giorno delle comunicazioni al popolo francese di Emmanuel Macron sulla crisi ucraina. Non si è trattato del solito importante discorso dai toni retorici e roboanti tipici degli eventi bellici, ma di una più “confidenziale” intervista condotta da due giornalisti, ovviamente nel rispetto della parità di genere. Lo sottolineo perché purtroppo nell'occidente dell'ipocrisia farisaica woke gli elementi formalistici legati alla inclusività sono più importanti – evidentemente - della sostanza del rischio di far scoppiare una guerra termonucleare sul suolo europeo.
Venendo alla sostanza delle dichiarazioni di Macron, non mi pare azzardato definirle storiche. Molti commentatori, sfortunatamente, stanno già sminuendo quanto è stato dichiarato, provando ad ascrivere il discorso di Macron al campo dei bluff. No, signori, mi permetto di dire che Macron non sta bluffando, ma fa un discorso serio e razionale (sebbene non esplicitato in tutte le sue parti). Cosa questa che ha capito benissimo Tajani, il nostro ministro degli Esteri che non ha atteso neppure la fine dell'intervista per tuonare da Roma l'indisponibilità italiana a inviare truppe in Ucraina e dunque, di fatto, a entrare in guerra con la Russia.
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"Slava Ukraini". Deturpato l'omaggio a Luana d'Orazio: perché Jorit fa così paura?
di Agata Iacono
Perché fa così paura Jorit? Perché questa campagna di odio e persecuzione nei confronti dell'artista napoletano?
A Roma è stata vandalizzata la sua gigantografia dedicata a Luana D'Orazio, la ragazza di 22 anni morta sul lavoro, anzi di lavoro, a Prato, per l'assenza di elementari norme di protezione. Un ennesimo omicidio sul lavoro che sintetizza il dramma dei morti di lavoro in Italia: pochi giorni fa, ad esempio, a Terlizzi è precipitato nel vano ascensore un capocantiere di 79 anni. Sono stati 585.356 gli infortuni sul lavoro nel 2023 (dati Inail), 1.041 dei quali con esito mortale. Nel solo 2024 sono già più di 145 i morti di lavoro.
Come riporta VoxKomm, il ritratto gigantesco di Luana fatto da Jorit è stato deturpato e hanno anche scritto sul suo corpo "Slava Ucraini". Pochi giorni fa un altro murales era stato danneggiato a Ischia e avevano lasciato sul posto una bandiera dell'Ucraina.
Ma perché, ripetiamo, Jorit fa così paura? Molte risposte le trovate in questa bellissima intervista di Clara Statello pubblicata da l'AntiDiplomatico.
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La scelta occidentale della guerra contro la Russia
di Fabrizio Poggi
Stanno preparando la guerra e stanno approntando le condizioni interne per portarci in guerra. Ormai non è più, purtroppo, un modo di dire e lo dimostrano sia le sparate esterne su “aggressione russa”, “guerra nucleare russa”, “necessità di armare l’Ucraina per difendere il mondo libero dalla Russia”, sia le crociate democristian-fasciste per “serrare il fronte interno” contro le “interferenze russe”, e l’ostracismo contro chi venga accusato di essere «al servizio del Cremlino e della sua propaganda».
Dunque, all’esterno. Dopo lo “scandalo” dell’audio dei militari tedeschi a proposito dei missili “Taurus” contro il ponte di Crimea, la ministra della guerra tedesca, Annalena Baerbock non trova di meglio che sostenere la proposta del suo omologo britannico, David Cameron sulla “partita di giro” che dovrebbe salvare la faccia a Berlino: i tedeschi vendono i “Taurus” a Londra e questa fornisce a Kiev i “Storm Shadow”. Et voila.
Questo per le armi. Per quanto riguarda i veri e propri contingenti militari da inviare direttamente sul suolo ucraino, da un lato qualcuno sussurra, ma molto piano, che sia impossibile, altri non ci vedono nulla di «inimmaginabile» (ministro degli esteri polacco, Rodislaw Sikorski: il malefico consorte della famigerata Anna Applebaum), altri ancora affermano che una guerra con la Russia farebbe bene alle finanze interne (non specificando “di chi”).
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Esplode la bomba del debito USA e del debito mondiale
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi
Le vicende finanziarie dovrebbero essere valutate per quello che sottendono, a volte situazioni negative. Attualmente sono gli Usa che preoccupano perché dal giugno 2023 ogni cento giorni il debito pubblico aumenta di ben mille miliardi di dollari. I dati sono eloquenti. Anzitutto va rimarcato che in dieci anni, dal 2014 a oggi, il debito americano è raddoppiato, passando da 17.000 miliardi all’attuale cifra di 34.500 miliardi. Molti ritengono che il modello “mille miliardi ogni 100 giorni” continuerà in futuro.
Il Congressional Budget Office, l’organismo indipendente che produce analisi economiche per il Congresso, stima che il deficit di bilancio annuale passerà da 1.600 miliardi di quest’anno a 2.600 miliardi del 2034. In altre parole, nel prossimo decennio gli Stati Uniti aggiungeranno quasi 19.000 miliardi di dollari all’attuale debito pubblico fino a un totale di 54.000 miliardi.
Nello stesso decennio soltanto per gli interessi gli Usa spenderanno più di 12.400 miliardi. Perciò si stima che la quota per il pagamento degli interessi sul debito potrebbe superare le altre voci di bilancio, comprese le spese per la difesa. Si tenga presente che le proiezioni sono fatte stimando che il tasso d’interesse dovrebbe scendere sotto il 3% dall’attuale 5,5%.
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Il guaio con la scienza
di Paolo Di Marco
1-La presbiopia dei sondaggisti
Iniziamo dal livello forse più basso dell’indagine scientifica, il sondaggio politico;
scoprendo però che anche qui valgono le regole base della logica su cui si fondano i pilastri della scienza, Matematica e Fisica, e chi non le rispetta lo fa a suo rischio e pericolo.
‘Quando gli viene chiesto da cosa è guidata l’economia molti americani hanno una sola e semplice risposta che viene loro in mente immediatamente: ‘L’avidità’. (greed) Ritengono che i ricchi e potenti abbiano progettato l’economia in modo da beneficiare loro lasciando agli altri troppo poco o niente del tutto.’
Katherine J. Cramer and Jonathan D. Cohen, Many Americans Believe the Economy Is Rigged, NYTimes, Feb. 21, 2024
Sappiamo che gli americani pensano questo perché gliel’abbiamo chiesto. Nel corso degli ultimi due anni un nostro (AAAS) gruppo ha condotto più di 30 conversazioni con piccoli gruppi di americani da ogni angolo del paese.
Mentre gli indicatori nazionali possono suggerire che l’economia è forte, gli americani con cui abbiamo parlato non sono in buone condizioni; non pensano che l’economia li sostenti. Piuttosto tendono a vederla come un ostacolo, un insieme di forze esterne fuori dal loro controllo che tuttavia controllano le loro vite. ‘Mi sento come un perdente che non riesce ad andare avanti, e dipende tutto da avidità e profitto’.’
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Postdemocrazia o de-democratizzazione?
Alcune riflessioni tra storia e politica sul dibattito contemporaneo
di Elia Zaru -This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. Università di Bologna
Abstract. Il saggio ricostruisce e analizza alcuni snodi del dibattito contemporaneo sulla crisi della democrazia, alla luce delle idee di «postdemocrazia» e «de-democratizzazione» e del legame tra crisi della democrazia e neoliberalismo rispetto al rapporto tra politica, democrazia, uguaglianza e azione collettiva. Il primo paragrafo è dedicato al lemma «postdemocrazia» e ne rintraccia le radici storico-teoriche nella «semantica del post». Il secondo paragrafo mostra il modo in cui in ottica neoliberale la crisi della democrazia non rappresenti un problema (come inteso dalla «postdemocrazia»), ma una soluzione a un problema rappresentato dall’eccesso di democratizzazione della società. A questo scopo, si traccia un collegamento tra le considerazioni espresse nel Report della Commissione Trilaterale (1975) e le proposte epistocratiche più recenti. Infine, dopo una breve analisi delle critiche all’epistocrazia, esposte nel terzo paragrafo, il quarto delinea alcune conclusioni che riallacciano il discorso della crisi della democrazia alla questione dell’uguaglianza e dell’azione collettiva.
* * * *
1. Crisi della democrazia e semantica del «post»
Che esista, nelle società occidentali, una «crisi della democrazia» è acclarato. Il primo e più immediato indicatore di tale crisi consiste nel calo costante della partecipazione elettorale1, a cui si affiancano altri fenomeni come, per esempio, lo sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo a scapito dei Parlamenti, o quella che in ambito giuridico è stata definita «decostituzionalizzazione»2. Sul piano materiale si assiste da alcuni decenni al progressivo smantellamento dei diritti sociali acquisiti nel contesto del welfare state, un processo che ha determinato «la drastica compressione della libertà e dell’uguaglianza dei lavoratori, e degli spazi di partecipazione reale dei cittadini»3.
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Gli ultimi rantoli del fascismo ebraico
di Thierry Meyssan
Chiunque in buona fede si rende conto che l’uccisione di 30 mila innocenti non può essere il prezzo per eliminare Hamas.
Per cui l’operazione Spade di Ferro si rivela per quello che è: una copertura per realizzare il vecchio sogno dei fascisti ebrei, da Jabotinsky a Netanyahu: espellere la popolazione araba dalla Palestina. Questo crimine di massa, commesso per la prima volta in diretta tivù, sconvolge lo scacchiere politico mondiale. Sentendosi minacciati, i suprematisti ebrei minacciano a loro volta gli Stati Uniti. E questi, intenzionati a rimanere i padroni del «mondo libero», si preparano a far cadere i suprematisti ebrei.
* * * *
L’amministrazione Biden assiste paralizzata alla reazione di Israele all’attacco della Resistenza palestinese – comprensiva di Hamas – denominata Diluvio di Al Aqsa (7 ottobre). L’operazione Spade di Ferro inizia con il bombardamento a tappeto della città di Gaza, d’intensità mai vista nel mondo e nella storia, nemmeno durante le due guerre mondiali. Il 27 ottobre, ai bombardamenti, si aggiungono l’intervento di terra, i saccheggi e le torture di migliaia di civili di Gaza. In cinque mesi i civili uccisi o scomparsi sono 37.534, di cui 13.430 bambini e 8.900 donne, 364 tra medici e personale sanitario, e 132 giornalisti [1].
Inizialmente Washington reagisce sostenendo senza esitazioni «il diritto di Israele a difendersi», minacciando di opporre il veto a ogni richiesta di cessate-il-fuoco e fornendo le bombe necessarie alla distruzione generalizzata dell’enclave palestinese. Gli Stati Uniti non possono infatti permettersi un’altra sconfitta, dopo quelle di Siria e Ucraina. Ma sui cellulari gli statunitensi assistono in diretta agli orrori compiuti da Israele.
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Mal d'Africa. E suo bene
Un continente conteso verso la seconda liberazione
di Fulvio Grimaldi
“Metapolitica - Il fuoriscena del potere” di Francesco Capo, con Gigi Lista, editore “L’Identitario”, Fulvio Grimaldi, giornalista, Antonio Pellitteri, docente universitario
https://www.youtube.com/live/CsioUXSqPq4?si=BvIMKs2J6ZeGjHY_
Il mio contributo a questa trasmissione di Francesco Capo riguarda la situazione geopolitica di Africa e dintorni, con i suoi primattori, i suoi figuranti, i suoi complici. Il dato certo è che l’Africa è una volta di più il continente giovane e nuovo, in attesa che riprenda e completi il suo percorso di liberazione, tra andate e ritorni, anche l’America Latina da Haiti in giù.
I punti cruciali sono noti: Il Sahel glorioso che si è liberato dalla manomorta colonialista e predatrice francese basata sul pericolo jihadista dallo stesso Occidente creato, allevato, impiegato qua e là. La Libia che, dopo averla rasa al suolo e privata di benessere e felicità, ne hanno provocato lo squartamento tra un regimetto banditesco fantoccio caro a ONU, Occidente e Roma, e un governo regolare che ne controlla tre quarti e viene sabotato dalla NATO.
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La coalizione dei "volenterosi" e la variabile (impazzita) polacca
di Giuseppe Masala
Ormai da anni andiamo spiegando che, purtroppo, non vi è alcuna possibilità che il conflitto nell'est europeo si concluda con l'eventuale capitolazione del regime di Kiev. Questo può essere affermato con ragionevole certezza in considerazione di innumerevoli ragioni. Innanzitutto i motivi di fondo che hanno fatto deflagrare il conflitto – sarebbe forse più corretto dire, che hanno spinto Washington a farlo deflagrare – sono ancora tutte irrisolte. Mi riferisco, chiaramente, al profondo squilibrio commerciale tra l'Europa e gli USA che vedono questi ultimi soccombere nei mercati mondiali di fronte alla ipercompetitività europea. Il profondo rosso dei conti con l'estero di Washington che sta portando – lentamente ma inesorabilmente – all'abbandono del dollaro da parte di molti investitori internazionali, a partire da quelli appartenenti ai BRICS (mi riferisco in particolare a Cina, Russia, Arabia Saudita ed EAU).
Non basta. Tra i nodi che inesorabilmente verrebbero al pettine con la capitolazione di Kiev vi sarebbe la giustificazione dei costi devastanti delle suicide sanzioni imposte dall'Europa alla Russia. L'impossibilità di giustificare questi costi da parte delle élites europee di fronte alle proprie opinioni pubbliche spinge inesorabilmente verso la continuazione del conflitto per allontanare il più possibile il redde rationem.
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I “false flag" del colonialismo europeo
di comidad
La locuzione “ha stato Putin” è diventata popolare, addirittura proverbiale, e indica il vezzo occidentalista di ritrovarsi un colpevole già pronto per l’uso, in modo da coprire le proprie responsabilità. Sarà difficile però spiegare la quasi unanime adesione del parlamento italiano alla missione navale “Aspides” nel Mar Rosso con un “ha stato Biden”, cioè nascondendosi dietro la consueta denuncia della servile fedeltà italica all’alleato americano. Una linea politica può non essere nelle condizioni di prevalere, ma deve comunque reggere sul piano comunicativo, cioè non smentirsi da sola. Se dico che sono contro ogni imperialismo compreso il nostro, e quindi anche contro le velleità dei nostri oligarchi di ritagliarsi uno spazio sub-imperialista all’ombra della potenza dominante, allora c’è un senso. Se invece faccio appello all’interesse nazionale, mi riferisco a un’astrazione fumosa che viene screditata dal fatto stesso che gli oligarchi di un paese ritengono di avere altri interessi da seguire.
Se la critica non ha una logica, poi te la dovrai rimangiare nella pratica. Nel dicembre scorso Giuseppe Conte aveva accusato il governo Meloni di “turbo-atlantismo” per la decisione di inviare una fregata nel Mar Rosso, e infatti ora i 5 Stelle si allineano al mantra ufficiale della “missione difensiva”.
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Esistono guerre giuste, altroché!
di Miguel Martinez
Io sono contrario a tutte le guerre, ma questo è un difetto mio.
Le guerre a cui io sono contrario si dividono in due tipi: le guerre sbagliate e le guerre giuste.
1940, ascolti alla radio la voce del Duce che annuncia “l’ora delle decisioni irrevocabili è arrivata!”
Poi un figlio lo perdi in Africa, un altro in Russia, gli statunitensi ti bombardano casa e tuo fratello finisce deportato in Germania.
Ecco, era proprio una guerra sbagliata, non ci piove.
Purtroppo da allora in Italia la parola guerra si porta dietro una cattiva nomea spesso immeritata.
Prendiamo invece la guerra statunitense in Afghanistan, 2001-2021.
Che è stata una guerra giusta, e vi spiego il perché.
La guerra sarebbe “costata” quattro trilioni di dollari, che è un po’ più del PIL della Germania. E sarebbe pure una guerra “persa”, nel senso che oggi il paese è governato dagli eredi di quelli che l’esercito USA cercò di cacciare nel 2001.
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Keynes “sovranista”: contro l’internazionalizzazione della finanza e per l’autosufficienza nazionale
di Enrico Grazzini
Pochi amano ricordare un fatto indiscutibile: John Maynard Keynes, il più grande economista del secolo scorso, era assolutamente contrario alla libera circolazione dei capitali e al dominio della finanza sull’economia, ed era anche decisamente a favore del “nazionalismo economico”, ovvero dell’autosufficienza delle nazioni. Il suo pensiero oggi è tornato di grande attualità: infatti tutte le più grandi economie, quella statunitense, quella cinese, quella russa, e buona ultima anche quella europea, puntano all’autosufficienza o, in ultima analisi, alla “non dipendenza”. L’autosufficienza che Keynes invoca nei suoi scritti era però finalizzata alla pace e allo sviluppo; l’autosufficienza che oggi cercano le grandi potenze è invece per prepararsi alla guerra.
In un suo articolo scritto nel 1933 – quando Mussolini e Stalin erano già al potere e Hitler cominciava a diventare capo assoluto della Germania – intitolato “National Self-Sufficiency”, Keynes non ebbe timore di valutare in maniera molto positiva il nazionalismo economico[1]. Scrisse infatti: “Io simpatizzo di più con coloro che vorrebbero ridurre al minimo le relazioni economiche tra le nazioni che non con quelli che le vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare – queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano prodotte in patria ogni qualvolta è ragionevolmente e praticamente possibile, e soprattutto lasciate che la finanza sia prevalentemente nazionale”. Per Keynes moneta, credito e finanza dovevano essere gestite innanzitutto a livello nazionale. Certamente il “nazionalismo economico” di Keynes non ha nulla a che vedere con l’autarchia di marca fascista o sovietica, che Keynes critica nel suo articolo.
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Libere di vendere il proprio corpo a pezzi
di Carlo Formenti
Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in 28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.
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Crisi bancaria americana, profezia o verità?
di Paolo Cleopatra
L’imminente crisi sistemica attuale si spiega ricordando brevemente le ragioni e lo svolgimento della crisi sistemica del 2007, causata dall’assenza di regole prima di tutto nel sistema statunitense.
L’inizio di quella crisi può essere ricondotto alla volontà delle principali istituzioni bancarie americane di spingere ai massimi livelli la concessione di mutui per l’acquisto di case: il sogno americano doveva essere sostenuto, ma soprattutto le spese dei privati dovevano continuare ad alimentare un mercato che dava da tempo segni di cedimento.
Decisione, quindi, politica, ma dalle fortissime implicazioni finanziarie e speculative.
Molte famiglie, rimaste scottate dalla crisi del 2001-2003, quando era scoppiata la bolla di internet, erano alla ricerca di altre forme di investimento e l’acquisto di una casa sembrava perfetto.
L’espansione del mercato immobiliare lasciava intravedere che la casa potesse sempre essere rivenduta a un prezzo maggiore; le agenzie immobiliari pensavano anche di poter incassare un numero crescente di intermediazioni.
Si è quindi messo in moto un mercato chiamato “NINJA”: “no income, no job or assets”, cioè mutui concessi a persone che non avevano un reddito, un lavoro o un’attività da dare a garanzia. Questa categoria fu chiamata “mutui subprime”, cioè con un’attendibilità al di sotto delle rate da pagare. Ingrossandosi, essa ha reso fragile la base economica delle successive operazioni finanziarie.
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Uno scenario di tipo ucraino per la Moldavia?
di Paolo Arigotti
Il territorio corrispondente all’attuale Moldavia, una superficie di poco superiore a un decimo di quella italiana, già facente parte dell’impero Ottomano, dopo alterne vicende seguite alla fine del primo conflitto mondiale, divenne nel giugno 1940 – per effetto del patto Molotov-von Ribbentrop e dell’ingresso dell'Armata Rossa in Bessarabia - parte integrante dell'Unione Sovietica, andando a costituire, assieme ad altri territori (compresa la Transnistria), la nuova Repubblica Socialista Sovietica di Moldova, una delle quindici entità federate dell’URSS.
Nell’agosto 1989 la Moldavia avviò il percorso verso l’indipendenza, adottando il rumeno (poi ribattezzato moldavo) come lingua ufficiale al posto del russo, e sostituendo il cirillico con l’alfabeto latino. Due anni dopo, approfittando del tentativo di golpe contro il leader sovietico Mikhail Gorbaciov, Chisinau dichiarò la propria indipendenza; per la cronaca, la Transnistria l’aveva preceduta di circa un anno, dichiarandosi indipendente già nel settembre del 1990, col nome ufficiale di Repubblica Socialista Sovietica Moldava di Pridnestrovia.
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La mutilazione di coscienza del radical chic
di Adriana Bernardeschi
In un mondo di diseguali che sprofonda nell’orrore di guerre, prevaricazioni, discriminazioni e violenze di ogni tipo, una certa “sinistra” borghese e benestante, spesso di valida provenienza militante, si fa compiaciuta portatrice di effimeri rammendi a una struttura irreparabilmente guasta. Lo fa da privilegiata, totalmente alienata da chi queste ingiustizie e questi orrori li subisce sulla propria pelle. Lo fa perché le è stata amputata la coscienza di classe. Come è avvenuta questa mutilazione e che cosa la alimenta e diffonde? Come contrastarla?
Vivendo per tanti anni a Milano, ho assistito, forse in modo più marcato che altrove, ma non si tratta certo di un fenomeno locale, alla progressiva fagocitazione della coscienza di classe della sinistra da parte del fenomeno cosiddetto “radical chic”.
Il benessere relativamente diffuso (ma sempre con i mendicanti distribuiti ogni pochi metri sui marciapiedi e i senza dimora a dormire nei ripari fortuiti dei mezzanini della metropolitana, a testimonianza delle violente diseguaglianze) degli anni che hanno preceduto l’esplodere della crisi economica (che era però già innescata da tempo) ha prodotto in un certo popolo di sinistra – per la mia esperienza posso testimoniare su quello milanese, ma in forme leggermente diverse, più o meno marcate, questo è successo ovunque – una falsa coscienza da “sabato in barca a vela, lunedì al Leoncavallo”, come recita una canzone degli anni Novanta di un gruppo milanese, per l’appunto.
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Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari di Alessandro Pascale
di Marco Pondrelli
Il ponderoso libro di Alessandro Pascale è una lettura stimolante che chiunque può leggere, è però pensato innanzitutto per formare i futuri militanti e quadri comunisti. La formazione è stata, dalla nascita di Rifondazione Comunista in poi, la grande assente nella prassi delle organizzazioni comuniste. Ci si avvicina e si entra in un Partito senza essere comunisti formati, il compito del Partito è costruire i futuri quadri dirigenti. Lenin diceva che dopo una sconfitta i comunisti sono quelli che resistono meglio, perché sanno ritirarsi in modo organizzato, se questo negli ultimi decenni non è successo è anche perché in passato era mancato un lavoro di formazione. Il fatto che pezzi del gruppo dirigente del PRC siano finiti nel Pd o addirittura con Matteo Renzi spiega e dimostra questi limiti.
L’Autore ricorda come la nascita di alcuni recenti movimenti di protesta si stata segnata da una forte spontaneità, con il rischio concreto di ‘diventare strumenti manipolabili facilmente dal regime’ [pag. 14], è emblematico il caso di Podemos in Spagna. Questa capacità di manipolare diventa evidente quando si svuotano di significato alcune figure trasformandole in icone.
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L’occidente e il nemico permanente: il libro di Elena Basile è in sintonia con la linea del Papa
di Paolo Ferrero
Le reazioni dei media e dell’establishment all’appello che il Papa ha fatto al governo ucraino di arrendersi per porre termine e quello che è un insensato macello sono emblematici della follia che caratterizza il mondo occidentale.
Da un lato, i “cani da guardia” con l’elmetto che, in piena sintonia con il governo ucraino, considerano il Papa un traditore, un amico di Putin e così via. Dall’altra la tendenza “riformista”, di chi cerca di ingabbiare quanto detto da Francesco per ricondurlo alla normale amministrazione, all’inefficacia. Il Cardinale Parolin è la punta di lancia di questa tendenza, condizionando l’apertura delle trattative al cessate il fuoco russo. A compendio di queste due impostazioni il grosso dei media ha sottolineato come il Papa sia un uomo di fede e non un diplomatico o un politico, ma soprattutto ne ha praticata una terza: smettere di parlarne il più rapidamente possibile. Infatti il Papa è scomparso dagli schermi in un battibaleno.
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Urbanistica e opposizione
di Luciano Bertolotto
Perché?
Scelta obbligata, almeno per me. Piccola città. Deindustrializzata. Invecchiata. Come molti altri paesoni in Piemonte. La politica? Si vota ogni cinque anni, e tanto basta. Alle urne ci va metà, o poco più, degli aventi diritto.
Il volontariato è, in piccola parte, impegnato sul piano culturale. Molto di più nell'assistenza. Attività meritorie. Però non mi sembrano bastanti a porre (se non in piccola parte) rimedio alle deficienze di questo modo di vivere. E alle relative conseguenze... Vorrei incidere, concretamente, sulle cause. Per questo, anche se poco la conosco, mi occupo di urbanistica. Con la velleità di fare una (sia pur minima) opposizione. Che, poi, consiste nella resistenza a decisioni che altri hanno preso. Non c'è nulla(forse...) di scandaloso in quello che lor signori fanno. Almeno, niente di nuovo. I soldi ci sono. Qualcuno fatto in precedenza con il nero. Sia nei conti che in cantiere.
Forse c'è, pure, una fettina dei tanti miliardi che le mafie investono sul territorio nazionale. Ma di questo, in città, si parla poco e sottovoce...
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