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cumpanis

Cuba al bivio

di Carlo Formenti

A proposito del libro Cuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12

IMMAGINE SECONDO PEZZO SEZIONE SCUOLA QUADRI. Cuba FormentiCuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12 è un libro (uscito nel dicembre scorso) che prende spunto dalle manifestazioni di protesta che si sono svolte in alcuni quartieri dell’Avana e in altre città cubane l’estate scorsa, per analizzare le difficoltà che il Paese socialista caraibico si trova a fronteggiare a causa della crisi pandemica e del concomitante inasprimento del bloqueo imposto dall’amministrazione degli Stati Uniti (voluto da Donald Trump e confermato dal neopresidente democratico Joe Biden). Il libro si articola in 16 capitoletti firmati da altrettanti autori (economisti, sociologi, politologi ed esponenti di altre discipline) ed è dedicato ad uno di essi, il sociologo e storico della Rivoluzione cubana Juan Valdés Paz, venuto a mancare lo scorso ottobre. In appendice il testo di un discorso tenuto dal Presidente Miguel Diaz Canel il 18 luglio 2021 e alcune interviste a intellettuali ed artisti, nonché a giovani studenti che hanno partecipato alle proteste.

I punti di vista espressi dagli autori nei sedici testi raccolti nel volume sono articolati e differenziati, per cui è praticamente impossibile riassumere il contenuto del libro. Ho quindi deciso di non stendere un banale elenco delle varie posizioni, bensì di concentrare l’attenzione sui sei contributi che mi sono parsi più stimolanti, raggruppando i temi che vi sono trattati in tre aree: (1) ricostruzione degli adempimenti del regime nei primi trent’anni di vita e delle cause che, a partire dagli anni Novanta, rischiano di metterli a rischio; e valutazione di quali riforme economiche (2) e politiche (3) potrebbero consentire di superare la crisi.

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laboratorio

L’integrazione continentale dell'industria bellica e l'imperialismo europeo

di Domenico Moro

Complesso militare industrialeLa crisi è sempre una spinta a centralizzare i capitali, cioè a unire capitali diversi sotto una medesima direzione, attraverso processi di fusione e acquisizione di imprese. Infatti, mettere insieme più imprese comporta un risparmio di costi, grazie alla realizzazione di migliori economie di scala, e permette alle imprese di allargare e meglio presidiare il proprio mercato di sbocco, creando oligopoli. In questo modo, il capitale combatte la caduta tendenziale dal saggio di profitto. Dal momento che oggi, in un’epoca di globalizzazione, le imprese operano su scala mondiale o almeno continentale, le fusioni e le acquisizioni avvengono soprattutto attraverso le operazioni cosiddette cross-border, cioè oltre i confini nazionali, con la creazione di oligopoli su scala europea e mondiale. Per quanto riguarda il capitale italiano si sta assistendo a un ulteriore salto di qualità del suo livello di internazionalizzazione, che passa attraverso un processo di integrazione con altri capitali, in primo luogo quello francese e quello tedesco. Questo è particolarmente evidente anche nel settore dell’industria della difesa, che, a causa della sua natura strategica per lo Stato, è di particolare importanza per i risvolti politici e geostrategici e per le implicazioni riguardo al processo di integrazione politica europea, nonché per definire il ruolo e le caratteristiche della formazione economico-sociale italiana a partire dalla struttura del capitale industriale italiano.

Cominciamo dal quadro generale. Le attività di fusione e acquisizione (M&A, Merger and Acquisition), che hanno visto protagoniste le imprese italiane, hanno raggiunto nel 2021 un nuovo record.

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lantidiplomatico

I tentacoli della Nato dall’Europa all’America Latina

di Geraldina Colotti

720x410c50Spesso, e comprensibilmente, si domanda agli analisti internazionali se vi sarà un cambiamento nella politica estera degli Stati Uniti a seconda che alla Casa Bianca governi un presidente repubblicano o uno democratico. Premesso che, per un marxista, è sempre buona norma sfuggire i manicheismi e guardare alla situazione concreta nei suoi rapporti di classe, determinati storicamente, rilevare che, a livello internazionale, l’essenza della politica estera nordamericana non presenta discontinuità effettive, non è una presa di posizione ideologica.

“Tutto cambia perché niente cambi” è uno schema che ben si attaglia alla strategia Usa nel mondo. Sia esso ammantato da una ruspante retorica trumpista o da un più persuasivo “multilateralismo” alla Biden, alla base del modello politico nordamericano nel mondo resta l’idea fondante della supremazia armata. Un paradigma che si alimenta e alimenta gli interessi del complesso militare industriale, supportato, rilanciato e attualizzato dai suoi motori ideologici, scuole di pensiero e media.

Su questa base, gli Usa si credono i gendarmi del mondo, legittimati a una corsa agli armamenti per proteggersi da un sempiterno pericolo, sia all’interno che nelle proprie zone di influenza, che perciò brulicano di basi militari a stelle e strisce. Un apparato che necessita, di tanto in tanto, di mettersi alla prova, per dimostrare agli alleati-sudditi che vale la pena pagare per garantirsi la pace mediante il prestigio vicario di quella supremazia armata.

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perunsocialismodelXXI

La rabbia americana e la pazienza cinese

di Carlo Formenti

Giacomo Gabellini: Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell'ordine economico statunitense, Mimesis , 2021

gettyimages 1233929294Per chi voglia approfondire i motivi che hanno innescato la Guerra Fredda fra Stati Uniti e Cina, un recente saggio di Giacomo Gabellini (Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Editore Mimesis) è una lettura a dir poco preziosa. Si tratta di un lavoro corposo, corredato da un’ampia mole di analisi, informazioni e notizie di carattere storico, economico e geopolitico che attraversa un secolo abbondante di storia – dalla seconda metà del secolo XIX a oggi – per descrivere ascesa, consolidamento e crisi dell’egemonia americana. Ricostruirne tutti i contenuti sarebbe impossibile senza scrivere decine di pagine, per cui mi accontento qui di illustrarne alcuni passaggi. Il testo che segue è organizzato in due sezioni: la prima dedicata al percorso evolutivo dell’imperialismo Usa, la seconda alla sfida lanciatagli dall’emergere della Cina come potenza globale. Le due sezioni non rispecchiano il peso reciproco che l’autore attribuisce agli argomenti in questione, nel senso che al secondo ho dedicato più spazio rispetto a quello concessogli dall’autore: la metà della recensione a fronte di un’ottantina di pagine sulle 400 del libro.

 

I. Storia di un ciclo egemonico

Il paradigma teorico che inspira il saggio di Gabellini è quello tracciato dallo storico Fernand Braudel (e arricchito dall’economista Giovanni Arrighi). Braudel, ricorda Gabellini, riteneva che le fasi di espansione finanziaria siano il sintomo che preannuncia la fine di un ciclo egemonico e la conseguente riconfigurazione del quadro geopolitico mondiale.

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euronomade

Cile, tra paura e speranza

di Diego Ortolani Delfino

Cile“Oggi in Cile la speranza ha vinto sulla paura”, ha detto la sera di domenica 19 dicembre Gabriel Boric nel suo primo discorso da presidente eletto, davanti a una gigantesca moltitudine di circa 500mila persone che riempiva l’Alameda, dal palco montato per l’occasione fino a Piazza Dignità, così ribattezzata dal popolo a partire dalla ribellione dell’ottobre 2019, a dieci isolati da lì. Si lasciava alle spalle, segnato anch’esso dalla paura, quasi un mese di campagna elettorale per il ballottaggio contro l’ultadestrista José Antonio Kast, una figura politica caratterizzata dalla rivendicazione di pinochetismo, neoliberalismo, xenofobia, patriarcato e omofobia: il Bolsonaro cileno.

Figlio di un militare nazista, Kast aveva riunito per la sua candidatura al secondo turno tutte le destre, dalla più reazionaria fino alle sedicenti “moderna”, liberale o “sociale”, che non hanno esitato, avendo perso il proprio candidato al primo turno, a cadere tra le sue braccia praticamente senza condizioni, di fronte alla minaccia “del comunismo” che secondo lui rappresentava Boric. Kast aveva fatto campagna elettorale, fin dall’inizio, agitando questo spauracchio e tutti i soliti atavismi reazionari, oltre a sventolare la bandiera della “libertà”, nome che danno all’anarcocapitalismo fondamentalista di mercato che invocano le nuove ultradestre, in questa nostra era di crisi permanente e impazzita dell’accumulazione del capitale.

Per questa contesa finale, come era logico, Kast ha cercato di trasmettere la “moderazione” e lo spostamento verso il “centro” tipici dei ballottaggi delle democrazie neoliberali occidentali (e in generale, di tutto il loro sistema politico in un qualsiasi momento dei loro rituali sempre più vuoti, fino all’irruzione ora di queste novità).

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machina

Fanon l’inattuale

Rileggere I dannati della terra nelle metropoli del «primo mondo»

di Jack Orlando

Tornare a Fanon, ancora e ancora, per leggere la violenza nelle metropoli postcoloniali.

La violenza della razzializzazione, sempre attuale, e la violenza rivoluzionaria che si declina per smantellare le gerarchie sociali e della razza. Un tema, quest’ultimo, che gli scritti dello psichiatra martinicano continuano a illuminano con una radicalità potente e irrinunciabile. Jack Orlando ne ripercorre gli insegnamenti cogliendo l’urgenza politica di mettere a lavoro Fanon nel presente.

0e99dc c720ccd8663d415ba65626dfc65e5e69mv2Nel 1961, nella intemperie della guerra di liberazione algerina, Frantz Fanon scrive un testo, I dannati della terra, destinato da subito a diventare una pietra miliare nella formazione politica, non solo dei militanti delle lotte di liberazione del terzo mondo ma per tutta la componente antagonista e rivoluzionaria della stagione Sessanta/Settanta.

È abbastanza noto il forte influsso che ebbe questo scritto sul movimento afroamericano. Preso a modello dal Black Panther Party che ne coniugò gli assunti con quelli di Malcolm X e della pedagogia maoista del Libretto Rosso, fu punto di partenza per l’elaborazione di una teoria del colonialismo interno che avrebbe poi influenzato tutto il pensiero nero radicale, di lì a venire: una prima emersione esplicita del problema coloniale dentro le metropoli occidentali e la risposta dei subalterni in seno agli Stati Uniti.

Nel medesimo frangente storico, anche in Italia ed Europa, il pensiero di Fanon entra in contatto con l’esperienza concreta di formazioni politiche rivoluzionarie come i NAP in Italia e la tedesca RAF, per citare due esempi. Pure in assenza di una centralità della linea del colore, come negli USA, Fanon riesce comunque a entrare nelle pieghe del discorso radicale; senz’altro per l’importanza del concetto di «imperialismo» ma soprattutto per la capacità di inanellare un rosario teorico che muovendosi dalla dimensione macroscopica dei fenomeni sociali, arriva giù in fondo al cuore dell’esperienza psichica e individuale del subalterno. In questo senso, la violenza è l’elemento che caratterizza e accomuna su scala globale, a differenti sfumature, l’universo capitalista e Fanon sa offrire lo sguardo e le parole per coglierne la portata.

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jacobin

Il metodo Giacarta

Nicola Tanno intervista Vincent Bevins

Intervista a Vincent Bevins, che in un libro ricostruisce la storia dei massacri di cui si resero responsabili gli Stati uniti in Indonesia, America Latina e nel mondo. In nome dell'anticomunismo si spianava la strada al dominio del capitalismo

indonesia jacobin italia 1536x560Il genocidio indonesiano del 1965-66 resta uno dei buchi neri della memoria collettiva. A differenza di altri esecrabili crimini del Novecento, nella cultura popolare non esiste una conoscenza profonda dell’assassinio di circa un milione di militanti del Partito Comunista Indonesiano (Pki) né delle relative responsabilità degli Stati Uniti d’America. Allo stesso tempo, neanche la sinistra ha introiettato l’avvenimento nella sua memoria storica, né per denunciarlo né per trarne insegnamenti.

A differenza di altri crimini commessi in nome dell’anticomunismo, come quelli commessi in Cile e Argentina, è mancato un momento di riflessione politica sull’ascesa e la caduta del più grande partito comunista del Novecento dopo quelli sovietico e cinese. La storia del Pki viene perlopiù ignorata così come quella dell’importante ruolo dell’Indonesia nel primo ventennio del secondo dopoguerra. Sotto la guida di Sukarno, infatti, l’arcipelago asiatico fu il promotore del movimento dei paesi non allineati che si riunì a Bandung, sull’isola di Java, nel 1955 e che si proponeva di cambiare le regole della politica internazionale al di fuori dei blocchi. La fine di Sukarno e del Pki è anche un caso da manuale di come la Guerra Fredda sia stata vinta dagli Stati Uniti soprattutto attraverso il terrorismo di Stato a colpi di guerra psicologica, bombe e stermini dei militanti di sinistra.

Proprio della dimensione internazionale del genocidio indonesiano tratta il lavoro di Vincent Bevins Il Metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (2019), che recentemente è stato tradotto da Einaudi. Mentre negli ultimi anni sono stati diversi i lavori che hanno spiegato dettagliatamente come si è arrivati al massacro e le sue conseguenze per l’Indonesia (per esempio quello di Geoffrey Robinson, già intervistato da Jacobin Italia), il testo di Bevins – ex-corrispondente del Los Angeles Times – si focalizza sulle cause e le conseguenze internazionali del massacro e su come esso abbia seguito uno schema che si è ripetuto identico in molte parti del mondo.

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lavocedellelotte

La Cina è un paese imperialista? Le implicazioni di una 'classificazione'

di Lorenzo Lodi

Cina 1152x675Gli sviluppi della pandemia di Covid–19 hanno intensificato il clamore mediatico e accademico relativo allo scontro Stati Uniti-Cina, sulla scia di una retorica che tende a dipingere quest’ultima come una potenza imperialista. Questo termine viene utilizzato soprattutto con intenti propagandistici, volti a demonizzare il gigante asiatico, in quanto attore sempre più aggressivo sul piano geopolitico. Quando invece la definizione viene utilizzata ‘scientificamente’, essa si limita a constatare la crescente influenza economica e diplomatica cinese in Asia e Africa, che fa il paio con l’affermazione della Cina come seconda potenza mondiale per prodotto interno lordo e aspirante rivale degli USA nei settori high-tech (5G, intelligenza artificiale, auto elettrica ecc.). Caratterizzare in maniera approfondita il significato dell’ascesa geopolitica ed economica cinese è però necessario per costruire una strategia rivoluzionaria internazionalista.

* * * *

Introduzione

Scopo di questo articolo non è tanto confrontare la Cina con gli altri attori globali tramite indicatori quantitativi di influenza economica, militare e diplomatica, senza cogliere l’essenza sociale ed economica delle relazioni internazionali. L’obiettivo è invece quello di contribuire al dibattito nella sinistra radicale e nel marxismo attorno ai seguenti quesiti: in che senso si può parlare di imperialismo? La Cina è un paese imperialista? Non si tratta, sia chiaro, di una questione classificatoria: la natura imperialista o meno di un paese non coincide necessariamente con la sua potenza, ma si intreccia con essa definendone le possibilità di sviluppo. Fornire una caratterizzazione precisa della Cina può dunque aiutarci a capire la specificità delle tensioni geo-politiche e di classe che il suo tentativo di scalare le gerarchie mondiali comporta, come cercheremo di argomentare nell’ultimo paragrafo.

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ilpungolorosso

La sporca caccia al dragone

di Tendenza internazionalista rivoluzionaria

Contro la campagna commerciale, diplomatica, politica, ideologica e militare anti-cinese

6409875 1 1024x654Trent’anni dopo la celebrazione della fine della Guerra Fredda e l’inizio di un nuovo secolo americano, siamo nel pieno di una nuova Guerra Fredda? Sì e no, nel senso che potrebbe anche diventare una guerra rovente …

Il clima delle relazioni internazionali è già da diversi anni segnato dal crescente confronto USA/Cina, con il quale l’imperialismo americano cerca di contenere e bloccare l’ascesa della potenza cinese, con armi economiche, diplomatiche e militari.

Noi denunciamo le iniziative di guerra economica messe in atto dai vari imperialismi occidentali contro la Cina, siano esse volte a colpire l’economia cinese, il suo interscambio commerciale o ad impedire l’accesso alle tecnologie più avanzate, e le vere e proprie provocazioni militari ad opera di Stati Uniti e alleati, che sono non solo minacce, ma preparazioni militari per una possibile guerra contro la Cina.

In particolare, nei paesi europei alleati degli USA nella NATO, è in corso un dibattito sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina, in una difficile e spesso impossibile mediazione tra gli interessi economici a commerciare con e investire in Cina, un mercato enorme, la rivalità diretta tra le vecchie potenze imperialiste europee e il rampante capitalismo cinese per l’influenza sulle aree ex coloniali, e la forte pressione USA, soprattutto tramite la NATO, per allineare i paesi europei sulla politica di “confronto” verso la Cina (e la Russia).

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infoaut2

Oltre Biden. Quale secondo tempo del neopopulismo?

di Raffaele Sciortino

Pubblichiamo di Raffaele Sciortino un paragrafo sull’attuale situazione interna statunitense tratto da un lavoro di prossima pubblicazione sullo scontro Usa/Cina. È il seguito dell’articolo “Dopo Trump?” sulle elezioni presidenziali di un anno fa

e90e1d0886736a85568dac1b372ad7e2 XLBiden eredita un paese oltremodo polarizzato e sfiduciato, nonché ancora sotto la minaccia di una pandemia tutt’altro che superata sia per l’insufficienza del solo rimedio vaccinale a ovviare a una condizione a dir poco precaria della salute della popolazione proletaria1 sia per la persistente opposizione ad esso di parte della base elettorale trumpista. Al contempo, uscita non certo fortissima dal voto per il Congresso, l’amministrazione democratica deve fronteggiare una dura offensiva politica di altri centri di potere, come la Corte Suprema e singoli Stati a maggioranza repubblicana, su temi sensibilissimi quali il diritto all’aborto o le politiche sull’immigrazione.

Ma è sul fronte delle misure economiche, all’uscita dal primo anno di pandemia, che Biden deve intervenire urgentemente e in modo massiccio. Per non rimanere indietro rispetto agli interventi di Trump - quasi quattro trilioni di dollari nel solo 2020 tra helicopter money (denaro a pioggia) per tutti i contribuenti, finanziamenti a fondo perduto, crediti di imposta, detrazioni fiscali e garanzie sui prestiti alle imprese anche medio-piccole, varie indennità di disoccupazione insieme a una moratoria dei pignoramenti e degli sfratti per i ceti medio-bassi, senza contare il quasi raddoppio del bilancio della Federal Reserve al fine di mantenere liquidi i circuiti finanziari. Ma anche per cogliere il momento e tentare di rinsaldare con un piano di riforme il tessuto connettivo di una società che rischia di frantumarsi e balcanizzarsi. Di un possibile, nuovo New Deal si parla negli Stati Uniti per lo meno dalla presidenza Obama, a ridosso della crisi del 2008. Non ne è uscito niente di sostanziale, e qui sta certamente una delle ragioni di fondo dell’ascesa del trumpismo. È la volta buona con Biden? Non è così sicuro.

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ilponte

Fascismo in America?

di Giancarlo Scarpari

Robert KaganRobert Kagan, uno dei “falchi” della destra repubblicana, nel 2004 aveva spiegato all’Europa, poco convinta della scelta fatta dal suo paese di promuovere una nuova guerra contro l’Iraq, che l’America aveva invece tutto il diritto di farla, perché era stata minacciata dal terrorismo internazionale e perché Saddam Hussein aveva tentato di dotarsi di armi di distruzione di massa.

Sorvolando sulle premesse, Kagan aveva illustrato nel suo libro (Il diritto di fare la guerra, Milano, Mondadori, 2004) i fondamenti della dottrina Bush sulla legittimità della guerra preventiva, dottrina che lui stesso aveva elaborato nella primavera del 2000, un anno prima dell’attacco alle Torri gemelle, in un saggio scritto in collaborazione con William Kristol (Present Danger). In quel libro, l’autore aveva ricordato, a chi sosteneva che il diritto internazionale vietava questo tipo di guerra, che nel nuovo disordine mondiale il sistema vestfaliano non aveva più alcuna ragione di esistere («la proliferazione di armi di distruzione di massa ha reso troppo rischioso il temporeggiare»); e aveva, anzi, manifestato il proprio stupore per le reazioni che quella dottrina aveva suscitato nel «paradiso geopolitico europeo», visto che quell’idea non era affatto nuova: già Kennedy, al tempo della “crisi dei missili”, aveva minacciato un attacco preventivo contro lo Stato cubano e, negli anni ottanta, dopo l’attentato di Beirut nei confronti di una caserma di marines, il segretario di Stato Schultz aveva invocato, questa volta pubblicamente, la necessità di promuovere un’azione preventiva contro il terrorismo internazionale; e nessuno in Europa, in quelle occasioni, aveva avuto nulla da ridire.

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sinistra

Afghanistan III

L’eredità geo-storica

di Alessandro Mantovani

La prima parte di questo lavoro potrete trovarla qui, la seconda qui

external contenthu8763234"L'Afghanistan è uno di quei luoghi del mondo su cui le persone che meno ne sanno più trinciano giudizi inappellabili" (Thomas Barfield, AFGANISTAN, A CULTURAL AND POLITICAL HISTORY, Princeton & Oxford, Princeton University Press, 2010, p. 274).

"Pochi conflitti sono stati trattati così tanto, fotografati così tanto e studiati così tanto senza facilitare né il processo decisionale né la conoscenza. Con poche eccezioni, gli studi seguono l'evoluzione delle strategie politiche per confermarle, piuttosto che informarle. Inoltre, molti studi sono compiacenti sull'intervento occidentale, demonizzano il movimento talebano e sono impregnati di paradigmi obsoleti e talvolta semplicistici” (Adam Baczco, Lo Stato e la guerra in Afghanistan 1978-2012, Irsem Fact Sheet No. 19, luglio 2012, http://www.defense.gouv.fr/irsem).

Uno degli effetti di vent’anni di presenza occidentale in Afghanistan è stato quello di favorire una pletora di studi su di un paese di cui pochissimo si sapeva, ed ancora poco si sa. Anche se la più parte è come vedremo viziata da una pregiudiziale griglia di lettura “tribalista” ed “etnicista1, non

mancano ovviamente i validi contributi2, in virtù dei quali ho calibrato il tiro rispetto alle mie valutazioni di quindici anni fa3.

A partire dalla destituzione di Daud del 1978, passando per l’invasione russa, la guerra civile, l’effimero primo regime talebano, fino alla sconfitta odierna dell’Occidente, l’Afghanistan ha vissuto un eccezionale periodo di conflitti, riforme e controriforme: non solo distruzione, miseria e morte ma anche, come in tutte le guerre (e le economie di guerra) grandi trasformazioni, di cui il tanto stamburato incremento dell’esportazione dell’oppio non è che un aspetto: dimensioni essenziali di queste trasformazioni l’esacerbazione della questione fondiaria, l’esplosione dell’urbanizzazione e la crescita dell’emigrazione, che verranno trattate in appositi articoli.

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lantidiplomatico

Dieci anni fa l'assassinio di Gheddafi. Una pagina nera della storia d'Italia

di Marinella Correggia

720x410jp9754edfLibia, 20 ottobre 2011: le brigate jihadiste appoggiate dalla Nato catturano e assassinano il leader libico Muammar Gheddafi che insieme ai suoi stava cercando di allontanarsi dalla città di Sirte, l’ultima roccaforte, ridotta in macerie da un’azione congiunta Nato-”ribelli” (così venivano definiti i miliziani che pure si erano già rivelati tagliagole fondamentalisti e razzisti – da non dimenticare la deportazione di un’intera città, Tawergha, popolata da libici di origine subsahariana). “We came, we saw, he died - Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”: l’allora segretario di Stato Usa Hillary Clinton parafrasava così, ridendo, la nota frase latina attribuita a un altro colonizzatore, Giulio Cesare.

Nel 2011, i cento anni dall’invasione coloniale italiana della Libia furono dunque commemorati con un’ennesima guerra di aggressione iniziata il 19 marzo 2011 nella menzogna, andando avanti per lunghi mesi. Il vergognoso linciaggio di Gheddafi suggellò l’ennesima “missione umanitaria” della NATO, capace di fare più di diecimila morti e di gettare quello che era un relativamente prospero paese in un abisso di miseria, violenza, sopraffazione. Gli effetti a catena in termini di diffusione del terrorismo sedicente islamico si sono visti poi non solo in Libia (ricordiamo le colonne di fuoristrada con la bandiera nera Daesh alla conquista di Sirte) e in Siria (dove tuttora la guerra iniziata nel 2011 non è finita) ma anche in tutta l’Africa subsahariana. Il continente, un tempo esente da questo flagello e portatore di un islam solidale, è ora colpito in pieno non solo nella sua parte occidentale (Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria…) ma giù, fino in Mozambico e Tanzania, con stragi efferate, popolazioni sfollate, fame e miseria aggiuntive.

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lantidiplomatico

"Le prospettive in Afghanistan non sono così funeste come vorrebbe una certa narrativa"

di Alberto Bradanini

720x410c50Le informazioni che giungono quotidianamente alla nostra attenzione su questo martoriato paese sono frammentate, spesso filtrate o manipolate.

In un mondo ormai orwelliano le parole hanno perso il loro significato proprio. Pace, progresso e libertà si usano per descrivere guerra, distruzione e schiavitù. Occorre muoversi in punta di piedi.

Oggi la conoscenza è ritenuta una facile acquisizione, mentre a uno sguardo attento non può sfuggire che siamo sudditi del regno della manipolazione, i cui pilastri sono costituiti da flash televisivi, articoli sotto dettatura, social network dominanti, inviati improvvisati. Davanti a una narrativa di segno unico, solo una minoranza tenta di uscire dal labirinto visitando biblioteche, librerie o qualche sito politicamente scorretto, sfidando il tedio ancor prima dell’inattendibilità.

Le distorsioni semantiche assumono poi un aspetto ancor più tragico quando si ha a che fare con universi lontani e ignoti come l’Afganistan, di cui ormai parla con dovizia di particolari persino il droghiere sotto casa. Su temi di politica estera, la Grande Menzogna è universale e sistematica.

Giornali e tv dei paesi occidentali attingono le notizie di base (o il silenzio su alcuni eventi, secondo convenienza) da tre agenzie di stampa, Reuters, AP (Associated Press), AFP (Agence France Presse), tutte con base finanziaria e proprietaria a Wall Street, allineate dunque agli interessi imperiali e corporativi americani.

Nel 1848, il Manifesto di Marx ed Engels affermava che un fantasma si aggirava per l’Europa e il suo nome era comunismo. Oggi un diverso fantasma si aggira per il Vecchio Continente (e non solo), e il suo nome non è comunismo, ma più banalmente confusione/impotenza: la nave in cui siamo imbarcati sembra ingovernata e senza meta, sebbene poi così non sia, poiché una potente oligarchia la guida da remoto a tutela di privilegi infiniti, mentre i bisogni dei popoli vengono ancora una volta calpestati.

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rottacomunista

Islamismo e liberazione nazionale

di Alessandro Mantovani

51xkz5pdyNL“…L’Islam vede la religione come un modo di vivere, un insieme di comportamenti, una legge, un ideale politico;[…] Ciò spiega come l’Islam abbia potuto tradursi, e continui a tradursi anche oggi, in un programma di unificazione politica e d’indipendenza nazionale […] la rivoluzione compiuta in nome degli ideali islamici costituisce uno dei fenomeni più grandiosi della nostra epoca.” (Ambrogio Donini, Breve storia delle religioni, Newton Compton, Roma, 1989).

Dicevo nella mia precedente nota sull’Afghanistan che l’opinione secondo cui i Talebani sarebbero “reazionari” ha acquisito anche presso le sinistre rivoluzionarie la solidità di un pregiudizio che non necessita di essere dimostrato. Su cosa si basa (consapevolmente o inconsapevolmente)?

  1. su di un diffuso – ma non comunista né marxista – sentimento anti religioso che denota sudditanza verso il laicismo borghese;

  2. sull’ignoranza del mondo islamico in generale, dell’islamismo radicale in particolare, e del ruolo storico di alcune tra le sue molte correnti nella lotta anti imperialista ed indipendentista dei paesi musulmani in specifico;

  3. sull’idea sommaria che islam, integralismo islamico ed oppressione della donna siano sinonimi;

  4. sull’”universale consenso”, da leghisti a movimentisti, che i talebani siano la peggior versione di tale misoginia di fondo;