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laboratorio

Dopo l'Afghanistan.Riflessioni sull'imperialismo statunitense

di Domenico Moro

Ritiro AfghanistanMolti hanno visto nel ritiro dall’Afghanistan una sconfitta degli Usa. Qualcuno ha addirittura paragonato l’Afghanistan al Vietnam. Ma l’Afghanistan è molto diverso dal Vietnam, dove veramente si realizzò una sconfitta dell’imperialismo americano dal punto di vista sia militare sia soprattutto politico. In Afghanistan i talebani non sono stati capaci di scatenare una offensiva del tipo di quella del Tet, lanciata nel 1968 dall’esercito nordvietnamita e dai vietcong, che scosse il morale degli americani e costrinse il presidente Lyndon Johnson a iniziare i colloqui di pace. Né l’Afghanistan ha dato luogo ad un ampio movimento contro la guerra nel cuore stesso degli Usa come quello che si sviluppò all’epoca del Vietnam, coinvolgendo una generazione di americani e facendo da denotatore a una critica del sistema capitalistico statunitense di una entità difficilmente riscontrabile in altri periodi della storia di quel Paese. Soprattutto la guerra del Vietnam segnò una modifica dei rapporti di forza a livello mondiale tra imperialismo e blocco dei paesi socialisti. Il ritiro statunitense dall’Afghanistan, invece, non ha determinato alcun mutamento dei rapporti di forza a livello mondiale tra potenze. In realtà, il ritiro dall’Afghanistan, pensato dalla presidenza Obama e giunto a compimento con quella di Biden, può essere definito come un riposizionamento strategico della politica statunitense. Come dimostrano anche l’ultima riunione della Nato e le nuove alleanze nell’area dell’Indo-Pacifico (Aukus e Quad) gli Usa stanno ridefinendo la loro politica estera, collocandone il baricentro nel contrasto alla Cina e, in misura minore, alla Russia.

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cumpanis

Abbiamo sconfitto l’estrema destra fascista, guidata dall’imperialismo

Intervista esclusiva per "Cumpanis" al dirigente venezuelano Eduardo Piñate

a cura di Geraldina Colotti

piñate 684x384In questo importante momento di transizione per la rivoluzione bolivariana, che sta dialogando in Messico con l’opposizione golpista, e si prepara alle mega-elezioni del 21 novembre, abbiamo intervistato uno dei suoi quadri politici più rappresentativi, l’ex ministro Eduardo Piñate, membro della Direzione nazionale del Partito Socialista Unito del Venezuela, candidato governatore dello Stato Apure, dov’è nato.

* * * *

D. Sei stato tre anni nell’Esecutivo, in vari incarichi di governo. Anni in cui l’attacco al Venezuela si è intensificato, sia internamente che esternamente. Quali sono state le strategie per contrastare questo attacco e come stanno le cose?

R. In effetti, sono stato poco più di tre anni nell’Esecutivo Nazionale; 2 anni e 11 mesi come ministro del potere popolare per il Processo sociale del lavoro e 3 mesi come ministro del potere popolare per l’Istruzione e vicepresidente settoriale per il Socialismo territoriale e sociale. Ora il compagno presidente Nicolás Maduro mi ha affidato nuovi compiti e responsabilità e io li assumo con l’impegno e l’entusiasmo rivoluzionario di sempre.Durante questo periodo, l’aggressione imperialista contro il Venezuela si è intensificata. Una guerra multifattoriale, totale: economica, politica, sociale, culturale, ideologica, psicologica, mediatica e militare.

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perunsocialismodelXXI

Afghanistan: come non lasciare un bel ricordo

di Piero Pagliani

kabul 2Secondo i media e i commentatori mainstream, l'evacuazione degli Stati Uniti dall'Afghanistan è stato un orrendo errore. Ma c'è poco da obiettare alla risposta di Biden: “Those who say that 2 or 5 more years will bring us victory are lying to you”. Un'affermazione piena di saggezza che, confesso, mi ha sorpreso in una persona come Biden a cui io non ho mai dato molto credito, anzi. In venti anni non abbiamo vinto, ma perso terreno. Pensate proprio che in ventidue potremmo vincere? Questo è il (buon) senso dell'inquilino della Casa Bianca.

La cosa a prima vista più stupefacente, fateci caso, è che se un presidente degli Stati Uniti fa un'affermazione sensata, i media e i commentatori occidentali vengono presi dall'isteria. Tanto che la vice Khamala Harris si è data alla fuga, al mutismo metodico: pensa alla sua carriera, quindi non vuole essere coinvolta in queste polemiche in cui si scatenano fissazioni di ogni tipo. Così ha deciso di lasciare da solo il suo capo nella bufera. Io non ci sono per nessuno. Non m'importa se qui, nel bene o nel male, si sta facendo la Storia del mio Paese. Io non esisto. Notevole per una vice presidente.

In realtà la decisione non è stata del quasi ottuagenario signor Joe Biden, ma del “Biden collettivo”, cioè quell'insieme di forze e di interessi che nel corso del tempo fanno la politica degli USA, che ha preso il testimone dal Trump collettivo che a sua volta lo aveva ricevuto dall'Obama collettivo. Tale è la storia della decisione di ritirarsi dall'Afghanistan. Storia dimenticata da commentatori e commentatrici che vivono nel mondo di Papalla.

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Argentina in pandemia...

di Angelo Zaccaria

Riceviamo e pubblichiamo volentieri il seguente articolo inviatoci da Angelo Zaccaria che ci aggiorna nuovamente sulla situazione in Argentina tra pandemia e fase elettorale, dopo il suo precedente contributo del 2019

d12d2f38fda1176ee79ab5faf36f5cf8 XLMa le lotte politiche e sociali non le ferma nemmeno il Covid 19, e neppure la “sindrome del governo amico”.

Questo ultimo viaggio in Argentina, quasi 4 mesi fra fine Gennaio e fine Maggio di questo anno 2021 , è stato certamente diverso da tutti gli altri, per le ragioni personali che lo hanno determinato ed accompagnato, per la mini-odissea burocratico-sanitaria che lo ha quindi reso possibile, per il fatto stesso di essere avvenuto mentre l’emisfero nord ed anche quello sud, Argentina inclusa, erano immersi e si dibattevano nella vicenda della nota pandemia da Covid 19.

Per dare un minimo di schema al racconto di questa permanenza a Buenos Aires, procederò per punti.

 

La piazza a volte rallenta ma non si ferma mai

Nel corso del mese di Febbraio non ci sono state mobilitazioni particolarmente significative. Paradossalmente infatti il primo concentramento di rilievo al quale partecipo, anzi per essere più preciso assisto, avviene il 27 Febbraio in Plaza de Mayo, ed è convocato dalla opposizione di destra. I temi sono quelli soliti della corruzione dei governi peronisti passati e presenti, e le critiche alla gestione attuale della pandemia. In realtà tutto quanto ormai accade nel paese, è influenzato dal prossimo appuntamento elettorale di rilievo, che sono le elezioni parlamentari parziali previste per fine anno.

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sinistrach

La vittoria dei Talebani in Afghanistan va considerata come un processo di “liberazione nazionale”?

di Redazione

talibanIl sociologo italiano Pino Arlacchi, già vicesegretario dell’ONU, dispone di una esperienza di oltre 25 anni proprio in Afghanistan. Si tratta di una delle poche voci fuori dal coro sulla stampa europea e ha invitato “a informarsi sull’ Afghanistan evitando di leggere i maggiori quotidiani italiani”. L’Afghanistan – spiega – “sembra essere stato vittima di una invasione di mostri pervenuti dallo spazio e dotati di poteri sconfinati. Mostri che sono riusciti a far scappare da Kabul, terrorizzate, le forze del bene. Mostri assetati di vendetta e di sangue, soprattutto femminile, e che si apprestano a far diventare l’Afghanistan il santuario del narcotraffico e del terrorismo mondiale”. Questa immagine caricaturale del paese appena abbandonato dagli USA emerge scandalosamente anche dal servizio pubblico radiotelevisivo svizzero che sembra fare da grancassa alla propaganda del presidente USA Joe Biden.

 

L’Afganistan non è Kabul

Arlacchi dà una lettura molto diversa di quanto accaduto nel paese asiatico: siamo di fronte, secondo lui, allo “sbocco finale di due guerre. Una guerra civile tra i talebani ed i loro avversari iniziata quasi trent’anni fa, ed una guerra di liberazione contro una potenza occupante iniziata venti anni fa esatti.

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cumpanis

Imperialismo USA: “Un nuovo paradigma per invadere i popoli con il pretesto del cambio climatico”

Geraldina Colotti intervista Ricardo Molina

In occasione del Secondo re-incontro con la Madre Terra, organizzato a Caracas, abbiamo conversato con il deputato Ricardo Molina, presidente della Commissione di eco-socialismo dell’Assemblea Nazionale

unnamed732hbdTu hai avuto importanti e ripetuti incarichi nella rivoluzione bolivariana. Qual è il tuo ruolo ora?

Dal 2010 sono stato ministro di Habitat y Vivienda, prima con il comandante Hugo Chávez, poi con il presidente Nicolas Maduro. Nel 2015 sono stato eletto deputato in Parlamento, poi il presidente mi ha nominato ministro del Trasporto e vicepresidente di governo per il settore Servizi. Poi, durante il periodo delle violenze di piazza, mi sono impegnato nel progetto dell’Assemblea Nazionale Costituente che, come sappiamo, è stata una misura necessaria e importantissima per riportare la pace e difenderci dalle aggressioni continuate degli Stati Uniti. Nel 2017, sono stato eletto come costituente. In seguito, nel 2020, ho partecipato alla campagna per il recupero dell’Assemblea Nazionale che ha assunto funzioni a gennaio di quest’anno e sono stato eletto deputato. Attualmente, presiedo la Commissione permanente di eco-socialismo dell’Assemblea Nazionale, che porta avanti il progetto e gli ideali eco-socialisti, in base alla visione bolivariana e umanista del comandante Chavez, in difesa della Madre Terra. Ho anche un altro incarico alla Scuola bolivariana di Pianificazione: per continuare a formare i quadri nei diversi livelli di governo nazionale, regionale e municipale, e in special modo – e ancora più importante – a livello comunale.

 

Com’è stato organizzato il Secondo re-incontro con la Madre Terra e con quali obiettivi?

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carmilla

Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan

di Sandro Moiso

Nicole Gee holding a baby Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.

Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto, sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti, doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.

Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.

Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro, i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in qualunque istante di qualsiasi conflitto.

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cumpanis

Gli attacchi imperialistici alle monete nazionali

di Federico Fioranelli*

immagine articolo Fioranelli Sez.EconomiaLa situazione economica e sociale che il Venezuela vive ormai da diversi anni è molto pesante per il suo popolo. Gli ultimi dati rilevano, per i primi cinque mesi dell’anno in corso, un tasso di inflazione pari al 264,85% e prevedono, per il 2021, un crollo del Pil del 10%.

I media mainstream cercano in ogni modo di dimostrare che le cause dell’iperinflazione e della recessione nella Repubblica bolivariana sono le politiche economiche espansive messe in campo nel corso degli anni dai governi socialisti, ai loro occhi incapaci e populisti, che si sono succeduti.

In questa maniera, pensano di nascondere la vera ragione alla base della fortissima crescita dei prezzi e della contrazione economica, vale a dire l’attacco speculativo alla moneta nazionale, che il Venezuela subisce addirittura dal 2012.

Quando parliamo di “attacco speculativo alla moneta nazionale”, ci riferiamo ad un’importante arma di guerra economica, al pari dell’embargo commerciale o del blocco finanziario, utilizzata dall’imperialismo nella lotta condotta a livello globale per distruggere forme di governo socialista e colonizzare nazioni.

Le ragioni dell’ostilità delle oligarchie industriali e finanziarie nei confronti dell’esistenza del socialismo, dentro e fuori il proprio Paese di appartenenza, non le scopriamo certo oggi. Esse sono di natura economica, politica e ideologica perché un sistema economico che sostiene il “diritto sovrano di un Paese di disporre delle proprie risorse nell’interesse del proprio popolo” (Paul M. Sweezy) non è compatibile con gli interessi, i privilegi e l’ideologia delle oligarchie stesse.

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circolointernazionalista

Afghanistan, il lungo addio

di Prospettiva Marxista

afgPubblichiamo sul nostro sito una prima valutazione da parte dei compagni di Prospettiva Marxista riguardo la situazione in Afghanistan, articolo di cui condividiamo pienamente il solido impianto e del quale ci preme mettere in risalto la serietà metodologica. Troppe volte in questi giorni, nel bel mezzo della tempesta mediatica, abbiamo avuto modo di leggere articoli, post o dichiarazioni – soprattutto di certa sinistra – in cui si è dato fiato, tanto fiato, alle trombe di una retorica autoconsolatoria e mistificante, fatta di parole come “disfatta”, “catastrofe”, “cacciata”, “umiliazione”, “resistenza” e tutto quello che un lessico tanto povero quanto la capacità di interpretare lucidamente i fatti, e quanto quella di non fare del desiderio il padre del pensiero, è stato in grado di sfornare. C’è anche chi ha definito come vittoria “anti-imperialista” l’avanzata, conseguente al ritiro delle truppe imperialiste USA e alleate, di una realtà politico-ideologico-militare, i talebani, che degli ultimi quarant’anni di contesa imperialista in Afghanistan è prodotto diretto. Non abbiamo di queste illusioni e soprattutto abbiamo tanta considerazione e rispetto per la nostra classe da non propinargli la stanca riproposizione di schemi – buoni per tutte le stagioni e che non necessitano di un grande sforzo di analisi né della necessaria prudenza interpretativa – che la dinamica del capitalismo nell’ultimo secolo ha reso obsoleti. Di una cosa siamo certi, l’imperialismo ha orrore del vuoto e l’Afghanistan non si è certamente emancipato dal dominio imperialista con il ritiro dell’imperialismo americano e la conseguente ascesa talebana. L’imperialismo americano ha lasciato la presa, ma l’imperialismo continua a tenere ben saldi i suoi artigli – per ora per il tramite dei talebani – su un paese martoriato, la cui vera emancipazione è ormai nelle sole mani del proletariato internazionale. La sola classe anti-imperialista.

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effimera

Destino manifesto

di Franco Bifo Berardi

whatsapp image 2021 07 23 at 153640Recentemente, parlando della disfatta di Kabul, in un empito retorico mi è capitato di scrivere che gli USA sono finiti, perché il paese non ha un presidente, dato che Biden, se mai è esistito, è stato annichilito dalla gestione della ritirata. Perché non ha un popolo ma due e in guerra tra di loro. Perché gli alleati se la stanno squagliando, perché la Cina sta vincendo la battaglia diplomatica e anche la competizione economica.

Tutto vero, ma ho dimenticato una cosa non secondaria: l’America è anche un complesso tecno-militare che dispone di una potenza distruttiva capace di distruggere il pianeta e di eliminare il genere umano non una ma molte volte. E si sta anche rendendo capace di avviare l’evacuazione di una piccola minoranza di umani dal pianeta terra, per andare dove non si sa.

La disfatta afghana segna il punto di svolta di un processo di disgregazione dell’occidente i cui segnali si sono accumulati nei due decenni passati.

Uso qui la parola Occidente per intendere una entità geopolitica che corrisponde al mondo culturale giudeo-cristiano (e comprende quindi la stessa Russia).

Forse il capitalismo è eterno, (ipotesi da verificare se ne avremo il tempo ma non credo l’avremo). L’Occidente no. E purtroppo il complesso tecno-militare di cui l’Occidente dispone, e che continua ad alimentare nonostante la sua capacità di overkill, non risponde alla logica della politica, ma è un automatismo che risponde alla logica della deterrenza che un tempo aveva carattere bipolare e simmetrico mentre dopo il crollo dell’URSS ha carattere multipolare, asimmetrico e quindi interminabile. Inoltre il complesso tecno-militare è anche una potenza economica che deve produrre guerra per potersi riprodurre.

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sinistra

L’Afghanistan nella morsa dello “scontro di civiltà”

di Eros Barone

niviveNel profluvio di commenti generati dal ritiro delle forze militari degli USA e della NATO dall’Afghanistan e dalla conseguente vittoria dei talebani raramente è stato posto a tema, anche solo ai fini di un confronto, l'intervento militare sovietico che ebbe luogo nel 1979 e che durò fino al 1989. Tale intervento, a differenza dell’invasione dell’Afghanistan attuata nel 2001 dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati occidentali, non solo derivava legittimamente da uno specifico trattato di amicizia e di cooperazione stipulato dai due rispettivi governi, ma poggiava altresì su un movimento democratico e popolare autoctono, il cui rappresentante più autorevole, ancor oggi ricordato con rispetto dalla popolazione di Kabul, era Mohammed Najibullah, ultimo presidente progressista del paese. Membro del Partito democratico popolare dell’Afghanistan (People’s Democratic Party of Afghanistan, Pdpa) dalla fine degli anni ’60, egli aveva diretto a lungo la polizia segreta, prima di essere messo a capo dello Stato nel 1986. Dopo il ritiro delle forze sovietiche nel 1989, Najibullah resistette al potere ancora per tre anni.

Come è noto, durante la guerra fredda i sovietici sostenevano Kabul, mentre gli Stati Uniti e il Pakistan appoggiavano i ribelli. Oggi, altre preoccupazioni hanno portato gli Stati Uniti ad abbandonare l’Afghanistan consegnando ai talebani, che essi non hanno mai smesso di sostenere sotto banco, una classe dirigente formata per la maggior parte dalle stesse personalità che lavoravano per Najibullah.

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ilpungolorosso

Afghanistan: una disfatta storica degli Stati Uniti e dell’Italia. E ora?

di Tendenza internazionalista rivoluzionaria

afghanistan talebani vittoria1. Sconfitta, disastro, debacle, agghiacciante fallimento, vergognosa ritirata, una catastrofe dei nostri eserciti e dei nostri valori, una disfatta peggiore di quella subita da parte dei vietcong mezzo secolo fa: una volta tanto, la stampa dei regimi occidentali, detti comunemente democrazie, non ha indorato l’amarissima pillola che i signori della guerra di Washington&Co. hanno dovuto deglutire in questi giorni.

Molti commentatori sono sorpresi. Non riescono a spiegarsi come i sistemi militari, gli apparati di intelligence e la diplomazia di una coalizione così potente hanno fallito davanti ad un “gruppo insurrezionale” (i talebani) di qualche decina di migliaia di guerriglieri, che non aveva dietro di sé nessuna grande potenza né chi sa quale addestramento militare, dotato di un armamento in alcun modo paragonabile a quello dei volonterosi carnefici della Nato. È la sorpresa che colpisce metodicamente i guru della geopolitica, convinti come sono – per la loro ottusa ideologia – che la tecnologia bellica, il denaro e i servizi segreti decidano di tutto, e che nelle vicende della storia le masse sfruttate e oppresse contino zero.

Invece hanno vinto i talebani afghani. E l’impatto internazionale della loro vittoria è enorme. Perché, come ha osservato Mosés Naím, “incoraggerà tutti gli avventurieri [coloro che non si inginocchiano ai comandi statunitensi – n.] a sfidare il potere americano, intaccherà la fiducia degli alleati negli Usa, e rafforzerà la convinzione dei rivali autocratici come Cina e Russia di possedere un modello superiore alle democrazie”.

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cumpanis

Cuba e la guerra egemonica dell’Occidente contro gli “Stati canaglia”

di Gianni Fresu

001 1 800x540Il ritorno dei democratici alla Casa Bianca ha coinciso con una nuova durissima offensiva contro Cina, Russia e tutto il composito fronte dei cosiddetti “Stati canaglia”, la cui finalità è sbarrare il passo a qualsiasi ipotesi di sviluppo multipolare della politica internazionale e ripristinare l'incontrastato dominio degli Stati Uniti sul mondo, rimediando alla profonda crisi di immagine e di relazioni che Washington ha vissuto negli ultimi anni.

In tal senso vanno lette le preoccupazioni di UE e USA emerse nei recenti incontri tra i vertici delle rispettive istituzioni: il rischio che parte importante dei fondi del Recovery plan possa finire nei bilanci delle aziende cinesi, dato che, come abbiamo potuto leggere sui giornali, “sul mercato europeo praticamente non esistono capacità tecnologiche e dimensioni aziendali” adeguate ai progetti di riconversione ecologica del piano. Da tali preoccupazioni emergono due valutazioni di ordine generale utili a sviluppare il nostro discorso: 1) la Cina sta vincendo la sfida tecnologica con l'Occidente, a suo tempo persa dall'URSS; 2) UE e USA basano le proprie istituzioni sulla mistica ideologica del primato del mercato, ma, in concreto, il “laissez faire” è sacro solo quando soddisfa i nostri interessi. Se così non è, qualsiasi mezzo di contrasto protezionistico è ritenuto lecito, alla faccia di tanta retorica sulle capacità di autoregolamentazione del mercato. Tutto ciò dimostra il relativismo di valori e la mai risolta pretesa di supremazia coloniale delle società liberaldemocratiche occidentali sul resto del mondo.

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lantidiplomatico

Haiti, ecco perché è stato ucciso il presidente Jovenel Moïse

di Geraldina Colotti

720x410c50Un omicidio nato nelle stanze del potere, all’ombra degli interessi imperialisti che hanno deciso di cambiare cavallo? È il probabile scenario che inquadra l’assassinio di Jovenel Moïse, presidente de facto di Haiti. A compierlo materialmente, un piccolo esercito di mercenari che hanno fatto irruzione nella sua residenza super-controllata mercoledì all’alba spacciandosi per agenti della Dea, lo hanno ucciso e hanno ferito la moglie. Si parla di complicità interne con l’avallo del capo della polizia. Il commando è stato arrestato quasi al completo e mostrato alle telecamere.

Si tratta di 15 colombiani e due statunitensi, che sarebbero arrivati a giugno ad Haiti passando per la Repubblica dominicana. I due statunitensi hanno dichiarato di essere stati contrattati tramite internet come interpreti, per sequestrare e non per uccidere Jovenel Moïse, che avrebbe dovuto essere condotto davanti a un giudice in quanto colpito da un mandato di cattura. Uno di loro è un imprenditore della Florida che ha poi fondato un gruppo no-profit per fornire assistenza umanitaria a Port au Prince, la capitale di Haiti. Altri tre colombiani sono morti per mano della polizia e otto mercenari sono in fuga.

Bogotà ha confermato che 6 degli arrestati sono ex militari colombiani. Il giornale El Tiempo ha rivelato il curriculum di uno di loro, Manuel Antonio Grosso Guarn, fino al 2019 considerato uno dei più preparati dell'esercito colombiano. All'inizio della sua carriera ha ricevuto una formazione da commando speciale, e nel 2013 fu assegnato al Gruppo di Forze speciali antiterroriste urbane, quelle che sequestrano e uccidono i manifestanti che da mesi protestano contro il governo Duque. Quei reparti che, in questi giorni, hanno ricevuto ulteriori rinforzi dalla Cia.

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ist onoratodamen

Biden è come Trump: parla di libertà e diritti umani ma vuole solo soldi, tanti soldi

di Giorgio Paolucci

000571A7 biden e trumpL’America è semplicemente la capofila di un disastro più generale che sta già mettendo radici altrove e che si diffonderà ulteriormente in futuro. (Anne Case e Angus Deaton)

Hanno fatto molto scalpore le ultime previsioni del Fondo Monetario internazionale che danno nel 2021 il Pil statunitense in crescita del 6,5%, superiore anche a quello cinese che si attesterebbe al 6%. Ben ultima, invece, l’Unione Europea con il 3,9%. In considerazione di ciò, non pochi hanno dedotto come imminente il ritorno tout court degli Usa agli antichi fasti: «L’America di Biden –scrive per esempio F. Rampini- è pronta a sottrarre alla Cina il ruolo di locomotiva mondiale trainando anche la crescita degli altri»[1]. Il miracolo avverrebbe grazie ai «ristori dell’ordine di 1,9 trilioni di dollari (9% del Pil) [a cui - n.d.r.] si aggiungeranno gli investimenti pubblici in infrastrutture previsti dall’American Jobs Plan per 2,2 trilioni, da devolvere in otto anni (1,5% del Pil all’anno, in media) alla grave carenza nei trasporti, utilties, scuole, ospedali, ricerca. A fine aprile - ci informa Pier Luigi Ciocca- Biden prospettava un ulteriore piano di sostegni alle famiglie di 1,8 trilioni. Il complesso degli interventi si aggirerebbe nel tempo sui sette trilioni di dollari: una cifra smodata, pari a circa un terzo dell’attuale Pil».[2] E tutto ciò in aggiunta ai «900 mld di dollari (4% del Pil) di spesa pubblica deliberati dall’amministrazione Trump nel 2020 per sostenere l’economia messa in ginocchio dalla pandemia (-3,5% del pil nel 2020).»[3] Cifre davvero importanti, tanto che Biden, presentando la sua prima legge di Bilancio, ha potuto dichiarare: «La ripresa è già cominciata. L’America sta rinascendo. Ricostruiamo la nostra forza a partire dal ceto medio e dalle classi lavoratrici».[4]