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“Il lavoro non è l’essenza dell’essere umano”
Marina Zenobio intervista Kathi Weeks
The Problem with Work, della politologa femminista Kathi Weeks. Chi ha detto che il lavoro debba essere al centro della nostra esistenza?
Erano gli anni ’30 del secolo scorso quando Keynes predisse che grazie all’incremento della produttività e all’ingresso della donna nella forza lavoro, la generazione dei suoi nipoti avrebbero lavorato non più di 15 ore a settimana. Sono passate tre generazioni, lavoriamo più di prima e la sinistra ha ormai abbandonato quasi del tutto la lotta per la riduzione della giornata lavorativa, una lotta che la politologa e femminista Kathi Weeks, ispirata da testi diversi tra cui Resistance In Practice The Philosophy of Antonio Negri, rivendica nel suo saggio The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries (John Hope Franklin Center Book, 2011, pp.304). In una recente intervista rilasciata a CTXT.es-Contexto y Accion, Kathi Weeks espone il suo pensiero sul potere delle “rivendicazioni utopiche” e spiega perché, secondo l’autrice, dovremmo concentrarci sul lavorare meno ore e sul creare condizioni per immaginare un mondo fuori dal lavoro. Popoff vi propone uno stralcio dell’intervista.
* * *
Come definirebbe il concetto di lavoro?
Il lavoro è una attività produttiva basata sul modello del lavoro salariato. Se si chiede ad una qualsiasi persona che lavoro faccia, dedurrebbe che ci si riferisca esclusivamente al lavoro remunerato.
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Il reale delle/nelle immagini
Esibizionismo, selfie, mercificazione e costruzione identitaria
di Gioacchino Toni
«Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità [presuppone che] tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. […] Ed è ciò che oggi sta avvenendo […] I “like” di apprezzamento o altri indicatori simili sono […] delle unità di misura del successo» (V. Codeluppi).
«devi diventare merce per poter propagandare altra merce» (G. Arduino – L. Lipperini).
Da qualche tempo sembra sempre più difficile affrontare la realtà senza ricorrere al filtro di una registrazione. Non è difficile imbattersi nelle località turistiche in visitatori che rinunciano a godersi la visione diretta di ciò che hanno di fronte per riprenderlo col proprio telefonino, ossessionati dal dover registrare quanto hanno davanti agli occhi. Qualcosa di simile accade anche al pubblico degli eventi sportivi e dei concerti. Tanti affrontano l’esperienza del concerto impugnando e puntando verso il palco altrettanti smartphone al fine di catturare qualche memoria digitale dell’evento da poter poi condividere sul web. Probabilmente pochi si riguarderanno veramente le riprese effettuate, nel migliore dei casi i più finiranno per caricarne qualche frammento sul web condividendolo con schiere di conoscenti, più o meno virtuali, che, a loro volta, daranno un’occhiata fugace e magari contribuiranno a far girare, a vuoto, in rete il tutto. Nei concerti molti smartphone più che essere puntati verso il palco sono in realtà indirizzati verso i mega-schermi che, a loro volta, diffondono le immagini del palco registrate dall’organizzazione. Sicuramente un primo motivo di tale comportamento può essere individuato nel fatto che, soprattutto negli eventi di grandi dimensioni, il palco è molto lontano e la folla presente intralcia la visione e la ripresa ma, probabilmente, tale pratica è dovuta anche al fatto che il pubblico si è talmente abituato a fruire immagini che trova più interessante osservare, dunque registrare, le riprese elaborate e trasmesse dagli schermi che non “accontentarsi” della piatta visione del palcoscenico. Per quanto la band sia abile nel tenere il palco, non c’è paragone, per chi è cresciuto a riproduzioni di realtà, l’elaborazione offerta degli schermi è molto più accattivante.
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La coscienza come essere cosciente. Praxis e theoria
di Predrag Vranički
Il testo che presentiamo di seguito, in inedita traduzione italiana, è del filosofo croato Predrag Vranički, scomparso nel 2002. Si tratta di un breve saggio apparso nel 1965 su Praxis, che proponiamo come contributo alla precisazione di alcuni termini chiave dell'impianto teorico comunista, in particolare attorno al tema della “coscienza” come “essere cosciente” e al rapporto teoria-prassi.
Con ciò non suggeriamo un'acquisizione in toto del pensiero di Vranički, per molti, essenziali versi profondamente distante dall'orientamento del nostro lavoro; tuttavia, privi delle preoccupazioni di coloro che surrogano le identità con le etichette, pensiamo possa entrare a pieno titolo in una ampia e diversificata “cassetta degli attrezzi” per comprendere e trasformare il mondo.
L'autore
L'autore di questo articolo, Predrag Vranički, è stato un filosofo di orientamento “marxista umanista”. Dopo aver combattuto sul fronte borghese antifascista dell'Esercito di liberazione nazionale si dedicò agli studi di filosofia, divenendo poi presidente della Società jugoslava per la Filosofia nel 1966, e nel '77 membro dell'Accademia Croata delle Scienze e delle Arti. Dal 1965 fece parte della redazione della rivista dissidente Praxis, critica nei confronti del regime titoista e della sua ideologia.
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Moderazione salariale e produttività in Europa
di Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas
Sul sito del Institute for New Economic Thinking, un importante contributo di Heiner Flassbeck e Costas Lapavitas chiarisce in maniera definitiva la questione se la forza esportatrice tedesca provenga dalla concorrenza sleale della compressione salariale o dalla mitica produttività germanica. Porre la questione in questi termini è infatti fuorviante, in quanto significa non voler comprendere che in una unione monetaria l’accordo dovrebbe essere di mantenere i salari nominali in linea con la produttività, tenuto conto del tasso di inflazione concordato
Di recente, la nostra analisi è stata messa in discussione da Servaas Storm, che ha affermato che l’accusa a carico della Germania di avere spaccato l’eurozona con il suo neomercantilismo è insostenibile. [1]Qui dimostriamo che la critica di Storm ha un certo aplomb, ma manca di sostanza.
La maggior parte dei macroeconomisti in Europa ha probabilmente ormai accettato che la persistente moderazione salariale tedesca è la causa centrale degli squilibri fondamentali nell’Unione Monetaria Europea. Gli estensori di questa nota hanno dimostrato che questi squilibri sono responsabili della crisi dell’Eurozona nel senso più ampio, dal momento che hanno provocato lo strapotere tedesco nei flussi commerciali (esportazioni), l’esportazione di disoccupazione dalla Germania, scarsi investimenti e bassi incrementi di produttività all’interno dell’Unione, fino ad arrivare alla deflazione. [2]
Gli squilibri nell’ Unione monetaria europea
La posizione di Storm è chiara e vale la pena citarlo per esteso:
“In secondo luogo, come mostrato in figura 1 [nell’articolo di Storm], non vi è alcun segno evidente di una compressione dei salari nominali dei lavoratori tedeschi se confrontiamo la Germania con la zona euro nel suo insieme (Germania esclusa). Negli anni ’90 i salari nominali tedeschi sono aumentati rispetto alla zona euro e il salario nominale relativo tedesco è rimasto più o meno piatto durante il periodo 1999-2007 (nel corso di questi otto anni c’è stato un calo trascurabile di 0,7 punti percentuali).
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Parigi, Bruxelles e la guerra infinita
di Redazione "Il cuneo rosso"
(D. Eisenhower sulla lotta al nazionalismo arabo)
Svolgiamo qui alcune considerazioni sugli attentati jihadisti di Parigi e Bruxelles e il loro retroterra medio-orientale, che forse saranno poco popolari data l'infezione arabofobica e islamofobica da cui è affetta la sinistra, inclusa buona parte di quella che si vuole antagonista, comunista, e perfino internazionalista. Ma la sola cosa che ci preme è contribuire a inquadrare gli avvenimenti in corso da un punto di vista di classe, denunciare e contrastare le nuove aggressioni in atto ai lavoratori e ai popoli di Libia, Iraq e Siria da parte del governo Renzi e degli altri governi europei, e lavorare ad avvicinare, a unire i proletari autoctoni e i proletari provenienti dai paesi arabi e islamici (e i loro figli) che i potentati dell'imperialismo, approfittando dei suddetti attentati, vogliono allontanare e scagliare gli uni contro gli altri. Tutto il resto, per noi, non conta.
È guerra? Certo, ma da 200 anni (almeno).
E l'ha scatenata l'Europa colonialista e imperialista.
Gli editoriali bellicisti delle scorse settimane e degli scorsi mesi hanno sostenuto pressoché unanimi la tesi: "dobbiamo rispondere con la guerra alla guerra che ci è stata dichiarata dai bastardi islamici" invertendo così il rapporto qualitativo e quantitativo tra cause ed effetti. Noi partiamo, invece, dalle cause, quindi dall'azione dell'imperialismo europeo e occidentale.
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Merkel e Draghi contro l’Europa
di Thomas Fazi e Guido Iodice
Le élite europee hanno sfruttato la crisi per imporre scellerate politiche neoliberali e smantellare lo stato sociale. L'alternativa? Nè 'più Europa' né uscita dall’euro, ma l’apertura di un conflitto tra periferia e centro. Anticipiamo un estratto dal libro "La battaglia contro l'Europa" di Thomas Fazi e Guido Iodice, Fazi editore, in questi giorni in libreria
Si narra che quando il ministro delle Finanze di Luigi XIV di Francia, Jean-Baptiste Colbert, chiese a un gruppo di mercanti – oggi diremmo di imprenditori –– cosa avrebbe potuto fare il governo per aiutare il commercio, uno di loro, chiamato Legendre, abbia risposto semplicemente: «Lasciateci fare». L’espressione laissez faire, che oggi in Italia traduciamo con ‘liberismo’, divenne da allora sinonimo di libertà di impresa, libero commercio e Stato minimo, contrapposta alle idee di Colbert e dei mercantilisti, che vedevano invece per lo Stato un ruolo attivo e interventista in campo economico. La vulgata vuole quindi che i liberisti siano coloro che si oppongono alle barriere doganali, alle tasse, alle regolamentazioni eccessive e, soprattutto, alla spesa pubblica. Generazioni di economisti, filosofi, politici, hanno sviluppato una dottrina secondo la quale meno lo Stato si occupa di economia, più questa sarà capace di prosperare da sola. Il ruolo del pubblico, al più, consiste nel garantire i contratti attraverso l’applicazione del codice civile e nell’occuparsi della polizia a difesa della proprietà. Eppure, a ben vedere, vi è un abisso tra la dottrina e la pratica. Un abisso che è diventato talmente evidente tra il 2007 e il 2008 da non poter essere più nascosto.
Quando la crisi scatenata dallo scoppio delle bolle immobiliari negli Stati Uniti e in Europa ha cominciato a far crollare, una dopo l’altra, banche piccole e grandi, quasi tutti coloro che fino al giorno prima avevano predicato il ritiro dello Stato dalla sfera economica si sono dovuti barcamenare per giustificare i salvataggi bancari di quegli istituti too big to fail, troppo grandi per fallire.
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L’opinione pubblica mercificata
di Giovanna Cracco
È difficile avere oggi un’idea della dimensione di quella che possiamo genericamente chiamare ‘area antagonista’, inserendo nella definizione ogni realtà culturale o movimentista della società civile che si muove in senso critico rispetto al pensiero dominante neoliberista; da quella più ‘radicale’, che si oppone al capitalismo, di cui il neoliberismo è solo l’attuale fase, a quella ‘socialdemocratica’, che non mette in discussione il sistema economico ma mira semplicemente a mitigarne le caratteristiche di sfruttamento dell’uomo e delle risorse ambientali, attraverso la difesa di uno stato sociale in fase di smantellamento e dei cosiddetti beni comuni. Difficile perché le lotte sono frammentate, ciascuna chiusa nella propria singola identità – per la casa, per l’acqua pubblica, contro l’Expo, la riforma della scuola, la Tav... – e non fa eccezione nemmeno la battaglia per il lavoro, che pur avendo un unico tema si divide in tanti terreni di scontro quante sono le aziende che licenziano, delocalizzano, impongono ricatti ai lavoratori in termini di retribuzione e orario per non chiudere gli stabilimenti.
La debolezza delle lotte, intesa come incapacità di incidere sull’esistente, modificandolo, è evidente. Sconta sicuramente la frammentazione, l’incapacità di comprendere che la lotta è una, sebbene articolata su più campi, perché dietro le singole tematiche vi è un ‘nemico’ comune, ossia il sistema capitalistico: privatizzazioni e riduzione del welfare rispondono alla necessità del Capitale di espandersi in nuovi ambiti, il maggior sfruttamento, ossia bassi salari e lavoro precario a uso e consumo delle oscillazioni della domanda del mercato, risponde al bisogno di recuperare maggiori margini di profitto, ed entrambe le operazioni servono al capitalismo per salvarsi dall’attuale crisi – fino alla prossima, ovviamente.
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L’incanto spezzato della dialettica
Giso Amendola
«Hegel e Spinoza» è il saggio di Pierre Macherey scritto intorno all’operazione compiuta da Hegel tesa a neutralizzare l’anomalia rappresentata dal filosofo olandese. Un esempio di limpida battaglia politica condotta attraverso un rigoroso lessico filosofico
Crea uno strano effetto avere oggi a disposizione in traduzione, grazie alla preziosa cura editoriale di Emilia Marra, un libro importante come l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito nel 1979, quasi come ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono oggi decisamente inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche se probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle quali era nato.
Nella premessa all’edizione italiana, Macherey indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per la teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non sembra essere all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E certo questo cambia il tipo di lettura che il testo riceve. Probabilmente, però, non si tratta solo della temperatura più o meno calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto discutibile. Quello che davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è concepito quasi come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di battaglie filosofiche molto precise.
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Un rattoppo chiamato Atlante
Leonardo Mazzei
Spesso la finanza è immaginifica. E a volte ricorre alla mitologia. E' nato così «Atlante», che anziché portare l'intera volta celeste sulle spalle, come nella leggenda, questa volta dovrà occuparsi di mantenere in piedi il sistema bancario italiano. Non è detto che l'impresa si riveli più facile.
Ma che cos'è Atlante? Questa nuova creatura governativo-bancaria altro non è che un Fia (Fondo di investimenti alternativo), di natura teoricamente privata, dotato di una semplice (si fa per dire) mission: garantire la ricapitalizzazione degli istituti di credito in crisi, ripulire i bilanci degli stessi dal peso insopportabile delle sofferenze. In una parola, evitare il crac di buona parte del sistema bancario nazionale.
Insomma, dopo aver rimandato per anni gli interventi necessari, dopo aver subito la disastrosa regola europea del bail in, dopo aver incassato il nein euro-tedesco alla bad bank, la classe dirigente italiana (governo, Bankitalia, maggiori gruppi bancari, eccetera) ha partorito il gracile Atlante. Riuscirà questo fondo a raggiungere gli obiettivi dichiarati? Crederlo non è difficile, è praticamente impossibile.
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Il nuovo fordismo individualizzato
Lelio Demichelis
Davvero siamo felicemente usciti dal fordismo del 900? Oppure siamo semplicemente dentro a una nuova fase della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Davvero il lavoro è cambiato, oggi, in tempi di terza (o già di quarta, con la digitalizzazione) rivoluzione industriale, rispetto alla prima di fine Settecento? Davvero siamo felicemente (e finalmente!) usciti dal fordismo greve e pesante del ‘900 per approdare al post-fordismo leggero, flessibile e virtuoso, alla produzione snella, all’economia della conoscenza e all’era dell’accesso, alla new economy degli anni ’90 e ora alla sharing economy e agli smart jobs – e qualcuno (Paul Mason) immagina persino un favoloso post-capitalismo? Oppure siamo semplicemente (e drammaticamente) dentro a una nuova fase della Grande Narrazione tecnica e capitalista?
Se carattere tipico e definitorio del fordismo era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo e generalmente senza particolari qualifiche e specializzazioni («Io» – diceva Henry Ford – «non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri le operazioni ripetitive non sono un motivo di orrore. L’operaio medio desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare»), il post-fordismo si caratterizzerebbe invece per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono una particolare enfasi sulla specializzazione e sulla qualificazione del lavoro e delle competenze nonché sulla flessibilità dei lavoratori.
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Non c’è posto per l’acqua pulita nel ‘libero scambio’
di Pete Dolack
Ancora un’altra situazione di stallo ha preso forma tra acqua potabile e profitti minerari in Colombia, dove due società insistono che il loro diritto di inquinare viene prima della salute umana e dell’ambiente. Come succede di solito in questi casi, la sfavorita è l’acqua pulita.
Due milioni di persone dipendono dalle lagune di elevata altitudine, che sono anche il rifugio di specie minacciate, che una compagnia mineraria canadese, la Eco Oro Minerals Corporation, vuole usare per una miniera d’oro. Le lagune, il Santurbàn Pàramo delle Ande, sono state dichiarate interdette all’accesso dalla più alta corte colombiana a causa della sensibilità ambientale dell’area. La Eco Oro sta citando in giudizio il governo colombiano al riguardo sulla base dell’Accordo di Libero Scambio Canada-Colombia.
La disputa sarà probabilmente esaminata da un tribunale segreto che è un braccio della Banca Mondiale, nonostante che la Banca Mondiale abbia fornito capitali d’investimento alla Eco Oro per sfruttare la miniera.
La Eco Oro non ha detto quale somma intenda chiedere, ma un’altra compagnia mineraria, la statunitense Tobie Mining and Energy Inc., ha separatamente citato la Colombia per 16,5 miliardi di dollari poiché il governo ha rifiutato di consentirle di aprire una miniera d’oro in un parco nazionale.
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Bombardamento Etico!
di Costanzo Preve
Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca de “Il Bombardamento Etico” (luglio 2012)
Il 14 aprile 2016, Costanzo avrebbe compiuto 73 anni. Ed invece ha dovuto congedarsi dalla vita nel novembre 2013.Ma ha pensato, lavorato, scritto fin che ha potuto. Nel luglio del 2012 aveva preparato la prefazione alla edizione greca del suo «Il Bombardamento Etico», tre pagine che proponiamo alla considerazione critica dei lettori.Sono trascorsi 16 anni da quando pubblicammo questo suo importante testo, che – come dice l’autore – non solo non è invecchiato, ma è ancora più attuale. Sedici anni, eppure vivida è la memoria di quei giorni in cui,ospitando Costanzo per qualche giorno a casa mia qui nella campagna intorno a Pistoia, leggevamo il suo dattiloscritto, discutendone in modo appassionato, per prepararne la pubblicazione. [C. F.]
* * *
Sono molto contento che il mio saggio Il Bombardamento Etico, scritto negli ultimi mesi del 1999 e pubblicato in lingua italiana nel 2000, sia stato tradotto in greco. Rivedendo la traduzione, precisa, corretta e fedele, mi sono reso conto che purtroppo il saggio non è “invecchiato” in dieci anni, ma in un certo senso è ancora più attuale di dodici anni fa. E’ ancora più attuale, purtroppo. E su questo “purtroppo” intendo svolgere alcune rapide riflessioni.
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L'idea di socialismo
di Axel Honneth
Pubblichiamo in anteprima, per gentile e gradita concessione della casa editrice Feltrinelli, la prefazione e l'introduzione dell'ultimo libro di Axel Honneth, "L'idea di socialismo". Il libro, tradotto in italiano da Marco Solinas, sarà nelle librerie a partire dal prossimo 5 maggio
Prefazione
Sono trascorsi meno di cento anni da quando il socialismo era un movimento così forte all’interno delle società moderne che pressoché nessuno dei grandi teorici sociali del tempo ritenne di potersi astenere dal dedicargli una trattazione dettagliata, talvolta critica talvolta invece fortemente simpatetica, ma sempre comunque attenta e rispettosa. Iniziò John Stuart Mill, ancora nel XIX secolo, seguito da Émile Durkheim, Max Weber e Joseph Schumpeter, per citare soltanto i più importanti; nonostante questi autori mostrassero grandi differenze quanto a convinzioni personali e programmi teorici, tutti però concordavano nel vedere nel socialismo una sfida intellettuale che avrebbe dovuto accompagnare il capitalismo per lungo tempo. Oggi la situazione è completamente diversa. Posto che nell’ambito dell’attuale discussione di teoria sociale il socialismo venga ancora menzionato, sembra sia ormai una convenzione quella di considerarlo alla stregua di un residuato bellico, di un sopravvissuto; non lo si ritiene infatti più in grado di riaccendere l’entusiasmo delle masse, né tantomeno di indicare delle valide alternative al capitalismo contemporaneo. Quasi in una sola notte – Max Weber si sarebbe stropicciato gli occhi, meravigliato –, due grandi antagonisti del XIX secolo si sono scambiati i ruoli: ora la religione sembra una promettente forza etica lanciata verso il futuro, mentre il socialismo è percepito come una creatura spirituale del passato.
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Gianroberto Casaleggio e la domanda di una "nuova" democrazia
Il retaggio di due interrogativi
di Quarantotto
1. La figura di Gianroberto Casaleggio è stata enormemente importante nella vita politica italiana degli ultimi dieci anni.
Comunque la si voglia valutare, cosa che sarà lasciata a futuri giudizi storici e politologici, non si può non considerare che egli abbia tentato di dare una risposta alla domanda di democrazia che, per vari e diversi motivi (molto più complessi di quanto non consenta di cogliere l'analisi correntemente fattane dal sistema mediatico in ogni sua forma), si è levata da parte di una larga componente del popolo italiano.
E' perciò pienamente comprensibile e legittimo che il ricordo a caldo sia espresso citando queste sue parole, da parte di chi in lui aveva trovato queste risposte.
2. Senza però voler muovere alcuna critica nel merito, il venir meno di una figura così importante e trainante, pone obiettivamente due interrogativi che, comunque, dovranno trovare risposta nei prossimi mesi.
Li formulerò in modo generale e strettamente attinente al ricordo-epitaffio sopra riportato:
a) L'art.49 della Cost. recita:
"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale".
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Quando l’occhio del potere si fa ossessione pop
di Marco Cubeddu
Who watches the Watchmen?
Quis custodiet ipsos custodes? «Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?»
La formula, resa celebre dal fumetto (poi film) Watchmen, è di Giovenale, ma il concetto, già alla base delle ironiche riflessioni di Platone sull’assurdità che i custodi avessero a loro volta bisogno di custodi, si è recentemente imposto come tema cruciale anche nella cultura pop, tanto da essere affrontato nell’ultimo 007, Spectre, nel terzo episodio della saga di Batman di Cristopher Nolan, The dark knight rises, passando per il romanzo The Circle di Dave Eggers e il capitolo più recente del videogioco Call of duty.
Nei giorni in cui Apple, con il sostegno di Google, Facebook e Microsoft, lotta contro l’FBI per definire in tribunale i rispettivi diritti e doveri dopo lo scandalo sulla sorveglianza di massa delle comunicazioni da parte della NSA (National Security Agency) e la Cina annuncia lo sviluppo di un software per prevenire atti terroristici (e contestazioni governative?), la sorveglianza informatica diventa colonna portante di alcune tra le più riuscite e sofisticate narrazioni contemporanee: dall’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, a serie televisive di grande successo come House of cards, Homeland e Mr.Robot.
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Nuit Debout, una lotta ri-costituente
Jamila Mascat
Il movimento francese contro il Jobs act di Valls e Hollande dilaga in tutto il paese. La protesta degli studenti e dei precari contro la riforma del lavoro El Khomri coinvolge i ferrovieri e i portuali. In migliaia restano nelle piazze fino a notte fonda. La polizia sgombera, il giorno dopo ricominciano le occupazioni. A due settimane dal gigantesco sciopero contro il governo socialista, gli orologi sono fermi. Oggi in Francia è il 46 marzo
A più di cinque settimane dal primo sciopero di protesta contro la riforma del lavoro, il 9 marzo, la Loi El Khomri sembra un effetto goffamente indesiderato. La legge di troppo, quella che ha fatto traboccare il vaso dell’insofferenza ed è riuscita a coagulare la rabbia delle vite precarie di giovani e lavoratori esposti ai contraccolpi della crisi economica e sottoposti da oltre cinque mesi alla cappa asfittica dello stato di emergenza. E infatti ni chair à patron, ni chair à matraque (non siamo carne da macello per le imprese né per i manganelli) è diventato il ritornello della protesta.
Se la difesa dello statuto dei lavoratori sotto attacco è il primo punto all’ordine del giorno, la posta in gioco della mobilitazione è ben altra. Al coordinamento nazionale degli studenti medi, che sabato e domenica si è riunito per la prima volta a Nanterre, c’è perfino chi suggerisce di votare la rivoluzione. Nelle assemblee universitarie (miste, non miste, di dipartimento e interfacoltà), che si susseguono e si moltiplicano a scadenze ravvicinate, il lavoro è in questione: si discute delle 32 ore, dei sussidi di disoccupazione, di basic income e organizzazione sindacale.
C’è chi perora la causa dei contratti a tempo indeterminato, chi dice “lavorare tutti/lavorare meno” e chi, come Selim, al quarto anno di filosofia alla Sorbona, di lavoro salariato non vuole sentire parlare perché andrebbe abolito.
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Dani Rodrik, “Ragioni e torti dell’economia”
di Alessandro Visalli
L’economista turco Dani Rodrik (questo il suo blog) è sicuramente una delle star del panorama economico internazionale, docente ad Harvard e autore del famoso “trilemma” sulla globalizzazione lanciato dal suo libro “La globalizzazione intelligente”, della quale avevamo fatto questa lettura. In questo libro tenta una complessa difesa della professione economica, anche se in una versione in cui sono avanzate più modeste assunzioni sulla capacità di conoscere il mondo “vero” attraverso i suoi strumenti.
La tesi essenziale è piuttosto semplice, in prima lettura: la realtà sociale (e quindi economica) non si può conoscere né prevedere, tuttavia per agire in modo razionale è necessario compiere con il giusto metodo e le corrette aspettative le semplificazioni e modellazioni che la disciplina organizza. La contraddizione si risolve, nella sua proposta, grazie al pluralismo. Precisamente al pluralismo dei modelli.
Questa prospettiva è molto interessante e promettente, ma non riesce a convincermi pienamente. L’economista “eterodosso” in troppi punti mi appare ancora legato da fili resistenti al paradigma neoclassico, ed al suo realismo ingenuo di derivazione neopositivista, e non riesce a trarre complete conclusioni dal suo “allentamento” di aspettative. Rodrik si dice vicino ad una prospettiva pragmatista (più propriamente “neo”) ma alcuni avvertimenti tipici della tradizione sono esercitati in modo credo troppo debole. L’abbandono dell’idea di Verità come corrispondenza ad una Realtà prestrutturata (o auto-strutturata), implicata nel neo-positivismo, in favore dell’inclusione del nostro contributo concettuale (che è sempre sociale e linguisticamente definito) che include sempre i criteri di verificazione e quelli di verità, porterebbe infatti in caso di coerente applicazione agli enunciati tentati dall’economista di Harvard a diversi “non sequitur” nella catena delle argomentazioni. Almeno questa è l’impressione che ho tratto dalla lettura.
Il movimento del libro di Rodrik parte dal discredito reciproco, verso il quale intende lanciare ponti, tra i settori disciplinari ed accademici degli economisti professionali e degli altri scienziati sociali (sociologi, politologi). Una controversia che matura nel diverso utilizzo e concezione del metodo scientifico ed in particolare nell’uso dei modelli matematici.
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Petrolio, trivelle, politicanti, referendum e noi
di Clash City Workers
Sono ancora tante le idee confuse che circolano riguardo il referendum di domenica 17 Aprile, e in molti cadiamo nei trabocchetti del premier Renzi che ha esplicitamente invitato a boicottarlo.
Di seguito trovate l’utilissima analisi di una persona che si sporca le mani ogni giorno contribuendo ad organizzare i lavoratori in un sindacato conflittuale, che si è messo a studiare a fondo su cosa andremo a votare domenica, quali e di chi sono realmente gli interessi che il referendum mette in discussione. Si è anche chiesto fino a quale punto lo strumento referendario può essere efficacie in questo momento, quali le sue potenzialità e quali i suoi limiti che richiedono l’intervento di tutti, giorno per giorno.
* * *
Un piccolo contributo da parte di un compagno alla discussione sulle trivelle. Per realizzarlo, si è servito delle fonti avute dal Dott. Giuseppe Miserotti (ex presidente dell’Ordine dei Medici di Piacenza), da tutti i compagni dei movimenti NoTriv (in particolare Erika, i cui documenti interessantissimi vanno ben al di là dell’Italia e che qui non potevano essere inseriti per questioni di lunghezza) e da Nicola Armaroli (ricercatore al CNR di Bologna nonché direttore della rivista Sapere, ovvero la massima autorità in fatto di pubblicazioni scientifiche in Italia).
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Colonizzazione dell'immaginario e controllo sociale
di Renato Curcio
Incontro-dibattito sul libro L’Impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2015) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 14 febbraio 2016
L’Impero virtuale, nonostante il titolo, non è un lavoro su internet; internet è solo lo sfondo, è un territorio che oggi fa parte dello spazio in cui viviamo e quindi in qualche modo, parlando di questo libro, lo attraverseremo. Non è neanche un sermone contro le tecnologie, che esistono fin da quando un uomo ha preso in mano una clava, ossia uno strumento, e che quindi accompagnano l’intera storia dell’umanità. Non si tratta dunque di essere né pro né contro, ma di mantenere vivo un pensiero critico – che in quest’epoca fa un po’ difetto – anche sugli strumenti, soprattutto quelli che non sono né secondari né trascurabili per il fatto che investono la nostra vita, sia lavorativa che relazionale. Intendo la nostra vita di specie, cioè una vita che è trasversale e ci mette sullo stesso piano di un cittadino cinese, spagnolo, del Sudafrica ecc. È una riflessione necessaria perché queste nuove tecnologie, a differenza di quelle precedenti della società industriale, si implementano a una velocità straordinaria, per cui abbiamo di fronte a noi un percorso di trasformazione sociale che va talmente veloce che la nostra capacità di coglierne il senso dello sviluppo, il significato e le implicazioni, come singoli cittadini e anche ricercatori e soprattutto come lavoratori che vivono in vario modo questi territori, è disorientata. Un disorientamento che assume due facce: quella dell’accettazione, spesso acritica, di queste tecnologie, come se fossero ormai una normalità; oppure un’accettazione molto dolorosa, perché chi deve fare i conti con un bracciale che monitorizza la sua vita lavorativa per ogni secondo di spazio e di tempo, ha certamente una relazione diversa con questi dispositivi rispetto a una persona che li utilizza in maniera acritica o superficiale.
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Sguardi incrociati sui luddisti ed altri distruttori di macchine
Il ruolo della tecnica nella problematica del mutamento sociale
di Michel Barillon
Quelli che ci trattano da "distruttori di macchine", dovremmo trattarli noi, in cambio, da "distruttori di uomini."
- Günther Anders [*1]
Per una rilettura della Rivoluzione Industriale
Recentemente, nello spazio di un anno, senza alcuna concertazione, le case editrici francesi hanno pubblicato quattro opere che riguardano la distruzione delle macchine [*2]. Fino ad allora, gli editori, riflettendo in questo l'attitudine della maggior parte degli storici, avevano dimostrato assai poco interesse alle rivolte contro le macchine avvenute all'alba della Rivoluzione industriale. Ciò era essenzialmente dovuto al fatto che quei movimenti venivano percepiti come la manifestazione di un "oscurantismo tecnologico", una reazione arcaica nei confronti di una dinamica storica che si presume si svolgesse sotto gli auspici del "Progresso". Lo attestano i manuali di storia: così, quando i fatti in questione non vengono puramente e semplicemente ignorati, vengono presentati come un "reazione primitiva" [*3]. Nell'arte della negazione, David S.Landes appare come un virtuoso: su circa 750 pagine di un libro consacrato alla nascita e alla crescita del capitalismo industriale, non dice niente dei disordini sociali che hanno segnato l'inizio dell'industria tessile in Inghilterra nei primi decenni del 19° secolo. Ai suoi occhi, "la Rivoluzione industriale insieme al matrimonio della scienza con la tecnica costituiscono il culmine di millenni di progresso industriale". E tale acme apre una nuova era di espansione illimitata, a partire da un "progresso cumulativo della tecnica e della tecnologia, un progresso autonomo" ancora più sfrenato dal momento che tradizioni e pregiudizi vengono abbandonati [*4].
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Il dolente risveglio degli avatar
Benedetto Vecchi
«Anime elettriche», un nuovo volume del gruppo di ricerca Ippolita. Proposte di una cura del sé dopo la riduzione della Rete a dispositivo di controllo sociale che colonizza l’immaginario
I social network non riflettono la realtà, semmai la manipolano all’interno di una stringente e profittevole logica del controllo sociale. È uno dei punti fermi di Anime elettriche (Jaca Book, pp. 118, euro 12), un agile, ma denso volume di Ippolita, il gruppo di mediattivisti milanesi e non solo che da circa un decennio analizza l’evoluzione della Rete e della network culture. Un gruppo di informatici, filosofi, antropologi e attivisti che ha avuto come «incubatore» gli hack lab fioriti negli anni Novanta del Novecento nei centri sociali, dove l’alfabetizzazione informatica si univa creativamente alla sperimentazione di un uso «alternativo», antagonista delle tecnologie digitali e della Rete.
Di quella stagione è rimasta intatta l’irriverente attitudine libertaria e la conseguente insofferenza verso ogni dogmatica attorno alla Rete, compresa quella che tutt’ora caratterizza la network culture. I componenti del gruppo hanno deciso di discutere, elaborare e scrivere collettivamente a partire da una pratica di condivisione «circoscritta» (il numero dei componente varia nel tempo, ma non supera mai le dieci persone). A testimonianza del loro lavoro vanno citati i volumi Open non è free (sul software non vincolato alle norme dominante sulla proprietà intellettuale), Luci e ombre su Google, Nell’acquario di Facebook, La rete è libera e democatica. Falso!.
Il panopticon digitale
Anime elettriche ha però le caratteristiche di un volume di svolta, quasi a ratificare una presa di congedo dal recente passato.
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La disoccupazione al di là del senso comune
di Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 2/2016 a cura del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Presentazione
Poco meno di vent’anni fa, nel 1997, aprivamo il nostro Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro sostenendo che “in quasi tutti i paesi economicamente sviluppati sta finalmente prendendo corpo un orientamento sociale embrionalmente favorevole ad una redistribuzione del lavoro. Ci sono titubanze, continui ripensamenti e aspre resistenze. C'è una grande difficoltà a concepire una riduzione d'orario che, al pari di quasi tutte quelle intervenute in passato, lasci il salario invariato o addirittura lo veda aumentare. Ma il problema sembra ormai essere stato comunque posto sul tappeto in modo irreversibile. L'elevata disoccupazione, che ha quasi ovunque raggiunto i più alti livelli dopo la crisi degli anni trenta, rafforza questa tendenza e sollecita qualche intervento pubblico diretto a favorire prime sporadiche redistribuzioni all'interno di singole aziende in crisi. In qualche raro caso sono le stesse parti sociali a concordare riduzioni del tempo di lavoro, come un espediente per evitare il puro e semplice licenziamento di una quota rilevante della forza-lavoro.”
Ma quella nostra anticipazione delle tendenze in atto era decisamente sbagliata. Faceva affidamento su una ragionevolezza del senso comune che non ha preso corpo nemmeno col precipitare della crisi degli ultimi dieci anni.
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Figli di nessuno. Storie conflittuali nell’alta Lombardia degli anni ’70
di Gioacchino Toni
Sergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano, 2016, 336 pagine, € 15,90
«Credo che la ricchezza principale della nostra piccola esperienza militante fatta in quei paesi di provincia sia consistita nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere». S. Bianchi (p. 34)
Il libro di Sergio Bianchi, di cui è uscita nel marzo 2016 questa nuova edizione ampliata di un’ottantina di pagine rispetto all’edizione del 2015, racconta un periodo di storia conflittuale collettiva nell’alta Lombardia a cui ha preso parte in prima persona l’autore a partire dai primi anni ’70. In apertura di volume, Bianchi sottolinea come quelle insorgenze sociali che hanno investito anche la provincia alto-lombarda, originatesi sull’onda lunga del biennio ’68-’69, possono dirsi concluse nei primi anni ’90 con la diffusione in quei territori del progetto leghista.
Se il biennio ’68-’69 può essere visto come momento di detonazione di quell’onda lunga che poi investirà le realtà di provincia descritte nel volume, secondo Bianchi vale la pena spendere qualche pagina sul “pre-sessantotto” di quelle zone, periodo già precedentemente affrontato dall’autore sotto forma di romanzo (La gamba del Felice, 2006) [su Carmilla]. Il capitolo d’apertura di Figli di nessuno ricostruisce le trasformazioni subite dalla provincia a nord di Milano tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60; quasi un quindicennio di lento ed inesorabile declino del mondo contadino distrutto dalla meccanizzazione della campagna a totale beneficio dei grandi proprietari terrieri e da una mentalità individualista che non ha saputo dar vita a soluzioni associative cooperativistiche.
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Il capitalismo tecnologico rinuncia alla democrazia
Evgeny Morozov
Basta sfogliare un quotidiano per rendersi conto che il capitalismo democratico transatlantico, che è stato il motore dello sviluppo economico dopo la seconda guerra mondiale, sta vivendo un periodo difficile. Fame, povertà, disoccupazione giovanile, sostanze chimiche nell’acqua potabile, mancanza di alloggi a prezzi sostenibili: tutte questi problemi sono tornati d’attualità anche nei paesi più ricchi.
La cosa non dovrebbe sorprendere: questo declino della qualità della vita, temporaneamente nascosto sotto il velo retorico dell’innovazione, ha radici profonde, e quarant’anni di politiche neoliberiste stanno finalmente presentando il conto.
Ma sommato alle conseguenze delle guerre mediorientali (prima i rifugiati e ora i sempre più frequenti attentati terroristici nel cuore dell’Europa), il disagio politico ed economico dell’occidente appare ancora più terribile. Non sorprende più di tanto che per i movimenti populisti antisistema, sia di destra sia di sinistra, sia così facile mettere in difficoltà le élite. Da Parigi a Flint, in Michigan, i governanti hanno dato tali prove di inettitudine e incompetenza che hanno finito per far sembrare Donald Trump un superuomo in grado di salvare il pianeta.
Sembra che il capitalismo democratico – quella strana creatura istituzionale che ha cercato di coniugare il modello economico capitalista (il governo implicito di pochi) con il sistema politico democratico (il governo esplicito di molti) – stia vivendo un’altra crisi di legittimità.
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Globalizzazione e decadenza industriale
Intervista a Domenico Moro
Globalizzazione e decadenza industriale è il titolo dell’ultimo libro dell’economista Domenico Moro. In questo libro Domenico analizza alcuni temi fondamentali legati allo sviluppo del capitalismo degli ultimi 50 anni. Il baricentro della sua analisi sta proprio nelle modificazioni strutturali che hanno prodotto questa nuova fase chiamata fase transnazionale della produzione industriale e come tali modificazioni diventano la leva per il formarsi di nuove sovrastrutture politiche e accordi internazionali finalizzati al controllo dei profitti e al dominio sul mercato in questa “nuova” era sociale. Abbiamo chiesto all’autore di aiutarci a dipanare alcuni nodi legati all’attuale conformazione storica del capitalismo analizzandone per grandi linee gli ultimi sviluppi al fine di cogliere alcune ricadute politiche immediate nel contesto europeo.
* * *
D. Domenico, il punto di partenza della tua analisi non poteva che essere lo sviluppo delle forze produttive e le caratteristiche della crisi che hanno prodotto la fase attuale detta del capitalismo transnazionale, ci potesti dire, magari usando delle parole chiavi, quali sono le caratteristiche principali di questa fase?
R. Alla metà degli anni ’70 il centro del capitalismo (Usa, Europa occidentale e Giappone) si è trovato in un grave crisi economica e politica per il riemergere della sovrapproduzione di capitale e della conseguente caduta del saggio di profitto, e per il successo delle lotte delle classi subalterne nel centro e nella periferia del sistema capitalistico mondiale.
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