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Michel Foucault: scrittura di sé e sperimentazione

di Daniele Lorenzini

In quella Svezia in cui dovevo parlare un linguaggio che mi era straniero, ho compreso che potevo abitare il mio linguaggio – con la sua fisionomia d’improvviso peculiare – come il luogo più segreto e più sicuro della mia residenza in quel luogo senza luogo che rappresenta il paese straniero nel quale ci si trova. […] Credo che sia stato questo a farmi venire voglia di scrivere. Dal momento che la possibilità di parlare mi era negata, ho scoperto il piacere di scrivere.  Michel Foucault, Entretien avec Claude Bonnefoy, 1968[1]

Cinquant’anni fa Michel Foucault pubblicava Le parole e le cose

75683 54 news hub 69639 656x500In che modo Michel Foucault ha concepito e praticato l’articolazione tra ciò che ha chiamato “soggettivazione” (il processo di costituzione della soggettività) e la scrittura, anche dal punto di vista personale – ovvero in relazione alla propria pratica di scrittura e alla costituzione della propria soggettività? È a questa domanda che mi propongo di rispondere, senza pretendere di fornire una risposta univoca o definitiva, ma cercando di mettere in luce la tensione che appare, in particolare nei testi degli ultimi anni di vita di Foucault, tra due grandi “modelli” del rapporto soggettivazione-scrittura: da una parte, il modello della scrittura come pratica di de-soggettivazione, come strumento utilizzato per “svincolarsi” (se déprendre) da se stessi e dalla propria “forma-soggetto”; d’altra parte, il modello della scrittura come esercizio spirituale la cui funzione è “ethopoietica”, cioè come strumento di costruzione “positiva” di sé – di soggettivazione, dunque, piuttosto che di de-soggettivazione.

 

La scrittura come esperienza di de-soggettivazione

Per descrivere il primo modello, farò riferimento a una serie di testi e di interviste dal tono fortemente “autobiografico”, nei quali Foucault parla del proprio modo di fare ricerca in ambito storico-filosofico e del proprio rapporto con la scrittura. È senz’altro utile cominciare dalla citazione della famosa risposta di Foucault a Duccio Trombadori, in occasione di un’intervista condotta alla fine del 1978 e pubblicata due anni più tardi:

Sono ben cosciente di spostarmi in continuazione sia per quel che riguarda le cose alle quali mi interesso, sia in rapporto a ciò che ho già pensato. Non penso mai esattamente la stessa cosa, e questo perché i miei libri sono per me delle esperienze, nel senso più letterale del termine. Un’esperienza è qualcosa da cui usciamo trasformati. Se dovessi scrivere un libro per comunicare quel che già penso prima di aver cominciato a scriverlo, non avrei mai il coraggio di iniziarlo. Lo scrivo soltanto perché non so ancora esattamente che cosa pensare di questa cosa che vorrei tanto pensare. Di modo che il libro mi trasforma e trasforma quello che penso. […] Sono uno sperimentatore, perché scrivo per cambiarmi e per non pensare più la stessa cosa che pensavo in precedenza[2].

Il primo modello del rapporto tra scrittura e soggettivazione, in Foucault, può quindi essere descritto utilizzando il concetto chiave di esperienza[3]. “Esperienza”, qui, possiede un significato ben preciso: Foucault indica, con questo termine, una modalità di rapporto con se stessi attraverso la quale ci si trasforma, si modifica ciò che si è e ciò che si pensa, scavando in qualche modo un fossato tra ciò che si era e si pensava e ciò che si è e si pensa adesso. Un po’ più avanti, nella stessa intervista, Foucault afferma di aver trovato tale concetto di esperienza in Nietzsche, Blanchot e Bataille: un’«esperienza limite, che strappa il soggetto da se stesso» e fa in modo che «non sia più lui, o che sia condotto al suo annientamento o alla sua dissoluzione». Concepire la scrittura come un’esperienza significa dunque pensarla come una vera e propria «impresa di de-soggettivazione»[4]. In un’intervista pubblicata nel maggio del 1984, Foucault definisce l’«etica di un intellettuale» nel modo seguente: «rendersi capaci in permanenza di svincolarsi [se déprendre] da se stessi»[5].

Dinanzi a queste affermazioni, tuttavia, una domanda sorge spontanea: che ne è della verità? Foucault sostiene di aver scritto i propri libri per trasformarsi, per svincolarsi da se stesso, benissimo! Ma se ha scritto libri che vogliono essere libri di filosofia – o di storia, o di sociologia, non importa qui il modo in cui vogliamo etichettare il suo lavoro –, la trasformazione di sé non poteva rappresentare il suo unico obiettivo; sarà pur stato obbligato a porsi il problema della verità di ciò che scriveva… Dopo che Trombadori ha evocato la possibilità di una simile obiezione, Foucault precisa in effetti che «il problema della verità di ciò che dico è, per me, un problema molto difficile, e forse il problema cruciale». Tuttavia, Foucault sposta e riformula subito la posta in gioco di tale problema, spiegando che la questione della verità di ciò che dice o scrive non si pone nei termini nei quali viene abitualmente posta dalle scienze in generale, e dalle scienze umane in particolare. È a questo punto che Foucault introduce il termine di “finzione”.

Nel gennaio del 1977, Foucault aveva già affermato di non aver scritto mai nient’altro che finzioni, ma di non voler affatto, per questo, posizionarsi al di fuori del problema della verità, poiché a suo avviso «è possibile far lavorare la finzione nella verità, provocare effetti di verità con un discorso di finzione, e fare in modo che il discorso di verità susciti, fabbrichi qualcosa che non esiste ancora, dunque “finzioni” [fictionne[6]. Due anni più tardi Foucault è ancora più chiaro: non bisogna – spiega – cercare la verità dei suoi libri nelle tesi che formulano, ma negli effetti che la scrittura e la lettura di tali libri hanno sul proprio autore e sui lettori. Così, per esempio, la Storia della follia non è di certo stata scritta per far contenti gli storici di professione (ovvero per ricostruire una “storia” della follia nel senso tradizionale del termine, una storia che fonderebbe la propria “verità” sull’esattezza o la verificabilità delle tesi ivi esposte), quanto piuttosto per «fare io stesso, e [invitare] gli altri a fare con me, attraverso un contenuto storico determinato, un’esperienza di ciò che siamo, di ciò che è non soltanto il nostro passato ma anche il nostro presente, un’esperienza della nostra modernità tale da uscirne trasformati»[7].

È quindi degli effetti di trasformazione che un libro innesca, più che del suo “contenuto” o “valore” di verità, che Foucault si preoccupa: l’essenziale si trova per lui nell’esperienza che un libro permette di fare, non solo al suo autore, ma anche ai lettori. Questa esperienza, come ogni altra del resto, «non è né vera né falsa», ma è, precisamente, una «finzione»; una finzione, però, che «autorizza un’alterazione, una trasformazione del rapporto che abbiamo con noi stessi e con il mondo nel quale, fino ad allora, ci riconoscevamo senza problemi»[8]. Per tentare di chiarire le cose, potremmo fare riferimento a un’intervista del 1979, nella quale Foucault afferma di praticare «una sorta di finzione storica» e di essere ben cosciente del fatto che, in un certo senso, quello che ha scritto a proposito (per esempio) della follia «non è vero». Tuttavia, dice, «il mio libro ha avuto un effetto sul modo in cui le persone percepiscono la follia[, e] dunque il mio libro e la tesi che vi sviluppo hanno una verità nella realtà odierna». E prosegue:

Cerco di provocare un’interferenza tra la nostra realtà e ciò che sappiamo della nostra storia passata. Se ci riesco, tale interferenza produrrà degli effetti reali sulla nostra storia presente. La mia speranza è che i miei libri assumano la propria verità una volta scritti – e non prima. […] Spero che la verità dei miei libri sia nell’avvenire .[9].

Sarebbe naturalmente interessante mettere in luce il legame che è possibile tracciare tra queste affermazioni e gli scritti di Foucault sull’Aufklärung, nei quali – come noto – definisce la filosofia come un atteggiamento storico-critico il cui scopo è individuare «la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a vincoli arbitrari» in «ciò che ci è presentato come universale, necessario [e] obbligatorio», cercando al contempo di far emergere «dalla contingenza che ci ha fatti essere quello che siamo la possibilità di non essere, di non fare e di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo». In effetti, questo atteggiamento storico-critico, secondo Foucault, «deve essere anche un atteggiamento sperimentale», giacché il lavoro filosofico deve sempre «mettersi alla prova della realtà e dell’attualità, per individuare i punti in cui il cambiamento è possibile e desiderabile e, al contempo, per determinare la forma precisa da dare a tale cambiamento»[10].

Il primo modello del rapporto tra soggettivazione e scrittura, quello che Foucault descrive riflettendo sul proprio lavoro di filosofo e di storico, è dunque caratterizzato dal fatto che la scrittura è concepita come un’esperienza che è, insieme, una sperimentazione, poiché il soggetto che vi si implica non sa a priori dove tale esperienza lo condurrà, e non è spinto dal tentativo di raggiungere una verità determinata né di scoprire una verità nascosta al fondo delle cose – o di se stesso. In questo contesto, la verità è una “funzione” della realtà: non si scopre, si pratica, si fabbrica, si inventa; e un libro possiede un “valore di verità” precisamente (e soltanto) nella misura in cui è capace di produrre effetti reali sul proprio autore, sui propri lettori, e di conseguenza anche sul mondo (ma questi effetti non sono mai prevedibili in anticipo).

Per riassumere le caratteristiche principali del primo modello, quello della scrittura come Foucault stesso l’ha praticata, potremmo quindi dire che si tratta di una “scrittura-esperienza”, attraverso la quale il soggetto-scrittore si trasforma e incita gli altri – i lettori – a trasformarsi a loro volta (e a trasformare eventualmente la realtà sociopolitica); la scrittura, tuttavia, non è qui, per il soggetto, uno strumento di soggettivazione, attraverso il quale cioè costruire una “forma-soggetto” ben precisa e in relazione a una verità che sarebbe stata scoperta o appresa. Al contrario, a tale scrittura-esperienza corrisponde uno svincolarsi, uno strapparsi da se stesso – un processo di de-soggettivazione che rifiuta ogni fissazione e che si compie in relazione a una verità essa stessa mobile, cangiante, una verità che si pratica e si inventa giorno per giorno.

 

La scrittura come esercizio di soggettivazione

Nei testi di Foucault è però possibile individuare un secondo modello del rapporto tra scrittura e soggettivazione. Si tratta di un modello che l’ha senza dubbio affascinato, e che tuttavia, almeno in apparenza, è estremamente differente da quello che ho appena tratteggiato. Foucault lo descrive analizzando e riflettendo su una serie di pratiche di scrittura tipiche della filosofia antica.

Nell’articolo L’écriture de soi, pubblicato nel febbraio del 1983, Foucault si propone di studiare il ruolo della scrittura all’interno di ciò che chiama «la cultura filosofica di sé» in epoca imperiale, in particolare nelle opere di Seneca, Plutarco, Epitteto e Marco Aurelio. Questa volta non è il concetto di esperienza a giocare il ruolo chiave, ma quello di esercizio (indizio molto chiaro dell’influenza esercitata su Foucault dai lavori di Pierre Hadot sulla filosofia antica come esercizio spirituale e modo di vivere[11]):

Nessuna tecnica, nessuna abilità professionale può essere acquisita senza esercizio; neanche l’arte di vivere, la techne tou biou, può essere appresa senza un’askesis che va intesa come un allenamento di sé da parte di se stessi […]. Sembra proprio che, tra tutte le forme assunte da tale allenamento (che comportava astinenze, memorizzazioni, silenzio e ascolto dell’altro), la scrittura – il fatto di scrivere per sé e per gli altri – abbia cominciato a rivestire un ruolo significativo piuttosto tardi. In ogni caso, i testi dell’epoca imperiale che trattano delle pratiche di sé dedicano ampio spazio alla scrittura[12].

In quel periodo, in effetti, la scrittura costituiva «una tappa essenziale del processo al quale tende[va] tutta l’askesis, ovvero l’elaborazione dei discorsi ricevuti e riconosciuti come veri in principi razionali di azione». In quanto elemento capitale dell’askesis – questa ascesi filosofica che era, secondo Foucault, un modo «di costruire il soggetto della conoscenza vera come soggetto dell’azione retta»[13] –, la scrittura giocava il ruolo di “mediatrice” tra l’individuo che voleva acquisire la padronanza di sé, l’imperturbabilità, la tranquillità dell’anima, ecc., e l’insieme dei precetti di comportamento che era chiamato ad apprendere e applicare concretamente, nel corso della propria vita, al fine di realizzare tali obiettivi. In altri termini, come spiega Foucault in un’intervista del 1984, il problema era di «apprendere, attraverso l’insegnamento di un certo numero di verità, una serie di dottrine che erano, in parte, principi fondamentali e, in parte, regole di condotta», e di fare in modo «che questi principi vi dicano in ogni situazione, e in un certo senso spontaneamente, come dovete condurvi»: così «sarete divenuti il logos o il logos sarà divenuto voi stessi»[14]. Citando Plutarco, Foucault può dunque concludere che la scrittura aveva, in questo contesto, «una funzione ethopoietica»: era «un operatore della trasformazione della verità in ethos»[15].

Questa scrittura ethopoietica, nel primo e secondo secolo della nostra era, era collocata all’interno di due forme già conosciute e utilizzate per altri scopi: gli hupomnemata (che costituivano una sorta di «memoria materiale delle cose lette, sentite o pensate», offrendole così «come un tesoro accumulato alla rilettura e alla meditazione ulteriori») e la corrispondenza (testo per definizione destinato ad altri, ma che poteva anche dar luogo a un esercizio personale di sé su sé). Nei due casi si trattava, attraverso la scrittura, di costituire per se stessi un repertorio di principi da tenere sempre «sotto mano», non solo per poterseli ricordare, ma ben più concretamente per «poterli utilizzare, non appena ve ne sia bisogno, nell’azione»[16]. La scrittura filosofica come esercizio di sé su sé era perciò uno strumento fondamentale di ciò che Foucault chiama la «soggettivazione del discorso»[17], o anche la «soggettivazione della verità»[18]: la scrittura era il veicolo dell’insediamento nell’anima dei logoi, dei discorsi veri, dei principi razionali di comportamento – con i quali l’individuo era letteralmente chiamato a fare corpo, facendoli «non soltanto suoi, ma sé»[19].

La scrittura in quanto elemento fondamentale dell’ascesi filosofica non mira quindi a strappare o svincolare il soggetto da se stesso, ma a contribuire alla sua (positiva) costruzione come soggetto di azione razionale – a stabilire «un rapporto di sé con sé il più adeguato e completo possibile»[20]. Foucault parla a questo proposito di un «processo di intensificazione della soggettività»[21]: attraverso questi esercizi di scrittura, «lo scrittore costituisce la propria identità»[22]. All’interno di questo secondo modello, la scrittura gioca quindi il ruolo di un esercizio attraverso il quale l’individuo si “soggettivizza” costruendo per se stesso una “forma-soggetto” correlativa a un insieme di verità che ha appreso e che deve mettere in pratica nel corso della propria esistenza se vuole ottenere la padronanza di sé, l’imperturbabilità, la tranquillità dell’anima – insomma, la “saggezza”, uno stato che in quanto tale era considerato inaccessibile per gli esseri umani, ma che i filosofi antichi concepivano comunque come una sorta di ideale regolatore delle proprie azioni[23].

Si tratta dunque sempre, per l’individuo, di trasformarsi, di modificare il proprio modo di essere rispetto a una condizione iniziale, la quale – nella filosofia antica – era spesso definita come “stultitia”: l’agitazione della mente, l’instabilità dell’attenzione, il cambiamento repentino delle opinioni e della volontà, la fragilità dinanzi agli avvenimenti che possono prodursi, la proiezione di sé nell’avvenire[24]. Questa trasformazione, tuttavia, a differenza del modello della scrittura-esperienza, ha come obiettivo quello di costruire un sé forte, stabile, ancorato a una serie di precetti di comportamento capaci di dirgli in ogni momento come condursi. Di conseguenza, nel modello della “scrittura-esercizio”, la verità non si inventa, non si sperimenta, non si trova nell’avvenire; al contrario, è , e richiede solo uno sforzo per essere acquisita e messa in pratica – tesoro immutabile che permette di far fronte agli innumerevoli imprevisti della vita.

 

La soggettività messa alla prova

Come è possibile concepire il rapporto tra questi due modelli che, a prima vista, sembrano incompatibili? Vorrei suggerire, per concludere, un’ipotesi o meglio una pista di ricerca: la scrittura-esperienza e la scrittura-esercizio non si oppongono diametralmente, ma rappresentano piuttosto i due momenti di uno stesso gesto teorico-critico, di uno stesso atteggiamento storico-filosofico – nonché di una stessa concezione e pratica della scrittura.

Se il secondo modello, quello della scrittura-esercizio, comporta infatti il rischio di una fissazione – la scrittura vi è messa al servizio di una pratica di soggettivazione che potrebbe dare l’impressione che, una volta raggiunta la “forma-soggetto” desiderata, tutto sia finito (e sappiamo quanto Foucault fosse, giustamente, ostile a una simile idea) –, ci troviamo però dinanzi alla necessità di constatare che Foucault, leggendo i testi antichi e scrivendo testi su tali testi, ha praticato a propria volta un certo tipo di esercizio. Un esercizio che non era molto diverso da un’esperienza, poiché non si trattava, per Foucault, di proporre ai suoi contemporanei gli esercizi ascetici della filosofia antica come un modello da imitare o da “riattivare”; si trattava invece di comprendere e di mostrare, grazie a una riflessione su queste pratiche antiche di scrittura, che la soggettività non è un dato “naturale”, né una costante trans-storica. Al contrario, la soggettività è storicamente e culturalmente determinata, costituita, fabbricata, e non solo attraverso meccanismi di assoggettamento: essa può essere anche un’opera d’arte, nel senso artigianale prima ancora che artistico del termine – il risultato di una creazione.

Mettendosi e mettendoci di fronte a una soggettività radicalmente altra rispetto alla propria e alla nostra, cioè studiando le pratiche di soggettivazione nel mondo antico e il modello della scrittura-esercizio, Foucault pratica dunque a propria volta (e ci invita a praticare) un esercizio ben preciso che, grazie all’uso critico della storia, consiste nel mettere la propria soggettività alla prova di una soggettività altra. Solo così avremo la possibilità di toccare con mano il fatto che la nostra soggettività non è una fatalità, che non è la sola possibile, perché ce ne sono state altre e quindi ce ne potranno sempre essere altre. Questa consapevolezza ci farà forse venir voglia di trasformarci, di modificare, di sperimentare, di inventare un rapporto diverso a noi stessi, agli altri e al mondo – una posta in gioco che è al contempo etica e politica[25].

Non siamo intrappolati nella nostra soggettività: questo motto mi sembra capace di riassumere efficacemente l’“esercizio-esperienza” che Foucault stesso ha praticato, e che ci propone di praticare attraverso le proprie riflessioni sulle tecniche di sé antiche. La scrittura gioca un ruolo decisivo in tale esercizio-esperienza: la scrittura intesa al contempo come esercizio di sé su sé e come esperienza di trasformazione, di messa alla prova di noi stessi, di sperimentazione incessante dei nostri limiti e della nostra libertà.

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Note
[1] M. Foucault, Le beau danger. Entretien avec Claude Bonnefoy, a cura di Ph. Artières, Paris, Éditions de l’EHESS, 2011, pp. 30-31. Tutte le traduzioni dal francese all’italiano sono mie.
[2] M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, in Dits et écrits II, 1976-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald, Paris, Gallimard, 2001, pp. 860-861.
[3] Cfr. M. Foucault, Préface à l’“Histoire de la sexualité”, in Dits et écrits II, cit., p. 1403: «La pena e il piacere del libro è di essere un’esperienza».
[4] M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 862.
[5] M. Foucault, Le souci de la vérité, in Dits et écrits II, cit., p. 1494.
[6] M. Foucault, Les rapports de pouvoir passent à l’intérieur des corps, in Dits et écrits II, cit., p. 236.
[7] M. Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 863.
[8] Ibidem, pp. 864-865.
[9] M. Foucault, Foucault étudie la raison d’État, in Dits et écrits II, cit., p. 805.
[10] M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières ?, in Dits et écrits II, cit., p. 1393.
[11] Cfr. P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Paris, Albin Michel, 2002.
[12] M. Foucault, L’écriture de soi, in Dits et écrits II, cit., p. 1236.
[13] M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, a cura di F. Gros, Paris, Seuil/Gallimard, 2001, p. 465.
[14] M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in Dits et écrits II, cit., p. 1532.
[15] M. Foucault, L’écriture de soi, cit., p. 1237.
[16] Ibidem, pp. 1237-1238.
[17] Cfr. M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit., p. 316.
[18] M. Foucault, Les techniques de soi, in Dits et écrits II, cit., p. 1602.
[19] M. Foucault, L’écriture de soi, cit., p. 1238.
[20] Ibidem, p. 1239.
[21] M. Foucault, Les techniques de soi, cit., p. 1619.
[22] M. Foucault, L’écriture de soi, cit., p. 1240.
[23] Cfr. P. Hadot, La figure du sage dans l’Antiquité gréco-latine, in Études de philosophie ancienne, Paris, Les Belles Lettres, 1998, pp. 233-257.
[24] Cfr. M. Foucault, L’écriture de soi, cit., p. 1239.
[25] Cfr. D. Lorenzini, Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et les techniques de l’ordinaire, Paris, Vrin, 2015.

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