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L’ipotesi della guerra civile
di Raffaele Alberto Ventura
I terroristi non sono lupi solitari ma pesci che nuotano nell’acqua del risentimento che si cova nelle banlieue. Adesso il rischio è che s’inneschi una spirale di violenza che potrebbe contagiare l’intero corpo sociale.
La strategia dello Stato Islamico in Occidente è ormai chiara: attraverso l’esercizio di una violenza feroce e indiscriminata, si tratta di attirare sui musulmani delle rappresaglie che li spingano poi ad abbracciare la causa jihadista. È un meccanismo infernale del quale avevo illustrato il funzionamento fin dagli attentati a Charlie Hebdo. Ma quello che abbiamo vissuto in gennaio non era ancora niente: oggi abbiamo la terribile conferma che quella strategia sta funzionando.
Quando il presidente François Hollande parla di una guerra, con l’obiettivo di rendere operative le forme giuridiche che ne conseguono, sta esorcizzando lo spettro di qualcosa di ben peggiore: quello di una guerra civile. Siamo seri, nessun esercito potrà mai invadere la Francia dalla Siria e dall’Iraq, nemmeno se tra i rifugiati dovesse nascondersi qualche combattente infiltrato. I terroristi che hanno agito il 13 novembre a Parigi sono nati e cresciuti in Europa, dove spesso hanno precedenti di piccola criminalità. Nel martirio hanno trovato la maniera di esprimere un risentimento — la haine — che ha ben poco di religioso. E che non si combatte con le bombe.
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Europa. Competizione globale e lavoratori poveri
di L. Pradella
La disoccupazione ha raggiunto livelli senza precedenti in Europa occidentale. I salari sono in discesa e si intensificano gli attacchi all’organizzazione dei lavoratori. Nel 2013 quasi un quarto della popolazione europea, circa 92 milioni di persone, era a rischio povertà o di esclusione sociale. Si tratta di quasi 8,5 milioni di persone in più rispetto al periodo precedente la crisi.
La povertà, la deprivazione materiale e il super-sfruttamento tradizionalmente associati al Sud del mondo stanno ritornando anche nei paesi ricchi d’Europa.
La crisi sta minando il “modello sociale europeo”, e con esso l’assunto che l’impiego protegge dalla povertà. Il numero di lavoratori poveri – lavoratori occupati in famiglie con un reddito annuo al di sotto della soglia di povertà – è oggi in aumento, e l’austerità peggiorerà di molto la situazione in futuro.
Alcuni critici sostengono che l’austerità è assurda e contro-producente, ma i leader europei non sono d’accordo. Durante l’ultima tornata di negoziati con la Grecia l’estate scorsa, Angela Merkel ha dichiarato: “Il punto non sono alcuni miliardi di euro – la questione di fondo è come l’Europa può restare competitiva nel mondo.” C’è del vero in tutto questo. Quello che la Merkel non dice è che i lavoratori in Europa, nel Sud dell’Europa in particolare, competono sempre di più con i lavoratori del Sud del mondo. L’impoverimento e l’austerità in Europa sono le due facce della stessa medaglia, e riflettono una tendenza strutturale all’impoverimento e profondi cambiamenti dell’economia globale.
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Francia: il paradosso identitario
Franco Berardi Bifo
Il triste patriota Houellebecq
L’articolo di Houellebecq che il Corriere della sera ha pubblicato in prima pagina il 19 novembre è sconsolante: inizia dicendo che il governo francese è responsabile della tragedia che ha colpito Parigi, perché ha provocato le popolazioni di molti paesi arabi con i bombardamenti umanitari degli ultimi anni, poi rimprovera al governo francese di non essersi opposto con la dovuta energia all’ondata migratoria che nereggia ai confini d’Europa.
“Chi ci ha inculcato, per tanti anni, che le frontiere sono un’assurdità antiquata, simbolo di un nazionalismo superato e nauseabondo?” chiede Houellebecq con sdegno patriottico.
Poi elogia il buon popolo francese che “ha sempre conservato fiducia e solidarietà nei confronti dell’esercito e delle forze di polizia; ha accolto con sdegno i predicozzi della « sinistra morale» (morale?) sull’accoglienza di rifugiati e migranti e non ha mai accettato senza sospetti le avventure militari estere nelle quali i suoi governanti l’hanno trascinata.”
La confusione regna nella mente frastornata di Houellebecq, ma Houellebecq è un poeta, il suo delirio va letto con rispetto perché l’inconscio collettivo si esprime anche nella voce di Celine, di Limonov. Il delirio reazionario è un genere letterario talora apprezzabile, se non fosse che qualche volta incontra e fomenta un’onda reazionaria di massa. E allora sono guai.
E’ comprensibile che la popolazione sia spaventata dall’afflusso di stranieri, soprattutto dopo la notizia (falsa? vera?) che uno degli assassini del Bataclan è sbarcato all’isola di Leros confondendosi tra i siriani che cercano rifugio in Europa.
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Prove di guerra: buona la prima?
Aggiornato alle 22.30 del 24.11
Federico Dezzani
Aggiornamento ore 22.30
“Turkey, like every country, has the right to defend its territory and its airspace” dice il sempre evanescente Barack Obama, sottolineando che non ha dettagli aggiuntivi da fornire circa l’abbattimento del SU-24 russo. Anche il segretario della NATO, il norvegese Jens Stoltenberg, ammette candidamente che tutte le informazioni di cui dispone l’Alleanza nord atlantica sono di provenienza turca ed il portavoce americano dell’operazione Inherent Resolve, colonnello Steve Warren, sposa senza esitazioni la tesi turca “dell’incursione russa”: l’intera apparato militare occidentale, incredibilmente, sembra dipendere da Ankara.
Sorge quindi il dubbio: la Turchia ha agito sicura della protezione della NATO e magari su istigazione della medesima?
Secondo i russi, il bombardiere Su-24 al momento dell’abbattimento per mano di un F-16 turco volava in territorio siriano, ad un chilometro dal confine e la dinamica è più che plausibile considerato che già nel marzo del 2014 Ankara si era arrogata il diritto di abbattere un MiG di Damasco senza che questo sconfinasse. Il caccia turco non avrebbe inoltre proceduto con la consueta prassi di instaurare un contatto visivo e/o radio con il velivolo “intruso”, scortandolo fuori dallo spazio aereo di competenza anziché abbatterlo.
Cosa ha indotto il presidente Recep Erdogan ad avventurarsi su un terreno così insidioso? Tre sono probabilmente le ragioni:
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Ora che la guerra sta accadendo
di Sandro Moiso
Parigi – Londra, patto di guerra. Così titolava in prima pagina il “Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa giornata, un caccia russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato le proprie navi davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande “voglia di guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi, nei media di ogni genere. Nelle scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione delle azioni militari e in quelle repressive. Nella designazione di un nemico disumano, meritevole di ogni violenza e di ogni atto di vendetta.
Voglia di armi
“Energia e difesa trainano le borse”. Non erano ancora passati cinque giorni dai fatti di Parigi che, mercoledì 18 novembre, “il Sole 24 Ore” poteva trionfalmente dichiarare in prima pagina la felicità degli investitori per la situazione venutasi a creare per le conseguenze poltico-militari degli attentati messi in atto dai militanti dell’Isis . Come se ciò non bastasse sulla colonna di sinistra un altro articolo dichiarava, quasi spudoratamente: “Europa e conti. Più che la stabilità poté la sicurezza”.
L’appello di lunedì 16 novembre del Presidente della Repubblica francese alla clausola dell’articolo 42, punto 7, del Trattato di Lisbona, riferito al mutuo soccorso europeo, ha aperto di fatto la porta alla possibilità di uscire dai vincoli dei trattati europei, riguardanti la spesa degli stati, per tutto ciò che riguarda la sicurezza ovvero uomini, armi e tecnologie securitarie. Il taglio della spesa pubblica, tanto richiamato da tutti i partiti di governo e di opposizione, in un solo colpo può quindi essere aggirato, grazie sostanzialmente all’appello di François Hollande, a favore delle imprese fornitici di armamenti per gli eserciti e servizi all’intelligence.
Da qui la gioia delle Borse, per le quali, evidentemente, i morti, parigini o siriani che siano, della guerra in atto non sono altro che una forma di interesse da pagare per il buon funzionamento e la ripresa dei mercati. Una specie di keynesismo del sangue che andrebbe di diritto inserito tra i crimini dei potenti e dell’economia di recente analizzati da Vincenzo Ruggiero in alcuni suoi testi.1
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Economia, le coordinate della crisi in arrivo*
di Michel Husson
Mentre la zona euro abbozza una fase di ripresa molto moderata, si moltiplicano
i pronostici allarmisti sulla traiettoria generale dell'economia mondiale: «La crescita cinese rallenta, l'economia mondiale soffre» è, ad esempio, il titolo di Le Monde del 20 ottobre 2015. Christine Lagarde 1 elenca «le ragioni per essere
inquieti sul fronte economico», e Jacques Attali 2 annuncia che «il mondo si avvicina a una grande catastrofe economica».
Cominciamo con un breve panorama della congiuntura: la crescita mondiale rallenta, principalmente nei paesi emergenti tranne l'India. Tale tendenza si alimenta con la diminuzione del prezzo delle materie prime e si trasmette ai paesi avanzati. Anche il commercio internazionale rallenta, allo stesso ritmo del PIL mondiale, come se la mondializzazione produttiva avesse raggiunto un tetto. La zona euro registra una ripresa timidissima e disuguale. Gli Stati Uniti e il Regno Unito se la cavano meglio, ma la crescita tende a rallentare in un caso e appare artificiale nell'altro.
Dal lato della «sfera finanziaria», il quantitative easing (alleggerimento quantitativo) alimenta bolle di attivi [finanziari] più che l'investimento produttivo, che stagna. E la sola prospettiva - finora respinta - di un aumento dei tassi della Fed (la banca centrale degli Stati Uniti) grava come una spada di Damocle sufficiente per destabilizzare le monete e i mercati finanziari di molti paesi. In breve, «l'incertezza e forze complesse pesano sulla crescita mondiale», per riprendere la formula del FMI nelle sue ultime prospettive3.
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Caratteri e novità della "Guerra tra la Gente"
Ovvero: il nemico è pur sempre in casa
PonSinMor, Newsletter n. 50
La locuzione ricorrente nei media mainstream dopo l’attacco mortifero in vari luoghi pubblici di Parigi del 16 novembre 2015 è che questa «è guerra!», la stessa che uscì dalla bocca di Sarkozy1, dopo il blitz alla redazione di Charlie Hebdo. L’insistenza, più che a scarsa convinzione o a incredulità, sembra volta a rendere accettabili i ben più micidiali bombardamenti che il governo francese stava preparando e le relative misure interne di «sicurezza» che dovranno piovere sul fronte della guerra di classe. Ora, come si concili l’emblema della nonviolenza inalberato col canto militaresco della Marsigliese e i 5000 morti civili causati dai primi bombardamenti per rappresaglia bisognerebbe pure spiegarlo, ma non lo farà nessuno come non lo fecero l’ottobre 1961 in occasione dei massacri di centinaia di algerini. Questa è una faccenda che però è necessario comprendere.
***
Secondo Alain Bertho2, il secolo XXI sarebbe «l’epoca delle sommosse», diversa dalle «rivolte arcaiche» del secolo precedente fino alle «proteste» degli anni ’70. La crescita, a livello globale, di rabbie collettive senza obiettivi strategici, di passaggi all’azione quasi disperati, è una gamma di gridi di rabbia simile da un capo da un capo all’altro del pianeta, dall’incendio di un’auto-mobile all’uso delle reti informatiche. In genere non vengono capite dai media, preoccupate solo di seguirne l’aspetto spettacolare, ma incapaci e per niente interessati a porsi il problema di cosa siano, delle cause e dei messaggi che lanciano. Nemmeno lo Stato dedica un minimo di attenzione alle cause, mostrando un’incapacità di dialogo e una rottura nella società, che non si potrà mai ricomporre con gli appelli alle unions sacrées , né con la forza dell’azione militare e sicuritaria.
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Quanto stato d’eccezione può permettersi la democrazia?
di Alessandro Somma
Da alcuni giorni è stato proclamato nella Francia metropolitana, ovvero nella parte europea del Paese, lo stato d’eccezione, le cui conseguenze sono elencate in due diversi decreti varati dall’esecutivo[1]. In tutto il territorio le autorità amministrative possono ora limitare la libertà di circolazione, regolamentare o vietare il soggiorno delle persone, nonché disporre perquisizioni di giorno e di notte. Nell’Ile-de-France, la Regione di Parigi, si potrà anche obbligare chi è ritenuto una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico a soggiornare in determinate zone delimitate, oltre che chiudere i luoghi di spettacolo, di mescita di bevande e di riunione di qualsiasi natura, e impedire gli assembramenti considerati idonei ad alimentare disordini.
In virtù di questi decreti, le autorità amministrative, senza il controllo della magistratura come si addice allo stato di eccezione, hanno disposto misure come la chiusura di scuole e università, il divieto di tenere manifestazioni nella regione parigina, oltre a centinaia tra perquisizioni, interrogatori e ordini di soggiorno su tutto il territorio nazionale.
Tutto questo è previsto da una legge emanata all’epoca della guerra d’indipendenza algerina[2], il conflitto che non a caso determinò la fine della Quarta e l’avvento della Quinta Repubblica, ovvero la sconfitta del parlamentarismo e la vittoria del presidenzialismo voluto dal Generale de Gaulle. In un solo caso, oltre a quelli legati alle vicende che accompagnarono l’indipendenza algerina, lo stato d’eccezione venne decretato sul territorio metropolitano: quando, nel 2005, vi fu la cosiddetta rivolta delle banlieu. Allora fu necessario coinvolgere il Parlamento, dal momento che l’esecutivo volle far durare lo stato d’eccezione oltre i dodici giorni, e ciò è possibile solo con un’apposita legge. Anche questa volta si arriverà a questo, giacché François Hollande ha già anticipato l’intenzione di prorogare la misura di almeno tre mesi.
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La teologia politica delle macchine
Benedetto Vecchi
Il sistema delle macchine è un mostro totalitario. Ha consentito lo sviluppo economico, ma ha prodotto una società che non tollera eresie. Un sentiero di lettura a partire dal saggio «La religione tecno-capitalista» di Lelio De Michelis per Mimesis. Ma quello mondiale è un disordine fortemente organizzato, come testimonia «L’età del caos», un libro di Federico Rampini per Mondadori. Nel frattempo, la democrazia è ridotta a guscio vuoto e in deficit di legittimità, come afferma nel suo ultimo volume Pierre Rosanvallon pubblicato da Rosenberg&Sellier
Un libro con una tesi semplice, ma basato su una stratificazione analitica, filosofica, economica e sociologica molto articolata e complessa, quasi a costituire un labirinto nel quale il rischio è di smarrirsi. C’è molta teoria critica francofortese, ma anche il fustigatore della tecnostruttura Jacques Ellul, il socialista liberale Norberto Bobbio, il Max Weber della gabbia di acciaio, l’ostilità filosofica di Martin Heidegger verso la tecnica, la filosofia antitotalitaria di Hannah Arendt. E molti altri ancora. L’autore è Lelio De Michelis, docente di sociologia economica e studioso da anni della grande trasformazione che ha investito il capitalismo negli ultimi tre decenni a partire dal ruolo sempre più determinante della tecnica, e la scienza diventata forza produttiva a tutti gli effetti, nei processi produttivi. Suoi contributi sono usciti nei volumi collettivi Biopolitiche del lavoro, Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione e Natura e artificio, dove la tecnologia è vista come un apparato ormai autonomo dall’economia, ma che ha il potere di imporre regole, vincoli e compatibilità all’insieme delle relazioni sociali. Ha infatti un potere performativo che plasma la realtà sociale e politica a sua immagine e somiglianza. Il capitalismo, avverte De Michelis, l’ha usata per garantire la sua riproduzione, che marxianamente non poteva che essere allargata, arrivando cioè a costituire l’unico modo di produzione del pianeta terra, cancellando, talvolta violentemente, talvolta in maniera light, le altre forme di produzione della ricchezza. Il capitalismo, cioè, non ha più né antagonisti – il socialismo reale – né altre formazioni sociali subalterne, nel classico rapporto tra centro e periferia del sistema-mondo, dove attingere materie prime o dove vendere le merci prodotte.
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Intervista a Mario Tronti
a cura di Giacomo Bottos e Matteo Giordano
Mario Tronti, tra i fondatori dell’operaismo italiano, ha proseguito, dopo la conclusione di quell’esperienza, la sua riflessione sulla politica, sul Novecento e sul presente. Il risultato più recente del suo sforzo teorico è il libro Dello spirito libero, uscito nel 2015. A partire da alcuni temi evocati in questo libro e nei suoi contributi recenti gli abbiamo posto alcune domande sui caratteri del nostro tempo e della crisi attuale.
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Nei tuoi scritti la crisi in cui viviamo è vista come una crisi di lungo periodo, che da un lato è crisi della modernità e dall’altro è crisi del movimento operaio. Sembrerebbe che noi ci troviamo in un tempo minore che se è comprensibile solo alla luce del Novecento è al tempo stesso inferiore al Novecento stesso. Da questo punto di vista, retrospettivamente, essendo ormai entrati nell’ottavo anno della crisi, qual è il tuo punto di vista sulla crisi economica attuale? Pensi che ci fosse la possibilità di una reazione diversa da quella che effettivamente c’è stata?
Intanto dobbiamo un po’ ricostruire il giudizio sulla sostanza di questa crisi. Io non sono di quelli che si sono meravigliati della crisi economica e finanziaria perché ho sempre visto il capitalismo con l’occhio di Schumpeter: l’andamento ciclico dell’economia capitalistica, che era già implicito nell’analisi marxiana, è fatto di sviluppo e crisi, di crescita e recessione, di sviluppo e stagnazione.
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L'Europa come campo di battaglia tra USA e Cina
di Pasquale Cicalese e Filippo Violi
"Dal nostro punto di osservazione italiano, disegniamo un perimetro di conflitti incrociati, da ciò che resta della Libia a ciò che resta dell’Ucraina passando per Golfo e Mar Nero, salvo rientrare a Parigi nel cuore dell’Europa. Ne osserveremo interdipendenze ma anche irriducibili specificità locali, proiettandole sullo sfondo della competizione geopolitica per eccellenza, quella fra Stati Uniti e Cina per il primato mondiale. (…) La cifra della geopolitica planetaria è oggi il disordine. Come in ogni fase di caos sistemico si forma una domanda di ordine. Stati Uniti e Cina sono i massimi soggetti in competizione per intercettarla, legittimarsi come cofondatori del nuovo ordine e affermarsi quali egemoni globali.(…) Forse un giorno i due contendenti stabiliranno che il migliore degli ordini mondiali possibili per entrambi è riscrivere insieme le nuove regole del gioco”. Lucio Caracciolo (direttore Limes), Il foglio 16 novembre 2015
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Alle ore 15:00 del 13 novembre, a poche ore dall’attentato a Parigi, i data base finanziari di tutto il mondo pubblicavano le vendite al dettaglio americane dello scorso mese. Nell’anno, esse erano diminuite del 2,8% ma il dato clamoroso fu un altro. Il Dipartimento del Commercio comunicava che il rapporto tra scorte e vendite era ai massimi dal 2009 (in piena crisi mondiale), precisamente 1,38. A fronte di beni in magazzino pari a 1800 miliardi di dollari, le vendite fino ad ottobre erano pari a 1300 miliardi di dollari.
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Risposta ad Alain Badiou
Slavoj Žižek
Qui la lettera di Badiou
Caro compagno, caro amico,
la forza di pensiero che hai messo nella tua risposta mi ha commosso profondamente. Questa è quella che si dice una vera prova di amicizia: rifiutare le rapide (s)qualificazioni quando non si è d’accordo, e mettersi a pensare. Accetto tutte le critiche a riguardo della situazione politica e ideologica in Cina – qui, la tua conoscenza dello stato delle cose supera di molto la mia. Come sempre, al di là dei dettagli storici, tu tocchi l’essenziale, su due livelli. Innanzitutto, si tratta della particolare dimensione di “tra noi”, in cui viene a svolgersi il dibattito sulle catastrofi della sinistra. Questo è un punto cruciale, che non ha nulla a che vedere con il tentativo di minimizzare i danni. Al contrario, la nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi . Un caso piuttosto aneddotico è quello del film La vita degli altri (2006), di Florian Henckel von Donnesmarck, celebrato e premiato con l’Oscar per aver fornito una riflessione sulla maniera in cui il terrorismo della Stasi penetrava in ogni singolo poro delle vite private nell’ex-DDR. È davvero così? A ben vedere, è quasi un’immagine rovesciata quella che appare: proprio come succede a molte descrizioni appassionatamente anticomuniste che illustrano la durezza di quei regimi (è utile in proposito ricordare che von Donnesmarck viene da una famiglia della nobiltà della Prussia orientale – il film è la sua rivincita dopo l’espropriazione e l’esilio!).
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La complessità siro-irachena ridotta all'osso
Mappa per orientarsi nel disordine mediorientale
di Pierluigi Fagan
Naturalmente, come ogni mappa, anche questa è produzione di uno sguardo soggettivo. E’ scritta di getto in tre ore, non ha note d’appoggio, si basa sulle conoscenze (relativamente limitate) dell’autore
Il problema siro-iracheno proviene dalle forme statuali che vennero imposte nel XX° secolo ad una regione che, storicamente, non ne aveva. Tale problema è esteso a tutta la fascia Africa-Medio Oriente-Asia Meridionale e venne creato per una sovra imposizione di forme statuali, lì dove storicamente si sono avuti califfati e pullulare di piccoli regni più o meno tribali. Non solo si è imposta una forma che non aveva ragioni di esistere date le tradizioni storiche, culturali, politiche e soprattutto religiose ma la stessa ripartizione, seguendo unilaterali interessi dei colonizzatori, ha assemblato pezzi di popoli incompatibili ed ha diviso in pezzi popoli storicamente omogenei.
Questo vero e proprio disastro geopolitico, in Medio Oriente, ha nome e data precisa: l’accordo spartitorio tra Francia e Gran Bretagna del 1916, negoziato tra due diplomatici che vi apposero il proprio nome, l’Accordo Sykes (UK) – Picot (FRA) con altrettanto distruttivi contributi successivi. L’anno prossimo ne ricorre il secolo di anniversario. Questa è la base del problema ma poi su questa base già di per sé contraddittoria, si sono sommate ulteriori contraddizioni lungo la Seconda guerra mondiale ed i decenni successivi.
Si arriva così con un carico di pezzi di puzzle che non sono stati torniti per combaciare, alla Seconda guerra USA-Iraq. L’Iraq era uno dei capolavori “meglio riusciti” dei geografi politici britannici: curdi (non arabi) sunniti, con arabi sunniti, con arabi e iranici sciiti. I minoritari arabi sunniti, a loro volta innaturalmente separati dai parenti dislocati nell’attigua Siria, avevano con Saddam, il governo autoritario della pentola a pressione irachena.
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Se riesplode l’Algeria, altro che caos libico
Karim Metref
Dietro la malattia di Abdelaziz Bouteflika infuria la lotta per il potere tra i clan rivali. E con il presidente ridotto al silenzio, ma in carica, i suoi uomini possono continuare indisturbati a saccheggiare le risorse del paese. Ma la catastrofe è dietro l'angolo
Chi si ricorda dell’Algeria? Sapete, quel piccolo paese grande come l’Europa occidentale sull’altra riva del Mediterraneo. Proprio di fronte alla Sardegna. Non si parla quasi mai dell’Algeria. Tranne se un gruppo di terroristi prende in ostaggio o taglia la testa a qualche cooperante occidentale. I media internazionali hanno sempre coperto pochissimo il paese nordafricano. Poche notizie ne escono. Anche la sanguinaria guerra civile degli anni 90 che ha falciato quasi 300 mila persone è stata una delle guerre meno documentate nella storia moderna. Sarà perché in Algeria tra un’uccisione di occidentali e un’altra non succede nulla?
Non è così. L’Algeria è un paese molto dinamico dove succedono molte cose. C’è una società civile che lotta per uscire dalla terribile situazione in cui è rinchiuso il paese dalla fine della guerra. Ci sono conflitti sociali importanti. Ultimamente ci sono stati persino scontri etnici tra popolazioni arabofone sunnite e una minoranza berberofona ibadita. Quindi c’è guerra etnica e religiosa. Il piatto favorito dell’infotainment globale. Eppure niente. Nessuno ci ha dato importanza e i timidi lanci delle agenzie sono andati a finire nella pattumiera delle notizie non notiziabili.
Questo silenzio è dovuto al fatto che l’Algeria è un paese poco conosciuto all’estero. Perché è rimasto chiuso per molti anni su se stesso. E in qualche modo lo è ancora. Ma è dovuto anche al fatto che il regime algerino è molto ricco e molto abile nell’arte di comprare il consenso internazionale. Dieci pozzi per i francesi, venti per gli americani, un gasdotto per gli italiani, qualcosina per i tedeschi, qualcosina per i canadesi… e così via. Se sai ingraziarti le multinazionali di ogni luogo diventi un paese al di sopra di ogni sospetto.
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Lezioni tedesche per la sinistra italiana
di Vladimiro Giacché
Il nuovo libro di Alessandro Somma - “L’altra faccia della Germania. Sinistra e democrazia economica nelle maglie del neoliberalismo”, DeriveApprodi, Roma, 2015, pp. 192, 13 euro - appartiene al genere decisamente raro dei libri che mantengono più di quanto promettano.
Stando al titolo, si potrebbe pensare a un testo dedicato esclusivamente alla sinistra tedesca. E questo tema nel libro, come vedremo, è approfondito a dovere. Ma, al tempo stesso, c’è un’analisi molto precisa dell’evoluzione della Germania neoliberale dai tempi di Schröder in poi. E ci sono, infine, gli insegnamenti che l’autore ritiene la sinistra italiana farebbe bene a trarre dalle vicende di quella tedesca.
Cercherò di dar conto di tutti e tre questi aspetti del libro di Somma. Partendo dal secondo, che rappresenta in verità lo sfondo da cui si stacca l’evoluzione della sinistra tedesca, politica e sindacale, negli ultimi 15 anni. Il punto di partenza di questa storia è rappresentato dalla decisione del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder – teorizzata nel manifesto per la “terza via” da lui firmato nel 1999 assieme a Tony Blair – di abbracciare le politiche neoliberali, mandando in soffitta come superata e viziata da "presupposti ideologici" l'idea, tipica della tradizione socialdemocratica, che lo Stato debba correggere i “fallimenti del mercato". Anche la priorità tradizionalmente attribuita alla "giustizia sociale" deve cedere il passo alla necessità di "creare le condizioni per la prosperità delle imprese".
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Charles Bettelheim: l'URSS era socialista?
Il testo che affrontiamo oggi, Calcolo economico e forme di proprietà (1970) parte dalla domanda fondamentale che l’autore formula nella prefazione: “L’Unione Sovietica è socialista?”. Per analizzare tale forma di produzione, Bettelheim cerca di far ricorso ad una teoria della transizione, considerato che di società socialista sviluppata non si può parlare, per stessa ammissione di Stalin e dei suoi successori.
Per rispondere a questo interrogativo e per sviluppare la riflessione su una teoria della transizione, l’autore parte da alcuni passi dell’Engels dell’Anti Duhring, in particolare quelli che riguardano la pianificazione: “La produzione immediatamente sociale, così come la distribuzione diretta, escludono ogni scambio di merci, quindi anche la trasformazione dei prodotti in merce… e conseguentemente escludono anche la loro trasformazione in valori” (cit. a p. 17); “…la società non assegnerà valori ai prodotti…Certo anche allora dovrà sapere quanto lavoro richiede ogni oggetto di uso per la sua produzione…Il piano, in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti di uso… senza l’intervento del famoso ‘valore’” (cit. a p. 18).
Eppure nessuna delle economie del socialismo reale negli anni in cui scrive l’autore realizza le previsioni di Engels. I calcoli economici non si fanno sulla base del tempo di lavoro per calcolare la forza lavoro necessaria agli “effetti utili”. Anzi il calcolo monetario ancora attraverso l’utilizzo dei prezzi di scambio, ancorché a volte pianificati, porta ad escludere che la teoria del valore sia superata in URSS e negli altri paesi socialisti.
Bettelheim distingue il calcolo economico sociale e il calcolo monetario e afferma che il secondo spesso soverchia il primo.
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Della guerra. Crisi e conflitti dell'imperialismo
Giulia Bausano - Emilio Quadrelli
“La guerra oggi non è niente di diverso da quello che era prima. Essa aumenterà la domanda di navi, aumenterà i rischi dei trasporti e i prezzi delle merci; la speculazione avrà una ripresa...Al contrario se non viene alla guerra, il mondo dovrà ancora aspettare a lungo un miglioramento naturale che è ancora lontano” (In P. Togliatti, La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell'Internazionale comunista)
Incipit
Mentre si stava completando la revisione del presente saggio Parigi era sotto attacco. Cellule islamiche combattenti, legate all'Isis, hanno portato la guerra non solo dentro le metropoli imperialiste ma lo hanno fatto colpendo direttamente la popolazione. Non si è trattato di un attacco indiscriminato, come sostenuto da gran parte dei commentatori e analisti distratti, bensì di una serie di azioni che miravano a colpire i rituali maggiormente frequentati dalla popolazione: la cena al ristorante all'inizio del week–end, un concerto live e, rituale tra i rituali, lo stadio. Nessuna “follia terrorista” ma una lucida e razionale strategia di guerra. Il suo obiettivo, ampiamente raggiunto, è stato quello di riportare la dimensione di massa della guerra proprio là dove, il “pensiero strategico”, l'aveva archiviata nel museo della storia. L'imperialismo fondamentalista, con questa mossa, spiazza l'intero archetipo della forma guerra coltivato dagli imperialismi occidentali ponendolo in una oggettiva situazione di crisi. Mettendo sotto scacco lo stile di vita della popolazione raggiunge un triplice obbiettivo: in prima istanza pone in una condizione cognitivamente impensabile, e probabilmente insostenibile, le popolazioni occidentali le quali, della guerra, avevano un'idea non distante dal videogame; in seconda battuta logora il nemico il quale, di fronte ad attacchi simili, non può che precipitare in una situazione di panico permanente obbligandolo a consumare, senza che la cosa apporti, con ogni probabilità, a qualche risultato concreto, enormi quantità di mezzi e di risorse nell'illusione di garantire la sicurezza dentro i propri territori;
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«Fascismo islamico»? Le parole sono pietre
Leonardo Mazzei
Lo sbandamento lessicale e concettuale - in definitiva, politico - di buona parte della sinistra
La strage di Parigi non ha colpito soltanto le sue vittime dirette. Tra i suoi effetti collaterali c'è pure l'intelligenza di tante persone bombardate da una propaganda asfissiante. Fin qui nessuna novità. La macchina mediatica fa il suo lavoro, e gli strateghi dell'imperialismo incassano un nuovo (per quanto temporaneo) consenso. Tutto ciò è sostanzialmente inevitabile, al pari delle nebbie in autunno. Quel che inevitabile non sarebbe è lo sbandamento di chi dice no alla guerra, accettando però il lessico ed i concetti di fondo di chi la guerra la fa sul serio da decenni. Per mettere a fuoco la questione basta pensare ad una categoria usata con una discreta leggerezza a sinistra: quella di «fascismo islamico», nella versione più sguaiata addirittura «nazismo islamico». Che una simile semplificazione venga usata dalla destra e da tutto il mainstream mediatico certo non stupisce; che venga addirittura ripresa da tanti a sinistra è invece l'indice di un pauroso sbandamento politico e culturale.
Limitiamoci ad un paio di esempi, di certo non gli unici, ma sufficienti a far capire di cosa stiamo parlando. In un breve comunicato, Paolo Ferrero riesce a ripetere ossessivamente, per ben 4 volte, il riferimento al nazismo: «barbarie nazista dell'Isis», «i nazisti dell'Isis», «il nazismo dell'Isis», «logica nazista». Spostandoci più a sinistra, abbiamo il caso del Pcl. «Contro l'imperialismo ed il fascismo islamico» si legge nel titolo del comunicato sui fatti di Parigi. Se non altro qui si cita l'imperialismo, ma si usa di nuovo (e non soltanto nel titolo) la categoria di «fascismo islamico», mentre almeno Ferrero nazifica l'Isis e non l'intero Islam.
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It's the immigration, stupid
Dalla proibizione alla tassazione della immigrazione
di Stefano Bartolini
Si muovono progetti innovativi nella sinistra europea. Una parte dell'establishment della sinistra radicale, come il francese Melenchon leader del Parti de Gauche, il tedesco Lafontaine guru della Linke, Varoufakis in Grecia, Fassina in Italia e - pare - il nuovo leader del Labour inglese Corbyn - lavorano a un progetto europeo di una sinistra che si presenterebbe alle varie elezioni nazionali in nome di una agenda comune: l'uscita dall'Euro. L'euro per come è stato costruito e gestito è una prigione insopportabile per molti popoli. Il piano A è cambiarlo. Ma se non fosse possibile dobbiamo avere un piano B ed è l'uscita. Se l'unica alternativa è tra stare dentro o fuori da una prigione, meglio fuori - anche se fuori non è un granché.
Non discuterò se l'uscita dall'euro sia o meno desiderabile, per concentrarmi invece su questo: quali possibilità ha questo progetto di far uscire la sinistra radicale europea dalla sua marginalità? In sostanza, quanti consensi elettorali può portare questa agenda? Funzionerà o sarà l'ennesimo buco nell'acqua?
Un grosso punto a favore è che economisti del calibro di Stiglitz, Piketty, Galbraith sembrano disposti ad appoggiare decisamente questa agenda. L'importanza di questo non dovrebbe essere sottovalutata: sono molti decenni che l'accusa principale che viene rivolta alle ricette economiche di sinistra è che, quando sono state sperimentate, si sono rivelate fallimentari. In sostanza la sinistra radicale viene accusata di non intendersi di economia. Diventerebbe surreale rivolgere questa accusa a premi Nobel per l'economia.
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Poste italiane: una decisione sbagliata
di Salvatore Biasco
Dopo giorni in cui abbiamo visto campeggiare sui giornali a tutta pagina “Il cambiamento siamo noi” Poste Italiane, è giunta alla quotazione. Il cambiamento (almeno parziale) è certamente quello della proprietà: lo Stato ha venduto ai privati circa il 35% della sua quota di possesso, finora totalitaria, (20% a investitori istituzionali), associandoli nella gestione. La prospettiva in cui questo si iscrive è, però, più nebulosa.
Occorre chiedersi in nome di quale strategia per il Paese ciò stia avvenendo e se non ricominci la stagione delle alienazioni del patrimonio pubblico per puro scopo di cassa. Non voglio entrare nella discussione generale sulle privatizzazioni - che poi tanto generale non è, perché abbiamo studi specifici sul loro esito in Italia (dal quarto volume sulla Storia dell’Iri, ai lavori puntuali di Massimo Florio, al giudizio della Corte dei Conti) – ma voglio fermarmi sulla specificità del patrimonio che ora viene sottoposto alla logica della Borsa.
Parto da una considerazione (ormai) inconsueta che prescinde per un momento dalle logiche aziendali. L’assetto attuale e l’evoluzione inevitabile (e annunciata) verso un azionariato di tipo public company, oppure di tipo Enel, fa perdere a Poste la vocazione come parte di uno spazio condiviso tra Stato e cittadini, che le è sempre appartenuto; quello spazio che è tra gli elementi della coesione sociale. Lo Stato italiano dalla sua formazione, era presente e identificato nel territorio con le Ferrovie, le Poste, la scuola elementare e i Carabinieri. E questo è entrato talmente nella coscienza popolare da aver radicato il convincimento che la presenza fisica dell’ufficio postale sia parte del servizio universale, quindi un diritto di cittadinanza (quando lo è di fatto solo la consegna della corrispondenza).
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Gli attentati di Parigi: a proposito di due articoli molto citati nel dibattito pubblico di questi giorni
di Italo Nobile
Gli attentati terroristici di Parigi hanno dato luogo al solito dibattito d’occasione in cui alla fine vecchie analisi e vecchie soluzioni vengono contrabbandate per nuove. In questi giorni stanno circolando due articoli, uno di Limes e uno di Famiglia Cristiana che stanno raccogliendo consenso anche a sinistra. L’analisi e la critica di questi due approcci crediamo sia propedeutica ad una analisi di più largo e lungo respiro.
Il primo articolo, quello di Limes, “Parigi, il branco di lupi, lo Stato islamico e quello che possiamo fare” è di Mario Giro, esponente della Comunità di San’Egidio e sottosegretario dell’attuale governo Renzi (oltre che del precedente governo Letta). Ridotto all’osso il suo ragionamento è questo:
Il protagonista del conflitto non è l’Occidente ma il mondo islamico e la nostra priorità è rimanere in Medio Oriente e spegnere la guerra di Siria. Sia la premessa analitica (il conflitto è islamico) sia la conclusione operativa (dobbiamo rimanere là) sono, nonostante il tono moderato e apparentemente pacifista, due punti che attestano il carattere mistificatorio della proposta contenuta nell’articolo. Vediamo più nel dettaglio.
Giro, a parte l’iniziale richiesta di dissociazione anche da parte islamica dello jihadismo (richiesta ridondante e puramente cerimoniale), dice che questa guerra che sta avvenendo in Siria non è la nostra, ma è una guerra interna all’Islam che si sta facendo dagli anni Ottanta. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici di diverse potenze regionali musulmane (Paesi del Golfo, Iran, Egitto, Turchia) nel quadro geopolitico della globalizzazione.
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Un mondo sbagliato produce atti sbagliati
Non rinunciamo a riflettere di fronte all’orrore
di Saïd Bouamama
Mentre scriviamo il bilancio degli attentati di Parigi è di 128 morti e 300 feriti. L’orrore di questa violenza ingiustificabile è totale. Altrettanto totale deve essere la condanna, senza se e senza ma. Gli esecutori e/o i mandanti di questi ciechi omicidi non possono addurre alcuna legittima ragione per giustificare queste azioni sbagliate. La tragedia che stiamo vivendo potrà sfociare in un risveglio collettivo delle coscienze o, al contrario, in un processo di drammatica riproduzione.
Tutto dipende dalla nostra capacità di trarre insegnamento da questa situazione. L’emozione è legittima e necessaria, ma non può essere l’unica risposta. La risposta securitaria, da sola, è inefficace. È proprio in questi momenti, segnati dall’emozione collettiva, che non dobbiamo rinunciare alla comprensione, alla ricerca delle cause, e alla lucidità di fronte alla strumentalizzazione dell’orrore.
Le posizioni in merito alla nostra tragedia
Nel giro di poche ore è stata dispiegata tutta la panoplia delle possibili posizioni in merito alla tragedia. Non è peregrino soffermarci su ciascuna di esse.
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BCE, il colossale fallimento del quantitative easing
di Thomas Fazi
Dopo otto mesi di quantitative easing, l’eurozona è più debole che mai. Ecco perché
A più di otto mesi dall’avvio del programma di quantitative easing della BCE, Mario Draghi e i vari leader nazionali non paiono avere dubbi: «Il programma è stato un successo». Ma tutto questo entusiasmo è giustificato? Guardiamo i numeri. Partiamo dal tasso d’inflazione. Com’è noto, il mandato della BCE prevede un solo obiettivo – il mantenimento del tasso d’inflazione ad un livello vicino al 2 per cento – ed è dunque normale giudicare l’operato della banca centrale innanzitutto in base a questo parametro, anche perché uno degli obiettivi dichiarati del QE è proprio quello di far riavvicinare l’inflazione all’obiettivo del 2 per cento. Bene, da questo punto di vista i dati parlano chiaro: ad ottobre l’inflazione è tornata negativa (-0,1 per cento, manco a farlo apposta esattamente lo stesso livello registrato a marzo di quest’anno, quando la BCE ha avviato il suo programma di acquisto titoli).
Ma sarebbe un errore attaccarsi allo “zero virgola”. La situazione è ben più grave, infatti: la verità è che è il tasso d’inflazione medio dell’eurozona, senza considerare gli enormi differenziali di inflazione tra paesi, è inferiore all’obiettivo dichiarato del 2 per cento dalla fine del 2012 e inferiore all’1,5 per cento – sotto il quale possiamo parlare de facto di deflazione – dall’inizio del 2013. In altre parole, da quasi tre anni.
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Facebook: junk emotion
Riccardo Manzotti
Le emozioni, a parte quelle elementari, non sono innate. Si imparano. Si assimilano. Si imitano. Si inventano. Le emozioni hanno mille sfumature. Rendono la vita più ricca o più dolorosa. Sebbene siano personali e private, poche cose premono con maggiore forza per essere espresse e gridate. A volte ci guidano bene e a volte ci consigliano male. Sono intime, ma le usiamo per comunicare. In questo ruolo ambiguo, tra interiorità e mondo esterno, arriva la nuova possibilità di interazione di Facebook – sei emozioni per esprimere il proprio stato mentale e giudizio. Invece del solito like azzurro, ci sarà una barra sulla quale compariranno sette emoticon, sette simboli animati che rappresentano altrettante emozioni convenientemente espresse da mono-bisillabi. Oltre al già noto like, arriverà l’amore love, la risata haha, la gioia yai, la sopresa wow, la tristezza sad e la rabbia angry. In questo modo, secondo Chris Tosswell, responsabile dei prodotti di Facebook, gli utenti avranno “più modi per celebrare, commiserare o ridere insieme”. Le nuove icone emotive daranno “più possibilità di esprimere una reazione a un post, in maniera semplice e veloce”. Tutto bello, ammiccante e divertente.
Benvenuti nella società delle Junk emotion – emozioni semplici, chiare, poche e uguali per tutti. Perché sforzarsi di trovare le parole giuste per descrivere un sentimento quando si può attivare una bella emoticon già pronta, disegnata così bene che – siamo sicuri! – tutti la troveranno simpatica. E poi il numero ridotto facilita la scelta. Poche semplici emozioni che ci guideranno anche nella vita quotidiana e che, finalmente, saranno sempre le stesse. Finite quelle complicazioni inutili e decadenti dove si cercava il mistero di una emozione attraverso metafore sottili – la tristezza che avvolge come il miele di Guccini, i sottili dispiaceri di Battisti, le lucide follie di Vasco, le gradazioni di Flaubert, le impalpabili tessiture di fumo di Musil.
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Il silenzio che uccide ancora
Quarta strage terroristica nel cuore dell'Europa
Patrick Boylan
Dopo la notte di terrore a Parigi avvenuta il 13 novembre, i mass media sono riusciti – ancora una volta – a pilotare le nostre reazioni. Quando impareremo a non lasciarci manipolare?
Undici anni fa (11-3-2004) una serie di bombe esplosero nella metropolitana di Madrid, uccidendo 191 passeggeri. E' stato il primo atto terroristico condotto sul suolo europeo in risposta alle guerre di occupazione europee e statunitensi, prima in Afghanistan (2001) e poi in Iraq (2003) – guerre, peraltro, senza l'autorizzazione ONU e quindi del tutto illegali.
L'anno successivo (7-7-2015) quattro bombe terroristiche esplosero nella metropolitana e in un autobus di Londra, causando complessivamente 56 morti: è stato il secondo contrattacco jihadista sul suolo europeo . E il motivo è stato identico al primo, come dichiarò poi uno degli attentatori londinesi, un musulmano trentenne di origine pakistano: “Ogni giorno il governo da voi eletto democraticamente commette delle atrocità contro il mio popolo, in ogni angolo del pianeta; la vostra complicità con il vostro governo vi rende direttamente responsabili [di queste aggressioni].”
Pochi giorni dopo quell'attentato a Londra, io scrissi, per un giornale online dell'epoca, un editoriale intitolato “Il silenzio che uccide .” Mi meravigliavo che, dopo il loro lutto, i britannici non avessero provato anche un moto di rabbia contro un governo che li ha messi nel mirano di possibili attentatori, attaccando ed occupando illegalmente due paesi che non rappresentavano alcuna minaccia alla sicurezza nazionale e la cui unica “colpa” era quella di possedere vaste riserve di petrolio o una posizione geografica strategica
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