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Vacche Magris. Alcune note su guerra, terrorismo, intellettuali
Gabriele Fichera
Mi imbatto, sul «Corriere della Sera» del 15 novembre 2015, in un articolo firmato da tal Claudio Magris, da non confondere, immagino, con l’omonimo noto scrittore e saggista, padre nobel delle nostre lettere – in spasmodica attesa di un’imminente benedizione planetaria.
L’articolo fa il punto della situazione dopo le stragi terroristiche di Parigi, e ci indica la strada da seguire. Nel leggerlo si prova la vertiginosa sensazione di trovarsi di fronte all’ennesima testimonianza di una triste parabola: quella dell’odierno sedicente “intellettuale” che ha deciso di abdicare completamente a se stesso, inglobando in modo furbescamente ingenuo il punto di vista del cosiddetto “uomo della strada”. Uomo della strada che a sua volta crede di possedere un proprio personale punto di vista, senza neanche sospettare che le sue idee sono invece in gran parte sapientemente manipolate e indotte dall’incessante propaganda mediatica cui è sottoposto. Il risultato di questa duplice mistificazione è che l’intellettuale si trasforma in cassa di risonanza di frasi fatte e pseudo-concetti cari a chi guida le nostre società. Ecco che allora pigrizia intellettuale, accettazione dell’esistente, tendenza alla banalizzazione – laddove invece ci sarebbe da affinare al massimo gli strumenti di analisi – e semplificazione capziosa vanno a formare la deprimente rosa dei venti di quella che un brillante saggista del primo Ottocento ebbe a definire «ignoranza delle persone colte».
Ma torniamo all’articolo dell’omonimo di Magris. L’idolo polemico sembrerebbe il fanatismo islamico dell’Isis, ma a ben guardare c’è dell’altro. Lo si capisce dalla confezione giornalistica del pezzo. Il titolo recita infatti: «Quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista».
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Tredici novembre: allarmato affresco distopico
di Antonio Tricomi
Romanzo celebre anche perché Mira Nair ne ha tratto un film che ha riscosso un discreto successo, Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (Einaudi, Torino 2007) rievoca in flashback, e per bocca del protagonista, la vicenda di un giovane pakistano di buona ma ormai impoverita famiglia che, laureatosi a Princeton, diventa un valido analista finanziario presso un’influente società di consulenza newyorkese, per poi cambiare totalmente vita dopo l’Undici Settembre 2001. In particolare, dopo l’incontro, in Cile, con un uomo che gli parla degli antichi giannizzeri, descrivendoglieli non solo come ragazzi o bambini di fede cristiana «catturati dagli ottomani e addestrati per essere soldati in un esercito musulmano, a quel tempo il più potente esercito del mondo», ma anche al pari di individui che, appena divenuti adulti, si rivelano «feroci ed estremamente leali», giacché essi «avevano lottato per cancellare dentro di sé la propria cultura, perciò non avevano più nient’altro a cui rivolgersi».
Così – mentre gli Stati Uniti, pretendendo in tal maniera di combattere il terrorismo internazionale di matrice islamica, entrano con le armi in Afghanistan e alimentano la tensione tra India e Pakistan, che quindi vengono d’un tratto a trovarsi sull’orlo del conflitto atomico –, il protagonista del libro di Hamid giunge infine a confessare a se stesso la verità d’improvviso scoperta: «ero un moderno giannizzero, un servitore dell’impero americano in un momento in cui stava invadendo un Paese consanguineo al mio, e forse stava addirittura complottando perché anche il mio si trovasse di fronte alla minaccia della guerra».
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Che cos'è la critica del valore
la Rivista Marburg-Virus intervista Robert Kurz ed Ernst Lohoff
Domanda: Una caratteristica centrale del Gruppo Krisis, è il suo approccio della critica del valore. Potreste descrivermi succintamente che cosa significa per voi la critica del valore, e in che cosa consiste la differenza decisiva di quest'approccio rispetto alle altre teorie tradizionali della sinistra? La "critica della società della merce" è, come recita il sottotitolo della rivista Krisis, la stessa cosa che è la critica dell'economia politica? Cosa significa "valore" e "socializzazione per mezzo del valore?
Risposta: Che cos'è il valore, la sinistra lo sa per mezzo di mille corsi di formazione su "Il Capitale" - e tuttavia ancora non lo sa. Vale perciò la pena ricordare alcuni concetti fondamentali al fine di rendere intellegibile la nuova lettura della critica del valore. E' necessario tornare alle basi logiche della forma-merce. Dal momento che i membri di un sistema produttore di merci sono socializzati soltanto in forma indiretta (attraverso il mercato), essi non si relazionano attraverso una comprensione cosciente dell'utilizzo delle loro risorse comuni, ma soltanto attraverso il dispendio isolato di quantità di forza lavoro umana - che, socialmente allucinato, diventa "lavoro coagulato" (valore), e quindi viene trasformato in merci. Nella misura in cui le quantità di lavoro passato, fittiziamente contenute in queste merci, vengono messe in una determinata relazione di grandezza, esse appaiono come valori di scambio, la cui misura interviene solo a posteriori, attraverso la mediazione del mercato.
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Pecunia nervus belli: il tramonto del’ISIS senza più petrolio
di Federico Dezzani
“Il denaro è il nervo della guerra” diceva Cicerone, aforisma da accompagnare con “la guerre nourrit la guerre”: le risorse conquistate nella campagna militare alimentano la macchina bellica che si autofinanzia costantemente. È ormai chiaro che fosse questa la strategia alla base del Califfato: i proventi del petrolio immesso illegalmente sul mercato internazionale erano reinvestiti nella “jihad” dell’ISIS, coll’obbiettivo di destabilizzare Siria ed Iraq. I bombardamenti russi, fermando il contrabbando di greggio, minano l’intero progetto: ne segue la corsa di Washington ed alleati in Medio Oriente prima che il conflitto si chiuda con una strategica vittoria russo-iraniana. Il rilancio è pressoché sicuro.
***
Negare sempre e comunque
La reazione americana alle prove sui traffici di petrolio tra Turchia e Califfato ricorda quella del marito colto in flagrante con un’avvenente amante: negare sempre e comunque, anche l’evidenza. L’ingrato compito di smentire l’inconfutabile 1 è toccato al colonnello Steve Warren, portavoce a Baghdad dell’operazione Inherent Resolve formalmente impegnata nei bombardamenti contro l’ISIS:
“Let me be very clear that we flatly reject any notion that the Turks are somehow working with ISIL. That is preposterous and kind of ridiculous. We absolutely, flatly reject that notion.The Turks have been great partner to us in the fight against ISIL. They are hosting our aircraft, they are conducting strikes, they are supporting the moderate Syrian opposition. They’ve been good partners here. Any thought that the Turks, that the Turkish government is somehow working with ISIL is just preposterous and completely untrue.”
Assurda e ridicola: così il portavoce statunitense definisce l’accusa che i Turchi contrabbandassero petrolio con l’ISIS, lucrando sulle sventure dei vicini e alimentando la destabilizzazione della regione.
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Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica
di Domenico Talia
La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale.
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Con e oltre Carl Schmitt: la guerra al tempo dell’assolutismo morale
di Franco Milanesi
Il novum della guerra tardo novecentesca deve essere pensato sondandone la densità storica, cioè il carattere di rottura e contiguità che intrattiene con il passato. A tal fine la strumentazione concettuale offerta dall’opera di Carl Schmitt risulta preziosa. Non si tratta, evidentemente, di essere più o meno d’accordo con un giurista paranazista e razzista che a fronte di una straordinaria profondità di sguardo ha ricondotto il conflitto di classe a un semplice fattore di regressione premoderna del politico. Si tratta piuttosto di maneggiare la sua articolazione teorica come dispositivo di ripulitura della mescola di interessi, leggi morali eterne, valori, religione e appelli alle coscienze che il liberal-capitalismo ha utilizzato per opacizzare il reale e confondere lo sguardo critico. Se coniughiamo questa azione di rischiaramento dentro una comprensione tutta “di parte”, se utilizziamo la sua opera non ingessandola nella filologia ma mettendola incessantemente alla prova di uno sguardo in grado di assumere o scartare suggestioni e motivi allora, forse, rendiamo un servizio al pensiero (anche a quello di Schmitt) e qualche nebbia del presente possiamo tentare di diradare.
Il lungo corso del paradigma vestfaliano e del jus publicum Europaeum, cioè del concreto principio d’ordine internazionale fondato sull’entità-Stato che seguì i conflitti religiosi cinquecenteschi e la guerra dei trent’anni (1618-1648), affonda le sue radici tanto nell’architettura politico-istituzionale quanto nella vicenda dell’ordo capitalistico borghese sostanziale a quell’impianto. Lo Stato dunque – operiamo già un netto scarto dall’assolutizzazione schmittiana – nonè l’unico attore sulla scena della modernità ma divide e intreccia il suo primato con il capitale, come è evidenziato dall’estesa applicazione di una razionalità calcolante che connette l’economia politica borghese all’architettura istituzionale e allo sviluppo tecnico- scientifico.
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Terrorismo, guerra psicologica, manipolazione dell’informazione e costruzione del consenso
di Fiorenzo Angoscini
I recenti avvenimenti francesi (Parigi, 13 novembre) ripropongono all’attenzione generale la funzione del cosiddetto quinto potere: il rapporto tra alcune agenzie di stampa, certuni operatori dell’informazione, testate giornalistiche e gruppi editoriali. In un miscuglio di agenti atlantici, giornalisti-militanti (prevalentemente fascisti) arruolati come consulenti e pennivendoli, vertici militari e dei servizi più o meno segreti, manovali del tritolo, servi senza dignità (politica) e provocatori a tempo pieno. Soprattutto, in riferimento anche ad un recente passato, si può constatare come alcune questioni, per determinati gruppi di pressione, non siano mai superate o passate di moda, ma mantengano piuttosto una loro freschezza e siano sempre d’attualità così che, teorizzazioni di cinquant’anni fa, possono sembrare enunciate in questi giorni.
In particolare modo è stupefacente la capacità e volontà di amplificare, distorcere, piegare alle necessità politiche, sociali ed economiche, fatti ed avvenimenti apparentemente diversi da quello che sono, manipolando e trasfigurando la realtà. Spiegando che, in nome della lotta al terrorismo mondiale, si possono sacrificare libertà minime, acquisite e consolidate. Cercando di convincere la pubblica opinione che, per sconfiggere il terrore, si deve e si può rinunciare a una quota minima(?) di libertà personali; si può sottostare ad un maggiore controllo poliziesco, accettare l’aumento della produttività (è risaputo che un maggiore impegno lavorativo aiuta a sconfiggere le forze del male) e, infine, assecondare gli immancabili necessari sacrifici, sempre conditi con altre rinunce e privazioni. Una guerra psicologica neppur troppo sottile.
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Ciao pensione ciao. Sul versante legislativo del lavoro
di Maurizio Fontana
Come si è compreso qualche tempo dopo la morte di Luigi Tenco, l’ispirazione originaria dell’autore di Ciao amore ciao discendeva dal travolgente sbalzo vissuto dai giovani uomini e donne che, dall’entroterra ligure, entravano nelle fabbriche genovesi negli anni ’60. A Tenco, morto il 27 gennaio 1967, non fu dato conoscere come, sul finire del decennio, in Liguria come nel resto dell’Italia industriale quella generazione operaia si fosse ripresa dallo smarrimento iniziale di un secolo in un giorno solo per andare verso il più intenso ed esteso ciclo di lotte conosciuto nel nostro paese, attraverso l’espansione di una conflittualità fondata sulla conquista di una dimensione collettiva imperniata sulla figura dell’operaio massa. Di quella lunga stagione in questa occasione ci interessa richiamare due provvedimenti legislativi di assoluto spessore, che sedimentarono il potere operaio sull’assetto sociale complessivo e sono oggi sotto schiaffo dell’attuale governo: la riforma delle pensioni dell’aprile 1969, preceduta da uno sciopero nazionale della sola Cgil del 7 marzo 1968 e da due scioperi generali unitari, nel novembre dello stesso anno il primo e nel febbraio del 1969 il secondo, e lo statuto dei lavoratori del maggio 1970.
Quest’ultimo all’epoca non fu considerato una strepitosa conquista, ma un’accettabile mediazione che si auspicava potesse essere migliorata nell’immediato futuro, sull’onda di un’offensiva operaia che proseguiva dentro e fuori le fabbriche conquistando potere sui posti di lavoro, aumenti salariali e pensionistici, un’estesa socializzazione dei costi di riproduzione della classe. Già dal decennio successivo, invece, si è conosciuto in Italia un costante regresso della legislazione sul lavoro, mentre le sedimentazioni organizzative e istituzionali di quella ormai lontana stagione sono andate progressivamente sgretolandosi e buona parte di quelle che sembrano aver resistito si sono spesso convertite a un altro paradigma in un contesto sociale profondamente mutato.
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La matematica è un pensiero
di Alain Badiou
Quest’enunciato non è di per sé evidente. Che la matematica sia un pensiero, è stato più volte sostenuto, innanzitutto da Platone, che però avanza in proposito numerose riserve, e più volte negato, in particolare da Wittgenstein. Si tratta di un enunciato indubbiamente sottratto alla dimostrazione. Forse è il punto di impasse della stessa matematizzazione, e dunque il reale della matematica. Ma il reale, più che essere conosciuto, viene dichiarato. L’oscurità di quest’enunciato risulta da quanto sembra imporsi come una concezione intenzionale del pensiero: in questa concezione, ogni pensiero è pensiero d’un oggetto, che ne determina l’essenza e lo stile. La matematica può allora essere considerata un pensiero proprio nella misura in cui esistono degli oggetti matematici, e l’indagine filosofica concerne la natura e l’origine di questi oggetti. Ora, è chiaro che una tale supposizione è problematica: in quale senso le idealità matematiche possono essere dichiarate esistenti? Ed esistenti nella forma generica dell’oggetto? Tale difficoltà è presa in esame nel libro M della Metafisica di Aristotele, a proposito di ciò che egli chiama le matematikà, le cose matematiche, o correlati supposti della scienza matematica. Se si abborda la questione della matematica come pensiero che concerne l’oggetto o l’oggettività, la soluzione di Aristotele è mio avviso definitiva.
Tale soluzione si inscrive tra due limiti.
1. Da una parte si deve escludere di poter accordare l’essere o l’esistenza agli oggetti matematici, intendendolo come un essere separato, che costituirebbe un campo preesistente ed autonomo della donazione oggettiva.
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L’impossibile economia pubblica
Il paradosso ideologico dell’articolo 81 della Costituzione di fronte al nuovo ciclo di privatizzazioni
Militant
L’approvazione del nuovo articolo 81 della Costituzione, avvenuta con il consenso di tutto l’arco parlamentare nel maggio 2012, è all’origine del nuovo paradossale ciclo di privatizzazioni dei restanti lembi di economia pubblica italiana. Nel giro di pochi mesi sono state privatizzate Poste e Ferrovie (quest’ultime ancora in corso di privatizzazione), gli ultimi due colossi economici ancora di proprietà statale, senza che nessuno abbia avuto da ridire e anzi con il benestare di tutte le forze politiche. Le stesse che da anni spingono per la definitiva privatizzazione di tutta l’economia “municipalizzata”, quella cioè legata ai servizi pubblici comunali. E questo per l’ormai dichiarato motivo per cui se tra ceti politici c’è una lotta allo spodestamento del gruppo concorrente, socialmente tutti i “rappresentanti” politici in parlamento condividono lo stesso modello economico, il liberismo, nelle sue vesti corporative (centrodestra) o transnazionali (centrosinistra). Se però nel precedente ciclo di privatizzazioni, tra la metà degli anni Novanta e i primi Duemila (sempre inequivocabilmente a trazione centrosinistra, tanto per non confondere i protagonisti in campo), le giustificazioni erano sostanzialmente di due tipi: da una parte “fare cassa” con la vendita di determinati beni pubblici; dall’altra migliorare l’efficienza delle imprese sottratte al controllo statale, oggi è intervenuta una nuova e più sottile opera di convincimento: la privatizzazione è la soluzione al problema degli investimenti produttivi, investimenti impossibilitati allo Stato per via del “debito pubblico” o dei “vincoli europei” (qui, quo e qua per rendersi conto di cosa parliamo, ma ancora qui). Ci troviamo di fronte però ad un paradosso zenoniano, stranamente poco rilevato da chi vorrebbe opporsi al governo Renzi. Secondo tutti gli analisti economici, l’unico modo per far ripartire la domanda e dunque l’occupazione è quello di far ripartire gli investimenti.
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Lo Stato Islamico e la globalizzazione neoliberista
di Alessio Aringoli
Lo scopo di questo articolo è principalmente quello di mettere in discussione alcuni luoghi comuni concettuali, molto presenti nel dibattito sullo Stato Islamico (che, d’ora in poi, nomineremo Isis – Islamic State of Iraq and Syria, perché con questo sigla è più conosciuto, sebbene la stessa sigla inglese più corretta, da più di un anno, sarebbe semplicemente Is – Islamic State) in particolare in riferimento al rapporto tra l’Isis e l’Islam e a una corretta valutazione della natura storica e della forza geopolitica dell’Isis.
1. L’Islam non è l’Isis. Questa affermazione non si fonda solo sulla, pur rilevante, constatazione empirica che solo una minoranza degli islamici aderisce alla versione wahabita-salafita dell’Islam e una ancora più minuscola minoranza degli islamici riconosce Al Baghdadi quale legittimo Califfo. Ci sono almeno tre fondamenti rilevanti e che non possono essere ignorati:
A) La corrente wahabita-salafita è molto recente nella storia islamica. Il wahabismo-salafismo si propone quale ipotesi di “riforma” dell’Islam nel senso di una sua “purificazione”, in primo luogo dagli influssi occidentali, ma in generale da tutte le strutture ermeneutiche che pure hanno una lunga tradizione nella civiltà islamica. Il punto più rilevante della teologia wahabita-salafita è la centralità della concezione (presente anche in molte altri correnti dell’Islam) secondo cui il Corano sarebbe “increato”, ovvero non sarebbe stato creato da Allah, ma sarebbe co-originario ad Allah stesso. Assegnare a questa concezione una assoluta e radicale centralità ha condotto e conduce a condannare qualsiasi attività ermeneutico-interpretativa. Naturalmente l’operazione ha una valenza ideologica, poiché nei fatti i wahabiti-salafiti propongono una precisa interpretazione del Corano e della tradizione islamica, che tuttavia presentano come non questionabile, in virtù della suddetta non interpretabilità del Corano.
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Dal congresso di Vienna ai BRICS
Storia e prospettive della neutralità svizzera
Damiano Bardelli
Quest’anno corre il bicentenario del congresso di Vienna, in occasione del quale le grandi potenze europee riconobbero la neutralità perpetua della Svizzera. Occorre approfondire gli avvenimenti che hanno marcato la neutralità elvetica non solo per capire cosa essa sia – contrastando l’utilizzo strumentale della storia nazionale messo in atto dai partiti conservatori – ma anche per riflettere sulle sue prospettive future. Nel contesto attuale di cambiamento negli equilibri geopolitici internazionali, la Svizzera potrebbe infatti approfittare del suo status di paese neutrale per giocare un ruolo centrale nello sviluppo di rapporti paritari tra l’Occidente e le potenze emergenti
Le origini della neutralità: il mito di Marignano e il congresso di Vienna
I partiti conservatori – e in particolare l’UDC – ricorrono regolarmente al mito del Sonderfall elvetico1 per ottenere consensi tra la popolazione e per giustificare le loro proposte in materia di politica interna ed estera. Per contrastare questa tendenza e per smascherare la debolezza degli argomenti della destra, è fondamentale che i partiti di sinistra cambino la loro attitudine nei confronti della storia nazionale e comincino ad approfondirla. Diversi esempi concreti posso essere presi in considerazione, tra cui quello della neutralità.
Questa primavera, la pubblicazione di un’opera dello storico Thomas Maissen, nella quale vengono smantellati i principali miti della storia svizzera2, ha dato luogo ad un acceso dibattito tra politici conservatori – incluso Christoph Blocher – ed esperti del tema. Questa discussione ha permesso di mettere in evidenza la fragilità della posizioni dell’UDC sulla storia nazionale3. In particolare, ci si è scontrati sulla questione delle origini della neutralità elvetica, che i miti popolari fanno rimontare alla battaglia di Marignano del 15154 ma che, concretamente, diviene realtà solo con la pace di Parigi, stipulata nel 1815 nel quadro del congresso di Vienna5.
Dalla fine del XIX secolo e per quasi un secolo, gli storici hanno applicato una lettura a posteriori della neutralità svizzera, facendo risalire la tradizione della neutralità alla battaglia di Marignano per giustificare la politica di forte isolamento promossa dalle autorità elvetiche.
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La guerra in casa
Toccherà anche a noi, se non ci opponiamo al militarismo
Michele G. Basso
Un monarca prussiano del 18° secolo disse, ed era una cosa molto intelligente: “Se i nostri soldati capissero perché ci battiamo, non si potrebbe più fare una sola guerra.”
(Lenin, “Successi e difficoltà del potere sovietico”)
Quando, nel 1991, l’Italia prese parte alla guerra del Golfo, sotto la guida di Bush padre, scendemmo in piazza, a protestare davanti alle prefetture, infischiandoci dei permessi, ridendo dei pochi minuti di sciopero proclamati dalla CGIL. Ufficialmente, anche il PCI –PDS (Cambiava nome in quei giorni) si disse contrario, con l’eccezione della corrente migliorista – in cui spiccava il “comunista” preferito da Kissinger, Giorgio Napolitano – ma si guardò bene dallo sviluppare un’agitazione di massa. Un cacciabombardiere italiano fu abbattuto, i due militari, Bellini e Cocciolone, furono catturati. Cocciolone fu mostrato in TV, piuttosto malconcio. Qualche giorno dopo, in molti muri delle nostre città, fu affisso il suo ritratto, con la scritta: “ Mamma, ho perso l’aereo”.
Oggi non c’è una vera reazione visibile al militarismo, a parte gruppi relativamente ristretti. Questo anche perché le operazioni militari spesso vengono nascoste dai media. Giornali e TV, quando parlano della guerra in Libia del 2011, dicono che fu un errore, e accusano Francia e Gran Bretagna, come se Italia e Stati Uniti non vi avessero partecipato. Questo è possibile perché vi fu una pesante cortina di omertà sui bombardamenti italiani, presentati al pubblico tv dal ministro La Russa come operazioni di ricognizione. L’Italia fu mostrata come una verginella, che non vedeva l’ora di sostituire al bruto Gheddafi dei sinceri democratici.
Rarissime le notizie sull’attività del contingente italiano in Afghanistan, ancor meno sui nostri istruttori in Iraq.
Come capire il presente, nonostante la crescente mistificazione? C’è un’immensa esperienza del passato sulle guerre. Molti, persino nell’estrema sinistra, non ne tengono conto, perché -pensano – le nuove tecniche militari avrebbero cambiato la natura della guerra.
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Migranti, Turchia e UE: il Bataclan è già lontano…
Infoaut
Nei giorni scorsi si è svolto l’atteso Summit europeo sulla questione migrazioni, con la Turchia di Erdogan invitato speciale a poche ore dall’assassinio di Tahir Elci, presidente del Foro di Diyarbakir (capitale di fatto del Kurdistan turco), per le strade del quartiere di Sur e dell’abbattimento di un Jet russo durante un’operazione militare avviata nel quadro della nuova “alleanza” sul terreno tra Russia e Francia. Il Bataclan è già lontano. Al Summit i primi ministri dei paesi UE, Valls in testa, hanno accolto con affettatissimo imbarazzo un partner prezioso e necessario per fermare il flusso migratorio che interessa l’Europa con nuova intensità a partire da quest’estate, in particolare attraverso la rotta che dall’Iraq e dalla Siria, colpite dalle violenze dello Stato Islamico e dei rispettivi governi, passa per la Turchia, la Grecia e quindi i Balcani, fino a puntare su Germania, Scandinavia e Inghilterra.
Mentre si bombarda Raqqa per “vendicare” le vittime di Parigi, si chiede alla Turchia di impedire alle vittime degli islamisti a Raqqa (o a Mosul, o a Singal) di mettersi in salvo dalle persecuzioni dello stesso Is (o da eventuali “danni collaterali” dei bombardamenti…). Le vittime europee vanno vendicate, sia pur con operazioni aeree che molto sanno di propaganda, mentre quelle orientali vanno chiuse entro i confini dei propri massacri o della propria oppressione. Già, perché l’eventuale “chiusura dei rubinetti” delle migrazioni, da parte della Turchia, non coinciderà certo con la disponibilità turca a tenere milioni di profughi entro i suoi confini, ma sarà la probabile premessa per un giro di vite anche rispetto agli ingressi in Turchia (dove la popolazione, come in Europa, non fa certo i salti di gioia rispetto all’arrivo di milioni di richiedenti asilo).
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Eurozona, l’80% del surplus commerciale è tedesco
di Luigi Pandolfi
In Europa, sul fronte macroeconomico, la notizia di questi giorni è che le esportazioni vanno a gonfie vele. In effetti, gli ultimi dati forniti dalla Bce non lasciano spazio ad alcun dubbio: nel secondo trimestre di quest’anno, il saldo delle partite correnti nell’eurozona si è chiuso in attivo per 67,1 miliardi di euro, doppiando, quasi, la cifra registrata nei primi 3 mesi del 2015 (35,9 miliardi di euro). Bene, verrebbe da dire. E invece no, niente applausi. Intanto perché a questi numeri non corrisponde un miglioramento sostanziale della situazione sociale nei Paesi membri e, complessivamente, nell’intera area, né, per stare agli obiettivi della politica monetaria di Eurotower, un aumento apprezzabile dell’inflazione e, quindi, della domanda interna.
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Legge di stabilità: i soldi che ci sono e non ci sono, dipende dagli obiettivi
di Roberta Fantozzi
Continuano le operazioni di propaganda e manipolazione del governo sulla Legge di Stabilità. Ma la Legge di stabilità per il 2016 è un inno al neoliberismo: prodiga verso le imprese e i ceti abbienti, a cui destina una gran quantità di risorse in tutti i modi possibili, mentre accelera la distruzione di ogni comparto e funzione pubblica con l’eccezione della spesa militare, favorisce l’evasione fiscale, e non dà che qualche mancia per la condizione di disagio sociale dei più deboli.
1. Il rapporto con i vincoli europei: l’austerità “flessibile” e il neoliberismo
La comunicazione pubblica del governo è tutta centrata alla descrizione di una manovra che finalmente dà e non toglie. Una manovra espansiva con cui si cerca di accreditare anche l’immagine di un premier che mette in discussione le politiche europee. Non è così. Come viene riaffermato in ogni documento, il governo si muove “nel pieno rispetto delle regole di bilancio adottate dall’Unione Europea”. Nessuna vertenza viene aperta per modificare il quadro delle politiche di austerità, i vincoli su deficit e debito del Fiscal Compact.
Il governo sfrutta invece, concentrandoli nel 2016, i margini di manovra concessi dalla cosiddetta “austerità flessibile”, cioè dalla possibilità di spostare nel tempo il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla UE.
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Gli attentati del 13/11 e la predisposizione della scacchiera
Federico Dezzani
La strage di Parigi del 13/11 ha già prodotto un risultato finora impensabile: su iniziativa di Angela Merkel, la Germania schiera mezzi ed uomini in Medio Oriente, a fianco di Francia, Regno Unito ed USA, nonostante il Califfato stia subendo pesanti rovesci in Siria ed Iraq. Nel frattempo le condizioni economiche dell’eurozona volgono al peggio, con la Francia che registra ad ottobre un nuovo record di disoccupati e la deflazione che avanza ovunque. La guerra all’ISIS è solo un espediente per procrastinare lo sfaldamento della UE/NATO: l’avversario strategico degli angloamericani è infatti Mosca, capace di aggregare l’Europa post-euro su basi alternative al sistema euro-atlantico. Con l’ammassarsi degli occidentali nel sempre più affollato ed incandescente Medio Oriente, la scacchiera è predisposta: è sufficiente un casus belli simile all’abbattimento del Su-24 e sarà guerra.
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L’Europa tra crisi economica e guerra all’ISIS
Una delle ricadute della strage del 13/11, coordinata come abbiamo sottolineato nei nostri lavori dai servizi segreti francesi, è stata senza dubbio la possibilità di eclissare i dati francesi sul mercato del lavoro, pubblicati la settimana scorsa e relativi al mese di ottobre: cifre pessime che, col nuovo record di 3,81 mln di disoccupati1, certificano la situazione critica della Francia, alle prese con un debito pubblico prossimo al 100% del PIL ed una bilancia commerciale in cronico disavanzo.
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La miracolosa rinascita di Antonio Gramsci
di Robert Bösch
"La verità è che le possibilità di successo di una rivoluzione socialista non hanno altra misura che il successo stesso"
- Antonio Gramsci (1891-1937), riferendosi alla Rivoluzione d'Ottobre -
Al più tardi, con la sparizione dell'URSS dalla scena politica mondiale, anche quello che si soleva chiamare "teoria marxista" ha perso ogni e qualsiasi rilevanza sociale. Anche le varianti più illuminate del marxismo si riferivano all'Unione Sovietica, se non come socialista, quanto meno come formazione sociale "post" o "non-capitalista". La sua caduta catastrofica ha sigillato anche il verdetto sulla sinistra fino ad allora esistente, e sul suo concetto di teoria.
In questo contesto, non si può non considerare, o nutrire grande interesse per Antonio Gramsci. Non è facile comprendere perché un pensatore che ha visto come proprio compito quello di "tradurre in italiano" le esperienze della Rivoluzione d'Ottobre (Zamis, 1980), e per il quale Lenin era il "maggior teorico moderno" del marxismo (Perspektiven, 1988), non venga trattato come un cane morto. Di fatto, la rinascita di questo rivoluzionario fallito dei tempi della III Internazionale suscita sorpresa, se si considera che non solo la sinistra, ma anche la destra teorica, ha riscoperto per sé questo "marxista classico". Se Gramsci era già popolare a partire dal decennio 1970, in un determinato spettro della sinistra accademica, che in Germania Occidentale era riunito intorno alla rivista Argument, nel 1977 il teorico della nuova destra francese, Alain de Benoist, ha scritto un libro in cui adattava a suo modo il pensiero di Gramsci.
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La crisi odierna e la lezione di Marx
di Alberto Leiss
Un resoconto del convegno di Alessandria su «I ritorni di Marx». I nessi tra forza economica e capacità egemonica del centro del potere capitalistico. Crisi e ruolo dell’Unione europea, un «nuovo mostro» che non è stato ancora adeguatamente analizzato. La costruzione del soggetto tra neoliberismo, psicanalisi e femminismo della differenza
Dunque lo spettro di Marx è tornato ad aggirarsi sullo scenario della nuova, lunga e devastante crisi ca- pitalistica che ci accompagna dal 2008, sollevando moltissimi interrogativi sui veri meccanismi che sostengono il sistema uscito vincitore dal confronto con l’alternativa comunista e socialista. Un confronto aperto proprio dalle opere del professore di Treviri a metà dell’Ottocento, divenuto conflitto acuto e tragico dopo la rivoluzione del 1917. Apparentemente concluso con la fine dell’Urss.
Ma è davvero possibile – come si è augurato in premessa Aldo Tortorella – che questo nuovo ritorno avvenga «a occhi aperti» da parte di coloro che non rinunciano a rimeditare e attualizzare la lezione di Marx? Evitando il rischio di ulteriori errori e limiti di natura ideologica, se non propriamente dogmatica, proprio grazie al fatto che è stato abbastanza brutalmente tolto di mezzo l’equivoco di una costruzione in corso, con sicura ricetta, di «mondi nuovi»?
La discussione svoltasi per tre giorni a Alessandria, per iniziativa di Critica marxista e della Fondazione Luigi Longo, nel convegno intitolato appunto I ritorni di Marx, sembra fornire una prima significativa risposta positiva.
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La barbarie del lavoro
di Domenico Tambasco
Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso il Jobs Act, l’attacco neoliberista punta ora dritto al cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro e il suo presidio costituzionale, l’art. 36. Superato quest’ultimo baluardo, non resta null’altro nel campo dei diritti lavorativi: siamo giunti alla barbarie del lavoro
È vorace il neoliberismo, come tutti gli “ismi” avendo,
nel suo patrimonio genetico, un cromosoma totalitario che pretende il completo asservimento della persona e della sua esistenza.
È suadente il neoliberismo, sussurando continuamente alle orecchie dei cittadini dell’ormai globale villaggio la parola “libertà” che, nella cruda realtà dei fatti, cela il tintinnio di nuove catene.
Raggiunto pienamente il traguardo della libera licenziabilità attraverso le “tutele crescenti”, la lotta di classe da alcuni decenni promossa dall’1% della società[1] si dirige determinata, ora, verso il cuore della prestazione lavorativa: l’orario di lavoro. Ecco dunque che qualche perlustratore in avanscoperta “spara” i primi colpi di avvertimento, dichiarando che
“L’ora-lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione… dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento la retribuzione oraria”[2], trattandosi di “un tema culturale su cui lavorare”, poiché “il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore e sempre più risultato”. Del resto “per molti anni i ritmi biologici e di vita si sono piegati agli orari fissi, ma con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà”.
Di qui l’invito alle giovani schiere di economisti e giuslavoristi ad “immaginare il futuro su questo tema”.
Lo schema adottato è quello classico: si attacca l’obbiettivo definendolo “vecchio”, d’ostacolo all’innovazione e alla libertà dei “moderni”: nel caso di specie, al fattore “tempo” del rapporto di lavoro viene contrapposto il “risultato”, “l’apporto dell’opera”.
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Il fronte interno della “guerra al terrore”
di Carlo Formenti
Il modo in cui i governi europei (a prescindere dal colore ideologico) e i media hanno reagito agli attacchi terroristici di Parigi è straordinariamente significativo, nella misura in cui contribuisce a ridefinire il significato di alcuni termini del lessico politico moderno. In particolare ne prenderò qui in considerazione tre – socialdemocrazia, liberalismo, patriottismo – a partire da alcuni articoli apparsi nei giorni scorsi sul Guardian e sul Corriere della Sera.
L’appoggio dei partiti della Prima Internazionale ai governi che avevano scatenato la Prima Guerra Mondiale ha sancito la morte della prima socialdemocrazia, quella, per intenderci, che si distingueva dal comunismo non per il fine – il superamento della società capitalistica – ma per la scelta del mezzo: le riforme al posto della rivoluzione. Quanto alla morte della seconda socialdemocrazia – quella nata a Bad Godesberg con il ripudio del marxismo – può essere fatta coincidere (come si sostiene in un recente libro-conversazione di cui sono co autore con Fausto Bertinotti, “Rosso di sera”, ed. Jaca Book) con la fine del compromesso fra capitale e lavoro del trentennio postbellico e con la sua definitiva conversione all’ideologia liberal liberista. Conversione cui ha fatto seguito, non a caso, la scelta di appoggiare la (e, nel caso del New Labour di Tony Blair, di partecipare alla) “guerra al terrore” dichiarata da George Bush dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001.
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Il futuro e il suo doppio
di Emanuele Braga
Quale è il futuro della cultura? Facciamo un gioco, scommettiamo su di una ipotesi. Lo scenario più probabile e strategico è fortemente connesso all’integrazione di due componenti principali: partecipazione democratica e innovazione tecnologica, al fine di inventare nuovi modelli produttivi.
Se fosse così, pongo subito qui la questione fondamentale: il capitale prodotto dalla cooperazione sociale può essere economicamente sostenibile trovando forme nuove di organizzazione? e se si che forma assume questo tipo di produzione? Oppure c’è un rischio originario: creatività, innovazione, partecipazione, cooperazione, nuove tecnologie sono più che altro nuove parole d’ordine per riempire di contenuti vecchi modelli di business plan e per gestire nuove governance di centro destra?
Ecco questo è l’interrogativo che metto al centro.
Una decina di anni fa ero convinto che fare arte fosse discutere le condizioni di possibilità della produzione stessa. Erano appena finiti gli anni novanta, e il concetto di creativo aveva appena fatto la sua entrata in società!, troppi vernissage, troppa estetizzazione di temi cool, troppa dimensione social e community based, tutti volevano essere artisti, creativi, troppa mercificazione diffusa del desiderio e delle aspettative. Il mercato del lavoro sembrava essersi trasformato in una agenzia di viaggi, ma l’unico viaggio reale che in effetti avresti mai fatto era quello di andare a comprare il biglietto. Nella storia dell’arte ovviamente tutti gli eventi degni di questo nome sono nati da movimenti di sovversione, perché come ovvio la vita nasce dal desiderio.
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Libertà, fraternità, uguaglianza
Quello che resta di due secoli di dominio europeo
Bruno Amoroso
Ormai è troppo tardi per salvare il salvabile. In realtà non c’è più nulla da salvare. Gli argomenti forti dell’Occidente fino a ieri erano che i vincitori hanno sempre ragione, e quindi è meglio stare dalla loro parte e ricavarne qualche dividendo, anche se a spese degli altri. Ragionamento pratico che si contrabbandava con argomenti culturali, sempre ben retribuiti o gratificati, come se gli orrori dell’Occidente fossero solo errori, che noi avremmo potuto correggere o se non altro ostacolare.
Ora l’incanto si è rotto, cioè non esiste più. L’Europa di Barcellona (1995) è tornata a essere ufficialmente quel coacervo di paesi militarmente e economicamente imperialisti, in concorrenza perenne tra loro, e le raffinatezze culturali non hanno più attrazione né tra i propri cittadini né tra gli altri. La guerra e la povertà che l’Europa ha esportato nel mondo da almeno due secoli gli sono tornate in casa e i suoi lamenti ipocriti e i suoi veri dolori non fanno più impressione a nessuno.
Semmai ci rendono un po’ più eguali agli altri che le stesse tragedie vivono da sempre. E la mano è sempre la stessa. Le armi sono occidentali – chi diceva che il progresso tecnico avrebbe portato più pace, eguaglianza e meno morti? – la rapina delle ricchezze e della vita delle persone continua indisturbata da parte delle nostre multinazionali e transnazionali. Del dividendo di cui abbiamo goduto un po’ tutti ora ci arriva il conto da pagare. A mandarcelo sono le nostre élite politiche ammaestrate come quelle degli altri paesi da noi colonizzati nei “Centri di Eccellenza” di Londra e Parigi.
La cultura europea e i suoi tecnici ne sono corresponsabili. Da quanti decenni si producono armi e crimini contro l’umanità senza che i nostri scienziati e tecnici denuncino ciò all’opinione pubblica, nascondendosi dietro al paravento dell’autonomia della Scienza?
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Pivot to Europe. Il Piano che non c’è ma si vede
Pierluigi Fagan
(Ammiraglio A. Mahan, The Influence of Sea Power upon Hitory, 1890, pg.1)
Nell’Ottobre 2011, l’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton, pubblicava un articolo su Foreign Policy dal titolo: “America’s Pacific Century”[i]. L’articolo tratteggiava le linee del riorientamento strategico USA, in direzione dell’Asia. Tale dottrina venne battezzata “pivot to Asia” ed è comunemente citata come l’asse principale delle geopolitica obamiana. La geopolitica è l’aspetto più importante della vita degli stati poiché è l’ambito in cui si determinano i rapporti di forza tra gli stessi. Ogni stato è un sistema ed ogni sistema dipende strutturalmente da una serie di condizioni esterne che ne determinano la sicurezza, la forza, la salute. La parte “politica” di geo-politica, serve a risolvere i problemi determinati dalla parte “geo”, cioè della geografia. Ogni stato ha una sua condizione geografica alla quale è fisicamente vincolato, tale condizione presenta problemi ed opportunità, la politica serve appunto per minimizzare i problemi e dilatare le opportunità date dal vincolo geografico. Ne discende che mentre la parte politica della geopolitica ha una sua variabilità interpretativa, la parte geo è in un certo senso “fissa”.
La parte fissa, la geo di geopolitica, vede sin dalla nascita della disciplina, il mondo diviso in due aree: l’area di terra cioè il continente detto isola-mondo euroasiatico che va dal Portogallo alla punta estremo orientale siberiana e l’area di mare.
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Leggere Bettelheim nel 2015
di Giovanni Di Benedetto
Ciò che più colpisce chi si accosta al lavoro intellettuale di Charles Bettelheim è il suo disincanto precoce, risalente agli anni ’30 del Novecento, sulla natura politica e sociale del mondo dell’Unione Sovietica, senza che tale punto di vista critico lo abbia mai costretto a rinunciare alle sue idee marxiste e comuniste. In ragione di questa considerazione si capisce perché l’obiettivo di Bettelheim fosse quello di non dimenticare lo scarto che separava la teoria di Marx e Engels dalla realtà del socialismo. Peraltro, questo presupposto metodologico vale a maggior ragione per chi vive nel tempo presente e sconta gli effetti di vera e propria restaurazione della stagione che si è aperta dopo il biennio 1989-91, in un contesto storico molto differente da quello in cui compaiono i lavori teorici più importanti del fondatore, alla Sorbona, del Centre pour l'Étude des Modes d'Industrialisation.
Bettelheim, nel suo lavoro di intellettuale marxista, consulente economico a Cuba, in Algeria, in Egitto e in India, docente universitario irregolare, prende le mosse dalla necessità di mettere in discussione il paradigma dell’economia capitalistica secondo cui solo un mercato autoregolato avrebbe inscritto nel proprio destino uno sviluppo privo di crisi e deragliamenti. Contro Friedrich Hayek e Ludwig von Mises, e rifacendosi alle argomentazioni di Engels secondo il quale la produzione immediatamente sociale esclude la trasformazione dei prodotti in merci e quindi, in assenza di scambio, in valori, l’economista francese ribadisce la necessità di organizzare la produzione in base ad un piano che tenga conto dell’utilità degli oggetti in uso, considerati in rapporto alla quantità di lavoro necessario alla loro produzione.
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