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Un nuovo materialismo
di r.f.
Con il primo numero di “Consecutio rerum” proseguiamo e approfondiamo il progetto teorico-politico che ha caratterizzato i primi sette numeri della precedente rivista “Consecutio temporum”, da noi realizzata e diretta a partire dal 2001.
Costretti a interrompere la pubblicazione della precedente rivista per la pretesa della proprietà della testata d’interferire con il nostro programma editoriale, diamo vita alla nuova “Consecutio rerum”, con una variazione di titolo lieve, ma pure significativa nel verso di una radicalizzazione del nostro intento filosofico ed etico-politico iniziale. Giacché il passaggio dalla connessione dei “tempi” a quella delle “cose” stringe il nostro percorso ancor più nella proposizione di un nuovo campo di ricerca e di critica quale vuole essere quello di un “nuovo materialismo”.
Nuovo materialismo, perché riteniamo che il vecchio materialismo, quello più celebre d’ispirazione storica e marxista, sia un paradigma teorico ormai consumato e inutilizzabile. Già lo stesso Marx, in alcune sue pagine, a dir il vero assai poco frequentate, sulle formazione storiche precapitalistiche lo aveva messo, forse inavvertitamente, in discussione. Ma per noi è chiaro che la capacità delle relazioni economiche di farsi princìpi di totalizzazione dell’intera vita, individuale e sociale, vale solo nella modernità capitalistica e che dunque decade ogni pretesa, com’è accaduto con il materialismo storico, di generalizzare la vecchia metafora di struttura materiale e sovrastruttura spirituale all’intero percorso della storia umana.
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Huma Abedin e Hillary Clinton
Viaggio nello Stato Profondo Americano
di Federico Pieraccini
La vicenda che potrebbe decidere le prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti è una storia a più livelli, che merita di essere raccontata accuratamente
‘Sexting’, Weiner e le email.
Tutto è iniziato con un’inchiesta dell’FBI in merito ad uno scandalo di ‘sexting’. Una ragazza di 15 anni avrebbe ricevuto delle foto compromettenti da Anthony Weiner, ex marito della top Advisor di Hillary Clinton, Huma Abedin. La tipica inchiesta in cui tutti i dispositivi informatici dell’aggressore vengono revisionati dall’FBI per verificarne il contenuto in cerca di indizi o prove.
Il problema è che il PC di Anthony Weiner non è un laptop qualunque, è il PC che condivide con la sua allora compagna Huma Abedin. Dalle poche informazioni trapelate, pare che la divisione Newyorkese dell’FBI, incaricata di indagare sulla vicenda, per molto tempo abbia taciuto dell’enorme archivio di oltre 650,000 email rinvenute, fino a quando, pochi giorni fa il direttore dell’FBI ha rivelato con una lettera al congresso di ritenere questi dati pertinenti per un’altra indagine in corso ai danni di Hillary Clinton. Una rivelazione enorme che ha destato molto clamore, visti i pochi giorni alle elezioni, causando enormi problemi alla campagna elettorale dei democratici.
La domanda più appropriata da farsi è per quale motivo il direttore del FBI Comey abbia deciso di informare il congresso, scatenando un prevedibile fuoco di critiche.
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L'affermazione della sovranità nazionale popolare di fronte all'offensiva del capitale
R. Morgantini intervista Samir Amin
Le analisi che riguardano la crisi che scuote - in modo strutturale – il sistema capitalista attuale, risultano essere di una pietosa sterilità. Menzogne mediatiche, politiche economiche anti-popolari, ondate di privatizzazioni, guerre economiche e "umanitarie", flussi migratori. Il cocktail è esplosivo, la disinformazione è totale. Le classi dominanti si fregano le mani di fronte a una situazione che permette loro di conservare e affermare la loro superiorità. Proviamo a comprendere qualcosa. Perché la crisi? Quale è la sua natura? Quali sono attualmente e quali dovrebbero essere le risposte dei popoli, delle organizzazioni e dei movimenti interessati a un mondo di pace e di giustizia sociale? Intervista con Samir Amin, economista egiziano e studioso delle relazioni di dominio (neo)coloniale, presidente del Forum mondiale delle alternative.
* * * *
Da molti decenni i tuoi scritti e le tue analisi ci consegnano elementi di analisi per decifrare il sistema capitalista, le relazioni della sovranità nord-sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalista. Quale è la natura di questa nuova crisi?
La crisi attuale non è una crisi finanziaria del capitalismo ma una crisi di sistema.
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Tempesta perfetta. Dieci interviste per capire la crisi
di Noi restiamo
Prima prova editoriale della Campagna Noi Restiamo, pubblicata da Odradek, raccoglie le interviste di dieci economisti – Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi, Simon Mohun, Marco Veronese Passarella, Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo, Leonidas Vatikiotis, Giovanna Vertova – sulla crisi
A distanza di otto anni dall’inizio dell’attuale crisi economica, sono ancora molte le spiegazioni che si guardano bene dal mettere in luce le contraddizioni insite nelle economie di mercato come quella dei Paesi membri dell’Unione Europea. La maggioranza delle analisi si concentra infatti sul ruolo del presunto interventismo da parte dello Stato in economia – rappresentato dall’elevato debito pubblico – e sulla scarsa competitività dei Paesi mediterranei – misurata in costi del lavoro troppo elevati, imposizione fiscale sui profitti asfissiante, alta rigidità del mercato del lavoro. Le ricette di politica economica scaturite da questo tipo di proposte si sono rivelate fallimentari a tal punto da aggravare la crisi stessa. L’esempio principe è la così detta “austerità espansiva”, dimostratasi fallimentare sul piano teorico ed empirico prima che su quello pratico. [1]
Le dieci interviste ad economisti non allineati raccolte in “Tempesta Perfetta”, edito da Odradek e curato dal collettivo Noi Restiamo, hanno come obiettivo quello di sfatare le analisi della vulgata. Il punto di vista così fornito è realmente critico e foriero di nuove prospettive, pur non mancando di una certa eterogeneità di pensiero e proposte. Ne sono un esempio le risposte alla prima domanda, con la quale si vogliono inquadrare le ragioni della crisi in due spiegazioni: quella sottoconsumistica, secondo la quale il deteriorarsi della quota salari ha comportato un calo generali dei consumi, seppur limitato dal credito esteso praticamente senza garanzie; e quella afferente al sotto-investimento, fenomeno che può essere ricondotto alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto elaborata da Karl Marx.
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Ciò che è non appare, ciò che appare non è
Gianfranco La Grassa
L’unica cosa che appare pressoché sicura è che Renzi, (vedi qui e qui) appena rientrato dagli Usa e dopo il duetto con Obama, ha l’appoggio di quest’ultimo per entrambe le posizioni prese. Tuttavia, sappiamo che in merito ai due problemi, gli Stati Uniti sono decisamente contrari all’austerità e alla rigida posizione della UE (e soprattutto della Germania) in merito – così come si era già riscontrato all’epoca della grave crisi greca – e manifestano una dura contrapposizione alla Russia sia per l’Ucraina che per la Siria; per cui, sono favorevoli alle (anzi sono promotori delle) sanzioni economiche verso Mosca, considerata l’aggressore, esattamente come espresso dalla Merkel (“Chiediamo la fine degli attacchi. Non solo abbiamo detto che potremmo imporre sanzioni alla Siria, ma anche sanzioni contro tutti gli alleati della Siria. Questo si applica alla Russia”).
Se fossimo affetti da quel rozzo economicismo attribuito, sbagliando di grosso, a Marx, potremmo dire che Renzi è spinto all’attenuazione del suo atteggiamento anti-russo dalla situazione difficile in cui verrebbero a trovarsi alcuni settori produttivi italiani che esportano in Russia. Troppo semplice a mio avviso. Non c’è un solo attore sulla scena politica mondiale che dica effettivamente quel che pensa e il cui gioco persegua gli scopi apparentemente voluti. Questo è abbastanza normale in politica e in ogni tempo; tuttavia, in periodi come questi, data la sempre accentuata subordinazione alla potenza predominante, le manovre dei paesi europei hanno un superiore tasso di ambiguità e autentico inganno.
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Dodici piccoli indiani (d'America)
di Marcello Benfante
“Pour épater les bourgeois era il motto(Dwight Macdonald, Masscult & Midcult)
Il vaso di Pandora
Mi è capitato di fare qualche piccola ed estemporanea considerazione sull’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.
La sensazione che ho provato nell’apprendere questa sorprendente notizia è stata in un primo tempo una sorta di euforia, di felice stupore. Poi all’improvviso sono stato assalito da una vaga tristezza, da un’ombrosa inquietudine.
Come mai? Non si trattava certo di un’offesa alla maestà del Nobel, che è un concetto del tutto estraneo al mio temperamento e alle mie convinzioni. Tanto meno di un dubbio circa il valore estetico dei testi di Bob Dylan, che è indiscutibilmente notevole.
E allora? Ci ho pensato un po’ su, ripercorrendo le fasi della mia giovinezza di ammiratore di Dylan (insieme a molti altri tra cui Woody e Arlo Guthrie, Joan Baez, Pete Seeger, Leonard Cohen eccetera) e finalmente ho capito.
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"Rottamare Maastricht"
di Fabio Petri
Fabio Petri, Recensione (intervento alla presentazione) del libro “Rottamare Maastricht”, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L. Paggi, A. Somma (Deriveapprodi), Roma, 27 ottobre 2016
Lo scopo del libro, dall’Introduzione di Paggi, è aiutare ‘la costruzione di un movimento anti-Maastricht diverso da quello populista’, sottrarre al populismo ‘il monopolio della critica della situazione esistente’; combattere Maastricht come cultura, concezione del mondo, proposta di civiltà; a tal fine aiutare a ‘trasformare la protesta sociale in conflitto distributivo e in alternativa politica’, aiutare ‘la costruzione di un movimento ancora inesistente’, per la qual cosa ‘occorre mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo alternativa e di un programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo concettuale, alcuni punti di scorrimento verso un’Europa politica della crescita’.
Il libro non si spinge a proporre esplicitamente questa filosofia di governo alternativa o programma (l’Introduzione si limita a indicare il bisogno di più democrazia più salario più produttività, ma senza entrare nel come raggiungere questi obiettivi); piuttosto fornisce analisi preliminari per dimostrare la necessità di aprire il dibattito; tre messaggi in particolare emergono dai cinque contributi.
Primo messaggio, che emerge dai contributi di Paggi e Somma: la storia di come si arriva a Maastricht è storia di abbandono, e tradimento, dell’idea originaria di una unione politica europea collaborativa, unificante; Maastricht ha di fatto creato con la moneta unica un ostacolo a tale obiettivo, perché aumenta le differenze e i conflitti tra i paesi membri dell’euro, ponendoli in concorrenza l’uno con l’altro.
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La patologizzazione del dissenso
di C.J. Hopkins
Da CounterPunch traduciamo un azzeccato articolo che descrive, con sfumature satiriche, l’imponente opera di delegittimazione del dissenso (ogni genere di sostanziale dissenso rispetto alla direzione unica indicata dalle classi dirigenti) svolta quotidianamente dai media. Non cambia molto che si tratti di Trump, Sanders, Putin, Le Pen, Brexit, sinistra, destra, anarchici, wikileaks: i media dell’establishment buttano tutti nello stesso mucchio di disdicevoli populisti che non vale la pena ascoltare, tanto meno confutare. Perfino lo stesso riconoscimento dell’esistenza dell'”establishment”, delle “classi dirigenti” e dei loro interessi in contrapposizione a quelli della gente comune, tende ad essere sancito, in questa distopia orwelliana (per ora morbida), come segno di devianza, di complottismo patologico.
* * * *
Secondo gli organi di informazione mainstream, nel suo recente discorso a West Palm Beach Donald Trump avrebbe dato definitivamente di matto. Gesticolando furiosamente con le sue piccole mani, alla maniera inconfondibilmente hitleriana, avrebbe sputato fuori una serie di parole in codice innegabilmente inneggianti all’odio antisemita … vale a dire parole tipo “establishment politico”, “élite globali”, ma anche, sì, “banche internazionali”. Si sarebbe addirittura spinto al punto di affermare che le “corporation” [le grandi aziende] e i loro “lobbisti” avrebbero messo in gioco milioni di dollari per queste elezioni, e che stiano cercando di fare applicare il TPP [il “trattato transpacifico per il commercio”] non per il bene dei cittadini americani, ma solamente per arricchire se stessi.
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Gerusalemme est. Quello che le risoluzioni non dicono
di Militant
«L’Unesco nega l’identità del popolo ebraico». «La risoluzione nega il legame religioso di Israele con il Muro del Pianto e il Monte del Tempio». «La decisione di cancellare le radici giudaico-cristiane dei luoghi santi di Gerusalemme è “l’inizio della fine”». «L’Unesco riscrive la storia: il Monte del Tempio e il Muro del pianto non sono luoghi legati all’ebraismo». Sono queste le affermazioni catastrofiche con le quali, nelle ultime due settimane, è stata descritta dai media una risoluzione approvata dall’Unesco – l’agenzia dell’Onu che si occupa di patrimonio culturale ed educazione – intitolata Palestina occupata e contenente una condanna dell’occupazione israeliana. La risoluzione, proposta da sette paesi islamici (Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan), è stata approvata con 24 voti a favore, 6 contro (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda) e 26 astensioni, tra cui quella dell’Italia, della Francia e della Spagna.
L’approvazione di questa risoluzione è stata interpretata dal governo israeliano – e, di riflesso, dai media, sempre supini ai poteri dominanti – come un disconoscimento del legame ebraico con Gerusalemme est. Israele ha quindi sospeso la collaborazione con l’Unesco.
In molti, ovviamente, si sono stracciati le vesti anche in Italia.
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Il 'No' e la sfida costituente
di Francesco Brancaccio, Francesco Raparelli
"La sfida che abbiamo di fronte col referendum è quella di ripensare il potere costituente in termini . Le lotte necessitano di consolidare istituzioni e contropoteri." Un articolo in anteprima da "Alternative per il Socialismo", numero 42: "Sabbia nell'ingranaggio"
L'opposizione alla riforma costituzionale Renzi-Boschi è, fino in fondo, opposizione alla catastrofe neoliberale che sta dilaniando l'Europa. Non occorre essere raffinati costituzionalisti, infatti, per cogliere tra le righe della riforma l'obiettivo, inequivocabile, di cancellare la democrazia parlamentare. In combinazione con l'Italicum, il «monocameralismo imperfetto» accentra i poteri nelle mani dell'esecutivo e favorisce la (piena) sostituzione dell'amministrazione per conto del mercato alla politica in rappresentanza del popolo.
Che il meccanismo della rappresentanza, decisivo per la democrazia liberale (moderna), sia da tempo andato in pezzi è cosa nota. Di più: l'abbiamo voluto! L'hanno voluto in questi ultimi decenni i movimenti sociali che, nel segno e nel senso dei contro-poteri, dell'autogoverno e della proliferazione istituzionale, hanno radicalmente criticato il principio (sovrano) di rappresentanza. Il recente fenomeno grillino, poi, se letto a partire dal rilievo della democrazia digitale, è indubbia esemplificazione – carica di difetti, intendiamoci – del rifiuto diffuso per la delega, sia essa (ancora) tradizionalmente partitocratica o, piuttosto, tecnocratica. Ma sappiamo bene che si tratta di processi assai distinti: quello di Renzi è un “golpe del mercato”, secondo il dogma della stabilità/governabilità, contro quel che resta dei contrappesi parlamentari. Flebili quanto si vuole, largamente neutralizzati, nell'ultimo ventennio, dalla legislazione fatta di decreti e voti di fiducia, ma pur sempre presenti.
Sappiamo anche, però, che una semplice difesa di ciò che è stato non basta. Insufficiente per battere Renzi, inadeguata per fare i conti con la trasformazione della costituzione materiale del Paese.
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Quale nuovo rapporto tra scienza ed etica?
di Enrico Galavotti
Vi è qualcosa di apparentemente poco spiegabile nello sviluppo della scienza e tecnologia occidentale. Al tempo della Grecia classica, tra i filosofi della natura, pochissimi tenevano separata la scienza dall’etica; e anche quando lo facevano (p.es. con Anassagora e Democrito), era solo per poter affermare meglio l’indipendenza della natura da qualunque cosa, cioè i princìpi dell’ateismo. Nella vita privata, infatti, questi filosofi-scienziati tenevano un comportamento etico ineccepibile, mostrando che una professione di ateismo non comportava affatto la rinuncia ai valori morali.
La cosa strana è che tenevano unite scienza ed etica all’interno di un contesto sociale, così fortemente caratterizzato dallo schiavismo, che avrebbe invece dovuto indurli a fare il contrario. Nell’ambito dello schiavismo, infatti, il concetto di “persona” è quasi inesistente. Non si riconoscono i cosiddetti “valori umani fondamentali”, quelli inalienabili, che si possiedono in quanto appunto si fa parte del genere umano. Lo schiavismo è la negazione esplicita della libertà della persona, e quindi della possibilità di avere una propria identità, di essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Essere “giuridicamente libero” era in assoluto la cosa più importante di tutte.
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Dentro il governo invisibile: guerra, propaganda, Clinton & Trump
di John Pilger
Il giornalista americano, Edward Bernays, viene spesso descritto come l’uomo che ha inventato la propaganda moderna.
Nipote di Sigmund Freud, il pioniere della psicanalisi, è stato Bernays che ha coniato il termine “pubbliche relazioni” come eufemismo per “colpo ad effetto” e i suoi inganni.
Nel 1929 persuase le femministe a promuovere l’uso delle sigarette da parte delle donne, fumando nella sfilata per la Pasqua a New York – un comportamento allora considerato eccentrico. Una femminista, Ruth Booth, dichiarò: “Donne, accendete un’altra torcia di libertà! Combattere un altro tabù sessuale!
L’influenza di Bernais si estese molto oltre la pubblicità. Il suo più grande successo fu il ruolo che ebbe nel convincere il pubblico americano a unirsi al massacro della Prima Guerra Mondiale. Il segreto, disse, era “fabbricare il consenso” delle persone allo scopo di “controllarle e irregimentarle secondo la nostra volontà, senza che esse lo sappiano.”
Ha definito questo “il vero potere dominante nella nostra società” e lo chiamava “governo invisibile”.
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Foucault e il liberalismo
di Paolo Di Remigio
La sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France[1] è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell’ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell’Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l’espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l’economia keynesiana; l’adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitiva dell’Unione Europea[2]; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione in occupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall’anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell’individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un’impresa[3].
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Ciclone Duterte nelle Filippine
Lotta alla droga, rottura con gli USA e bombe dell’ISIS
di Federico Dezzani
Il vento tempestoso del populismo soffia a tutte le longitudini e non risparmia neppure l’Asia, dove il candidato anti-establishment, Rodrigo Duterte, ha conquistato lo scorso maggio la presidenza delle Filippine: con la forza di un ciclone Duterte ha sradicato interessi ed assetti da tempo consolidati. La lotta senza quartiere al narcotraffico è coincisa in politica estera con la clamorosa “separazione” dagli USA e col parallelo avvicinamento alla Cina. Per Barack Obama, fautore del “pivot to Asia”, è l’ennesimo smacco in politica estera. La repentina comparsa dell’ISIS e gli attentati con cui si è cercato di eliminare Duterte non sono casuali: la riconquistata sovranità delle Filippine ed il giro di vite sul traffico di stupefacenti sono duri colpi per l’establishment atlantico.
* * * *
Il “pivot to Asia” cade a pezzi. Tra le bombe dell’ISIS
Non poteva concludersi nel mondo peggiore la permanenza di Barack Hussein Obama alla Casa Bianca: il fallimento negli ultimi mesi di mandato dell’unica strategia estera dichiarata, “il pivot to Asia”, ossia il disimpegno dal Medio Oriente e dall’Europa, per una maggiore focalizzazione sul Pacifico e sui Paesi asiatici in tumultuosa crescita.
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Che cosa prevede la Riforma Costituzionale
Maria Luisa Pesante
Dal nuovo ruolo delle Regioni al combinato disposto tra la legge elettorale e nuove norme costituzionali. Un’analisi punto per punto dei contenuti della Riforma voluta da Renzi
Dicono gli oppositori della nuova Costituzione che essa è scritta male; e anche molti dei suoi sostenitori lo ammettono, ma quasi sempre senza spiegare il come e il perché dell’inadeguata stesura dopo il lungo periodo di gestazione. Non è un fatto estetico, semplicemente essa non è scritta come una costituzione. Contiene troppi rimandi interni, che la rendono poco leggibile, come lo sono le leggi italiane; contiene troppi dettagli da legge ordinaria anziché principi e criteri generali tipici delle carte costituzionali. Soprattutto è reticente, incompleta e inconcludente proprio secondo quella “visione d’insieme” con cui essa veniva presentata al Parlamento l’8 aprile del 2014. Questo fatto non può essere casuale; al contrario ci induce a guardare più esattamente come le singole norme rispondano a un disegno non dichiarato, ma reale che si tratta di approvare o respingere il 4 dicembre. Al di là della pubblicità ingannevole di chi vuol far credere che ad una serie di problemi, più o meno utilmente individuati, esistesse un’unica soluzione, e soprattutto solo la soluzione di un’ampia revisione costituzionale, bisogna guardare al nocciolo duro della rivendicazione dei suoi apologeti: questo testo porta finalmente a compimento quella riforma che i partiti italiani non erano riusciti a fare, per più di trent’anni, almeno dal 1982.1 Ora l’obbiettivo che con trasversale pertinacia tutte le maggiori forze politiche, una quindicina di governi, e quasi tutti i presidenti (dovrebbe mancare all’appello Scalfaro) hanno perseguito è il presidenzialismo strisciante con cui hanno tentato di rispondere alla crescente insoddisfazione, anch’essa trasversale, dei cittadini nei confronti di ciò che i loro rappresentanti compivano nelle proprie funzioni.
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Riflessioni sul caso Foodora*
di Gianni Giovannelli
I think you will findBob Dylan
Nei giorni scorsi (7-8 ottobre) quasi tutti i quotidiani italiani (cartacei e on line) hanno riportato la notizia di uno sciopero attuato dai fattorini torinesi per rivendicare, contro Foodora, un miglioramento delle loro condizioni lavorative. Evidentemente si trattava proprio di una notizia; e in effetti lo è, non solo per l’accaduto in sé stesso, ma soprattutto per le possibili conseguenze future di una protesta che presenta indubbi elementi di grande suggestione simbolica. Non sarà forse stato davvero il primo scontro di classe nell’ambito della sharing economy, e magari la partecipazione attiva non avrà raggiunto percentuali altissime; ma questo non toglie che si tratti dell’esordio inatteso, nella scena della comunicazione, di una schiera del tutto nuova. Questa è la società dello spettacolo, e si è così rappresentata ad uso del pubblico una rivolta; questo allestimento virtuale è un fatto ulteriore che si affianca allo sciopero reale. La cronaca di un fatto ha per fine la costruzione di altri accadimenti.
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Risorgerà il socialismo dalle sue ceneri?
di Enrico Galavotti
In fondo Eduard Bernstein aveva visto giusto: con l’imperialismo la classe operaia non aveva bisogno di compiere la rivoluzione; la ricchezza aumentava per tutti e, con essa, la democrazia; si poteva arrivare al socialismo anche per via parlamentare, senza alcuna rivoluzione violenta. L’acutizzazione dei rapporti sociali, cioè la radicale polarizzazione delle classi antagonistiche, prefigurata nel Manifesto del 1848, non era avvenuta: dunque occorreva un mutamento significativo di strategia politica. La sinistra doveva diventare riformista. E in Europa occidentale lo divenne, prima con Bernstein, poi con Kautsky, infine con tutti gli altri.
Solo i bolscevichi non li seguirono. E loro fecero una rivoluzione radicale, così come l’avrebbero voluta Marx ed Engels, che però, col tempo, si rivelò fallimentare. Non meno drammatico fu il destino dei socialisti riformisti, che finirono col perdere completamente la loro natura socialista.
In che cosa il socialismo ha sbagliato?
Anzitutto non ha capito che il miglioramento delle condizioni di vita, in Europa occidentale, non dipendeva affatto dall’industrializzazione capitalistica, bensì dall’imperialismo, cioè dallo sfruttamento delle colonie. Era in virtù di questo sfruttamento che si poteva corrompere la classe operaia, aumentandole i salari o comunque offrendole migliori condizioni di lavoro, in cambio di un proprio silenzio sul sistema in generale.
Se la classe operaia preferisce le rivendicazioni sindacali alla lotta politica rivoluzionaria, i suoi dirigenti, ad un certo punto, l’asseconderanno. La lotta rivoluzionaria richiede infatti molti rischi e sacrifici, senza i quali non è possibile perseguire ideali elevati.
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Note a margine della campagna referendaria
Red Link
Da dove vengono e a cosa mirano le spinte verso le modifiche istituzionali
Le modifiche alla Costituzione approvate in Parlamento nell’aprile scorso e sottoposte alla conferma referendaria il 4 dicembre, rappresentano solo l’ultima, ma sicuramente non la definitiva, rettifica alla costituzione materiale del paese. Esse infatti sono state precedute non solo da altre modifiche alla carta costituzionale, come il famoso art. 81 fatto approvare dal governo Monti, che introduce l’obbligo del pareggio di bilancio, ma anche da molte altre leggi e trasformazioni che, pur senza andare a toccare il testo della Costituzione, hanno cambiato in maniera peggiorativa il rapporto tra cittadini ed istituzioni. La direzione di marcia è stata univoca: rendere ancora più impermeabili le suddette istituzioni alla volontà degli elettori, centralizzare ulteriormente la gestione del potere politico, attraverso la loro sottomissione ad impersonali leggi di mercato, dietro le mentite spoglie di interessi generali e superiori di tutta la nazione. Sul versante più propriamente politico ed istituzionale abbiamo avuto il progressivo smantellamento del sistema rappresentativo proporzionale, in nome della governabilità, ed un ricorso crescente ai decreti legge e alle deleghe, giustificate con la necessità di dare efficienza e tempestività al sistema politico. Di conseguenza il Parlamento è stato ulteriormente svuotato di ogni possibilità di decisione effettiva e di riflettere la volontà degli elettori.
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Il tradimento della sinistra
di Sergio Cesaratto
Il volume di Aldo Barba e Massimo Pivetti è di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. Pivetti, il più senior della coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo.
E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.
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La nuova guerra dell'oppio della narco NATO
Afghanistan 2001-2016
di Vittorio Stano
Quando verrà scritta la storia della guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di Washington e dei militari della NATO nel traffico di eroina, e la loro alleanza con i signori della droga, sarà uno dei capitoli più vergognosi.
Continua sine die la presenza militare e paramilitare, così come continua la produzione industriale di oppio e di eroina. L’Afghanistan, uno dei paesi più poveri al mondo, aveva subito nel 2001 l´aggressione occidentale per impossessarsi del lucroso business dell’oppio e dell’eroina. Due anni dopo toccò all’Irak, aggredito e devastato per impossessarsi del petrolio. La retorica occidentale mainstream ha continuato negli anni a parlare di guerra umanitaria, peace keeping, state building, esportazione della democrazia, enduring freedom-libertà duratura, sostegno risoluto: tutte chiacchiere.
Dal fondo melmoso emerge in tutta evidenza la connivenza delle forze d’occupazione americane e alleate con il business dell’oppio e dell’eroina, in nome di una cinica scelta di realpolitik. Una spregiudicata strategia, orchestrata dalla CIA secondo una pratica operativa attuata fin dalla sua nascita, che ha provocato il boom della produzione di oppio afgano e del traffico internazionale di eroina, con il coinvolgimento degli stessi militari alleati, italiani compresi. *(1)
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Al referendum preferirei di NO (Bartleby lo scrivano)
di Giorgio Gattei
A metà degli anni '60, in un celebre comizio, Martin Luther King annunciò di aver fatto un sogno (I have a dream). Più di mezzo secolo dopo a me è capitato di avere invece un incubo: ho sognato che al referendum costituzionale di dicembre vinceva il Sì e, in combinato disposto con la nuova legge elettorale detta “Italicum” che è già in vigore, andavo a votare (nel 2017 o nel 2018 non importa) secondo le nuove regole introdotte dagli “ultimi costituenti”. Ed ecco il mio incubo.
1. Il Senato. Vado al seggio e mi danno una scheda soltanto, quella per la Camera dei Deputati, perché con l'approvazione del referendum è stabilito che «il Governo deve avere la fiducia della sola (ma questa è aggiunta mia) Camera dei Deputati» (art. 94). E' così abolito il dettato precedente che diceva che «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere», ma questo è il monocameralismo, bellezza! Si tratta di una trasformazione costituzionale importante che renderà finalmente rapida la nomina del Governo e poi duratura, facendola dipendere soltanto dai Deputati e non anche da quei parrucconi dei Senatori! Ed il primo effetto che mi ritrovo è che il Senato io non lo voto più. Però non è detto che non esista più; semplicemente viene eletto in altra maniera e senza di me.
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Ma di cosa si stupiscono gli €uropeisti italiani? E si rendono conto di cosa stanno cosituzionalizzando? Weidman sì
di Quarantotto
1. Nel precedente post abbiamo posto in rilievo la contraddizione tra il volere la "flessibilità" di bilancio, o comunque una gestione nazionale più autonoma e discrezionale del livello del deficit, magari facendo leva sul "presunto" incoraggiamento di Obama, e l'atteggiamento invariabilmente intransigente delle istituzioni UE a trazione germanica, inserendo, simultaneamente in Costituzione "l'obbligo di attuare le politiche europee" come mission delle Camere e contenuto tipizzato della funzione legislativa.
Allo stesso modo, oggi, all'interno dei nuovi sviluppi del malcontento ostentato dal nostro presidente del Consiglio, sulla materia dell'immigrazione, verso l'atteggiamento €uropeo ("chiacchiere", porte chiuse e assenza di "civiltà").
In base a una realistica, e giuridicamente corretta, lettura del contenuto dei trattati €uropei e del contesto applicativo che i rapporti di forza, - che non possono più essere ignorati, oggi meno che mai-, quali potranno mai essere queste "politiche dell'Unione"?
La risposta ce la fornisce un documento di interpretazione autentica di provenienza germanica, cioè dallo Stato che ha (stra)vinto la "competizione" (commericiale, liberoscambista) che, come avevamo segnalato, e prima di me il prof.Guarino, si sarebbe instaurata tra gli ordinamenti dei paesi aderenti all'Unione disegnata da Maastricht, e che dunque, come in ogni organizzazione liberoscambista, avrebbe comportato un vincitore imperialista e dei "perdenti" in posizione del tutto analoga a quella dei paesi coloniali.
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UE e politiche liberiste. Quale alternativa?
Non c’è solo il razzismo alla radice dell’insofferenza popolare nei confronti della UE e dell’euro
di Marco Elia e Andrea Fioretti
Recentemente un grande regista e attento osservatore dei mutamenti sociali ha dichiarato: “se non sei arrabbiato, che razza di persona sei?”. L’interrogativo posto da Ken Loach è di fondamentale importanza. Coglie, infatti, l’assoluta centralità della questione della diffusione tra le masse popolari dello scontento, della frustrazione e della rabbia per il progressivo peggioramento delle condizioni di vita: la generalizzazione della precarietà, la disoccupazione di massa e le devastanti politiche di austerità sono gli ingredienti della montante insoddisfazione.
Di fronte alla insoddisfazione e rabbia popolare, tuttavia, risulta evidente l’assenza nel dibattito pubblico di un’alternativa reale allo stato di cose presente. E sicuramente una prospettiva di cambiamento reale è assente proprio tra coloro che concretamente rischiano di perdere il lavoro, si ritrovano disoccupati o soffrono per la sempre minore disponibilità dei servizi pubblici essenziali. L’obiettivo di queste brevi note non è certo quello di colmare un tale vuoto di elaborazione. Piuttosto cerchiamo di porre l’attenzione – e stimolare un confronto - su alcuni nodi dell’attuale dibattito a sinistra: un utile punto di partenza ci pare essere l’interpretazione da dare al crescente rifiuto verso le istituzioni comunitarie europee. Il tema è insieme particolarmente importante, complesso e spinoso.
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Seattle, crisi e movimenti
Walden Bello
Il ruolo decisivo dell’azione collettiva nell’indebolire l’ideologia neoliberista e l’attuale potere strutturale del capitalismo. Un articolo di Walden Bello, docente alla State University di New York a Bighamton, senior research fellow al Centro Studi sul Sudest Asiatico dell’Università di Kyoto ed ex membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine
Ho ricevuto molte lezioni dalla Battaglia di Seattle, e una di queste è che le poliziotte possono picchiare come un qualunque poliziotto. Sono stato picchiato duramente da una delle migliori di Seattle. Qualche giorno fa ho deciso di ripercorrere il sentiero dei miei ricordi e di visitare la scena del delitto. Ricordo di aver visto Medea Benjamin di Code Pink trattata piuttosto brutalmente e corsi verso di lei per provare a fermare la polizia. A quel punto, una poliziotta si precipitò verso di me e iniziò a picchiarmi col suo manganello, trascinandomi e buttandomi per la strada, con un calcio nel fondo schiena ben assestato come colpo di grazia. Quello non è stato il colpo più forte. Quello lo ha ricevuto il mio ego: meritavo di essere picchiato e preso a calci, ma non di essere arrestato.
Come Cesare, dividerò il mio racconto in tre parti. Innanzitutto, alcune riflessioni su ciò che Seattle significa per il cambiamento delle visioni del mondo. In secondo luogo, una discussione su come, nonostante la crisi del neoliberismo, il capitale finanziario è riuscito a mantenere un potere enorme. In terzo luogo, un appello per una nuova visione complessiva di una società desiderabile.
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La migrazione come rivolta contro il capitale
di Prabhat Panaik
Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione, ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.
L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera.
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