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Crisi del neo-liberismo o del capitalismo?
di Nicola Casale
Qualcuno già nutriva fiducia che la crisi fosse in via di risoluzione. Alcuni indici sembravano autorizzare la speranza. In particolare la crescita della produzione industriale, mai interrottasi nei “paesi emergenti”, dava segni di riavvio anche in Occidente (Germania e Usa in testa). L’estate, invece, è stata calda. Nuovo violento salto della crisi sul piano finanziario e scomparsa del trend positivo della produzione industriale.
La crisi finanziaria ha aggredito gli stati più esposti sul debito pubblico. Era prevedibile, dopo che, per salvare banche e finanza, s’erano accollati sui bilanci statali giganteschi debiti aggiuntivi (il “cerbero dei conti” Tremonti in tre anni ha incrementato il debito pubblico di 240 miliardi di euro. Dove son finiti se non nelle casse disastratissime delle banche?).
La crisi finanziaria e il rischio di default di qualche stato hanno ri-diffuso il germe della sfiducia ovunque e depresso di nuovo anche quei segnali positivi di timida ripresa della produzione.
Questi eventi dimostrano ulteriormente il carattere sistemico della crisi. Essa non dipende da politiche particolari (il neo-liberismo), corrette le quali il sistema possa tornare sulla strada di una nuova stabile e lunga crescita. Il fatto centrale è che nel mondo circola una massa enorme di capitale fittizio che esige la sua valorizzazione. Questo capitale è frutto degli effetti moltiplicatori dell’ingegneria finanziaria cui è stata lasciata, negli ultimi trent’anni, crescente libertà creativa, ma non solo di essa. Anzi, la creatività finanziaria si è affermata per dare risposta al problema esploso nella sfera della produzione: la sovrapproduzione. Le capacità produttive sparse per il mondo sono divenute pletoriche per il sistema.
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Commenti a
Verifica delle parole: libertà e comunismo
L'articolo di Emanuele Zinato "Verifica delle parole: libertà e comunismo" sul sito Le parole e le cose ha dato luogo ad un serrato dialogo, innescato da un intervento iniziale di Ennio Abate. Lo riportiamo così come è avvenuto, per la rilevanza dei suoi contenuti.
Ennio Abate
15 settembre 2011 alle 09:36
Vi pregherei di aggiungere tra le parole urgentemente da verificare soprattutto quella di ‘democrazia’. E di farlo cercando di arrivare alle “cose” (in particolare alla storia di questo Paese). Sul tema ‘democrazia’, a beneficio di chi (tutta la redazione?) ha risposto alla mia richiesta di pubblicazione de “Il Tarlo della Libia”, un mio piccolo (scandaloso per quelli di Nazione Indiana) tentativo di tenere assieme parole e cose, con “La magnolia” fortiniana, ripropongo la sua posizione in merito. L’ho riassunta così in un articolo per POLISCRITTURE 8:
«E’ che il fastidio di quanti non vogliono più sentire argomenti provenienti da Marx, Lenin o Althusser è del tutto ingiustificato. Dal mio punto di vista questa critica [della democrazia] è fondamentale. Anche perché non sono riuscito a lasciar perdere le posizioni di Franco Fortini che, proprio tentando un bilancio degli anni Settanta in “Quindici anni da ripensare” (ora in “Insistenze”, Garzanti, Milano 1985) espresse giudizi sul Pci, la democrazia e il compromesso storico non lontani da quelli di La Grassa.
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Assiomatica liberista e convenienze di classe
Luigi Vinci
La dottrina economica liberista nella versione della Scuola di Chicago, dominante da una trentina d’anni in Occidente (della quale, nonostante il fallimento sancito dalla crisi del 2008, dalla recessione che ne è seguita e soprattutto, direi, dalla lunga depressione che sta seguendo alla recessione, continuano a essere imbevuti i cervelli di ceti politici di governo, economisti di fama e operatori dell’informazione), si fonda su una serie di assiomi che pretende essere indiscutibili, assolutamente veri, e che i fatti si incaricano invece quotidianamente di mostrare che sono fasulli, producendo l’esatto contrario di ciò che vorrebbero. Valga l’esempio greco: non c’è giorno in cui qualche individuo, governante di qualche paese europeo, economista pluricattedrato, opinionista di fama pluristipendiato, burocrate o tecnocrate incontrollato alla testa dell’Unione Europea, non insista sulla necessità che la Grecia tagli il suo debito pubblico al ritmo che le è stato ferocemente imposto, non solo allo scopo di ottenere quei prestiti che le servono a evitare l’insolvenza dello stato, ma perché finalmente la sua economia riesca a crescere: mentre è di un’evidenza solare che sono questi tagli, massacrando la capacità di spesa della popolazione greca, la causa fondamentale della pesante recessione nella quale la Grecia è precipitata, della riproduzione allargata di condizioni di insolvenza dello stato, della quasi inevitabilità del suo fallimento dichiarato.
Esaminiamo qualche assioma. Il primo non può che essere quello che regge l’intera impalcatura del liberismo: il mercato come il “luogo” del processo economico che porterebbe, a meno sia disturbato dalla politica, all’ottimizzazione degli effetti di questo processo in sede di crescita economica, occupazione, remunerazione del lavoro, diffusione sociale del benessere. Compito dello stato sarebbe di limitarsi a fare da guardiano notturno e, se del caso, da pompiere delle cose dell’economia quando incidentalmente non tornino. In concreto si tratterebbe di operare interventi oculati in sede di quantità di moneta circolante e di tassi di interesse, nel momento in cui vengano a costituirsi situazioni di scarsità di fattori produttivi, spinte inflative, eventualmente crack di istituzioni finanziarie capitalistiche; inoltre in condizioni di caduta produttiva si tratterebbe, sostanzialmente, di lasciar correre.
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CAMILA
Elisabetta Teghil
Ogni anno, l'11 settembre, ricorre l'anniversario del colpo di Stato in Cile.
Tre riflessioni mi vengono subito in mente.
La prima riguarda il silenzio che lo circonda, accompagnato dalla rimozione nell'immaginario collettivo.
La seconda fa riferimento al fatto che il colpo di Stato è stato eseguito materialmente dai militari cileni, ma organizzato e su commissione degli Stati Uniti.
Tacendo su questo aspetto importante, si accredita la vulgata corrente secondo cui il fascismo è altro rispetto alla società capitalista, mentre ne è una variante, scelta quando il sistema ritiene più opportuno utilizzarla e, dimenticando che la regia è sempre la stessa, siamo criticamente disarmate quando colpi di Stato e guerre umanitarie avvengono ai nostri giorni.
La terza riflessione che, per certi versi, ci interessa più da vicino, riguarda il fatto che si vuole far passare il colpo di Stato in Cile come il frutto di ambienti reazionari e oscurantisti.
Non è così.
La dittatura militare in Cile è stata il debutto del neoliberismo.
Tutte le elaborazioni del neoliberismo, che fino ad allora erano solo teoria ,sono state applicate al Cile e in Cile.
Fra queste, la privatizzazione della scuola e dell'università.
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All'Europa serve un "new deal" di classe
Riccardo Bellofiore
La crisi europea viene dagli Stati uniti, dal crollo del "keynesismo privatizzato". Per uscirne, occorrono politiche opposte a quelle di Maastricht. Un new deal inedito, strumento di una "riforma", non solo di una "ripresa" che è impossibile nelle condizioni date. E una sinistra di classe su scala continentale
Dell’articolo di Rossanda una cosa mi ha conquistato: il titolo. Rótta può significare direzione; ma anche sconfitta, sbaragliamento. Di questo stiamo parlando, per quel che riguarda la sinistra. O si parte dalla coscienza che si è al capolinea – e dunque che è ormai condizione di vita o di morte un’altra analisi, un’altra pratica conflittuale, un’altra proposta – o siamo morti che camminano. La luce in fondo al tunnel è quella di un treno ad alta velocità che ci viene incontro.
Si chiede Rossanda: non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? Come si ripara? L’unificazione monetaria in Europa non sarebbe che la figlia legittima della fiducia hayekiana nella mano invisibile del ‘liberismo’. È questo che avrebbe retto i decenni ingloriosi che ci separano dalla svolta monetarista. Le economie europee dovevano ‘allinearsi’ a medio termine, grazie alla politica deflazionistica della Bce. Il problema sarebbe la frattura con la linea continua Roosevelt-Keynes-Beveridge, che si sarebbe materializzata nei Trenta Gloriosi in un ‘compromesso’ tra le parti sociali. È la vulgata ‘regolazionista’. Pace sociale e sviluppo trainato dai consumi salariali come perno dello sviluppo postbellico. In Europa, lo spartiacque sarebbe il crollo del Muro di Berlino. Di lì il Trattato di Maastricht, e poi l’istituzione dell’euro. Ne discendono: liberalizzazione dei movimenti dei capitali, primato della finanza, fuga dall’economia reale, delocalizzazioni, indebolimento del lavoro. La bolla finanziaria scoppiata nel 2008 viene in fondo di qui, dalla finanza perversa e tossica.
È un quadro non convincente in tutti i suoi snodi. Il keynesismo era stato abbattuto da Reagan e Thatcher, e prima ancora da Volcker. Ma cosa era stato davvero il ‘keynesismo’? Non un ‘compromesso’ tra capitale e lavoro. Tanto meno un’era di crescita capitalistica trainata dai consumi. Il salario non traina la domanda, lo fa la domanda ‘autonoma’ – anche se una migliore distribuzione del reddito può alzare il moltiplicatore. La Grande Crisi e la Seconda Guerra Mondiale avevano prodotto una gigantesca ‘svalorizzazione’ di capitale e una potente iniezione di domanda pubblica in disavanzo, grazie a quel deficit spending che Roosevelt ritenne di poter accettare solo con l’entrata in guerra: mentre lo aveva rifiutato nel New Deal.
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Il sì e il no
di Augusto Illuminati
Non gli sta andando troppo bene a Marchionne: a parte le mediocri prestazioni sui mercati finanziari e l’evidente fallimento della politica industriale, cominciano le grane anche sulla gestione megalomane delle “risorse umane”. Con il il boss della Uaw, Bob King, dopo un’iniziale luna di miele si è aperta la resa dei conti e i sindacati, a salvataggio della Chrysler concluso, rivogliono soldi e diritti. Mica ha a che fare con Sacconi, il docile e truce lanzichenecco, e le due suorine che dissero di sì, Bonanni e Angeletti. E perfino in quel caso ci stanno problemi, visto che il sì era stato dolcemente sollecitato (oltre che con presumibili benefits) con corrispettivi occupazionali per salvare la faccia di fronte agli iscritti. Orbene, gli investimenti della strombazzata Fabbrica Italia sembrano latitare, chiudono Termini Imerese, Modena e Avellino-Valle Ufita, a Mirafiori si passa dai Suv (dirottati a Detroit) alla Panda – un animale in estinzione, appunto. Fim e Uilm non l’hanno presa bene e pure la cospicua componente cislina del pubblico impiego, nazionale e locale, già incollerita con il compagno di merende di Sacconi, Brunetta, si è vista bastonare senza pietà dalla varie manovre governative. Per cui i nostri sindacalisti gialli che, per usare la leggiadra prosa intercettata dai giudici baresi, «tendenzialmente non sono professionisti del sesso, ma all’occorrenza non disdegnano di essere retribuiti per prestazioni sessuali» oppure «non escludono di aver avuto per ragioni di particolare euforia brevi incontri sessuali di cui comunque non conservano il ricordo» (deve trattarsi dei referendum aziendali), insomma hanno lavorato (quasi) gratis, e che c...
Su tutt’altro piano, i cedimenti politici di Susanna Camusso con l’accordo del 28 giugno sono stati vanificati dall’art. 8 della Manovra, il cui carattere di regalo alla Fiat è stato sfacciatamente sciorinato dallo stesso Marchionne («è di una chiarezza bestiale»). Giustamente Luciano Gallino (Repubblica, 15 settembre) ha messo in evidenza che la legittimazione dei licenziamenti in deroga all’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori è un aspetto relativamente secondario dell’insieme (tanto che le suorine libidinose Bonanni e Angeletti si sono precipitate a giurare che mai diranno di sì) –aggiungiamo che già oggi e proprio nelle aziende Fiat succitate i licenziamenti avvengono per chiusura in blocco o ristrutturazione, non per giusta causa individuale–, mentre ben più gravi sono le deroghe a tutti gli elementi portanti dell’organizzazione del lavoro (orario, pause, mansioni, controlli audiovisivi, addirittura passaggio dal tempo indeterminato alla prestazione “autonoma” occasionale).
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Verifica delle parole: libertà e comunismo
di Emanuele Zinato
Negli ultimi due decenni in Italia ha governato il partito delle libertà mentre, tra i più letti all’opposizione, spicca un giornale che fu l’alfiere della modernizzazione ai tempi di Craxi e che molti oggi dicono “comunista”: La Repubblica. Non vi è dubbio, allora, che si rendano indispensabili delle verifiche dei nomi, mediante il cortocircuito tra passato e presente.
Scriveva nel 1936 Simone Weil, la straordinaria autrice di La Condition ouvrière, durante la guerra di Spagna:
Oggi darò uno shock a molti bravi compagni. So che provocherò scandalo. Ma quando si fa appello alla libertà, si deve avere il coraggio di dire ciò che si pensa, anche se così non si fa piacere a nessuno. Tutti noi seguiamo giorno per giorno, col fiato sospeso, la lotta che si svolge al di là dei Pirenei. Cerchiamo di recare aiuto alla nostra parte. Ma ciò non ci assolve dal dovere di trarre insegnamenti da un’esperienza che tanti operai e contadini pagano là con il loro sangue. Un’esperienza di questa specie è stata già fatta una volta in Europa: quella russa. Anch’essa costò molto sangue. Lenin esigette allora, in faccia a tutto il mondo, uno stato in cui non dovessero esservi più né esercito, né polizia, né burocrazia, che si distinguessero dalla popolazione stessa. Quando egli e i suoi furono giunti al potere, costruirono, nel corso di una guerra civile lunga e dolorosa, la più opprimente macchina burocratica, militare e poliziesca sotto cui mai abbia sofferto un popolo infelice […]. In ogni modo era evidente che tra gli scopi proclamati da Lenin e la struttura del suo partito esistesse una contraddizione. Le necessità della guerra civile e la sua atmosfera prendono il sopravvento sulle idealità per la cui realizzazione è stata iniziata la guerra civile.[1]
Si tratta di una diagnosi implacabile, che avrebbe dovuto esser studiata e discussa a fondo all’indomani del 1989. Anziché limitarsi a mutare in fretta nomi e simboli per adottare le bandiere e le parole dell’avversario, sarebbe stato più opportuno interrogarsi senza riserve sulla “condizione umana” ossia sui modi in cui la socializzazione delle ricchezze può assumere (o meno) le forme di uno stato di polizia. Una risposta è nascosta tra gli appunti di Simone Weil, un’altra nelle pagine del romanzo Vita e destino di Grossman. Né l’una né l’altro, con la loro forza di verità e la loro verticale, irriducibile lucidità, possono essere arruolati tra gli antesignani di Forza Italia…
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Vizi privati, pubbliche virtù
Paolo Giussani
questi inconvenienti e trarre lo Stato dal suo vecchio binario:
dichiarando la bancarotta dello Stato. È nella memoria di tutti
come Ledru-Rollin, più tardi, recitasse all'Assemblea nazionale
la commedia della virtuosa indignazione, respingendo
un suggerimento di questo genere dello strozzino di Borsa Fould,
attuale ministro delle finanze. Quello che Fould
gli offriva era il frutto dell'albero della sapienza.
K.Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.
Lo era anche prima, ma ormai ogni residuo dubbio si è dissolto: è evidente che al mondo non esiste più nessuna forza che possa deviare il capitalismo dalla sua traiettoria. Come in una tragedia di Eschilo, il meccanismo ineluttabile dell'autodistruzione è ormai in pieno svolgimento, e come nella sceneggiata napoletana ha addirittura trovato degli attori molto ben specializzati nei ruoli grotteschi necessari oggi, dove la situazione è del tutto tragica ma per nulla seria1, e soprattutto molto adatti al gran finale tragicomico che ci attende.
Nella potente crisi esplosa nel 2007-2008, che ha portato al fallimento virtuale di tutto il settore finanziario e creditizio mondiale, e passando da questo a una contrazione iniziale del prodotto lordo mondiale nettamente superiore a quella iniziale della grande depressione, il processo di rianimazione era stato messo in pratica abbastanza rapidamente sostituendo al debito privato il debito pubblico e mantenendo dei deficit dei bilanci pubblici relativamente elevati, non solo perché le entrate fiscali si erano ridotte proporzionalmente alla diminuzione dei redditi nazionali ma anche per cercare di sostenere in qualche modo una domanda complessiva che prometteva di dissolversi.
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Intervista a Edoarda Masi*
Per gentile concessione della rivista di poesia e filosofia «Kamen´»
EM: Nel XIX secolo è risultata chiara, ed è stata analizzata nella teoria economica e sociologica, la contrapposizione fra capitale e lavoro e la complementarietà dei due poli. Essendo il lavoro l’elemento vitale del capitale, la lotta contro il capitale cresceva dall’interno dei meccanismi di quest’ultimo. Il lavoro si incarnava nel proletariato industriale – non solo avversario del capitale perché oppresso, sfruttato ecc., ma perché sua componente necessaria e contraddittoria. La possibilità di uscire da quel sistema si fondava sul lavoro, che ne era a un tempo la componente base e il nemico radicale.
K: Il paradigma del lavoro era proprio quello .
Sì, non si trattava solo di ideologia: della validità di quella teoria abbiamo una prova storica in centocinquanta anni di lotta.
Era un corrimano, uno strumento razionale che permetteva di mettere in evidenza una prospettiva, un certo numero di fatti. Le due classi sono un portato storico della rivoluzione industriale: non c’è l’una senza l’altra, in un legame fondamentale.
Nella sua trionfale evoluzione il capitale ha finito, nella fase presente, con il divorare letteralmente sia la classe proletaria sia quella borghese. Nel Manifesto del Partito comunista c’è un’espressione sottolineata da Hobsbawm, a cui di solito non si bada: Marx dice grosso modo che, a un certo momento, il capitale dovrà essere superato dal lavoro oppure si avrà la fine di entrambe le classi in lotta. Credo che proprio questo si sia verificato. Una cosa è la borghesia, una cosa è il capitale. Questo è un meccanismo economico, mentre la borghesia è la classe dirigente che lo ha gestito in una ascesa sociale durata secoli fino al trionfo nell’Ottocento. Oggi gli eredi della borghesia non hanno più il carattere di classe dirigente. Il tratto di una classe dirigente è quello di difendere sì i propri interessi economici, ma nello stesso tempo di riuscire a rappresentare in qualche modo anche interessi generali.
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Benjamin, Facebook e la fine della distanza tra la radio e il suo pubblico
Tiziano Bonini
È vero. Il titolo suona blasfemo. Accostare la parola Facebook a Walter Benjamin può suonare come “un porno al cinema d’essai” (l’espressione non è mia, ma di un direttore di Radio Popolare per definire il programma Bar Sport all’interno del palinsesto di una radio come quella milanese). Eppure questo articolo farà proprio questo: accosterà il pensiero radiofonico di Benjamin ai cambiamenti che social media come Facebook hanno portato alla radio stessa. Si parla molto di user generated content, come se fosse un tratto distintivo dei soli social media digitali. E invece già negli anni trenta, all’alba dell’era della comunicazione di massa, Benjamin aveva intuito la radicalità di questi strumenti, se solo fossero stati aperti alla partecipazione dei lettori/ascoltatori/spettatori. I social media di oggi rappresentano solo la tappa finale di un lungo processo di abbattimento delle barriere tra emittente e ricevente. Proverò brevemente a ripercorrerne le tappe e a proporre una riflessione su cosa cambia nel fare la radio oggi, ai tempi di Facebook.
Nel 1933 Brecht, proiettando sulla radio le sue tesi sul teatro didattico, scriveva: “La radio potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si possa immaginare, uno straordinario sistema di canali, cioè potrebbe esserlo se fosse in grado non solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con gli altri. La radio dovrebbe di conseguenza abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventi fornitore”. Ma ancora prima di Brecht, e in maniera ancora più brillante, era stato Walter Benjamin ad intuire il potenziale radicale della radio come “social medium”. Mentre Adorno e Horkheimer consideravano la radio uno strumento di propaganda e di intrattenimento soporifero, Benjamin, complice una maggiore conoscenza del mezzo che gli veniva dall’aver prodotto per la radio della Repubblica di Weimar novanta trasmissioni dal 1929 al 1933, mantenne una visione positiva del mezzo, capace secondo lui di trasformare il rapporto del pubblico con la cultura e la politica. Ma è nelle Riflessioni sulla radio (1930) che Benjamin esprime le idee più fertili per il nostro tempo: “il fallimento cruciale della radio è stato di perpetuare la separazione fondamentale tra i produttori radiofonici e il suo pubblico, una separazione che è in contrasto con la sua base tecnologica (…) il pubblico deve essere trasformato in testimone nelle interviste e nelle conversazioni e deve avere l’opportunità di farsi sentire”. La radio che aveva in mente Benjamin è uno strumento che riduce la distanza tra chi trasmette e chi riceve, in cui sia l’autore/conduttore sia l’ascoltatore possono rivestire il ruolo dei produttori, contribuendo entrambi alla costruzione della narrazione radiofonica.
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Il lungo purgatorio che ci attende
di Franco Berardi "Bifo"
“L’operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco.” dicono i pasdaran dell’integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l’Europa sull’orlo della guerra civile. Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l’idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l’indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche.Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni. Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l’alfa e l’omega dell’ideologia che ha portato il mondo e l’Europa alla catastrofe:
Prima manipolazione:
riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l’occupazione. Perché? Non l’ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall’intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi. Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell’azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.
Seconda manipolazione:
prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l’età della pensione si favorisce l’occupazione giovanile. Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no? E se invece l’anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque sei sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati.
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Nel pozzo del nostro debito
di Guido Viale
Ora si comincia a parlare di default (fallimento) come esito - o come soluzione - del debito pubblico italiano. La discussione assume aspetti tecnici, ma il problema è politico e merita approfondimenti sui due versanti. Dichiarare fallimento imboscando dei fondi, è truffa. Ma è truffa anche se una condizione insostenibile viene protratta oltre ogni possibilità di recupero; in particolare, per spremere quelli che si riesce a spennare con la scusa di rimettersi in sesto, prima di dichiarare che «non c'è più niente da fare». Proprio quello che l'Unione Europea e i suoi governi (e non solo la Bce) stanno chiedendo a Grecia, Portogallo e Irlanda, ma forse anche all'Italia.
C'è chi, senza escludere il default, vede una soluzione alla crisi del debito nell'uscita dall'euro. Il problema, vien detto, non è tanto il debito pubblico quanto il debito estero; in cui si riflette la perdita di competitività del paese, costretto dalla propria inflazione e dalla minore "produttività" a finanziarsi all'estero per importare più di quanto esporta. L'uscita dall'euro consentirebbe un recupero di competitività attraverso la svalutazione - oggi resa impossibile dalla moneta unica - riequilibrando così, con maggiori esportazioni, i conti con i paesi che, come la Germania, possono evitare di rivalutare la loro moneta e perdere competitività proprio grazie all'appartenenza all'eurozona. L'aumento delle esportazioni produrrebbe, sostiene per esempio Alberto Bagnai, «risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero - aggiunge - rimarrebbe la possibilità del default ... come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo». Ma una svalutazione - posto che l'uscita dall'euro sia praticabile - basterebbe a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell'Italia, o quella di altri paesi dell'eurozona in difficoltà? In altre parole, costando il 15 o il 20 per cento in meno le auto della Fiat prodotte con il metodo Marchionne - a cui forse Bagnai attribuisce eccessiva credibilità - potrebbero ancora sottrarre consistenti quote di mercato alla Volkswagen? O costando il 15 o il 20 per cento in più l'Italia cesserebbe di importare turbine eoliche dalla Danimarca e pannelli fotovoltaici o impianti di cogenerazione dalla Germania, mettendosi finalmente a produrli in proprio?
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L'11/9 agirono tanti servizi
Paolo Sidoni intervista Giulietto Chiesa
L’11 settembre? Un grande fenomeno mediatico capace di instillare la paura a più di due miliardi di persone. Grazie a quella «paura» è stato possibile portare avanti la politica di aggressione degli USA in Medio oriente e in Afghanistan negli anni successivi. E’ quello che pensa Giulietto Chiesa, giornalista di lungo corso e tra i più attivi e ascoltati esperti «non allineati» dell’11 settembre. Il suo film «Zero» è tra i principali documentari dedicati all’attacco alle Twin Towers. Che, secondo lui, fu voluto da frange deviate di molti servizi segreti: americani, arabi, israeliani, pakistani…
Secondo il giornalista Giulietto Chiesa gli attentati dell’11/9 sarebbero stati una «false flag operation» , opera di spezzoni di diversi servizi segreti internazionali. L’obiettivo? Creare una tale shock emotivo nell’opinione pubblica mondiale che avesse giustificato l’intervento militare in Medio Oriente. Giulietto Chiesa è un noto giornalista italiano (a lungo corrispondente da Mosca de «L’Unità» e de «La Stampa») che si occupa in prevalenza di guerre e globalizzazione. È stato parlamentare europeo fino al 2009 e fondatore di Megachip – Associazione per la democrazia nell’informazione. Ha curato alcune pubblicazioni nelle quali la versione ufficiale degli attacchi viene completamente smentita. Da una sua inchiesta è stato realizzato il video documentario «Zero, inchiesta sull’11 settembre», presentato al Festival del Cinema di Roma il 23 ottobre 2007. «Storia in Rete» lo ha intervistato.
È difficile districarsi tra le varie teorie che individuano dietro i fatti dell’11 settembre un complotto dell’allora amministrazione Bush. Qual è in sintesi il quadro che lei si è fatto?
«Io non perdo tempo a districarmi tra le teorie. Sono stato tra i primi a vedere che la versione ufficiale faceva acqua da tutte le parti. I fatti non collimano con la vulgata del 9/11 Commission Report. A dieci anni di distanza diverse domande sono diventate certezze. Non è andata così come ci hanno raccontato. All’11 settembre hanno partecipato spezzoni di diversi servizi segreti, tra cui la CIA, l’FBI , il Mossad, i servizi sauditi e pakistani. Ci sono gli estremi per incriminare diversi cittadini americani come partecipanti attivi. Li si dovrebbe chiamare a testimoniare sotto giuramento».
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Tra tecnocrazie monetarie e speculazione
Sergio Bruno
L’austerità è un’arma spuntata contro gli attacchi dei predoni della finanza. E la cessione di potere alla Bce non ci salverà. Riflessioni sul da farsi, a partire dalla lunga estate pazza
I parte. La politica in Europa, succube di tecnocrazie e professionisti della speculazione
Mi impensierisce, in questi giorni di follia internazionale, la confusione mentale di molti di quelli che, sulla grande stampa quotidiana, hanno da dire qualcosa su quanto accade e su cosa bisogna fare. Se il problema del governo è quello dell’agire subito e con decisione, non vi è molto da capire. I margini di tempo e di discrezionalità sono talmente ristretti che non resta che fare, ma subito, il meno peggio, e farlo senza credere nelle favole di chi dice che sia possibile praticare nell’immediato politiche che concilino austerità e sviluppo. Una ricetta per lo sviluppo a breve non l’ha nessuno. Ora è come quando si combatte strada per strada in una città che si pensava felice e ben fortificata. Prima bisogna salvarsi. Ma chi non è coinvolto nei combattimenti, chi ha a che fare con il pensare strategico, dovrebbe riflettere sulle origini lontane e sulle sequenze di eventi e decisioni da cui da ultimo è derivata la falla, al fine di costruire, da domani, un futuro più sensato.
Sosterrò, lungo queste linee, che
(a) le politiche di austerità sono non solo inutili per combattere gli attacchi speculativi, ma dannose, nel senso che giocheranno a favore di nuovi attacchi;
(b) l’idea degli eurobonds non ha alcuna rilevanza nel combattere e nel prevenire gli attacchi speculativi. Gli eurobonds vanno invece usati, insieme ad altri strumenti e in un contesto di bilancio federale e di politica industriale europei, per indurre una nuova fase di sviluppo (ma non penso a qualcosa di genericamente “keynesiano”);
(c) esiste una strada maestra per rispondere agli attacchi speculativi, che è quella di fare della Bce un soggetto prestatore di ultima istanza, non solo nei confronti delle banche ma anche degli stati, come con chiarezza e argomentazioni convincenti è stato indicato indipendentemente e in forme leggermente diverse, proprio in questi caotici giorni, da Paul de Grauwe e da Daniel Gros (www.voxeu.org).
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Le cinque grandi ruberie al tesoretto italiano
di Paolo Berdini
C'è un'immensa cassaforte con cui sanare il Paese ma che nessuno vuole aprire. Nella fauci dei poteri forti gettiamo ogni anno il valore di una finanziaria
La manovra economica approvata dal Senato non taglia gli sperperi della spesa pubblica. All'ultimo istante sono state risparmiate anche le prebende della casta parlamentare e nonostante quanto emerge dall'inchiesta sul sistema Sesto San Giovanni - e cioè il gigantesco intreccio tra l'uso della spesa pubblica e dell'urbanistica contrattata per fare cassa a favore delle lobby politico imprenditoriali - né la maggioranza né l'opposizione hanno posto all'ordine del giorno il prosciugamento del fiume di denaro pubblico che sfugge ad ogni controllo democratico. Il "sistema Penati" sta lì a dimostrare che esiste una gigantesca cassaforte piena di risorse che non viene neppure sfiorata dai provvedimenti economici in discussione in Parlamento: lì c'è un grande tesoro che permetterebbe di non tagliare lo stato sociale e risanare il paese.
Il tema del taglio al malgoverno urbano tornerà sicuramente all'ordine del giorno perché tra qualche mese ricomincerà la grancassa del «non ci sono i soldi» e - complici le autorità europee - ripartirà la rincorsa per tagliare i servizi, tagliare le pensioni, vendere le proprietà pubbliche. Vale dunque la pena riprendere il prezioso suggerimento di Piero Bevilacqua su queste pagine (28 agosto), ragionare sulle possibilità di rovesciare i canoni del ragionamento fin qui egemone per interrompere una volta per tutte la grande rapina dei beni comuni, delle città e del territorio.
Il denaro pubblico viene intercettato dalle lobby politico-imprenditoriali attraverso sei grandi modalità.
La prima riguarda le opere pubbliche. Il volume degli investimenti pubblici nei grandi appalti è pari a circa 20 miliardi di euro ogni anno. Appena pochi mesi fa un giovane "imprenditore" (Anemone) con il fiume di soldi guadagnato in generosi appalti offerti dalla cricca Bertolaso ha potuto permettersi di contribuire all'acquisto di una casa per l'ignaro ministro Scajola: quasi un milione di euro.
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Quali soluzioni alla crisi?
di Sergio Cesaratto e Lanfranco Turci
La BCE: da banca straniera a banca sovrana - L’articolo di Guido Tabellini pubblicato su Il Sole-24 Ore lo scorso 14 luglio ci apparve come uno spartiacque nelle posizioni sulla crisi europea sinora prevalenti sul più autorevole quotidiano finanziario nazionale, e una crepa fra quelli che, per comodità, possiamo definire gli economisti bocconiani, quelli per capirci del “rigore di bilancio espansivo”
Rifacendosi implicitamente ad avvertimenti che erano stati da tempo avanzati dagli economisti del Levy Institute ben prima che cominciassero a far capolino fra gli economisti normalmente più accreditati (si fa per dire, naturalmente), Tabellini affermava che la solvibilità dei debiti sovrani è legata alla presenza di una banca centrale volta sostenerli. Le analisi del Levy avevano, per esempio, falsificato le tesi assai popolari di Reinhart e Rogoff che fissavano una soglia del 90% del rapporto debito/Pil oltre il quale un default si faceva assai probabile senza specificare che i casi studiati erano tutti di paesi che avevano rinunciato alla piena sovranità monetaria - come hanno fatto molti paesi europei a favore della BCE che è a tutti gli effetti, per ciascuno di essi, una banca straniera (l’euro è per ciascuno di essi una moneta straniera). Tabellini suggeriva dunque, con apprezzabile franchezza, che l’Europa deve decidere se la BCE è causa o soluzione del problema. Il disegno che Tabellini – confermato in successivi interventi e sostenuto anche da pregevoli interventi di Pierpaolo Benigno– sembra suggerire è che: a) l’Unione Monetaria Europea (UME) si doti di una politica fiscale comune che, per cominciare, non può che consistere nel trasferimento di quota dei debiti sovrani a una istituzione europea che emetterebbe i famosi Eurobonds per rifinanziare i debiti trasferiti; b) la politica monetaria agisca in maniera cooperativa alla politica fiscale sostenendo i titoli del debito sovrano, operando dunque come tradizionalmente hanno agito le banche centrali degli stati sovrani.1 A noi sembra che soprattutto l’attribuzione piena alla BCE del ruolo di prestatore di ultima istanza sia chiave nello sdrammatizzare la crisi del debito nei paesi periferici europei, senza dover creare quella “transfer union” tanto temuta dai tedeschi.
Da ultimo, lo scorso 8 agosto, la BCE è in effetti intervenuta a sostegno dei debiti sovrani di Italia e Spagna, ma come è stato osservato, troppo poco e troppo tardi. Il risultato è che i differenziali nei tassi sui titoli decennali dei due paesi rispetto agli analoghi titoli tedeschi si sono mantenuti attorno a 300 insostenibili punti, e che in poche settimane la BCE si troverà in pancia qualche centinaia di miliardi di titoli sicché la sua azione sarà prontamente arrestata dall’irritazione di qualche politico tedesco.
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Refrain
Elisabetta Teghil
Fino a vent'anni fa, le grandi imprese funzionavano con un sistema di produzione integrato che impiegava migliaia di operai in sedi gigantesche.
La "nuova economia" ha ridotto le dimensioni degli impianti nei paesi occidentali attraverso le delocalizzazioni ed il subappalto: le prime in paesi dove le condizioni di lavoro sono schiavistiche, le seconde resuscitando forme, che non pensavamo più di vedere, di forte sfruttamento.
Le delocalizzazioni delle grandi fabbriche e lo sviluppo di unità di produzione in subappalto, hanno raggiunto l'obiettivo di aggirare la resistenza operaia e di costruire un nuovo rapporto con il lavoro e con le lotte sociali. Nell'ambito dei contratti lavorativi è stata introdotta ogni forma di individualizzazione, come quelle del salario e dei premi, nello sforzo, riuscito, di dissuadere gli operai/e da ogni tipo di azione collettiva. E questo comincia dalla procedura di assunzione dei lavoratori/trici che mira ad accertare la docilità dei/delle candidati/e. Questo spiega la scelta frequente, tutta nuova e diversa dal passato, di ricorrere a ragazze-madri.
Gli operai/e sono , nella quasi totalità pagati/e a salario minimo e viene fatto loro capire che non devono aspettarsi di fare carriera. Gli orari sono molto variabili, i gruppi di lavoro non si conoscono. Le lavoratrici/i vengono reclutate/i ad interim, per breve periodo, ed il rinnovo è in funzione del loro comportamento sul lavoro, nel quale devono dimostrare disponibilità e lealtà verso l'impresa. Non esercitano più un lavoro con un suo linguaggio, una sua cultura, i suoi modi di trasmissione tra anziani/e e nuovi/e, ma una sorta di opera puntuale legata ad un progetto.
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Crisi del debito: cosa dovrebbe fare il governo
Fabio Petri*
In questi giorni non trovo sui quotidiani o sui siti internet, anche ‘alternativi’, interventi che suggeriscano proposte concrete alternative a quelle del governo, in grado di fronteggiare la crisi corrente del debito italiano, e che non consistano di proposte perché l’Europa e la BCE cambino politica. Nessun altro sembra osare fare quello che prova a fare Sbilanciamoci ogni anno, indicazioni concrete per una manovra di bilancio alternativa (purtroppo la manovra alternativa di Sbilanciamoci per quest’anno è stata superata dagli eventi, anche se varie buone idee in essa vanno mantenute). Critiche alla politica della BCE e alla non volontà europea di creare un vero governo europeo in grado di fare politiche fiscali e monetarie efficaci non mancano; ma su cosa il governo italiano potrebbe e dovrebbe fare adesso, subito, non trovo granché. Quello che sembra emergere anche dagli interventi di economisti non allineati è che le soluzioni si trovano solo a livello di politiche europee; in Italia, sembrerebbe, si può fare molto poco a parte stringere la cinghia, se l’Europa non aiuta; al massimo distribuire in modo un po’ più equo le sofferenze. (Il PD sembra essere del tutto su questa lunghezza d’onda, a giudicare ad esempio dalla timidezza delle reazioni di Stefano Fassina alle proposte governative, nell’intervista sul Fatto Quotidiano del 6 agosto.) Ma è davvero così, o vi è in alcuni una autocensura che porta a non indicare cosa si potrebbe fare di alternativo perché lo si ritiene politicamente impossibile? Sono sempre stato contrario a che non si enuncino affatto delle proposte solo perché si pensa che non vi sia lo spazio politico perché quelle proposte siano seriamente considerate. Almeno una parte delle persone finisce per non rendersi conto che delle alternative ci sono, e che magari col loro sostegno politico potrebbero avere una chance. Vorrei sollecitare coloro che hanno ben più competenze di me (che sono economista teorico) su questioni di debito pubblico e di stato di salute dell’economia italiana a provare a indicare molto concretamente cosa sarebbe necessario fare – per quanto radicale – per uscire da questa crisi del debito pubblico italiano senza far aumentare la disoccupazione e la povertà a livelli vertiginosi, assumendo una scarsa volontà dell’Europa di aiutare.
Provo a cominciare io, ma, conscio dei miei limiti, solo pour encourager les autres.
Il problema centrale del rientro da un debito pubblico elevato è noto: se lo stato o le amministrazioni locali aumentano la pressione fiscale o riducono la spesa pubblica, fanno diminuire la domanda aggregata inducendo una riduzione delle entrate fiscali che può ridurre di molto la riduzione del deficit pubblico.
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La Grande Crisi, l’Unione europea e la Sinistra
Felice Roberto Pizzuti
Per un'applicazione più "rigorosa" delle vecchie regole la Sinistra è inutile. Serve invece se c'è del nuovo da tentare, per rilanciare in Europa una crescita ricca di equità e di democrazia sociale
1. Quella che stiamo vivendo da 3-4 anni è una fase di transizione storica caratterizzata dalla grande crisi globale esplosa nel 2007-2008, tuttora in corso e di cui ancora non si vede quale sarà la via d’uscita. Come in altre grandi crisi, essa riguarda non solo le modalità assunte dal sistema economico-finanziario - che nel trascorso trentennio è stato caratterizzato dall'affermarsi del neoliberismo e della globalizzazione -, ma anche i valori culturali, sociali e politici che in questo periodo si sono affermati e il senso comune formato dalla diffusione di quei valori nell'opinione pubblica.
L’Unione europea e la Sinistra sarebbero, potenzialmente, in una condizione ideale per dare un contributo positivo al superamento della crisi, ma – almeno finora – ciò non sta accadendo; anzi, per certi versi, si sta verificando il contrario.
2. Nonostante la crisi appaia, per il modo in cui si manifesta, di natura essenzialmente finanziaria, le sue cause strutturali vanno individuate in contraddizioni reali che continuano ad essere sottovalutate o negate dalle visioni economiche e politiche ancora dominanti. Anche nell’opinione pubblica si avvertono segnali di smarrimento e insofferenza, ma - a conferma del complessivo disorientamento dei tempi - non s’intravedono le capacità di una loro canalizzazione politica in senso progressivo.
Tra i principali motivi economici della crisi globale vanno schematicamente ricordati: il peggioramento tendenziale della distribuzione del reddito iniziato negli anni ’80 nei paesi più sviluppati e il conseguente squilibrio tra la sostenuta dinamica delle capacità d’offerta e l’inadeguatezza della domanda, determinata anche dal contenimento della spesa pubblica (in particolare di quella sociale); la finanziarizzazione dell'economia, espressione significativa dell’autonomizzazione della logica del profitto rispetto all’economia reale e ai rapporti sociali e, allo stesso tempo, strumento per sopperire in modo effimero (le “bolle”) alla carenza strutturale della domanda;
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Empiria ed economia
Giancarlo Lutero
Qualche anno fa Giorgio Ruffolo scrisse un agile libricino intitolato Cuori e denari. C’è un passo di quell’opera davvero pregnante per un discorso inerente lo statuto dell’economia politica e delle sue vestali, le discipline quantitative come l’econometria e la statistica applicata: “Chi l’ha detto che l’economia è senza cuore? Lo ha detto – con parole sue – Thomas Carlyle, forse in un momento di malumore. La battezzò dismal science, scienza triste, scienza tetra. Nessuno avrebbe rivolto un’accusa del genere alla matematica. O alla fisica. O alla paleontologia. Il fatto è che la matematica si occupa di simboli astratti. La fisica di oggetti inanimati. La paleontologia di scheletri remoti. L’economia si occupa di uomini. É vero che alcuni economisti si sono sforzati di trapiantarla, l’economia, nella grande serra delle scienze esatte, dalla giungla intricata delle scienze sociali. Ma non si può dire che abbiano avuto successo. Per loro, lo statuto definitivo dell’economista resta affidato a una vita futura: se saranno stati dei buoni economisti, saranno accolti nel paradiso dei fisici; se cattivi, nell’inferno dei sociologi. Nel loro tempo, dovranno adattarsi al purgatorio. La ragione essenziale di quel fallimento sta nel fatto che la “mela” di cui gli economisti si occupano non è una mela newtoniana, che obbedisce nella sua caduta a leggi imprescrittibili. É una strana mela, una mela che pensa. E che, cadendo, può cambiare opinione e percorso. Per questo le predizioni degli economisti sono così fallibili.” Si deve a Keynes l’immagine della mela pensante, che riesce a cogliere tutte le contraddizioni irrisolte in cui si agita ancor oggi la scienza economica (i suoi paradigmi teorici dominanti così come i suoi codici empirici). Essa è divenuta sempre più formalizzata e tecnica, ma nonostante questo sforzo sembra essere sempre più invisa all’opinione pubblica, soprattutto in tempi di crisi economica. Forse c’è una diffusa percezione, a torto o a ragione, del ruolo ideologico di sostegno ai poteri dominanti in cui la teoria economica e l’econometria sono state precipitate da molti dei suoi “agenti” interessati.
È nota la battuta dell’econometrico Edward Leamer il quale affermava che “le stime econometriche sono come le salsicce: è meglio non assistere alla loro preparazione”. Uno dei più grandi e brillanti econometrici viventi, David Hendry, si chiede in un suo famoso lavoro se l’econometria sia alchimia o scienza: il suo interesse per le questioni metodologiche è culminato nel poderoso volume scritto con la storica Mary S. Morgan The foundations of econometric analysis in cui si ripercorrono le tappe di quell’ambizioso progetto di fondazione empirica dell’economia che è stato la creazione dell’Econometric Society.
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Il monopolio dell'economista
Guido Viale
La trasmissione l'Infedele di lunedì, dedicata da Gad Lerner alla manovra economica e al problema del debito pubblico, induce ad alcune riflessioni. Tralascio gli interventi di apologia dell'evasore-imprenditore (a cui Arzignano ha dedicato un monumento) e quello sul suo ispiratore - il governo Berlusconi - affidata a un sottosegretario addestrato a schivare le domande. Tralascio anche quello di Maurizio Landini che ha spiegato che se siamo a questo punto è il meccanismo che ci ha portato fin qui a dover essere cambiato.
Oltre a loro erano presenti un (ex) banchiere, autore di una proposta sensata di imposta patrimoniale, un giornalista economico che sa radiografare con cura i bilanci aziendali e un economista che è una delle migliori voci nel campo dell'analisi finanziaria a livello internazionale: tutti e tre fortemente critici non solo nei confronti del governo Berlusconi e delle sue manovre, ma anche - in parte - delle politiche dell'Unione Europea.
La prima riflessione è questa: il tratto caratteristico della nostra epoca è non solo il fatto che i governi dell'Occidente hanno lasciato - anzi, affidato - alle banche e all'alta finanza il governo dell'economia e, con esso, quello della vita di miliardi di persone, ritrovandosi poi del tutto impotenti di fronte al loro strapotere; ma anche il fatto che l'interpretazione e - direbbe Vendola - la "narrazione" di quel che succede è stata affidata, in forma pressoché monopolistica, agli economisti; che sono tutti, keynesiani o liberisti, adepti di un'unica scuola, di un'unica religione, di un'unica ossessione: la "crescita". Arte, storia, letteratura, filosofia, scienze della natura e della terra possono essere piacevoli diversivi. Ma quando si giunge al dunque - che fare? - l'unica verità che conta è la loro.
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Allegramente Verso il Baratro*
Sergio Cesaratto
"Il debito del Sud: cause culturali?"
Nel maggio 2010, pochi giorni prima di leggere la stessa frase da Wolfgang Munchau sul Financial Times, ho confrontato la situazione europea alle famiglie di Tolstoj descritte da Anna Karenina: "le famiglie felici sono tutte uguali, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo". Così gli europei del centro sono simili, ma ogni paese della periferia è infelice a modo suo. Nel mio commento, pertanto, mi riferisco principalmente all'Italia.
Qual è l'origine dell'enorme debito pubblico italiano (120% del PIL, o giù di lì)? La storia è abbastanza vecchia. Come noto, l'Italia è stata ammessa nella Unione Monetaria Europea (UEM) nel 1997, nonostante un debito pubblico/PIL ben al di sopra del limite previsto dal trattato di Maastricht del 60%. Con una manovra economica attuata in extremis, l'allora governo di centrosinistra di Prodi raggiunse l'altro obiettivo del disavanzo pubblico, il deficit/PIL inferiore al 3% (anche l'attesa dell'ammissione nell'unione monetaria è stata d'aiuto con la riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico). Ufficialmente l'Italia è stata lasciata entrare in quanto, altrimenti, anche il Belgio sarebbe stato escluso. Una verità più probabile è che la Francia non voleva lasciare l'Italia - un forte concorrente manifatturiero - libera di lasciar svalutare la lira nei confronti dell'euro, mentre lei stava firmando un patto col diavolo. Il diavolo, la Germania, si procurava una seconda opportunità - dopo lo SME - per liberarsi di un concorrente fastidioso e della sua liretta sempre svalutabile.
Sia come sia, l'origine dell'enorme debito pubblico italiano dovrebbe risalire al 1970 (come pro-memoria, il "miracolo economico" italiano si è avuto tra il 1958-1963, l'Italia è tradizionalmente una economia guidata dall'export, anche se non nella stessa misura della Germania, e ha ancora il secondo più grande settore manifatturiero in Europa, dopo la Germania).
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Qualche esercizio di scenario
di Riccardo Achilli
Introduzione
I dati occupazionali di agosto 2011 mostrano che, negli USA, non si è creato alcun posto di lavoro, contro una previsione su base mensile di 60.000-75.000 nuovi posti. E' la prima volta dal 1945 che la crescita occupazionale degli USA è nulla. Tale dato non è a beneficio dei collezionisti della statistica, o delle curiosità generate dalla presente fase recessiva. In realtà segnala la prosecuzione di una fase recessiva che sembra essere priva di via d'uscita. Le sciocchezze a proposito di “jobless recovery”, ovvero, in italiano, di ripresa senza lavoro, messe in campo da molti economisti e giornalisti economici, sono, per l'appunto, sciocchezze. Vediamo perché si tratta di sciocchezze, e che conseguenze il continuo peggioramento del mercato del lavoro potrà avere sul capitalismo globale, e qual è la strategia di uscita dalla crisi che il capitalismo sta mettendo in campo, aiutandoci con qualche considerazione di fatto, e pervenendo ad alcuni scenari possibili.
Alcuni dati di fatto e di scenario internazionale
Negli USA, il tasso di disoccupazione “reale”, ovvero comprensivo anche degli effetti di scoraggiamento nella ricerca di una occupazione non computati nel tasso ufficiale, è pari al 10,6%, mentre oltre il 12% della popolazione vive con meno del 40% del reddito mediano (fonte: Ocse). Nell'Unione Europea, il tasso di disoccupazione ufficiale raggiunge il 10,1%, più dell'8% della popolazione vive in condizioni di grave deprivazione materiale ed il 23% della popolazione è a rischio di caduta nella povertà (fonte: Eurostat).
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Sciopero generale e lotta sul debito. Ipotesi al lavoro
Raffaele Sciortino
I fans sono accontentati: Napolitano vuole l’approvazione della manovra bis del governo, e subito. Per tranquillizzare i mercati, of course. Come per l’affaire libico, con il cavaliere e tutto il governo in estrema difficoltà l’autorevole supplente entra in campo a supporto dei veri mandanti: il comitato di consulenza Draghi&Monti celere a recapitare a Roma i messaggi congegnati a Francoforte e Bruxelles. Il tutto in vista di quel “governo tecnico” di emergenza nazionale -su cui l’opposizione avrebbe ancor meno voce in capitolo- perorato dalla finanza internazionale che ha già allungato le mani sulla nuova preda. Quando si dice “credibilità” sui mercati...
Sciopero, malgrado tutto
Che la situazione italiana stia precipitando lo segnala proprio lo sciopero generale proclamato dalla Cgil. Ha sorpreso un po’ tutti, probabilmente la sua stessa base, dopo la firma apposta sotto l’accordo infame del 28 giugno che ha blindato la rappresentanza sindacale contro ogni minima spinta autonoma dal basso e contro la stessa Fiom. Ora Camusso prende atto che con la manovra si passa alla cancellazione definitiva non solo dell’articolo 18 sulla licenziabilità ma della valenza dei contratti nazionali e di ogni rappresentanza formale che non sia alla Bonanni, per dirla in breve: da servi e/o utili idioti. Certo, la gabbia se l’è preparata la stessa Cgil, ma adesso brucia.
Uno sciopero malgré soi, dunque. Vi è costretta per la durezza delle misure contro i soliti noti senza che il governo abbia voluto o saputo offrire la minima contropartita, anche solo simbolica, in termini di “sacrifici equi”.
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La morte definitiva (e la prossima vita) di Keynes
James K. Galbraith
Trascrizione, con il gentile permesso dell’autore, del discorso di apertura di James K. Galbraith al quindicesimo congresso annuale “Dijon” sull’economia post-keynesiana, alla Roskilde University presso Copenhagen, Danimarca, il 13 maggio 2011.
È per me ovviamente un grande privilegio essere qui in questo ruolo e specialmente in occasione del settantacinquesimo anniversario della pubblicazione della Teoria Generale.
Due anni fa, come forse ricorderete, la nostra professione godette di un momento di fermento. Economisti che si erano costruiti la carriera sull’attenzione all’inflazione, le aspettative razionali, gli agenti rappresentativi, le ipotesi di efficienza dei mercati, i modelli dinamico-stocastici di equilibrio generale, le virtù della deregolamentazione e delle privatizzazioni e della Grande Moderazione, furono costretti dagli eventi a tacere temporaneamente. Il fatto di aver avuto torto in modo assurdo, cospicuo e in alcuni casi addirittura riconosciuto, impose persino un po’ di umiltà ad alcuni. Un intellettuale statunitense di vertice in politica legale, compagno di viaggio della Scuola di Chicago, annunciò la sua conversione al keynesismo come se fosse una notizia.
L’apogeo di tale momento fu la pubblicazione sull’edizione domenicale del New York Times del saggio di Paul Krugman ‘Come gli economisti si sono sbagliati’. E in esso, ho notato, Krugman ha ammesso, cito, che:
“… alcuni economisti hanno contestato l’assunto del comportamento razionale, messo in discussione il credo che ci si possa fidare dei mercati finanziari e additato la lunga storia di crisi finanziarie che hanno avuto conseguenze economiche devastanti. Ma nuotavano controcorrente, incapaci di fare molti passi in avanti contro una pervasiva e, in retrospettiva, stupida compiacenza.”
E devo dire, guardando a questo uditorio, che sarebbe corretto essi sono stati più che soltanto alcuni ed è un piacere essere con voi.
Attenendosi alla prassi convenzionale, Krugman non ha fatto il nome di quasi nessuno. Perciò, in un saggio di risposta intitolato ‘Chi erano, comunque, quegli economisti?’ ho descritto il lavoro dimenticato, ignorato e negato della seconda e terza generazione largamente nella tradizione, anche se non interamente, di Keynes che l’ha detta giusta.
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