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Grecia: il vero e il crudele
di Francesca Coin
È stato proprio Varoufakis lo scorso novembre in un seminario sull’estetica della moneta tenuto a Berkeley a ricordare come la signora Thatcher fosse contrarissima all’euro. Proprio io, diceva, che sono stato a duecento manifestazioni contro di lei. Proprio io, mi trovo ora a citare la Thatcher. Era stata accolta con scetticismo, l’opposizione intransigente della Thatcher. Allora, solo lei si era opposta all’integrazione monetaria, ma la sua opposizione le era costata cara: prima le dimissioni del Ministro degli Esteri Geoffrey Howe, e poi le proprie nel novembre del 1990. Venticinque anni dopo le sue posizioni tornano ad essere oggetto di discussione, ironicamente da parte di quegli stessi critici della scuola neo-liberale a cui lei si ispirava per difendere la necessità di mantenere disperso il potere e decentralizzate le decisioni senza cedere la sovranità a “un super-stato […] che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”.
Varoufakis riprende la Thatcher e poi torna al presente, a quell’unione europea divisa in modo quasi tragicomico proprio dall’unione monetaria in quello che sembra, per citare il suo libro, “uno squilibrio fondamentale”. È Christian Marazzi che riporta l’attenzione su questo concetto laddove descrive la situazione contemporanea come una situazione di squilibrio fondamentale, “quella situazione in cui alcuni paesi importano eccessivamente e altri esportano anch’essi eccessivamente, utilizzando i ricavi di queste esportazioni non per investire al loro interno, bensì per finanziare i deficit e i debiti dei paesi importatori” (Marazzi, 2015).
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La stretta monetaria
Manfredi De Leo*
Altro che effetti espansivi sulla crescita. Come sostenuto più volte su Economia e Politica, in assenza di una ripresa degli investimenti pubblici il quantitative easing della BCE non servirà a rimettere in moto l’economia. Sarà piuttosto uno strumento con il quale le autorità monetarie potranno imporre nuovi tagli e riforme strutturali.
La Banca Centrale Europea ha dato avvio al massiccio programma di acquisti di titoli sui mercati finanziari detto Quantitative Easing (QE). Si tratta di una misura di portata storica, per le dimensioni del programma – circa mille miliardi di euro – ma anche e soprattutto per il fatto che esso coinvolge i titoli del debito pubblico europei: la banca centrale ne acquisterà quote consistenti, in controtendenza con un’impostazione della politica monetaria incentrata sull’indipendenza dell’autorità monetaria da quella fiscale. Una mossa che ha diviso gli analisti. Da un lato chi, con Scalfari, descrive il governatore della BCE come il “motore della crescita europea”, un eroe moderno che “mette l’economia al servizio del bene comune” – spesso rappresentato in contrapposizione al governatore della Bundesbank, arcigno sostenitore del rigore. In effetti, lo stesso termine “quantitative easing” allude ad una misura che accompagna una politica fiscale espansiva, allentando quei vincoli di natura monetaria che, in assenza di un aumento della liquidità, ne ostacolerebbero l’operato. Entro questa lettura, l’eurozona appare animata da un conflitto tra due opposti indirizzi di politica economica: crescita vs rigore, ovvero Draghi vs Weidmann, con il primo che incarnerebbe lo spazio politico per condurre l’Europa fuori dal paradigma dell’austerità.
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Con Marx, contro il lavoro
di Anselm Jappe
A proposito di Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale. Una reinterpretazione della teoria critica di Marx"; e di Isaak Rubin, "Saggi sulla teoria del valore di Marx". -
Nell'assumere come parola d'ordine la liberazione del lavoro, l'uscita dallo sfruttamento, i marxisti tradizionali hanno trascurato il fatto che Marx ha svolto una critica, non solo dello sfruttamento capitalistico, ma del lavoro stesso, così come esiste nella società capitalista. Pertanto, si tratta non di rimettere al centro ma, al contrario, di criticare il posto centrale occupato dal lavoro in questo sistema, dove esso regola tutti i rapporti sociali. E' questo l'oggetto della rilettura di Marx svolta in "Tempo, lavoro e dominio sociale" di Moishe Postone.
Nell'editoria, a volte ci sono delle felici coincidenze. Così, questa primavera, "Mille et une nuits" (Fayard) ha pubblicato la traduzione francese del libro di Postone, pubblicato negli Stati Uniti nel 1993, mentre le edizioni Syllepse hanno ripubblicato i "Saggi sulla teoria del valore di Marx" di Isaak Rubin, la cui edizione russa risale al 1924 e la precedente edizione francese (di Maspero, ed esaurita da tempo) al 1978. In questo modo, il pubblico francofono ha in un sol colpo, a disposizione, due delle pietre miliari - si potrebbe perfino dire, il punto di partenza ed il punto di arrivo provvisorio - di una rilettura di Marx basata sulla critica del lavoro astratto e del feticismo della merce.
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Non servono "moniti" se manca una bussola
L'euro: un destino segnato?
Giovanni Mazzetti
Prosegue il dibattito sul “destino dell’euro”. Il “monito degli economisti” è inadeguato perché nega il bisogno di un radicale cambiamento della struttura delle relazioni sociali. Non è possibile una riedizione del Welfare. Perché abbiamo bisogno di una bussola per affrontare la crisi.
Poco più di un anno fa un folto gruppo di economisti di diversi paesi ha lanciato un “monito”, pubblicato sul Financial Times del 23 settembre 2013, che ora viene riproposto da Emiliano Brancaccio sull’ultimo numero di Critica marxista1.
Il succo dell’appello era ben riassunto dalle conclusioni:
Occorre essere consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle cosiddette “riforme strutturali” il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Ma che cosa succede se la caduta degli investimenti pubblici e privati, l’accentuato squilibrio tra i redditi, l’esplodere della disoccupazione di massa e perfino l’eventuale futura fuga dell’euro, sono sintomi della crisi, non le sue cause? Succede – com’è successo – che il monito lascia il tempo che trova, e cioè non sortisce gli effetti sperati. Né basta insistere sulla sua attualità, come fanno ora Brancaccio e Zezza sul citato numero di questa rivista, per ottenere qualcosa di diverso.
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La connessione meridionale. Podemos, Syriza e i movimenti
Intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar
Pubblichiamo una lunga intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar, entrambi militanti di Podemos, ma anche ricercatori sociali. Il nostro intento era quello di guardare alla Grecia a partire dalla Spagna, cercando di mettere a tema similitudini e differenze tra i due modi di affrontare il nodo del rapporto tra movimenti e istituzioni. Questo rapporto d’altra parte non è riducibile alla scelta di partecipare o non partecipare alle elezioni. Solo lo sconcertante dibattito italiano può ridurre il problema all’accettazione o – specularmente ‒ al rifiuto di stabilire una qualche alleanza con un ceto politico residuale o con qualche piccolo partito più o meno esistente. La tensione tra movimenti e istituzioni è in realtà un campo politico in cui si tratterebbe di mettere alla prova realisticamente la propria capacità di ottenere risultati, dimostrando l’efficacia del moto dei movimenti invece di fissarli in traiettorie definite e determinate una volta per tutte, lungo le quali ci si muove con la sicurezza di chi affronta percorsi conosciuti e cerca di evitare ogni novità.
L’intervista è stata fatta prima dell’ultimo round delle trattative tra il governo greco e le istituzioni europee, quindi non tiene ancora conto del tentativo di governare l’aporia che esse hanno evidenziato.
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La Controriforma e la Rivolta
di Rino Genovese
In un tempo ormai lontano, per tutti gli anni sessanta del Novecento e buona parte dei settanta, si sono contrapposte due idee, se si vuole due ipotesi, cariche entrambe di ambizioni innovative, ambedue non prive di una loro mitologia retrodatabile (nel senso che non nascevano di punto in bianco ma affondavano le radici nel passato). Erano la Rivoluzione e la Riforma. La prima aveva alle spalle la rottura francese del 1789 e poi – come in una grande epopea – le successive ondate ottocentesche fino alla Comune di Parigi e oltre, fino all’Ottobre sovietico e al moto spartachista in Germania. La concezione di fondo era quella, progressista radicale, della violenza come levatrice della storia: Hegel e Marx insieme, realismo politico e utopia. Dall’altro lato splendeva di una luce non meno intensa un’idea riformistica, gradualistica, a lungo prevalente nel movimento operaio organizzato, diciamo fino alla prima guerra mondiale, e ritornata in auge dopo la seconda. Stando a questa concezione, il modo capitalistico di produzione e di consumo va corretto, in prospettiva anche superato, senza il ricorso alla violenza rivoluzionaria: piuttosto con la pressione dei movimenti sociali combinata con una strategia elettorale e un’azione di governo.
Esisteva certo una serie di opzioni, variamente modulate, per cui la Rivoluzione poteva andare dalla semplice esaltazione rituale della Russia sovietica, o in seguito della Cina rossa, al progetto – non si sa quanto realistico – di una lotta che vedesse la fine dello stesso Occidente capitalistico, con il contributo più o meno decisivo delle spinte rivoluzionarie provenienti dal Terzo mondo; mentre, nel segno della Riforma, si poteva intendere un mero accomodamento in funzione di quello che all’epoca era detto il neocapitalismo, come pure una progressiva fuoriuscita dal sistema mediante le “riforme di struttura”.
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Le lezioni della Grecia e le prospettive
di Michele Nobile
1. Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi. Da una parte alcuni dei governi e delle istituzioni più potenti del mondo, che da anni scaricano i costi della crisi capitalistica interamente sui lavoratori e sui comuni cittadini; dall'altro lato del tavolo, il governo di un paese devastato dall'austerità e in depressione si è fatto portavoce della necessità di provvedere urgentemente alla gravissima condizione in cui versano i lavoratori e i comuni cittadini greci. Non c'è alcun dubbio che in questa contrattazione si siano confrontate e scontrate la democrazia e la postdemocrazia, gli interessi immediati del popolo greco e gli interessi immediati del capitale europeo. Per la sua logica e per ciò che potrebbe implicare per gli orientamenti della politica economica e sociale del continente, il programma di Syriza è suonato alle orecchie delle caste politiche della postdemocrazia europea come un delitto di lesa maestà. Inoltre, la visione implicita nella proposta di Syriza è quella di un'Europa autenticamente federale; la troika, invece, intende l'unione monetaria alla stregua di un accordo di cambi fissi, con ciò minando la coesione europea.
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Perchè l'avanzata del fascismo è nuovamente il problema
di John Pilger
Il recente 70° anniversario della liberazione di Auschwitz ci ha ricordato quale grande crimine sia il fascismo, la cui iconografia nazista è radicata nelle nostre coscienze. Il fascismo è conservato come storia, come tremolanti riprese di camicie nere che marciano al passo dell'oca, la loro criminalità terribile e chiara. Eppure, nelle stesse società liberali le cui belligeranti élite ci impongono di non dimenticare mai, del crescente pericolo di un moderno tipo di fascismo non si parla, perché è il loro fascismo.
"Iniziare una guerra di aggressione...", dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, "non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo, che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto contiene in sé l'accumulo di tutti i mali".
Se i nazisti non avessero invaso l'Europa, Auschwitz e l'Olocausto non sarebbero accaduti. Se gli Stati Uniti ed i loro vassalli non avessero iniziato la loro guerra di aggressione in Iraq nel 2003, quasi un milione di persone oggi sarebbero vive, e lo Stato islamico, o ISIS, non ci avrebbe in balìa delle sue atrocità. Essi sono la progenie del fascismo moderno, svezzato dalle bombe, dai bagni di sangue e dalle menzogne, che sono il teatro surreale conosciuto col nome di informazione.
Come durante il fascismo degli anni '30 e '40, le grandi menzogne vengono trasmesse con la precisione di un metronomo grazie agli onnipresenti, ripetitivi media e la loro velenosa censura per omissione. Prendiamo ad esempio la catastrofe in Libia.
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La politica monetaria di Draghi è efficace, anzi no
Gerardo Marletto, Domenico Moro
Con un suo recente intervento su economiaepolitica.it, Domenico Moro sottolineava l’inefficacia del quantitative easing alla Draghi ai fini della crescita economica. Queste tesi, che più volte abbiamo proposto ai nostri lettori, sono state oggetto di critiche da parte di Gerardo Marletto. Qui pubblichiamo un botta e risposta tra Marletto e Moro sulla inefficacia delle politiche monetarie espansive in presenza di austerità.
La critica di Gerardo Marletto
L’articolo di Domenico Moro (“Un quantitative easing per i mercati azionari e non per l’occupazione”) si inserisce in una linea di pensiero che da qualche tempo caratterizza non solo la rivista economiaepolitica.it ma buona parte del pensiero economico della sinistra nostrana. Una linea di pensiero allo stesso tempo presuntuosa e sbagliata.
A mio modo di vedere tutto comincia con l’arrivo di Draghi alla BCE.
Fino a quel momento non si poteva che essere d’accordo nella critica all’ossessione per l’inflazione della BCE. E giustamente si attaccava la reiterazione di questo modello restrittivo di politica economica contro i cosiddetti PIGS.
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Democrazia, partiti di massa e liberoscambismo
Saper dire la verità (l'ultima chance)
Quarantotto
1. Mi rendo conto di quanto sia importante coordinare, in un'unica esposizione riassuntiva, il discorso che abbiamo cercato di svolgere negli ultimi mesi.
La questione riguarda il tema dei temi: e cioè come la democrazia "sostanziale" (imperniata sulla tutela dei diritti fondamentali sociali da parte delle istituzioni politiche, a ciò vincolate dalle Costituzioni democratiche), non possa effettivamente sopravvivere all'inserimento della società in un paradigma liberoscambista.
Più esattamente, si tratta di come la democrazia, all'interno di tale paradigma liberista, non possa sopravvivere se non in termini "idraulici", che significa "tolleranza" verso l'espressione del voto, ma a condizione che conduca alla ratifica di indirizzi di politica economica e sociale rigidamente precostituiti, cioè convenienti alla oligarchia che controlla de facto ogni processo decisionale.
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Con la vittoria di Syriza si apre una nuova fase in Europa
di Alfonso Gianni
Siamo in molti ad avere sostenuto a più riprese che, in particolare in Europa, è assolutamente necessario che la politica prenda il primato sull’economia. Principio giustissimo. Ma non sufficiente per fare fronte alla nuova situazione che si sta profilando attorno all’affaire greco. Infatti la cattiva politica che domina attualmente in Europa si sta comportando nei confronti della Grecia addirittura peggio dei poco teneri mercati finanziari. Sembra un paradosso, ma non è difficile rendersene conto se seguiamo lo svolgimento degli ultimi eventi.
L’economista Yanis Varoufakis, attualmente ministro delle finanze del nuovo governo greco, rispondeva così - in una intervista rilasciata al Manifesto a fine 2014 – sulle probabilità di vittoria di Syriza nelle elezioni che si sarebbero tenute di lì a un mese: “Non c’è alcun dubbio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con successo in passato, sia destinata a fallire”. Così è stato.
Il terrorismo psicologico contro la Grecia
Il “terrorismo psicologico” non è stato lieve. Diciamo che si è solo fermato alla soglia del terrorismo vero e proprio. Non si è trattato solo di una campagna di stampa avversa condotta su scala internazionale. Non ci sono state soltanto le dichiarazioni dei vari leader o capi di stato che si sentono le vestali delle politiche di austerità.
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Il disagio della democrazia
Bruno Amoroso*
La democrazia è la lotta con cui i popoli costruiscono sistemi politici per impedire il consolidarsi di gruppi di potere. L’Ue si è sottratta a questa concezione: al centro del progetto europeo oggi ci sono la delega all’élite, il rilancio delle associazioni massoniche, il controllo della formazione univeristaria e dei media, la manipolazione dei bisogni, le forme moderne di retorica e populismo, la frantumazione delle relazioni sociali. È l’Europa del pensiero unico e della società degli individui. Tuttavia la repressione del legame sociale non ha prodotto la sua estinzione e il rifiuto delle politiche di austerity imposte dalla Troika è ormai enorme. Per questo, spiega Bruno Amoroso, le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti da Mario Draghi, hanno cominciato a riscaldare i motori. Abbiamo bisogno di rinegoziare i trattati europei, di eliminare misure inique come il fiscal compact e il Patto di stabilità, di tirare fuori l’Ue dalla spirale di guerre innescata dagli Usa. La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.
La concezione della democrazia, da sempre, esprime il volere e il potere del popolo, che le istituzioni dovrebbero prendersi cura di realizzare. La Costituzione italiana del 1948 recepisce questo concetto. Le istituzioni sono pertanto espressione del popolo e della sua volontà, e la loro legittimità nasce dalla capacità di esercitare queste funzioni mediante il potere di revocabilità degli eletti, che le elezioni e altre forme di espressione del consenso consentono. Un sistema politico, questo, che impedisce il consolidarsi di gruppi di potere e posizioni privilegiate di governo in contrasto con la volontà popolare e il bene comune.
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E’ In Arrivo Una ‘Primavera Europea’?
di Matteo Mameli e Lorenzo del Savio
Dal sito PopularResistance.com, un articolo di due studiosi italiani, Matteo Mameli e Lorenzo del Savio, sottolinea come i partiti radicali che suscitano tante speranze in Europa e che cercano di cambiare dall’interno le istituzioni europee, presentino in realtà il forte rischio di essere “catturati” dalle oligarchie che ci governano. L’inganno potrebbe passare attraverso l’idea di Piketty di salvare la democrazia europea tramite un rafforzamento del Parlamento europeo. Niente di più falso e inutile, sostengono gli autori. L’argomento, che potrebbe diventare di pressante attualità nei prossimi mesi, è ulteriormente approfondito nel paper degli stessi autori di cui abbiamo proposto la traduzione e che vi invitiamo a sostenere.
Sull’onda della vittoria del partito progressista di Syriza alle elezioni greche del 25 gennaio 2015, alcuni hanno iniziato a parlare dell’arrivo di una ‘Primavera Europea’, una rivolta democratica contro lo status quo politico in Europa.
Questo status quo ha imposto delle brutali politiche di austerità su paesi come Grecia, Cipro, Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda. Queste politiche hanno portato avanti e tutelato gli interessi delle banche e, più in generale, di coloro che detengono grosse attività finanziarie. Esse hanno portato avanti e tutelato gli interessi delle grandi imprese. Hanno provocato dei tassi di disoccupazione incredibilmente alti, una enorme compressione dei salari dei lavoratori e un numero impressionante di fallimenti di piccole imprese. Esse hanno portato a tagli drammatici alla sicurezza sociale e ai sistemi sanitari pubblici.
Queste sono questioni economiche, ma sono anche questioni morali. Rapinare una intera generazione di giovani europei della possibilità di trovare un lavoro decente significa privarli delle loro speranze e della dignità. Ma oltre a questi problemi, ci sono altri aspetti dello status quo europeo che sono veramente scandalosi. Attraverso una varietà di meccanismi – dai memorandum della troika ai patti e ai trattati UE – le istituzioni europee hanno derubato i cittadini europei di ogni controllo democratico significativo sulle decisioni politiche.
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Appunti di critica marxista alle “Confessioni” di Varoufakis
Aristide Bellacicco*
Confesso – ammetto, è meglio dire – di non aver letto integralmente, fino ad oggi, le “Confessioni” del ministro Varoufakis. Oggi ho avuto tempo e l’ho fatto. In effetti, queste pagine in cui Varoufakis pone se stesso al centro di una vicenda storico-esistenziale con risonanze epocali mi hanno fatto sorgere più di una perplessità. Le sintetizzo – parzialmente e per punti – qui di seguito.
– 1 Scrive Varoufakis: “Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente, la scoperta di un’…opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due ‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’ questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria.” Ora, per quanto mi è noto, la doppia natura del lavoro in Marx oppone il lavoro in quanto produttore di “ricchezza” (valori d’uso) al lavoro in quanto produttore di “valore” (rintracciabile nel valore di scambio). E’ chiaro che il “lavoro come attività di creazione di un valore” non può mai essere quantificato in anticipo, perché è solo nella realizzazione del plusvalore (e non nella sua produzione) che viene in chiaro quanto profitto il capitale sia riuscito o meno a realizzare. D’altra parte, è proprio nella riduzione del “lavoro” (ma sarebbe meglio dire della “forza- lavoro”) ad una entità quantificabile che trova la sua ragion d’essere la produzione di valore (e di plusvalore). E ciò, in Marx, è vero sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Risparmio a tutti, e al buon Varoufakis soprattutto, le citazioni arcinote in cui questa affermazione trova riscontro.
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Andiamo verso una dissoluzione conflittuale della zona euro
Jacques Sapir
Siamo entrati in una fase acuta della crisi dell'euro
Le ultime dichiarazioni o articoli scritti nei giorni scorsi da diversi economisti e politici europei dimostrano che siamo entrati in una fase acuta della crisi dell'euro. In Grecia, la questione di un possibile ritorno alla dracma è discussa apertamente. In Italia è Stefano Fassina, un economista del Partito democratico, ex Vice Ministro dell'Economia e delle Finanze nel governo Letta, che ha deciso sulla questione Euro di attraversare il Rubicone.
La "conversione" di Fassina a tesi critiche sull'euro dimostra che il dibattito si sta espandendo in Italia. Più di recente, è stato Wolfgang Streeck, sociologo ed economista, che in un anrticolo su Le Monde ha sostenuto che l'Europa dovrebbe abbandonare la moneta unica. Queste diverse posizioni, per non parlare di quelle di Podemos in Spagna, sono un buon indicatore che siamo ad un punto di rottura. Streeck dice senza mezzi termini che mantenere l'euro sta uccidendo l'Europa e causando un aumento dell' antagonismo anti-tedesco.
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La fine della crescita senza fine
di Nafeez Ahmed
Qualche tempo fa abbiamo discusso del bel libro di Mauro Bonaiuti. Vi proponiamo oggi un intervento sui temi del libro, segnalatoci dallo stesso Bonaiuti che ha curato la traduzione. L'intervento è diviso in due parti, che pubblichiamo fra oggi e domani. Qui trovate l'originale. (M.B)
Parte I
È arrivato il nuovo anno, e la crisi economica globale è ancora grave. Ma mentre gli esperti si scontrano sul fatto che il 2015 sia l'anno della ripresa o piuttosto quello di una nuova recessione, nuove ricerche suggeriscono che tutti costoro potrebbero star non vedendo lo scenario nella sua interezza: il perdurare della crisi economica globale potrebbe essere, cioè, il sintomo di una crisi più profonda del rapporto tra la nostra civiltà industriale e la natura.
Lungi dal catastrofismo, alcuni economisti vedono l'attuale fase di stagnazione e austerità come parte di una fondamentale fase di transizione verso una nuova forma di società nella quale potremmo adattarci ai limiti imposti dalla natura e prosperare o, nel negarli, collassare lasciando alla natura ritrovare un suo equilibrio. Così il 2015 annuncia l'alba di una nuova era di prosperità, o il crollo dell'economia globale?
Mentre ci si avvicinava al nuovo anno, alcuni esperti hanno affermato con ottimismo che la più parte dei segnali indica che l'economia sia di nuovo sui giusti binari, mentre altri hanno descritto sorti più tristemente incerte. Di sicuro, con insolita umiltà, molti economisti mainstream hanno ammesso di non avere idea di cosa ci potesse serbare l'anno in arrivo.
Justin Wolfers del New York Times ha semplicemente consigliato di: "prepararsi al peggio, sperare per il meglio, e prepararsi ad essere sorpresi."
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Crisi e Capitalismo
Austerity Vs Anti-Austerity: un falso problema?1
Francesco Macheda*
Con l’esplosione e la diffusione della crisi economico-finanziaria, le medicine proposte sono essenzialmente due. Da un lato, i sostenitori dell'austerità, le cui convinzioni seguono i precetti della teoria economica neoclassica. Sul campo opposto, i sostenitori dell’intervento pubblico allo scopo di sostenere produzione ed occupazione. In questo caso, la teoria economica di riferimento è quella keynesiana. Tuttavia, esiste anche una terza ipotesi, riconducibile alla critica dell’economia politica di Marx. L’obiettivo di questo articolo è comparare i fondamenti delle tre teorie, tentando di sottolineare le rispettive implicazioni politiche.
1. Teoria neoclassica
Nella teoria neoclassica, la produzione è un rapporto puramente tecnico tra fattori – lavoro e capitale – allo scopo di produrre merci. Le forme sociali che si sono succedute, come feudalesimo e capitalismo, sono distinte in base al modo in cui tali fattori si combinano. Il capitale è dunque indipendente dal contesto storico-sociale, e la peculiarità del capitalismo starebbe nell’utilizzo del mercato per portare a termine questa combinazione, in un contesto di proprietà privata dei mezzi di produzione. Ne seguono tre conclusioni.
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E l’apprendista stregone Occidente «creò» l’Isis
C. Russo intervista Domenico Losurdo
Diversi paesi arabi sono oggi disastrati e distrutti. Quali sono le cause della gravissima crisi in cui vivono paesi come la Libia, la Siria e l’Iraq?
A partire da quello che era stato strombazzato come l’anno di grazia, il 1989, sono stati investiti dalla guerra Panama, l’Iraq, la Jugoslavia, la Libia, la Siria… L’epicentro di questi conflitti è costituito dal Medio Oriente, dove l’Occidente assicura di voler apportare civiltà, democrazia, pace. Dopo centinaia di migliaia di morti, milioni di feriti e milioni di profughi, la realtà è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta solo delle terribili devastazioni materiali. In occasione della prima e della seconda guerra del Golfo (1991 e 2003) gli sciiti iracheni furono chiamati alla rivolta contro i sunniti guidati da Saddam Hussein; successivamente, con lo sguardo rivolto all’Iran sciita e ai suoi possibili alleati, sono stati i sunniti a essere sollecitati a prendere le armi contro gli sciiti in Iraq e soprattutto in Siria. Ai giorni nostri, dopo essere stati incoraggiati in Siria, gli spietati guerrieri sunniti del Califfato sono combattuti in Iraq e soprattutto nel Kurdistan secessionista.
In tutto il Medio Oriente, nella lotta contro i regimi laici scaturiti dalle rivoluzioni anticoloniali (che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mondiale) e contro i movimenti di liberazione nazionale collocati su posizioni laiche, l’Occidente ha fatto appello alla religione e al fondamentalismo religioso: così in Iraq, Libia, Siria, Palestina, dove Israele a suo tempo appoggiò Hamas contro l’Olp di Arafat.
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Agonia di una civiltà
di Sandro Moiso
Emil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00
Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista.
Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.
Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per decenni tra le carte depositate presso la Bibliothèque Jacques Doucet, può rivelarsi molto interessante ed utile per rivedere alla luce di un suo importante teorico la teoria della decadenza della civiltà e coglierne tutte le subdole conseguenze ideologiche e politiche. Soprattutto in momenti, come l’attuale, in cui i rischi connessi all’esplodere di crisi economiche e militari sempre più virulente e devastanti sembrano aver messo in crisi gli equilibri raggiunti nel secondo dopoguerra e l’opulenza e la sicurezza delle società europee.
“Una nazione raggiunge la grandezza solo se guarda al di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e volendo soggiogarli. Essere una grande potenza significa non ammettere valori paralleli, non sopportare vita accanto a sé, imporsi come senso imperativo e intollerante […] Un tempo, dai villaggi francesi scaturivano energie debordanti, forze avide di gloria… Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il lavoro senza fascino” (pp.79-80).
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Atene chiama. Fassina risponde?
Mimmo Porcaro
L’arretramento di Syriza
Non si è buoni amici del popolo greco se si sottovaluta il netto arretramento a cui Syriza è stata costretta dai ricatti delle sue controparti e dalla propria incertezza strategica. Nella lettera presentata da Varoufakis all’Eurogruppo non c’è alcun cenno alla questione più importante, ossia alla ristrutturazione del debito, ed oltre a ciò il governo greco si trova di fatto nell’impossibilità di utilizzare il fondo salva-stati (che andrà per intero alle banche) e di superare l’obbligo dell’avanzo primario (avanzo che, al massimo, potrà essere modulato). E’ impossibile onorare anche parzialmente, in queste condizioni, gli impegni presi con gli elettori. E’ impossibile pensare che si sia aperto, in questo modo, un qualche spazio di manovra. Ed è sorprendente che si imputi tutto ciò alla durezza delle istituzioni europee: che cosa ci si aspettava? Come è possibile che il gruppo dirigente di Syriza non abbia previsto la rigidità dell’eurogruppo e i ricatti della Bce? Come hanno fatto a non capire che l’esclusione dell’uscita dall’euro ha reso quasi nullo il loro potere negoziale, di fronte ad un’Europa che, oltretutto, è momentaneamente ringalluzzita dal Q.E. di Draghi (non a caso annunciato poco prima delle elezioni greche…)?
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Lo Stato islamico si presenta
di Pierluigi Fagan
Lo Stato islamico si presenta. Qui il depliant italiano che riassume alcune notizie sullo Stato islamico, date dallo stesso Stato islamico. E’ evidente lo sforzo di presentarsi come uno stato, non una organizzazione, IS è un progetto politico legato ad un territorio. Nonostante il diluvio informativo occidentale che alza la paranoia su gli attentati al papa o a gli sgozzamenti nelle nostre metropolitane, IS ha come fine e missione, conquistare un territorio ed amministrarlo secondo le leggi islamiche. Poi, tutto il mondo. Il suo nemico principale è quello interno all’islam: sciiti, mistici, élite corrotte ed occidentalizzate, revisionisti modernizzanti, lassismo nelle pratiche religiose, etiche, politiche.
La prima notizia ci viene data sullo sforzo di formazione ed educazione alla corretta interpretazione islamica, la formazione dei formatori (imam), il modo di diffondere l’ideologia portante la nuova entità. Apprendiamo così dalla loro viva voce che il testo cardine di riferimento è di un certo ‘Ali al-Khudair, teologo di stretta osservanza della scuola wahhabita, un arabo saudita. Il depliant infatti, cita direttamente il trattato “Essenza e i fondamenti dell’islam” di Muhammad ib Abdul Wahhab. Questa non è una citazione tra le altre è il riferimento unico, il cardine ideologico. Lo Stato islamico è ufficialmente di ispirazione wahhabita.
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Il caso Nemtsov
di Aldo Giannuli
Chi ha mandato i killer che hanno ucciso Boris Nemtsov? Un omidicio da professionisti: un killer che esce da una macchina e che spara sei colpi centrandone quattro alle spalle ed alla testa della vittima, poi va via, senza curarsi di chi gli stava vicino, Anna Durizkaja, una ballerina ucraina che da qualche anno era la sua compagna ed ora è una testimone di primissimo piano. Il tutto a duecento metri dal Cremlino, in uno dei posto più sorvegliati del pianeta con una marea di telecamere nascoste e decine di agenti travestiti che passano con aria indifferente. D’altra parte, se sono sorvegliatissimi l’Eliseo e la Casa Bianca e persino Palazzo Chigi, perché mai non dovrebbe esserlo il Cremlino?
Subito, l’indice dei media internazionali si è levato contro Putin additandolo come il (quasi) certo mandante e, pur se con toni diplomaticamente attenuati, la stessa cosa hanno fatto le cancellerie occidentali.
Al contrario, le autorità inquirenti parlano di un possibile pista islamica (Nemtsov aveva condannato la strage di Chiarlie Hebdo) corroborata dal ritrovamento dell’auto servita ai killer, con una targa dell’Inguscezia (repubblica caucasica a forte componente musulmana) e non escludendo neppure una pista amorosa per via della ballerina ucraina. Putin ha parlato di provocazione lasciando intendere che si tratti di un attentato di americani o di agenti di Kiev, accuse riprese da molti blog filo moscoviti.
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Sharing Economy: come il capitale assorbe la sua critica
di Alessandro Zabban
“Scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo […], scegliete la vita”.
Tutti questi pressanti imperativi sociali, efficacemente descritti nella scena iniziale di Trainspotting e a cui il protagonista Mark Renton cerca disperatamente di fuggire, sulle note di Lust for Life di Iggy Pop, in nome di una vita più autentica e più libera, sono già il passato. Il sistema non ti chiede più di rispettare un orizzonte normativo ristretto e monotono; al contrario: la società e le forme economiche che la sorreggono gridano in coro la tua libertà rispetto alle istituzioni tradizionali, la tua autonomia e autenticità rispetto all’automatismo fordista, la tua originalità rispetto al livellamento massimalista prodotto dal welfare state, la tua flessibilità rispetto alla ripetitività del posto fisso.
La nuova economia parla il linguaggio anglofono della flexibility, della competitiveness, e più recente della sharing economy. La nuova narrazione liberista inventa un sistema ideologico complesso e raffinato che relega le vecchie forme del lavoro, stabili e protette, nel reame della noia e alle quali contrappone le eccitanti innovazioni “smart” del capitalismo globalizzato. Peccato che proprio dietro queste presunte nuove frontiere delle liberazione si nascondano condizioni lavorative decisamente deteriorate e la revoca dei più basilari dei diritti in un contesto di proliferazione dello sfruttamento e di crescita delle disuguaglianze.
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Euroexit e salari
Gennaro Zezza
Prosegue il dibattito suscitato dallo studio di Realfonzo e Viscione che ha messo in luce gli effetti positivi di una uscita dall’euro ma anche i rischi per il mondo del lavoro. Dopo gli interventi di Salvatore Biasco e del Keynes blog, secondo i quali è necessario permanere nell’euro per evitare conseguenze a loro avviso molto gravi, pubblichiamo un intervento diametralmente opposto di Gennaro Zezza. L’autore considera “apocalittiche” le posizioni di Biasco e del Keynes blog, ma ritiene anche eccessive le preoccupazioni di Realfonzo e Viscione sui rischi salariali e occupazionali, sostenendo che l’euroexit sia necessaria per praticare politiche di pieno impiego.
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L’intervento di Realfonzo e Viscione sulle possibili conseguenze di una uscita dell’Italia dall’eurozona sta suscitando un certo dibattito. Il commento di Salvatore Biasco prefigura scenari apocalittici, dati dalle ripercussioni sui bilanci bancari del deprezzamento delle attività finanziarie in “nuove valute”. La redazione di Keynes blog sembra concordare con Biasco sulle conseguenze catastrofiche, per il sistema finanziario internazionale, di una rottura della eurozona, ed enfatizza il modesto impatto che la svalutazione di una “nuova valuta” avrebbe sulla crescita.
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Questa non è Sparta, questa è Salamina
Eurogruppo, eurocentrismo, nomadismo
Akis Gavriilidis
La congiuntura attuale, in Grecia e oltre la Grecia, è segnata dai tentativi di dare senso a quanto avvenuto con le negoziazioni di febbraio all’interno dell’Eurogruppo. Fonti vicine al governo greco cercano di presentarne i risultati come una «vittoria» mentre altri, tanto fuori quanto dentro SYRIZA, affermano che si tratta invece di una «sconfitta» o di una «capitolazione». Quest’ultima impressione a me pare presupporre una concezione della strategia eurocentrica e maschilista (o fallologocentrica, per usare il neologismo di Derrida); una concezione organizzata attorno all’immagine della battaglia finale nella quale uno deve dimostrare coraggio e avere la meglio sull’avversario. Per le ragioni alle quali ho accennato, non condivido l’idea che una «vittoria» consista in questo. Cercherò allora di leggere la strategia (ammesso che ci sia) applicata dal governo greco nelle negoziazioni e ciò che ha ottenuto (ammesso che ci sia) attraverso le lenti di due assiomi strettamente legati tra di loro:
— Il potere non è una cosa, né una sostanza, ma è la capacità di agire sulle azioni (Foucault)
— Una buona strategia consiste nel non cercare di schiacciare le forze del tuo avversario ma nell’usarle, specialmente quando quelle forze sono drasticamente superiori alle tue (precetto tradizionale delle arti marziali asiatiche).
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